Bentruxu – 15 Aprile

Riceviamo e pubblichiamo un contributo da dei muntagninos del centro nord Sardegna
In montagna.
L’emergenza pandemica è vissuta con assurdità e in modo abbastanza irreale sopratutto in piccoli contesti territoriali come possono essere i nostri paesini montani, lontani, almeno per adesso, da un possibile problema sanitario diffuso e di massa, anche perché parlare di massa nei nostri contesti è sicuramente inappropriato. Il nostro isolamento naturale ci sta permettendo di “gestire” meglio la situazione, non abbiamo bisogno di “materiali” eccezionali per andare avanti e siamo abituati a vivere con poco. Esistono ancora sas buttecas, i piccoli negozi per alcuni alimenti, e il restante lo si trova dove si produce. Questa situazione ci ha fatto ritornare indietro nel tempo, assaporando rapporti sociali che la cosiddetta globalizzazione e i suoi stili di vita imposti aveva un po’ annacquato; capita di incontrarsi negli ovili, come un tempo, si discute, si da una mano, qualcuno impara le piccole pratiche antiche, si mangia bene e ci si organizza insieme come rientrare senza correre troppi rischi.
Ci si aiuta a vicenda, scambiandosi lavoretti e dandosi una mano creando una sorta di economia sociale che va oltre l’economia imposta, non si creano debiti o crediti ma solo la possibilità di fronteggiare una qualsiasi difficoltà, come questa attuale, ognuno dando ciò che riesce a dare, senza nessun metro di misura, c’è chi fa il muratore in cambio di carne buona, c’è chi viene coinvolto solo per raccontare storie, e c’è chi si presta per uno strappo in macchina se qualcuno ha fretta di spostarsi e le contingenze glielo impediscono.
Delle parate in divisa siamo abituati, e in su vonu e in su malu ce le sappiamo gestire, conosciamo bene lo Stato e le sue forze e non ci terrorizzano più di tanto, anche se l’omologazione sociale si sta allargando anche da noi, insieme alla paura indotta e al terrore “infettivo”, e così qualche maglia si sta indebolendo. Il contesto emergenziale ci ha fatto, quasi per assurdo, riprendere il nostro vecchio vissuto di libertà, praticato nelle campagne e nelle montagne, dove la natura è la nostra complice, con i suoi silenzi, le sue scorciatoie e se necessario i suoi ripari per il brutto tempo e per gli “ospiti” indesiderati che si sentono meno rilassati tra i ginepri o gli olivastri.
Per questo praticare l’auto arresto riteniamo sia dannoso allo spirito umano, sia quasi innaturale. Infilarsi gli scarponi, di pelle o da trekking e stringere bene le cinghie, ogni volta che lo facciamo è una carezza all’inconscio che ci prepara all’evasione possibile, pensando con rabbia agli operai ancora oggi ammassati nei cantieri industriali del nord, che non possono praticarla in nome del profitto. Camminare fra i cespugli o i boschi ci da la sensazione di assaporare la libertà che ci spetta, come dicevamo, e che non vogliamo barattare con nessuno.
Paragonare, dal punto di vista emergenziale e virale, il nostro territorio alla bergamasca o a qualsiasi centro affollato e “incontrollabile” la consideriamo una follia amministrativa e forse una inconscia sudditanza coloniale, che non vogliamo accettare passivamente. Per questo la briglia sistemica ci sta troppo stretta e letteralmente ce la togliamo dal muso, al massimo ci teniamo la mascherina se ci inoltriamo in città dove la massa umanoide, un po’ per natura, la sentiamo “pericolosa”: non siamo incoscienti, ci teniamo ai nostri vecchi e ai nostri amici malati o debolucci.
Andrà tutto bene, con gli scarponi in pelle o da trekking …

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