Considerazioni sulle Applicazioni di tracciamento dei contatti

Voilà, il piatto è servito.

Nella gestione poliziesca di questa dichiarata pandemia Covid-19, arriva l’app per il tracciamento dei contatti. Se avevamo dubbi sulla distopia che ci aspetta, questo piccolo parassita che da qualche tempo monopolizza l’attenzione mediatica e ha saputo fermare per qualche settimana interi continenti, lancia un bagliore di luce sul futuro che ci attende.

La retorica messa in campo da subito dalle autorità e dai mass-media è stata quella di guerra, con tutto l’armamentario che porta con sé di richiamo ai valori patriottici, all’unità, al sacrificio e, grande classico, all’individuazione di eroi e di martiri. Ma un virus non può chiaramente essere il vero nemico nella dichiarazione di guerra di uno Stato. Un virus è un virus, ovvero, insieme a tutti i microrganismi, è quanto di più diffuso e di intimo, ma allo stesso tempo di intangibile, ci si possa immaginare nella nostra coabitazione con tutte le altre specie su questo pianeta. Non è materia di Stato. Lo Stato si occupa della gestione delle città e de* cittadin*. E se il nemico non è un altro Stato o un’entità politica rivale, ma un’entità biologica che si annida nei corpi, ben si può intuire chi allora sia il vero nemico non detto: la cittadinanza, le persone, i corpi stessi. Tutt* diventiamo i/le sospettat* in questa guerra a un nemico che non c’è. Ma la retorica da guerra messa in campo è piuttosto un’ottima via per lo Stato per cercare un compattamento dei ranghi, deresponsabilizzarsi e inculcare nelle persone il ruolo che si aspetta da ogni buon* cittadin*: non di capire ma di concentrarsi sui comandi pervenuti, di spiare e diventare delatori gli/le un* contro gli/le altr*, quegli “altri” che con il semplice non rispettare gli ordini porrebbero in pericolo le vite di tutt*.

Tendenza abbastanza comune in tutti i paesi in cui c’è stato un boom di contagi è la risposta statale, fatta di confinamento, sorveglianza e repressione, con varie sfumature. Non solo militari e polizia a pattugliare le strade, droni ed elicotteri a scovare qualche pericoloso assembramento o una qualche grigliata dall’alto dei cieli, ma anche strumenti prêt-à-porter grazie alla pervasività che stiamo accettando/subendo delle tecnologie informatiche nel nostro quotidiano. Ispirandosi alle scelte dei governi dei paesi orientali (Cina, Corea del Sud, Singapore,..) piano piano anche nella maggior parte dei paesi occidentali si sta facendo largo l’idea di introdurre un controllo più stringente sugli spostamenti delle persone attraverso l’uso degli smartphone.

In questa logica non è un caso che molte compagnie informatiche che sviluppano software ad uso militare e d’intelligence hanno saputo presentare, in questo periodo, a molti paesi soluzioni tecnologiche: aziende come la Palantir Technologies (azienda specializzata nell’analisi di Big Data e che offre i suoi servizi al ministero della difesa statunitense oltre che a CIA, NSA e FBI), NSO Group (azienda che sviluppa e vende a governi di tutto il mondo sistemi di spionaggio e Trojan), o l’italiana CY4GATE (azienda romana che opera nella Cyber Electronic Warfare, Cyber Intelligence e Cyber Security) che avrebbe proposto al governo l’utilizzo, a titolo gratuito, (dopo il green e il pink washing, stiamo già vedendo svilupparsi una corsa frenetica a un “Covid-washing”) di una sua “piattaforma software capace di raccogliere, elaborare e aggregare dati di geolocalizzaizone provenienti da molteplici dispositivi mobili”. Così come in Italia, Germania e Austria diverse compagnie telefoniche hanno volontariamente passato i dati raccolti dalle varie celle mobili per permettere allo Stato di controllare l’osservanza del coprifuoco e fare analisi sui flussi di movimento all’interno delle città e delle regioni. Anche se in questi casi i dati forniti non sono individuali ma dati aggregati, ovvero medie statistiche, bene chiariscono l’immediatezza con cui è possibile trasformare le tecnologie di comunicazione in tecnologie per la profilatura di massa.

In generale, a livello europeo, ogni paese si sta muovendo in maniera autonoma, chi accettando offerte di gruppi privati, chi incaricando università di sviluppare applicazioni e chi temporeggia aspettando di vedere cosa fanno gli altri. La direzione complessiva, oltre ad applicazioni di “telemedicina”, ovvero di assistenza sanitaria tramite cellulare, sembra essere quella definita di “tracciamento dei contatti”: tramite l’aggancio dei cellulari alle celle telefoniche e ai punti WI-FI, piuttosto che la geolocalizzazione mediante GPS o ancora, l’utilizzo dello standard bluetooth per fare comunicare tra loro automaticamente i telefoni che si incontrano nel rispettivo raggio di propagazione di questo segnale (generalmente pochi metri) e sembra quest’ultimo caso quello prevalente. In questo modo i singoli cellulari si ricorderanno quali altri cellulari avranno incrociato nell’ultimo periodo e potranno trasmettere queste informazioni ad un centro dati.

Nel tentativo di dare un quadro comune alle iniziative dei singoli Stati, la Commissione Europea ha emanato delle direttive affinché le singole app sviluppate o adottate dai singoli Stati possano comunicare a loro volta tra loro a un livello europeo, permettendo quindi potenzialmente di arrivare ad un tracciamento continentale, e richiamando l’attenzione su alcuni requisiti quali la garanzia di una privacy e la volontarietà ad accettare l’installazione dell’app sul proprio apparecchio. Per realizzare questo ha promosso nel giro di pochissime settimane la creazione di standard informatici comuni in cui due principali scuole di pensiero si stanno contendendo la gara: PEPP-PT , basato su un’archiviazione dei dati centralizzati e promosso dall’Università di Fraunhofer (Germania), contro DP-3T, creato dai politecnici di Losanna e Zurigo (Svizzera) e basato su un’archiviazione decentralizzata. In questo scontro tra tech-nerds a fare la differenza sembra sarà la scelta fatta da Google e Apple di unire le forze e accettare un’interoperabilità delle app sui rispettivi diversi sistemi operativi (che insieme costituiscono il 99,29% dei sistemi operativi usati a livello mondiale) ponendo come condizione non negoziabile l’archiviazione decentralizzata. DP-3T sembra dunque in pole-position e uno dopo l’altro i vari Stati stanno andando in questa direzione.

In Italia, nonostante alcune regioni abbiano già autonomamente incentivato lo sviluppo di proprie applicazioni (come Lazio, Umbria e Lombardia), a livello nazionale il ministero dell’Innovazione, in collaborazione con quello della Salute e con l’Istituto Superiore di Sanità, ha proposto un concorso per selezionare una app che possa fornire sia soluzioni tecniche per la teleassistenza sanitaria, sia per patologie legate al Covid-19, sia per altre patologie, come anche “tecnologie e soluzioni per il tracciamento continuo, l’alerting e il controllo tempestivo del livello di esposizione al rischio delle persone e conseguentemente dell’evoluzione dell’epidemia sul territorio”. A questa “fast call” hanno risposto in due giorni 823 fra aziende, centri di ricerca e università e la scelta, come abbiamo potuto apprendere in questi giorni, è caduta sull’applicazione “Immuni”, sviluppata da un’azienda milanese con sede in Corso Como 15 e che risponde alle richieste del ministero attraverso una sorta di diario in cui la persona puo’ aggiornare il suo stato di salute e annotare eventuali sintomi (parte di telemedicina) e un sistema di tracciamento dei contatti decentralizzato1.

L’azienda in questione si chiama Bending Spoon ed è stata fondata nel 2013 da cinque giovani presi bene, moderni yuppies dell’era delle startups, ex-cervelli in fuga rientrati, con ricavi per 31,9 milioni di euro nel 2018 e premio “Best workplace in Italy” nella categoria delle imprese tra i 50 e i 149 dipendenti assegnatoli dalla organizzazione internazionale Great Place To Work nel 2019….che dire, un’azienda che non può che far commuovere giornalisti e politici dell’”eccellenza italiana”.

Bending Spoon negli ultimi tre anni ha scalato le vette come sviluppatrice di tutte quelle app che concorrono alla nostra alienazione quotidiana da smartphone: “30 Days Fitness”, “Berry Calorie Counter”, conciliatore del sonno “Sleep”, contapassi, modificatore per foto e video e ovviamente giochi basic per continuare a rintronarsi anche quando non si ha nulla da fare.

E, sostanzialmente, l’applicazione “Immuni” va esattamente in questa direzione, ovvero nel recidere sempre più la capacità di immaginarci un qualsiasi momento, attività o aspetto delle nostre vite senza il supporto di un’applicazione digitale “che ci aiuti e ci stimoli”. Dal canto loro gli sviluppatori sorridono e rassicurano i giornalisti che l’azienda non farà nessun tipo di profitto su questa applicazione, deresponsabilizzandosi a loro volta all’insegna del “facciamo solo quello che sappiamo fare, sviluppare applicazioni. Se saranno utili per combattere il Covid-19 ne saremo orgogliosi”.

L’affidarsi ad un’applicazione per smartphone nel prevenire futuri focolai di contagi è un modo al passo coi tempi per dire alle persone che non c’è bisogno di usare la testa quando c’è l’intelligenza artificiale che può decidere per noi, ed è perfettamente in linea con l’approccio da guerra attuato dal governo, ora in cerca di un sistema che gli permetta di avere un radar sul campo, capace di trasmettere in tempo reale i movimenti del nemico (le persone che contraggono l’influenza) e poter intervenire con dispositivi repressivi (quarantena “volontaria”) in cui la voce in capitolo della singola persona semplicemente sparisce.

Allo stesso tempo rientra incantevolmente bene anche nella direzione tanta agognata da governi e pubbliche amministrazioni di ogni paese di rendere i/le propr* cittadin* trasparenti ai loro occhi, collezionando dati e statistiche sempre più accurate e precise, anche oltre al dato aggregato, abbindolando le persone con la favola del “più comodo, più efficiente, più sicuro”. In questo senso, la richiesta esplicita di un governo alla propria popolazione di installare sui propri dispositivi telefonici un’applicazione per il tracciamento è in qualche modo un salto di qualità nella realizzazione dei rispettivi piani nazionali di industria 4.0 e smartificazione urbana.

Una direzione, quella della gestione smart delle città così come dei posti di lavoro, che si basa – e può realizzarsi solo – attraverso la raccolta e l’elaborazione di quanti più dati possibili, e per ottenere questo è necessario una massa critica sufficiente di smartphone e di altri sensori, connessi ad una rete ad alta velocità (la centralità del 5G!) e delle specifiche applicazioni capaci di trasformare i dati grezzi in analisi che guidino le decisioni. Ma, sopprattutto, che la gente smetta di avere timori o remore sulla privacy e decida di usarle, dimodoché possano davvero essere efficaci. Servono dunque argomenti convincenti – e la salute solitamente lo è – perché l’attuale ecosistema digitale è già perfettamente compatibile con un controllo esteso della popolazione, in quanto è stato plasmato dalle stesse aziende che sfruttano tali forme di controllo a fini di profitto, e i governi semplicemente scalpitano per avere la loro fetta di Big Data.

Chi semmai sembra non essere tecnologicamente ancora pronto è lo Stato italiano, con la sua mastodontica e flemmatica pubblica amministrazione e il suo evidente ritardo digitale, così come anche l’argomento privacy è ancora un forte deterrente per molte persone. Questa applicazione potrebbe pure facilmente rivelarsi un flop totale che velocemente passerà nel dimenticatoio della storia, e tanto meglio! Allo stesso tempo, però, rimane il fatto che abbiamo raggiunto il momento in cui governi “democratici”, e l’Unione Europea stessa, mettono apertamente sul piatto la possibilità di un contact tracing digitale di massa, e se non sarà questa l’occasione per riuscirci davvero, lo sarà la prossima emergenza. Perché una volta implementata una tecnologia difficilmente si cancella.

Il punto che sento sarebbe importante si riuscisse a cogliere non è tanto la questione della “privacy lesa”, come sembra sia invece ciò che più accende i toni della critica, soprattutto nel momento in cui tantissim* di noi hanno già volontariamente abdicato accettando l’uso di WhatsApp, Facebook, Instagram e quante altre applicazioni abbiamo sui nostri telefoni Android o iOS. Piuttosto come il “corona virus” – la nuova scusa per l’eterna emergienzialità – ci ha messo di fronte al poter tastare con mano il significato più denso e intrinseco di Stato e di potere, quindi, la volatilità dei cosiddetti diritti acquisiti assunti come inalienabili. Da un giorno all’altro un intero paese si è ritrovato semplicemente confinato ai domiciliari senza spazio alcuno per esprimere una contrarietà (l’importanza del non precludersi l’agire illegale!) e con unicamente la fede nel progresso tecnologico e scientifico come sola speranza presentata per riacquisire la odiosa “normalità”.

La tecnologia, una volta di più, appare come strumento tutto tranne che neutrale ma, anzi, come uno strumento storico – dalle macchine a vapore alla costruzione delle vie ferrate – che concorre al rafforzamento del potere costituito.

In atto è una tecnologizzazione della questione sociale, in questo caso specificamente sanitaria, che rivela tutta la sua incompatibilità con la tensione di coloro che immaginano un mondo diametralmente diverso, lontano dallo sfruttamento e dall’oppressione capitalista che si aggiorna e si riafferma nel paradigma tecno-scientifico. Ovvero cogliere piuttosto come, per il potere, lo sviluppo tecnologico abbia assunto un ruolo centrale attraverso il quale tramutare la questione sociale in una questione meramente tecnica. La povertà, per fare un esempio, non è più una questione che ha che fare con la proprietà privata, il neocolonialismo e le discriminazioni, ma con una gestione “intelligente” delle risorse e con una regolamentazione maggiormente inclusiva. O, similmente, la devastazione ambientale non porta più con sé una critica agli Stati, alle multinazionali e, più precisamente, al capitale, al progresso e agli interessi che dietro vi si celano e hanno determinato il saccheggio e la distruzione degli ecosistemi, ma ad un banale piano di soluzione tecnica “ecosostenibile” da ricercare, che nulla davvero risolve e che unicamente e ulteriormente radica un’idea di pianeta e di biosfera da spremere, solo con maggiori attenzioni. E, nello specifico di questa emergenza sanitaria, come una dichiarata pandemia non ha relazione con la perversa condizione di accalcamento urbano globale, piuttosto che la segregazione sistematica di persone anziane in strutture fondamentalmente di confinamento – le case per anziani – come risultato delle esigenze produttive imposte, ma bensì dal non disporre ancora di una profilazione di massa per tenere la situazione sistematicamente sotto controllo, oppure di non avere ancora una produzione di vaccini realmente on demand, per contenere le inevitabili nuove crisi che ci aspettano.

Nell’attuale ristrutturazione del sistema capitalista e statale esperti, colossi informatici, software, hardware ed algoritmi assumono un ruolo immenso in quanto agenti di potere. Lo sviluppo tecnologico, ancora una volta, assume quindi la funzione di ottimizzazione e stabilizzazione dei rapporti di dominio, e i piani nazionali di industria 4.0 e smartificazione urbana e delle nostre vite vanno esattamente in questa direzione, attraverso l’implementazione di un’intima digitalizzazione del nostro quotidiano.

Toglierci per un attimo dalla testa l’ossessione civica della privacy lesa e rimettere piuttosto il focus nel SENSO che la realtà in cui ci troviamo a vivere sta assumendo. Se sono percorsi di autodeterminazione quelli che vogliamo costruire, lo Stato, la neutralità della tecnologia e lo sviluppo tecno-scientifico sono i capisaldi da dinamitare.

b.

1 ovvero i dati rimangono sul cellulare invece che essere inviati automaticamente ad un server centrale, cosa questa cambiata in un secondo momento probabilmente considerata la summenzionata decisione di Google e Apple.