DIETRO L’ANGOLO PT.10 – UN’ALTRA VITA

Accanto a un generale e indiscutibile impoverimento legato all’emergenza pandemica, di cui ancora non si vedono chiaramente le conseguenze, con ogni probabilità l’affaire Covid 19 avrà acuito riflessioni critiche anche in chi, pur non essendo tra i maggiormente colpiti a livello economico, avverte come sempre più soffocante e insopportabile l’organizzazione della vita e dell’ambiente ad opera del capitalismo. In toto o perlomeno alcuni dei suoi tratti.

Brusche interruzioni del tran tran quotidiano del resto possono lasciar più spazio di quanto non vi sia di solito nelle vite di tutti alla messa in discussione, anche profonda, anche di ampio respiro, delle condizioni di esistenza, soprattutto quando se ne percepisce l’insensatezza e l’iniquità. E le caratteristiche stesse di questa pandemia, e della sua gestione, non hanno certo lesinato input a chi abbia avuto la capacità e volontà di coglierli. I segnali di quanto lo sviluppo capitalistico imponga all’ambiente e agli esseri viventi, un grado di sottomissione sempre più profondo e rigido ai dettami che regolano l’attuale organizzazione sociale, affioravano già da tempo. Il merito, se così si può dire, dell’attuale epidemia è quello di averli portati a galla con maggior abbondanza e velocità. E sarà interessante vedere quali forme di proteste e conflitti e quali discorsi sapranno emergere al di fuori della stretta inesorabile della logica capitalista, e in quali ambiti. Ad esempio immaginiamo che, nelle scuole, la teledidattica dovrebbe comunque continuare anche nel prossimo anno scolastico, anche se non se ne conosce ancora l’intensità ed ampiezza. Come reagiranno genitori, studenti e personale docente a un modello d’istruzione che nell’acuire ulteriormente le differenze sociali favorisce un’atomizzazione sociale 4.0? Una scuola a misura di pandemia potrebbe avere chissà tutte le carte in regola per diventare uno dei rivoli in grado di dar più precisione e sostanza ad un’opposizione contro l’installazione della rete 5G. Non solo per le ineludibili ragioni sanitarie ma anche contro il mondo cui quest’infrastruttura contribuirà a dar forma con la polarizzazione sempre più feroce tra inclusi ed esclusi e in cui le vite di tutti saranno sempre più mediate e controllate nel loro relazionarsi con l’ambiente e con gli altri, da artifizi tecnologici che rischiano di stravolgerne profondamente il senso e significato.

E in ambito sanitario cosa avrà lasciato in chi vi lavora l’emergenza delle settimane passate? Il decorso della pandemia ha mostrato chiaramente non solo l’evidente inadeguatezza della sanità pubblica ma anche i limiti strutturali di un certo modello centralizzato che è stato tra i principali fattori di moltiplicazione dei contagi. Un modello che, come hanno rilevato molti medici e infermieri a caldo, in piena emergenza epidemica, ha dimostrato con una certa sfacciataggine di esser pronto a sacrificare una parte di popolazione, non solo nelle carceri e nelle Rsa, ma anche tra chi lavora negli ospedali, mandandoli allo sbaraglio con regole e strumenti di protezione ugualmente raffazzonate rispetto alle esigenze che la situazione richiedeva.

Quale spazio troveranno questo tipo di critiche all’interno delle prevedibili agitazioni su rivendicazioni strettamente lavorative – aumento di stipendi e del personale – e fin dove riusciranno a spingersi nella messa in discussione, tanto teorica quanto pratica, di un certo modello sanitario, del rapporto lavoratori/utenti e, a salire, della funzione che la medicina svolge all’interno dell’attuale società? Questioni particolarmente importanti specie se si riusciranno a trovare punti di incontro tra esigenze dei lavoratori e dei cosiddetti utenti della sanità. E ancora quali ragionamenti si saranno sgretolati e quali invece si staranno sedimentando nei tanti, soprattutto giovani, che negli scorsi mesi avevano riempito le piazze un po’ in ogni dove contro le conseguenze del riscaldamento climatico? Uno dei dati più inconfutabili emersi durante l’emergenza Covid è che per fermare o perlomeno ostacolare la devastazione ambientale è necessario, né più né meno, fermare la produzione capitalista. A dircelo chiaramente erano tanto le immagini satellitari sui livelli d’emissione di Co2, abbassatisi come non mai durante il lockdown, sopra la Cina come un po’ in tutto il globo, quanto l’aria fattasi improvvisamente più respirabile lungo le strade delle città in cui viviamo; per non parlare delle tante immagini di animali e vegetazione che riconquistavano pian piano terreno man mano che la macchina capitalista rallentava i suoi giri. Dati di cristallina evidenza: vedremo se e come stravolgeranno i discorsi e le pratiche alquanto generiche e aleatorie che hanno finora contraddistinto buona parte del movimento contro i cambiamenti climatici. Tanto più che altrettanto evidenti sono i segnali di ciò che accadrà con l’intensificarsi di determinati problemi ambientali: le misure di lockdown, la crescente militarizzazione e l’acuirsi delle disuguaglianze sociali di cui abbiamo avuto un breve ma significativo assaggio ci illustrano chiaramente quale futuro ci attende sotto la cappa di una ragion di Stato d’emergenza.

Quale sarà infine la spinta che quest’emergenza saprà dare alla messa in discussione dell’agricoltura come dell’allevamento intensivi, delle principali fonti attraverso cui gran parte dell’umanità si riproduce attualmente? E quali progetti di autorganizzazione e autogestione della produzione alimentare sapranno trarre nuova linfa dai segnali allarmanti, ultimi di una lunga serie, lanciatici da quest’epidemia? Non limitandosi magari, non certo per sminuirne l’importanza, ad una risposta principalmente sanitaria ed ecologica alla produzione industriale ma riconfigurando ipotesi in grado di rimettere in discussione le strutture fondanti ­– tra tutte proprietà e lavoro salariato – di quest’organizzazione sociale e trarre così forza e al contempo darne ai conflitti che si svilupperanno nelle città. In un rapporto città/campagna – se così quest’ultima si può ancora definire – da sempre alla base delle ipotesi rivoluzionarie che meriterebbe di essere ripensato in un mondo come quello in cui ci troviamo.

Non siamo così ingenui, o abbastanza ottimisti, per pensare che il carattere extraordinario dell’emergenza in cui siamo stati catapultati produca di per sé il risveglio di un certo spirito critico e di una certa conflittualità. La forza di una certa ragion di Stato, in grado di presentarsi come l’unica entità in grado di fornire soluzioni di un qualche tipo, per quanto parziali e limitate, è innegabile, tanto più in una fase in cui lo Stato è tornato a mostrare il carattere su cui fonda la propria sovranità: quello di poter interrompere e sospendere la normalità. Di certo la capacità attrattiva di questa forza, che emerga in esplicito consenso o anche solo in senso di impotenza, sarà inversamente proporzionale allo svilupparsi di esperienze e conseguenti riflessioni critiche in grado di aprire qualche breccia e fornire suggerimenti e suggestioni altre. Altre modalità per far fronte ai problemi materiali, altre logiche su cui regolare le nostre vite e le relazioni tra esseri umani.

Un’alterità che con ogni probabilità tenderà a manifestarsi con un ventaglio di pratiche molto differenti tra loro che potranno andare – per limitarsi ad alcune tra quelle condivisibili – da scelte di rifiuto, a pratiche di nonviolenza attiva, a pratiche di solidarietà materiale basilare, al sabotaggio, allo scontro con la polizia e al saccheggio. E tenderà ad esplicitarsi con riflessioni anch’esse molto differenti, confuse e a volte tra loro contraddittorie, portatrici come saranno sia a livello discorsivo che pratico di interessi e visioni del mondo specifici e parziali. Riguardo a questa contradditorietà sarà necessario non farsi stupire dalle parole d’ordine e dall’habitus informe con cui certi conflitti si presenteranno: come è probabile che non poche rivendicazioni saranno all’apparenza prive di mordente sovversivo e avranno obiettivi per lo più riformisti, è altrettanto plausibile il moltiplicarsi di frizioni sociali di larga scala che saranno il frutto della differenziazione sociale che la governance della competizione sfrenata ha imposto negli ultimi decenni. Da una parte i dispositivi come la razza, l’etica produttivista, la morale legalitaria, il decoro e la paura di perdere anche i beni primari, dall’altra la mancanza di uno status formale (dai documenti identificativi ai contratti d’affitto e di lavoro), di punti di riferimento relazionali e di un radicamento ritenuto appagante sono elementi che tra gli sfruttati assumono spesso questa polarizzazione ma che si combinano nelle crisi in formazioni inedite e di difficile decifrazione per ricavarne una lotta puntuale contro i responsabili della miseria. Val la pena dunque ribadire che ridursi a sottolineare questi limiti e contraddittorietà non sembra sia il modo migliore per approcciarvisi e capire cosa bolle in pentola. Ben più interessante tentar di coglierne gli aspetti di rottura non solo rispetto a quel senso di inesorabilità di cui è ammantato il capitalismo ma anche alla conseguente idea che sia possibile, quando non l’unica via praticabile, apportarvi dei cambiamenti sostanziali soltanto collaborando con autorità politiche e padronato. Una logica di collaborazione che potrebbe avere una certa diffusione, sempre che la controparte sia interessata e disponibile a promuoverla, laddove tenderanno ad acuirsi i problemi legati alla sopravvivenza materiale. La vecchia ricetta dell’assistenza, insomma, che possiede fondamenta e appeal tenuti ben fermi dalla sua decennale storia all’interno delle democrazie avanzate alla luce della sua sostanziale inoffensività; di più, che sembra fondare la propria ineludibilità di fronte a tutte quelle privazioni, anche estreme, e a quelle necessità materiali generate dallorganizzazione sociale all’interno di cui nasce.

Del resto come attendersi qualcosa di differente? I decenni di relativa pace sociale, ameno a queste latitudini, hanno scavato profonde e paludose trincee da cui non è certo facile uscire materialmente o anche solo spingersi con lo sguardo un po’ più in là di quanto lasci intravedere il capitalismo con il suo inesorabile procedere. Molto angusti sono i passaggi per chi prova a dare corpo ad un radicale sovvertimento delle attuali condizioni di vita, crinali stretti da una parte dalla logica dellagire per non star a guardare, dall’altra dalla logica di una distruzione col respiro corto. Da una parte quindi un attivismo che pur di arginare l’apocalisse in atto non va per il sottile, che alla bisogna collabora con agenti interni al sistema sociale che vorrebbe emendare, secondo logiche allineate e funzionali al mantenimento dello status quo. E trascina, più o meno volontariamente, in dinamiche di recupero o totale affossamento tutte quelle spinte di rottura da cui prende abbrivio. Dall’altra invece quella risposta alle difficoltà teoriche e pratiche proprie del conflitto sociale che, al netto dalla loro sacrosanta necessità, misura gli interventi rivoluzionari solo sulla base del volume offensivo; su tutti, il cosiddetto nichilismo anarchico, sviluppato ad esempio in Grecia nell’immediato indomani dei cicli di rivolte tra il 2008 e il 2012.

Ecco perché anche conflitti di combattività bassa non sono contesti da guardare storcendo il naso. Le teorie anarchiche classiche evocano il momento dell’insurrezione come un momento di rottura che rende insensato il tempo canonico e impone in tal modo una nuova vita; non diversamente, nell’incommensurabile piccola lotta che potrebbe prendere piede in un reparto di ospedale o in un magazzino della logistica potrebbe aprirsi la piccola breccia dell’interruzione, della possibilità. Non si va certo scrivendo che ogni situazione simile apre orizzonti di portata epica, ma in questi decenni di realismo fatalista e rassegnato, il mettersi di traverso al lavoro o per pretendere un servizio, fare ciò organizzandosi con chi condivide quell’oppressione o quel problema, può scalfire il moloch che abitiamoI momenti di autonomia dalla governamentalità del capitalismo contemporaneo non nascono certo sotto ai cavoli insieme ai bambini né principalmente dalle astrazioni teoriche di alcuni rivoluzionari, ma sono il frutto di esperienze conflittuali di chi si mette faccia a faccia e ragiona su come ostacolare i suoi sfruttatori e migliorare le proprie condizioni di vita e di libertà. Guardare con attenzione a certe situazioni conflittuali, laddove si evince un certo spontaneismo lontano dalle proposte logore dei politicanti, non significa credere che gradualmente possano espandersi fino alla rivoluzione, ma è per la necessità di riprendere in mano anche i più piccoli spazi di vita e libertà per organizzarsi, dando per ormai assodato che la vita dell’umano sia ormai così dipendente dall’organizzazione capitalistica e dalla sua risoluzione interna dei conflitti, che non ci si può permettere di non dare una giusta occhiata ai rapporti sociali che entrano sul terreno dello scontro.

Non è certo un caso che la forza dell’Idea emancipatrice, che nei secoli o anche solo alcuni decenni fa, ha spinto tanti rivoluzionari e sfruttati a battersi per la loro libertà e per quella delle generazioni che sarebbero venute dopo, da tempo risulta quantomeno vaga e affievolita. Ormai da tempo chi si ostina ad avere come obiettivo un mondo di liberi e uguali non ha più ha che fare soltanto con un problema di espropriazione e distribuzione – la terra ai contadini e le fabbriche agli operai e poi a ciascuno secondo i propri desideri e da ciascuno secondo le sue possibilità, una formula quanto mai difficile da realizzare ieri come oggigiorno, dato che ci son pur sempre padroni e governanti di mezzo, ma perlomeno semplice da immaginare e verso cui dunque tendere, –. Ormai da lunghi anni la complessità dell’organizzazione sociale, l’opera di devastazione ambientale e di colonizzazione della vita quotidiana da parte del capitalismo ha posto problemi che non lasciano molto spazio a utopie così semplici e lineari, almeno da ipotizzare.

La vita altra cui accennavamo irrompe nel migliore dei casi come un’ombra, riuscendo con le sue chiare linee di confine a tracciare nette demarcazioni tra l’attuale organizzazione sociale, che appare nitida e immediatamente visibile, e ciò che invece sta al di là, e appare oscuro e indistinto. Un’ombra che si distingue quindi soprattutto in relazione al resto, un’alterità che si connota prevalentemente in negativo, rispetto a ciò che non è e non vuole essere. Non potrà quindi essere la mancanza di una visione complessiva, lineare e ordinata di come dovrà andare il mondo il criterio principale attraverso cui valutare la radicalità delle pratiche e, soprattutto dei discorsi, che riusciranno eventualmente a diffondersi a livello sociale. Come detto nessuno, compresi i rivoluzionari, ci sembrano in grado di elaborare utopie positive e lineari come quelle che hanno rischiarato altre epoche di oppressione e ingiustizie.

Se i contorni di un mondo di liberi e uguali sapranno delinearsi oggigiorno, sarà con ogni probabilità per l’intrecciarsi di una profonda e dolorosa opera di distruzione, tanto materiale quanto culturale, di ciò che il capitalismo ha con tanta cura e ferocia costruito nel tempo, e per i tanti tentativi, più o meno significativi, di vivere e abitare negli spazi che quest’attività insurrezionale permetterà di sottrarre al controllo dello Stato. Opera di distruzione a attività creativa che saranno tanto più precise e possibili quanto più nasceranno conflitti all’interno della società, nei quartieri, nel mondo del lavoro, della sanità etc. che, pur senza mettere in discussione il capitalismo nel suo complesso, saranno però in grado di rompere l’isolamento feroce e il senso di impotenza che attanaglia un po’ tutti e di rendere più precise le conoscenze e le riflessioni di come funzionano determinati pezzi di mondo e di come e se è possibile farli funzionare altrimenti. Ben difficilmente riflessioni e percorsi critici che nascono da problemi specifici potranno intrecciarsi tra loro a priori, a tavolino, vista la debolezza del collante ideologico che visioni del mondo altre hanno rispetto al passato. Se e quando percorsi di lotta differenti riusciranno realmente a intrecciarsi o coordinarsi sarà molto probabilmente perché il livello del conflitto che saranno stati in grado di raggiungere potrà stimolarli, o costringerli tout court, a perseguire delle ipotesi e avere una visione critica più complessiva. Altre ipotesi di coordinamento, o ricomposizione che dir si voglia, è facile diano vita invece a pachidermici e formali carrozzoni, come abbiamo avuto modo di vedere in questi anni, frutto del tentativo operato dalle componenti più militanti di mettere assieme, a tavolino, lotte differenti riuscendo a intrecciare per lo più qualche parola d’ordine e slogan da scrivere sugli striscioni di apertura di qualche manifestazione.

Pare necessario quanto mai prima dare una qualche forma a quel concetto di autonomia che affinché sia tale deve riuscire a tenere intrecciate la sfera della libertà e quella della necessità, come dolorosamente ci avverte l’epidemia attuale. A meno di non sposare o accettare di buon grado ipotesi apocalittiche in cui saranno solo in pochi a sopravvivere.

Per dire altrimenti occorre trovare il modo di riaffermare, in un’epoca che sta cancellando questo termine da ogni vocabolario, a parte quello peloso di alcuni politicanti, la centralità del concetto di universalità, contro ogni logica di selezione ed esclusione. E per farlo ci sarà bisogno di una spinta sovversiva talmente forte da far incontrare realtà e utopia.

Torino aprile-giugno 2020

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Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

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Un lato oscuro. Ancora su guerra civile e insurrezione.

Movimento disordinato

 

DIETRO L’ANGOLO PT.10 – UN’ALTRA VITA

Dietro l’angolo PT.9 – Movimento disordinato

QUALCHE IPOTESI SU COVID 19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO. La diffusione globale del Covid-19 ha salutato l’inizio degli anni ’20 del Duemila.

Dalla Cina, ma si può mettere in discussione l’epicentro unico senza che il risultato cambi, la portata del virus è diventata rapidamente omogenea alle traiettorie mercantili e sociali che sono di fatto le moderne condizioni di vita della stragrande maggioranza di persone sulla Terra.

Scrivevamo all’inizio di queste riflessioni che la vita di una buona parte degli uomini e delle donne si sostanzia da tempo nel tentar di rimanere aggrappati ai pioli di una scala, senza più nemmeno la speranza di poterla risalire. Un’impresa particolarmente difficoltosa che rischia di diventare proibitiva a causa di questa pandemia che ha reso questa scala ancor più carica e traballante, togliendole al contempo punti d’appoggio. Se è lecito attendersi che, per evitare di scendere sempre più in basso o caderne, aumenteranno numero e ferocia di calci e gomitate contro i propri compagni di sventura, tenderanno altresì a moltiplicarsi quelle strategie di resistenza, individuali e collettive, volte invece a prendersela con chi ne è responsabile.

La retorica sulla colpevolizzazione dei poveri, secondo la quale determinati problemi sociali non sono dovuti a cause strutturali ma sono piuttosto da ricercare nella biografia di chi li subisce, farà sicuramente più fatica ad attecchire in un momento come questo in cui le ragioni delle difficoltà di arrivare a fine mese sono chiare quanto non mai.

Abbiamo infatti scritto e sostenuto che questa pandemia ha avuto le caratteristiche di un’esperienza di massa, contingenza che nella storia recente, ha come precedente più prossimo l’ultima guerra mondiale.

Chiaramente non tutti ne avranno avuto la stessa percezione, e non tutti ne pagheranno le conseguenze in egual misura, ma il carattere sismico di questa pandemia, in grado di peggiorare contemporaneamente le condizioni di vita di tanti, potrebbe favorire lo svilupparsi di una rinnovata capacità di leggere le iniquità che potremmo definire di classe.

Una situazione simile, seppur di portata ben minore, ci sembra essere quella seguita alla crisi del 2008 in cui le responsabilità delle banche nell’impoverimento generale erano talmente evidenti e note che risultavano estremamente comprensibili le ragioni di chi ad esempio lottava contro gli sfratti o occupava delle case, verso cui c’era una certa empatia anche in molti di coloro che non si trovavano con l’acqua alla gola. Una finestra che non è rimasta aperta troppo a lungo e, alla luce del fatto che il conflitto sociale, almeno a queste latitudini, non è riuscito a produrre significative rotture della normalità, il sentimento di indifferenza e la guerra tra poveri, potenziati anche dal vecchio caro razzismo, hanno ripreso prepotentemente terreno.

Ci sembra quindi tutt’altro che remota la possibilità che questa pandemia crei un qualche cortocircuito alla retorica che vuole i poveri responsabili della loro sorte e a quell’atomizzazione sociale così feroce vissuta negli ultimi anni. Un cortocircuito la cui durata e profondità sarà inevitabilmente legata non solo allo spazio che determinate lotte e il conflitto sociale in generale riusciranno ad allargare, ma anche a quali dinamiche di esclusione riusciranno a contrastare o invertire e a quanto riusciranno a far retrocedere quella normalità statale di cui abbiamo provato nel corso di questo testo a delineare degli aspetti.

Se il peso e l’importanza di tutta quella sfera di problemi legati ai bisogni più basilari è destinata ad aumentare e con questo i conflitti e la tensione sociale che ruoteranno attorno ad essi, la forma che queste lotte prenderanno tanto nel breve quanto in un periodo più ampio risulteranno con ogni probabilità almeno in parte diverse da quelle che abbiamo avuto modo di conoscere finora.

Un impoverimento generale e rapido, le cui conseguenze devono ancora iniziare a manifestarsi, non ha precedenti recenti in questa porzione di mondo e le dinamiche in Paesi più o meno lontani, piombati altrettanto velocemente in una recessione economica di tali proporzioni, potrebbe fornire più di una suggestione riguardo ad alcuni degli scenari che potrebbero delinearsi. Ben difficilmente conflitti di tipo rivendicativo o vertenziale attorno a questioni come quella lavorativa, abitativa o sanitaria si limiteranno a muoversi lungo quei binari che solitamente conducono a trattative di tipo sindacale, pur particolarmente accese. È facile prevedere che possano invece dare il la o intrecciarsi a esplosioni di rabbia e malcontento diffusi se non a vere e proprie sommosse popolari.

Di questi tempi più che mai l’importanza di questi conflitti specifici attorno alla sfera dei bisogni non sarà allora soltanto legata a ciò che queste singole lotte saranno in grado di produrre nel tentare di ‘risolvere’ i problemi che le hanno causate, ma anche al loro carattere in qualche modo propedeutico a sommovimenti più ampi, eterogenei e anche contraddittori.

La contraddittorietà non è solo quella che potrebbe manifestarsi in un terreno di contestazione, o anche di lotta ampia, in cui alcune propaggini sono strumentalizzate da partitucoli, associazioni o affini. Il recupero di istanze sociali nell’alveo di riforme politiche che in qualche modo le pacifichino è un nodo storico a cui ahinoi si arriva quasi sempre e su cui le teorie dei sovversivi da tempo immemore si interrogano. La contraddittorietà in tempi di crisi acuta all’interno di un campo sociale di complessità caotica come quella contemporanea, emerge spesso in quella che si è definita guerra civile. Una nozione identificabile non solo nei grandi scontri intranazionali degli ultimi secoli, ma il cui germe serpeggia sottotraccia e viene puntualmente rinvigorito dalle politiche di impoverimento e infinita differenziazione. Nelle periferie la guerra per la sopravvivenza prende spesso forme di conflitto acuto, tracciate sotto etichette diverse che non restituiscono l’essenza del problema: dai benpensanti di sinistra certi conflitti vengono definiti semplicemente come la conseguenza del razzismo innato a una certa componente autoctona e ignorante; da una certa popolazione radicata nelle città e impoverita la delinquenza di strada viene percepita come il maggior problema da affrontare quotidianamente; per alcuni individui in forte deprivazione l’arrangiarsi a danno dei propri vicini di casa non è che l’unica maniera per campare.

Ma queste non sono solo percezioni da correggere con una sana educazione alla realtà sociale, come si usa dire ora dei bias frutto di una distorsione cognitiva, ma la materia viva di cui è fatta l’esistenza delle persone e che prende spesso il nome imposto e propagato dai media e dall’organizzazione della società. I fatti e le divisioni sono dunque reali e quasi sempre gravosi, l’intelligibilità è invece falsata dal discorso pubblico. Come fare a scardinare le frizioni tra parti di popolazione in forte difficoltà e farne emergere conflitti che non siano orizzontali ma contro padroni e governanti? Questo è da tempo un interrogativo pressante a cui ora più che mai è necessario guardare con attenzione perché l’acuirsi di quel germe di cui parlavamo non è una previsione pessimistica del futuro delle città, ma un fatto che si sta sviluppando esponenzialmente.

Ecco, a nostro parere, l’importanza dei momenti di lotta specifica: la loro esistenza e crescita potrebbe essere uno dei pochi antidoti che abbiamo a questa guerra anomica e strisciante.

Le relazioni che in questi conflitti specifici riusciranno a crearsi saranno un pezzo importante di questi percorsi: la solidarietà che nasce nel lottare fianco a fianco, accomunati dagli stessi problemi, è un obiettivo importante almeno quanto il far fronte ai problemi che generano quei conflitti.

Sappiamo bene come la solidarietà non sia un sentimento aprioristico, qualcosa di religioso o culturale, ma come scaturisca dal vivere un esperienza di lotta comune, la comunanza del conflitto.

Inedite tanto quanto le forme saranno le problematiche con cui i conflitti si troveranno a dover fare i conti e da cui nasceranno.

Si pensi in primis alla possibilità di spostarsi senza vincoli e restrizioni. Al di là degli aspetti più strettamente economici relativi all’aumento dei prezzi e alla riduzione selettiva dell’accesso al trasporto pubblico, aspetti che assumeranno una sempre maggior importanza specie nelle grandi città – il lusso di poter prendere la metropolitana di cui parlavano ad esempio i rivoltosi cileni –, qui ci preme concentrarci brevemente sul coprifuoco con cui ci siamo improvvisamente trovati a convivere. Un fatto del tutto nuovo che non poteva che trovare tutti impreparati; un’impreparazione inevitabile che riguarda tanto la sfera della vita in senso stretto, con le sue abitudini e relazioni, come quella della possibilità di lottare, esprimere la propria rabbia e insofferenza senza introiettare soltanto frustrazione e senso di impotenza.

In una città parzialmente o totalmente deserta, organizzarsi con e conoscere altri possibili compagni di lotta presenta indubbiamente difficoltà inedite, così come prendere l’iniziativa in pochi, pur avendo già conoscenze e affinità. Ragionare su un simile coprifuoco appare ancor più complesso anche a causa della legittimità che in parte ha avuto per le innegabili ragioni sanitarie che ne hanno causato l’imposizione. Far tesoro dell’esperienza appena conclusa, con l’idea di capire cosa fare, quali accorgimenti prendere, quali discorsi elaborare e come eventualmente diffonderli non può che partire dal riconoscimento di tali ragioni sanitarie.

Il rischio altrimenti è di suffragare una lettura di questo fenomeno alquanto distorta. Da questo punto di vista gli strali sul popolo-gregge quanto mai ubbidiente e servile nell’accettare tali misure risultano a dir poco semplicistiche, dato che restare dentro casa e limitare spostamenti e assembramenti non era una scelta figlia soltanto e principalmente della paura o del non voler rischiare conseguenze penali o amministrative. Ma questo è un discorso da approfondire altrove.

Si deve far tesoro di quest’esperienza a partire dal fatto che non è dato sapere che natura potranno avere eventuali futuri lockdown per ragioni di ordine sanitario, né è dato sapere se la popolazione reagirà in toto allo stesso modo in presenza di nuovi focolai: è innegabile che a causa di questa sorta di domiciliari di massa si sia accumulato un senso d’insofferenza generale. Ma a monte, probabilmente la forza delle ragioni sanitarie ci sembra essere inversamente proporzionale alla gravità delle altre problematiche da cui si è assillati. Un esempio significativo, che griderà ancora a lungo vendetta, ce lo hanno fornito i familiari dei detenuti di molte carceri italiane, i quali sono stati non a caso tra i primi a esporsi in prima persona in momenti in cui il problema epidemiologico era più acuto e le misure di lockdown più rigide; altrettanto significative, anche se mosse naturalmente da altri assilli, le pressioni contro misure di distanziamento sociale e affini provenienti dai settori del commercio al dettaglio.

Ma la misura di lockdown, magari con una diversa gradazione a livello spaziale, potrà ripresentarsi nei prossimi tempi pur a pandemia finita per ragioni esclusivamente di ordine pubblico, vista l’aria che minaccia di tirare tra le strade dei quartieri di tante città. Una differenza che modificherebbe in maniera sostanziale il quadro nelle possibili resistenze dal basso, che non dovrebbero più fare i conti con preoccupazioni di ordine sanitario ma si troverebbero ad avere a che fare con una gestione dall’alto probabilmente ben diversa da quella attuale. Davanti a un siffatto coprifuoco a uscir di casa o assembrarsi non si rischierebbe infatti solo una multa o una denuncia per l’art.650 c.p.

Torniamo alle accennate proteste di ambulanti, del commercio al dettaglio e dei vari rami della ristorazione. Tra chi non riaprirà e chi rialzerà la serranda per breve tempo per poi seguire l’esempio dei primi, saranno con ogni probabilità in tanti a ritrovarsi in breve tempo senza una fonte di reddito e senza grandi risparmi per tirare avanti. Se molti non versavano già da tempo in floride condizioni, ben difficilmente avrebbero immaginato di dover chiudere bottega così all’improvviso e in così gran numero. I miseri fondi stanziati e promessi dallo Stato italiano funzioneranno da frangiflutti fino ad un certo punto.

Difficile prevedere quali forme assumerà l’inevitabile tensione prodotta da questo improvviso, generale e, almeno per queste caratteristiche, inaspettato impoverimento. Se hanno certamente le loro valide ragioni le previsioni più pessimiste che prevedono la crescita soltanto di un blocco reazionario, non meno sensate appaiono quei paralleli con il recente movimento francese dei Gilets Jaunes non tanto da un lato sociologico, piuttosto per il senso di ingiustizia subita.

Pur coscienti che il conflitto di classe serpeggi in ogni società secondo modalità minute, continue, irregolari e individuali, se dovessimo ricapitolare le sollevazioni più imprevedibili che hanno movimentato il corso del tempo prima del Coronavirus, potremmo definire il 2019 come l’anno dei Gilet Jaunes, dei disordini in Ecuador, in Catalogna, in Cile, a Hong Kong, per citare solo quelle con una copertura mediatica imponente.

Rivolte la cui dinamica, pur alimentata da cause diverse, persone diverse, diverse ‘parole d’ordine’, diversi mezzi e diversi fini, ci risulta combaciare in alcuni punti.

Il primo aspetto, pur conosciuto dalla letteratura rivoluzionaria ma sempre troppo sottovalutato, potrebbe essere definito come la banalità dell’innesco delle sollevazioni, l’insignificanza delle cause scatenanti di molte rivolte, se non insurrezioni e perfino rivoluzioni o guerre. Difficilmente la rabbia esplode a livello collettivo per ragioni ideali – o peggio, ideologiche – rispetto a quelle più minute e insignificanti.

Un altro aspetto, collegato al precedente, è l’immediato e contagioso sentimento di legittimità del protestare e lottare contro misure imposte, percepite come ingiuste. Un sentimento che qualcuno in passato ha definito economia morale in riferimento a dei conflitti contro l’innalzamento dei prezzi del pane nel XVIII sec. in Inghilterra, moti, seconda questa lettura, alimentati non solo da un fattore strettamente economico ma anche da quanto tale peggioramento venisse vissuto e interpretato come particolarmente ingiusto rispetto alle condizioni precedenti.

Un simile sentimento, di questi tempi di misure e contromisure, licenziamenti e cassa integrazione forzosi, potrebbe certo accomunare e far da collante ai tanti uomini e donne messi all’angolo dalla pandemia.

Prevedere fin da ora che la retorica che accompagnerà eventuali mobilitazioni di questo tipo con tutto il suo portato populista potrà contenere numerose ambiguità e criticità è fin troppo facile; val la pena anticipare che sarebbe assai miope però la critica di chi si limitasse a tentar di capire cosa bolle in pentola guardando solo alle rivendicazioni scritte o verbali di simili situazioni.

Ben più difficile immaginare che piega potrebbero prendere questi conflitti sulla spinta di questo pezzo di mondo, soprattutto se riuscisse ad attrarre quel malcontento e quella rabbia generati da questa emergenza che faranno fatica a trovare altre occasioni per esprimersi.

Una suggestione di una qualche utilità potrebbe forse venire dall’esperienza “nostrana” che maggiormente sembra alludere al quadro appena tratteggiato, quella dei Forconi del dicembre 2013, in grado di sorprendere un po’ tutti e, a Torino, di bloccare all’improvviso buona parte della città richiamando una parte significativa di chi viveva nei suoi quartieri.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

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Macchine, sensi e realtà

Lockdown, quarantene e zone rosse

Un lato oscuro. Ancora su guerra civile e insurrezione.

 

DIETRO L’ANGOLO PT.9 – MOVIMENTO DISORDINATO

DIETRO L’ANGOLO PT.8 – UN LATO OSCURO. ANCORA SU GUERRA CIVILE E INSURREZIONE

QUALCHE IPOTESI SU COVID-19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO.

Nel corso dell’attuale epidemia di Covid-19, e soprattutto nel suo portato di misure di contenimento sanitarie e sociali sono apparse blande seppur allusive manifestazioni di una questione inquietante. Una questione complessa che, a memoria, è emersa all’interno della teoria e analisi anarchiche con tremenda urgenza durante uno degli avvenimenti che più hanno ecceduto gli schemi logici con cui sino ad allora si affrontavano gli scenari bellici: il massacro jugoslavo. Ci sembra che il libretto Guerra civile di Alfredo M. Bonanno1 sia un contributo inaggirabile per l’elaborazione rivoluzionaria, non solo per l’originalissima prospettiva analitica, ma soprattutto per le questioni etiche che tale tema pone, non lì esplicitamente affrontate e per questo tutte da svolgere.

Le righe che seguono riprenderanno la tematica non solo per affrontare questo imperativo, ma anche perché non ci sembra peregrino riproporre e riprendere l’analisi di questo complesso teorico (e pratico) proprio in un momento che, come allora, ci costringe a fare i conti con una eccezionalità che ha stravolto, stravolge e stravolgerà il modo di vivere a cui tutti, con più o meno agio, eravamo abituati.

 

Lungo il corso del testo apparirà euristicamente quella che probabilmente è una definizione minimale e scolastica di guerra civile come conflitto anomico, diffuso e infra-nazionale, caratterizzato da violenza indiscriminata potenzialmente senza limiti.

Una premessa doverosa: faremo di certo torto all’intelligenza di tante lettrici e lettori, ma vorremmo sottolineare a priori come per chi scrive lo scenario di ‘guerra civile’, per quanto a noi sconosciuto, disgusti profondamente.

Tuttavia, ad essere onesti, non pare sufficiente contrapporvi il concetto di ‘guerra sociale’, ovvero non sia sufficiente indirizzare programmaticamente i nostri sforzi pratici e analitici verso momenti di lotta in cui si contrappongono chiaramente (interessi di) sfruttati e sfruttatori. Non è sufficiente sostenere la necessità della guerra sociale contro la mostruosità della guerra civile. Siamo certi che questo in nessun modo potrebbe metterci al riparo, facendoci imboccare i retti binari della rivoluzione emancipatrice.

Non è difficile sostenere che le dinamiche insurrezionali, necessarie per aprire possibilità di liberazione collettiva, non hanno mai uno svolgimento lineare, animate come sono da tensioni variegate e contraddittorie, di cui spesso è difficile dare un significato etico univoco. La ‘guerra civile’ ci pare non certo il contesto auspicabile in cui agire (lo ripetiamo ancora una volta), ma di certo uno tra i probabili esiti di certe rotture o svolte improvvise nella quotidianità alle nostre latitudini.

Per concludere. Il tema ‘guerra civile’ ha peso e sembra ancora una volta inaggirabile perché ha tutte le carte in regola per essere l’impensato dell’insurrezione, il suo lato oscuro. Da una parte, abbiamo a che fare con un campo teorico e pratico in cui ci si è mossi – perlomeno dal punto di vista teorico – in lungo e in largo, con indubbia originalità e elaborazioni concettuali tuttora preziose e valide. Dall’altra, abbiamo una certezza: chiunque pensi e agisca con la pretesa di scatenare o partecipare a lotte con sbocchi insurrezionali non può non avere ben chiaro che il loro probabile svolgimento avrà di certo a che fare con quella che può essere definita ‘guerra civile’.

La presente pandemia di Covid-19 ha causato e causerà imponenti fratture nella quotidianità di praticamente tutti gli abitanti del pianeta. In questo luogo non verrà affrontata la cosiddetta narrazione dominante sul Covid-19, piuttosto la pandemia verrà considerata da un unico e pur complesso lato: come un momento di rottura, di profonda crisi del sistema capitalistico nazionale e trans-nazionale.

Come tale, come improvviso e imprevisto avvenimento critico chiama in causa, seppur da un’angolazione inedita, la teoria e la pratica rivoluzionaria: molteplici strutture del potere, a più livelli, vengono intaccate e messe parzialmente o totalmente fuori uso. Una crisi del genere, a nostro parere ha più differenze che analogie con le crisi economiche che, anche di recente, minano il funzionamento del sistema capitalistico avanzato: le sue ripercussioni sono molto più immediate sulla vita delle persone e probabilmente questa ha ricevuto molta meno attenzione in termini di previsioni e relative contromosse economiche e politiche.

Una spaccatura di tale portata ridisegnerà, tra le altre mille cose, gli equilibri nello scontro tra sfruttati e sfruttatori. Se da una parte le misure antiepidemiche si innestano organicamente su efficienti per quanto inedite modalità di produzione, distribuzione e consumo (e della loro difesa), dall’altra costringono e costringeranno altissimi numeri di sfruttati in spazi angusti di vivibilità e di accesso ai beni primari.

Non risulta quindi peregrino un tentativo ulteriore di analisi della guerra civile, nelle sue intensità più variabili, nelle sue forme oscure che paiono potersi ripresentare ed acuire perfino in latitudini che si reputavano al sicuro da bubboni di brutalità e di scontro anomico.

Qualche anno fa, un brillante articolo2 pubblicato da un mensile anarchico, si inseriva nel minuscolo dibattito sull’analisi del concetto di ‘guerra civile’, apportando preziose critiche ad un precedente scritto sul tema3.

Schematicamente lo scritto sosteneva che:

  • la guerra civile, perlomeno nella presente epoca, non si manifesta come un conflitto capace di eccedere ogni limite; un tale conflitto, pur iscritto nel profondo di ogni organismo sociale, non è mai scollegato dal contesto principale in cui avviene, anche nei casi di crisi irreparabile;
  • non è possibile immaginare il retrocedere di uno Stato-nazione con i suoi apparati sullo stesso piano di azione di emergenti formazioni organizzate, eventualmente partecipanti al conflitto;
  • lo Stato è infatti ‘ciò che, in ultima istanza, decide delle sorti della guerra civile’, ovvero ha una funzione che nel corso della sua durata (ma che perdura anche nel caso di sua dissoluzione) si articola come sapere di Stato = capacità di dare forma ad un conflitto e potere di Stato = capacità di esercitare il monopolio della forza;
  • questo significa che lo Stato esiste, quando è in salute, come agente di sospensione della guerra civile, non del suo annullamento: sulla minaccia sempre presente di esplosione di suoi focolai costruisce il suo consenso;
  • ma questo significa infine che la guerra civile gode di un’esistenza strisciante, sotterranea all’interno delle società organizzate in Stato e che perciò segue e si sviluppa su assi e traiettorie isomorfe ai rapporti di forza consolidatisi in esso;

Terremo a mente questi punti per sviluppare il presente elaborato, il cui punto di osservazione è il suolo italico, nello specifico un contesto urbano semimetropolitano.

Ancor prima dello sconvolgimento della quotidianità cittadina via decreto, a fare data dal 9 di marzo, le caratteristiche proprie della epidemia hanno dispiegato una dinamica antica, la caccia all’untore, che, come proveremo ad argomentare non può fare a meno di richiamare la figura più arcaica e fondamentale del capro espiatorio.

Già dagli inizi di febbraio possiamo reperire notizie grottesche e realissime di fobia isterica, spesso incarnata in attacchi fisici, verso persone fisiognomicamente asiatiche, e cinesi nello specifico. Presunti veicoli del virus, i e le cinesi, i negozi e i ristoranti da essi gestiti son stati individuati da ampie porzioni di popolazione come ‘il’ problema, come luoghi e corpi di cui sospettare, da tenere a distanza, da evitare quando non da attaccare.

Il rapido evolvere della situazione, le successive e sempre più stringenti misure di contenimento hanno fatto scivolare la psicosi verso il Celeste Impero in secondo o terzo piano (non volendo entrare nel grottesco dibattito sulle presunte colpe ab origine di diffusione epidemica, come se il virus fosse un gattino scappato sui tetti del vicinato).

Dopo la Cina altre figure hanno rapidamente occupato la casella funzionale del capro espiatorio, in una sequela di ruoli sempre più improbabili e, fattore non di secondaria importanza, vaghi, cioè non immediatamente riconoscibili – senza più gli occhi a mandorla, o meglio, non solo –.

A questo punto del discorso è utile presupporre la funzione fondamentale e fondativa che il capro espiatorio svolge all’interno delle comunità, macro o micro che siano. Seppur sia stato molto importante il ruolo dello Stato nell’individuazione del colpevole dello spargimento del virus – chi non sta a casa, chi corre, i furbetti, chi non rispetta il distanziamento sociale –, ci pare tuttavia che in frangenti di crisi generale, di difficile comprensione, di incertezza, il colpevole, la funzione di colpevole svolga una cruciale importanza sia su un livello individuale sia su uno collettivo.

Non si può non collocare il concetto di capro espiatorio all’interno di una costellazione di altri concetti: danno, colpa, violenza, sacrificio/sanzione, obliterazione/soluzione del danno.

Per trivializzare: di fronte ad un danno se ne cerca la causa, che è immediatamente colpa; attraverso la violenza (con le sue forme più raffinate e accettabili fino alle più brutali) si persegue la soluzione del danno, la sua riparazione; tale processo ha come passaggio obbligato, come punto d’equilibrio, il capro espiatorio, la sanzione del colpevole (tale o presunto).

A ben vedere, da questo schema non eccedono neanche modelli alternativi di capro espiatorio: si pensi semplicemente al – sacrosanto e più preciso – modello teorico e pratico proposto dalla ‘nostra’ parte, laddove il ‘colpevole’ è individuato tra le file del nemico di classe.

Non è questo il luogo per provare a sondare la validità di questo schema, né tantomeno immaginare soluzioni alternative. Ci accontenteremo di dimostrare che proprio perché, volenti o nolenti, ci si trova a muoverci in un contesto di questo tipo, le conseguenze saranno più buie e drammatiche di quanto ci si possa aspettare.

Ricapitoliamo quanto esposto finora:

  • lo Stato versa in un momento di crisi di cui esso stesso non conosce la fine né gli effetti che avrà nella vita del corpo sociale (ovvero non conosce a priori gli effetti che le misure post-crisi potranno dispiegare nella società);
  • ogni comunità non si può sottrarre alla dinamica del capro espiatorio di fronte a quelli che vengono interpretati come danni o torti, ed è pronta, al di là dei limiti democratici, progressisti, umanitari, razionali, ad agire in modo violento verso il colpevole supposto;
  • la guerra civile non è uno scenario che sostituisce il presente stato di cose in determinati momenti di anomia, ma esiste in maniera strisciante, in qualche modo controllata, nel ventre della cosa pubblica; e che i suoi rapporti di forza dormienti seguano le linee tracciate dalla strategia gestionale di controllo e repressione statali;
  • la presente pandemia di Covid-19 avrà ripercussioni imponderabili non solo sulle economie globali, ma immediati riverberi sull’esistenza di gran parte della popolazione: dal punto di vista occupazionale, dei consumi, dei costumi;

Tutto ciò può fare legittimamente presagire una serie di turbolenze sociali.

Da qualche parte sono già iniziate. Da qualche altra esistono strutturalmente.

Se si guarda con attenzione ai periodi di crisi in cui non appaiono fasi di sovversione diffusa sufficientemente incisive, non si può che notare l’acuirsi della ferocia con cui i poveri organizzano la propria sopravvivenza. Non ci si riferisce qui a un’antropologia negativa del tipo homo hominis lupus:non dobbiamo pensare ad una natura umana – concetto molto problematico – cattiva, quanto piuttosto a dinamiche dalle coordinate precise, spesso pianificate e ampiamente previste da analisti e governanti.

Finito il sogno illuminista e novecentesco di un’emancipazione comune, quando l’esistenza materiale pone alle strette, il risultato quasi deterministico è quello dell’accaparramento di ciò che è necessario, con mezzi e fini a tratti insostenibili. L’esistenza di molti, al netto del niente in cui si riproduce, si arrabatta già ora tra l’affitto di un posto da dormire su un marciapiede, tra i furgoncini in cui il caporalato organizza il lavoro tra i campi, strappando elemosine dal collo di un’anziana, in una busta di roba all’angolo. Tra le spire di un mercato sommerso, con prezzi esosi, capace di distribuire beni a cui ai più è negato un accesso formale, il cui controllo è spesso appannaggio di soggetti parastatali capillari, autodifesi e abili nella riscossione di crediti.

Fenomeni che individualmente possono essere ascritti a dinamiche di un ultra-sfruttamento ferocissimo e cannibale, ma che, moltiplicate e complicate nei sistemi complessi che sono le città e le metropoli, si traducono in dinamiche che afferiscono a ciò che definiamo guerra civile.

Il conflitto endemico all’interno della classe sociale degli esclusi potrebbe dunque con la crisi economica della pandemia portare all’inasprimento ulteriore delle dinamiche di cui sopra. Guerra che non solo vedrebbe i sovversivi in difficoltà rispetto alla sua intellegibilità, ma che li costringerebbe a far fronte a tensioni che spostano inevitabilmente il punto dalla lotta contro padroni e governanti a quello di doversi guardare le spalle da pericoli moltiplicati e su fronti inediti. Non si descrive qui uno scenario da tetra fantapolitica, ma quello che accade conseguentemente alla trasformazione di ogni pezzo di questa Terra in spazio di mercato dalle risorse limitate e dalla repressione spudorata. Un conflitto acuto e diffuso che rende poco vivibili per tutti le strade dovrebbe essere affrontato con rigore ideale e cautela ferrea. Per non subire o ignorare da una parte le angherie e le violenze di cui è composto, dall’altra per non finire nel derubricarlo come inevitabile “delinquenza”, dimenticando di fatto la questione sociale e abbandonandosi alla guerra tra bande.

Ad ogni modo. siamo convinti che nei momenti di crisi reale e vissuta molti nodi vengano al pettine, a discapito dei diversi piani di retorica, naif, caramellosi, ecumenici che l’inesauribile macchina ideologica che è lo Stato ha per questi frangenti: abbiamo letto del malcontento montato nel settore sanitario e produttivo in generale; possiamo immaginare che le dinamiche di potere, nella loro intollerabilità, emergano con più chiarezza rispetto ai periodi di ‘normalità’.

Non siamo tuttavia sicuri che, all’acuirsi della tensione, ci si ricordi delle responsabilità precise.

Che tipo di scontro potrà mai esplicarsi in società che non solo non esprimono da decenni capacità di analisi e organizzazione di classe ma soprattutto che non hanno più dinamiche interne capaci di dimostrarne chiaramente la struttura di classe? Chi sono oggi gli sfruttatori? Chi è oggi, o meglio ancora, domani, il nemico?

Temiamo che per distribuire e sanzionare le colpe sia sempre più facile imboccare le strade già battute: gli altri in generali, poveri, stranieri, marginali, furbetti di turno, non allineati, avversari corporativi e via elencando.

Qualche anno fa un compagno scriveval’insurrezione fa splendere il sole a mezzanotte perché in essa gli individui sentono, avvertono, evocano e vedono la potenza che hanno sempre avuto: quella di negare la propria condizione.

Non sappiamo se ci saranno insurrezioni. Sappiamo che ci saranno malcontento, rabbia, paura, incertezza, e sappiamo che queste cose sono il combustibile delle insurrezioni.

Un ulteriore punto sarebbe capire cosa significhi negare la propria condizione: a noi piacerebbe che si negasse la condizione di sfruttati, subalterni, oppressi. Che ci si batta per negare la propria condizione e quella degli altri in cui ci si possa riconoscere.

Invece è probabile che nel presente stato di cose e soprattutto nell’immediato futuro, l’esigenza prioritaria di ogni sfruttato sarà quella di riappropriarsi di quanto appena perso, a discapito soprattutto dei più prossimi, di tutti quelli che versano in frangenti simili. Probabilmente con modalità e strumenti inimmaginabili, propri di una crisi inaudita.

Non potremo però girarci per non vedere. In primo luogo perché, come sfruttati, la questione ci riguarderà da molto vicino. In secondo luogo perché se è vero che le insurrezioni non sono mai pure, sono impure in entrambi i sensi. Mai solo rivoluzione, mai solo reazione.

Anche nei contesti di più difficile lettura e intervento, ci sono sempre stati momenti di rottura che, pur frammisti ed intrecciati ad altri di segno opposto, hanno alluso o costituito passaggi di emancipazione.

Postilla di fine maggio ’20

Questo testo è stato redatto intorno alla metà di marzo, nell’ottica della collazione di testi in uscita sul blog Macerie e storie di Torino. Ad una rilettura due o tre punti che sarebbero inevitabilmente suonato come superati dagli eventi son stati aggiustati, altri li abbiamo lasciati volutamente come erano. Indubbiamente molti punti trattati, nonostante le aggiunte continue, hanno necessità di approfondimento ulteriore.

Il bacino di esempi e fatti di cronaca da pandemia, allo stesso tempo agrodolci, grotteschi, inaccettabili e catartici, che potrebbero supportare quanto scritto sopra è vastissimo.

Se dovessimo circoscrivere qui dei campi di forze – si badi, non dei soggetti – particolarmente fecondi per innescare o alimentare dinamiche da guerra civile, potremmo eleggere:

  • gli effetti selettivi e distributivi della previdenza sociale, riscopertasi fondamentale ai tempi del Covid-19, che, con i suoi bizantinismi creerà diverse categorie di persone dipendenti dal sostegno al reddito. Come ogni differenziazione anche questa sarà facilmente radice di cannibalismo sociale e scontro indiscriminato;
  • quel magma eterogeneo e confuso, distillato di differenti tensioni che si potrebbero definire complottiste, populiste, sovraniste, corporativiste, che ha dimostrato insofferenza palese alle varie misure di ministri e governatori soprattutto sui social network (un esempio locale, il cosiddetto Movimento dei Forconi a Torino); ad ora un popolo da tastiera, ma uno spettro significativo di cosa ribolla nello stomaco di quello che fino a ieri l’altro si chiamava proletariato;
  • la meta-distinzione tra salute e malattia, tra chi può e deve essere sano e chi invece rimane o può rimanere o deve nella casella del malato, del non salvabile, del sacrificabile; un taglio che si va ad aggiungere tra le innumerevoli linee di esclusione, inclusione e inclusione forzata che attraversano le società contemporanee, e i cui effetti, soprattutto in quelle sotto capitalismo avanzato, potrebbero scompaginarne le strutture;
  • non ultimo le vecchissime e nuovissime identità regionali, se non etniche, riemerse in un contesto dove la diffusione a macchia di leopardo del virus ha reso diversamente efficaci (o gradite) le misure del Governo centrale, emesse su una dimensione nazionale; per ora lo scontro è soprattutto politico istituzionale, ma scriviamo che ancora gli spostamenti tra Regioni sono vietati.

1 A. M. Bonanno, Guerra civile, Edizioni Anarchismo, Catania, 1995.

2 Invece n° 22, Combattere la guerra civile, marzo 2013.

3 Invece n° 18, Campo di battaglia, novembre 2012.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Nord sud ovest est

Taglio netto

Il mondo inabitabile

Macchine, sensi e realtà

Lockdown, quarantene e zone rosse

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Dietro l’angolo pt.7 – Lockdown, quarantena e zone rosse.

La produzione di spazi sicuri

Le zone rosse hanno oramai una loro lunga storia. Da misure di prevenzione attuate per difendere i capi di stato durante i grandi summit come il G8 (ad esempio a Genova 2001), erano poi state utilizzate per difendere le zone di interesse strategico nazionale (inceneritori, discariche e le grandi opere infrastrutturali come il cantiere di Chiomonte ) e ultimamente avevano fatto capolino, tra gli altri, nei quartieri torinesi più movimentati dal conflitto sociale. In questi ultimi episodi aveva decisamente stupito la sproporzione tra le misure di controllo attuate rispetto alla reale minaccia da contenere e alle conseguenze che queste misure imponevano alla popolazione residente.

Nel caso dello sgombero dell’Asilo, avvenuto il 7 febbraio del 2019, era stato circoscritto al traffico pedonale e automobilistico un quadrilatero di strade limitrofe all’edificio nelle quali si poteva accedere solo attraverso l’esibizione di documenti che comprovassero la residenza o l’attività lavorativa in quella zona. Nonostante le ben immaginabili conseguenze per l’economia del territorio le misure si erano protratte per un paio di mesi. Lo stesso è avvenuto per lo sgombero del mercato delle pulci del Cortile del Maglio dove per qualche tempo, nei giorni di mercato, è stata istituita una sorta di zona rossa, interdetta al traffico, nella piazza dove si svolgeva abitualmente questo mercato.

Al netto della comprovata volontà da parte delle forze dell’ordine di una dimostrazione muscolare in aree metropolitane poco obbedienti alle norme e alle leggi imposte ciò che balzava agli occhi in questo fenomeno era in sostanza una banalizzazione dell’utilizzo delle zone rosse senza alcun riguardo nei confronti delle reazioni che queste potevano scatenare in chi era costretto a subirne le conseguenze. È importante, ora, per comprendere l’utilizzo delle zone rosse nello scenario pandemico sottolineare alcune questioni legate a questa tecnica di militarizzazione dei territori.

La tecnica delle zone rosse è una misura concepita all’interno dei manuali di controinsurrezione e nasce con lo scopo di isolare porzioni del territorio dove l’ordine costituito viene messo in discussione, al fine di costruire degli spazi sicuri al movimento delle truppe e per le attività della popolazione collaborante (le cosiddette Green zone). La teoria delle zone rosse è quindi funzionale all’instaurarsi di questa dialettica tra spazi sicuri e spazi insicuri. Nel caso dell’emergenza Covid italiana ci si è trovati per un lungo periodo in assenza di questa dialettica. Ciò comporta due valutazioni differenti e per certi versi paradossali: la generalizzazione di questa tecnica, tra l’altra adottata con strumenti giuridici cangianti e contraddittori, che in sostanza sentenzia un fallimento dello Stato nel controllo della pandemia, non è una sofisticata strategia ma duna sorta di coprifuoco o quarantena adottata di fretta e con scarsi mezzi, uno strumento antico e quantomai abusato. La seconda valutazione riguarda la sua banalizzazione. L’estendersi indefinito della zona rossa e quindi il suo scarso significato strategico ha, però, sicuramente inculcato nella popolazione un precedente quantomai inquietante. Non è tanto, quindi, la misura in sé, dalla scarsa efficacia, ad essere preoccupante ma soprattutto il suo carattere storico e simbolico. Storico, perché rende comprensibile a chiunque cosa significhi una zona rossa e come ci si debba comportare in quella situazione. Simbolico in quanto allena gli spiriti a una ginnastica dell’obbedienza quantomai contorta e non così facilmente sbrogliabile.

Per tracciare quindi un filo rosso, che lega l’attuale gestione dell’ordine pubblico nell’emergenza con i suoi antecedenti, vorremmo sottolineare due aspetti che permettono di delinearne una continuità. Il primo riguarda essenzialmente la protezione degli interessi economici e dei capitali investiti nel territorio: che si tratti di accordi internazionali tra capi di stato oppure di aree soggette a investimenti infrastrutturali, o che si tratti invece di riqualificazione di quartieri semiperiferici oppure di contenimento di una pandemia che rischia di far collassare il sistema sanitario, la zona rossa compare laddove l’interesse economico è messo in discussione da circostanze esterne. E su questo punto, e in particolare rispetto alle questioni riguardanti gli investimenti nella riqualificazione, è chiaro che nell’incertezza e nella precarietà che contraddistinguono determinati quartieri marginali la capacità di difendere i capitali investiti non è un capitolo supplementare al bilancio dell’investimento ma è un capitolo organico alla strutturazione dell’investimento stesso.

Confrontando quest’ultima considerazione con l’attuale scenario epidemico, il cui decorso non è in nessun modo chiaro, è possibile comprendere quanta importanza rivesta economicamente l’efficacia delle misure di contenimento attuate da uno stato anche nell’ottica della competizione internazionale. Un secondo aspetto, che è già stato trattato nei testi precedenti, e che probabilmente risulterà maggiormente significativo nell’evolversi della gestione della pandemia, riguarda la delimitazione di spazi all’interno dei quali far stare la porzione di popolazione sacrificabile diminuendo il rischio per tutti gli altri. L’esempio dell’occupazione abitativa Salem Palace a Roma è significativa a riguardo: si tratta di un edificio occupato nel quale vivono 700 profughi ai quali è stata comminata una quarantena con tanto di presidio militare all’esterno a fronte di una trentina di positivi al Covid riscontrati all’interno.

Accanto a questioni prettamente tecniche si aggiunge la selva di decreti, decretucci, provvedimenti e ordinanze comunicati spesso la sera precedente alla loro entrata in vigore (alle 22 a reti unificate) che hanno reso indecifrabile quali fossero i comportamenti legalmente corretti e a quali sanzioni si andava incontro. In questa confusione si è fatto spazio violentemente il carattere soggettivo della legge e dell’ordine incarnato nello sbirro che ti ferma e da cui ci si può aspettare di tutto. Non c’è effettivamente niente di più indefinto che una situazione nella quale ogni singolo poliziotto può decidere la legittimità o meno di un tuo spostamento. Se a questo si aggiunge il fatto che i militari di Strade sicure dopo dieci anni di lavoro gregario si possono finalmente avvalere delle prerogative di un funzionario di polizia (e che nella fase 2 saranno integrati di 500 unità) il piano per il futuro è presto fatto.

La carica morale che permea il lavoro dei rappresentanti dello stato va di solito di pari passo con l’innalzarsi della loro brutalità. È sicuramente in questo aspetto dell’attività repressiva che si ritrova oggi meglio incarnato l’imperativo controinsurrezionale di produzione di una popolazione collaborante. In questo senso è importante rimarcare anche il ruolo che, perlomeno, in provincia e fuori dai grandi centri abitati hanno avuto la protezione civile e la protezione boschiva nel presidio del territorio, in particolare dei supermercati, durante i periodi più recrudescenti di questa fase 1.

Non da ultimo c’è la questione degli assistenti civici, in discussione in questi giorni che prefigura un’organizzazione e una messa al lavoro della pratica della delazione così ampiamente sollecitata dalle forze dell’ordine nei mesi precedenti. Sarebbe, però, troppo facile semplificare la situazione analizzandola come una prova o un esercizio controinsurrezionale comandato da una volontà precisa e chiara. Si tratta qui piuttosto di chiedersi cosa effettivamente sia stato appreso dai difensori dell’ordine costituito nel far fronte a minacce future. Del resto non è casuale il nesso, spesso metaforico ma non per questo meno pregnante, tra controinsurrezione e contenimento delle epidemie, fin dalle origini del pensiero controinsurrezionale. Il maresciallo Bugeaud, a capo della repressione dell’insurrezione parigina del 1834 e di quella algerina del 1841 presentava il suo libro La guerre des rues et des maisons come costituito “da consigli pratici del genere delle istruzioni contro il colera”. È necessario allora provare a ragionare e a intravedere come le tecniche apprese in questi mesi possano convertirsi ed essere usate in caso di conflitti sociali violenti e/o estesi.

Un esempio, al contrario, ma decisamente interessante riguarda la app meteorologica dell’Arpa Lombardia. Nata nel dicembre 2019 “AllertaLOM “ aveva come scopo, attraverso l’utilizzo delle tecnologie Gps, di avvertire gli utenti nel caso si trovassero in prossimità di un evento meteorologico pericoloso. L’applicazione, di proprietà della Protezione Civile, si è tramutata prima, senza tanto clamore, in un sistema statistico di valutazione del rispetto del lockdown e si è evoluta in una app per il tracciamento dei contatti Covid con tanto di questionario sui sintomi. Altro elemento interessante rispetto a queste tecnologie “dual use” è l’utilizzo dei droni, di cui durante questa pandemia si è ampliato e regolamentato il traffico e lo sviluppo di software capaci di monitorare automaticamente il rispetto del distanziamento sociale. “Social distancing” è un progetto che l’Aeroporto di Genova avvia con l’Istituto Italiano di Tecnologia, usando le telecamere di sorveglianza, che può generare una mappa dell’ambiente e circoscrivere un raggio intorno a tutte le persone presenti, segnalando quando sono troppo vicine. Grazie al progetto sarà possibile capire quali siano le aree a maggior rischio assembramento e generare avvisi in tempo reale in caso di mancato rispetto del distanziamento. Inutile sottolinearne i potenziali usi per questioni che nulla hanno a che fare con un’epidemia. Altri strumenti ancora, come il termoscanner, non fanno altro che radicalizzare il concetto di dual use. Si tratta infatti dell’introduzione di nuovi strumenti di controllo (che altro sono i termoscanner se non telecamere intelligenti?) giustificata tramite questa pandemia ma che materialmente posso essere utilizzati per tanti altri scopi. E’ necessario semplicemente sostituire il software al loro interno. L’unico ostacolo alla loro implementazione è oramai un problema tecnico.

In questa prospettiva le parole di questa discussione tra un esperto di controinsurrezione e un organizzatore di eventi riportate nel libro Out of the mountains. The coming age of urban guerrilla assumono un significato ancora più pregnante: “Iniziammo a speculare. Come si potrebbe combinare ciò che ho imparato a Baghdad rispetto alla protezione della popolazione dalla violenza estrema, con ciò che le law enforcement agencies sanno rispetto alle politiche community-based, i governi delle città rispetto al mantenimento di un ambiente urbano e ciò che la comunità olimpica conosce rispetto alla fornitura di sicurezza orientata alla preservazione dei flussi urbani? […] Possiamo modellare un approccio che replichi il modello sicurezza-più-servizi dei mega eventi sportivi ma su base permanente? […] Possiamo disegnare nella città stessa un sistema di sicurezza pubblica che mantenga la popolazione sicura e allo stesso tempo mantenga aperti i flussi che gli scorrono attraverso? Possiamo costruire questo, basandoci su ciò che gli architetti conoscono rispetto al metabolismo urbano, mettendo in sicurezza la città intesa come un organismo vivente, e non solo come un pezzo di terreno urbanizzato? E se possiamo farlo sulle città esistenti, possiamo inoltre costruirne delle nuove sulla base di queste conoscenze?”

Per questo, forse, è miope scandalizzarsi troppo per le misure adottate in questi mesi di lockdown sarebbe piuttosto necessario ragionare sui loro possibili effetti di ritorno e sui loro inaspettati aspetti “dual use”. Ragionare, quindi, sulla creazione di spazi smart, tendenza questa non inedita ma che subirà una forte spinta accelleratrice. Si prova, infatti, un profondo senso di vertigine a riandare con la memoria dal passato prossimo prepandemico al deserto del lockdown fino al labirinto attuale della cosiddetta fase 2. Lo spazio, che nell’accezione comune appare spesso come ciò che sommamente resiste alla forza umana, ne è invece da questa sempre profondamente plasmato e con velocità inaspettate.

Un aspetto altrettanto preoccupante che è necessario sottolineare è quello legato alla retorica che si è imposta a riguardo dell’epidemia trasformando il contenimento di una malattia in una metafora di guerra. La militarizzazione del linguaggio, dalla “guerra al virus” per arrivare alla comparazione dei morti da Covid con quelli dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, è un tentativo di mobilitazione popolare realmente pericoloso. C’è qui in gioco il tentativo di far ricomprendere il proprio destino misero e tragico in una missione collettiva dai confini incerti.

Il mondo attuale si avvia per questioni geopolitiche difficilmente aggirabili – tra le quali le più pressanti sono l’approvigionamento di risorse energetiche e la mancanza di liquidità monetaria – a una competizione interstatale sempre più feroce, la guerra guerreggiata anche su ampia scala diventa uno scenario sempre più plausibile. Questa esercitazione ideologica di massa fatta di morti, di eroi, di prime linee e retrovie, di bandiere e inni patriottici assume contorni quantomai inquietanti. L’emblematica immagine dei camion militari che portano via le salme dall’obitorio di Bergamo esprime una verità statale alquanto triste: quanto meno l’apparato sanitario e medico è in grado di gestire una situazione come questa tanto più la polizia e la militarizzazione avanzano.

L’ambito civile e quello militare non sono, quindi, due ambiti separati ma convivono in una sorta di continuità dove il prevalere dell’uno sull’altro è determinato dalla capacità di far fronte ai problemi che lo Stato si trova davanti. Ma l’avanzare del lato marziale dello Stato, per una strana legge ben nota ai suoi nemici, una volta avviato, non è un processo che si inverte automaticamente.

Lo spazio che si sono presi sarà necessario toglierglielo.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Nord sud ovest est

Taglio netto

Il mondo inabitabile

Macchine, sensi e realtà

 

Dietro l’angolo pt.7 – Lockdown, quarantena e zone rosse.

Uno sguardo su Aurora e Barriera

Da quasi un mese abbiamo lasciato sul fuoco una pentola bollente senza più curarcene, ma è giunto il momento di provare a fare il punto su come le istituzioni cittadine hanno deciso di provare a serrare il coperchio.

Dopo che in un paio d’occasioni decine e decine di persone erano scese in strada a guardare, contestare e in un caso tentare di mettersi in mezzo davanti ad altrettanti fermi di polizia e che un corteino aveva attraversato le vie del quartiere in pieno lockdownuna seduta straordinaria del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza ha disposto una serie di misure ad hoc per contrastare e prevenire l’insorgere di ulteriori disordini in quel pezzo di città.

Insomma, Aurora e Barriera sono diventati quartieri sotto “sorveglianza speciale”.

Accanto all’annunciata implementazione della videosorveglianza e del coinvolgimento di non meglio identificate associazioni, è stato subito evidente il dispiegamento di forze messo in campo per mostrare i muscoli. In poco meno di un chilometro, lungo e attorno corso Giulio Cesare, nel punto dove si sono verificati i recenti accadimenti, sono state posizionate, a due a due, quattro camionette fisse con agenti antisommossa, 24 ore su 24. Per non parlare delle volanti di polizia, carabinieri e di quelle in borghese che fanno su e giù per questi quartieri, e degli agenti della municipale che stazionano tutto il giorno ad alcune fermate di tram e autobus, a dar manforte ai controllori della Gtt, da quando la parziale riapertura delle attività cittadine è tornata a riempirli un po’.

Un’esibizione muscolare che non si limita poi a questo quadrante di strade con le camionette che nelle giornate di maggior ressa sono solite sostare anche davanti al mercato di Porta Palazzo o ad esempio in corso Verona davanti all’ufficio immigrazione, dove il 25 maggio, giorno della sua riapertura, se ne potevano contare ben sei a guardia dell’ingresso e a monitorare la lunga fila di avventori.

Negli ultimi giorni la pressione sembra leggermente scesa, con i presidi fissi che almeno di notte paiono levare le tende fino al giorno dopo. Tuttavia è difficile capire se e quanto questa vistosa presenza poliziesca sia destinata a durare e soprattutto se alla lunga si mostrerà efficace nel soffocare il prevedibile acuirsi dell’insofferenza e della tensione sociale, in questo come in altri quartieri della città, o se piuttosto non faranno che gettare benzina sul fuoco.

 

Uno sguardo su Aurora e Barriera

Chiaro e tondo. Sugli arresti di Bologna

Sette arresti e cinque obblighi di dimora nel Comune aggravati da rientro notturno e quattro anche da firme quotidiane. Questo l’esito dell’operazione Ritrovo, condotta dai Ros e dalla procura antiterrorismo di Bologna contro alcuni compagni anarchici, nella notte tra martedì 12 e mercoledì 13 maggio. L’inchiesta ricalca un copione ormai logoro, ciclicamente rispolverato negli ultimi vent’anni. Un’associazione sovversiva con finalità di terrorismo – art. 270bis – contestata ai soli arrestati, condita da un certo numero di reati e condotte specifiche che vanno dall’istigazione a delinquere, al danneggiamento e deturpamento fino all’incendio di un ripetitore, aggravati dalla finalità eversiva e distribuiti, non sappiamo ancora bene in che modo, tra i vari indagati.

Non avendo notizie più precise sull’inchiesta e sulle ordinanze di misure cautelari ci limitiamo per ora a sottolineare le particolarità relative all’emergenza coronavirus di quest’operazione. Sul fronte penitenziario i compagni e le compagne sono stati immediatamente trasferiti in carceri con circuiti di Alta Sicurezza, senza passare e sostare per qualche settimana, come normalmente avviene, in carceri vicine al luogo dell’arresto. Una scelta che immaginiamo sia dettata da ragioni di logistica penitenziaria legate non solo a ragioni sanitarie ma anche a preoccupazioni di ordine pubblico. Guarda caso nelle dichiarazioni della Procura si fa espressamente riferimento alla partecipazione di questi compagni ai recenti conflitti scoppiati nelle carceri italiane in seguito all’epidemia da coronavirus. Ma vediamo più precisamente cos’altro dice la Procura bolognese di quest’inchiesta rispetto all’attuale emergenza epidemiologica:

«In tale quadro, l’intervento, oltre alla sua natura repressiva per i reati contestati, assume una strategica valenza preventiva volta ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturiti dalla particolare descritta situazione emergenziale, possano insediarsi altri momenti di più generale “campagna di lotta antistato” oggetto del citato programma criminoso di matrice anarchica». Dichiarazione che tradotta dalla lingua di legno utilizzata dagli scribacchini dei tribunali vuol più o meno significare:  coi tempi che corrono è opportuno toglierci dai piedi questi irriducibili rompiscatole, che siamo certi non perderanno occasione per tentare di ricordare in vario modo le responsabilità delle autorità statali e promuovere lotte contro di queste.

Parole che, nell’esprimere le notevoli e legittime preoccupazioni degli uomini di tribunale per i tempi che verranno, non tentano in alcun modo di dissimulare la funzione preventiva di quest’inchiesta e del loro lavoro in generale. Una funzione che raramente ci sembra sia uscita con tanta chiarezza dalla bocca del nemico. Se ancora ci fosse qualche sincero democratico in grado di leggere con attenzione queste righe avrebbe sicuramente di che indignarsi, a maggior ragione se poi sapesse che, a quanto pare, quest’inchiesta era pronta e giaceva ormai da diversi mesi in un cassetto di qualche procuratore. A noi queste parole sembrano invece ribadire che il futuro prossimo venturo sarà pieno di rischi e difficoltà come di possibilità e occasioni di lotta . E del resto ben difficilmente queste ultime possono viaggiare da sole senza la compagnia dei primi.

Per completare il quadro delle particolarità post-Covid di quest’operazione segnaliamo che venerdi prossimo si svolgeranno gli interrogatori di granzia dei comapgni arrestati in videoconferenza.

Questi gli indirizzi cui scrivergli e mandare un saluto:

Giuseppe Caprioli, Leonardo Neri
C. R. di Alessandria “San Michele”
strada statale per Casale 50/A
15121 Alessandria

Stefania Carolei
C. C. di Vigevano
via Gravellona 240
27029 Vigevano (PV)

Duccio Cenni, Guido Paoletti

C. C. di Ferrara
via Arginone 327
44122 Ferrara

Elena Riva, Nicole Savoia
C. C. di Piacenza
strada delle Novate 65
29122 Piacenza

Chiaro e tondo. Sugli arresti di Bologna

Dietro l’angolo pt.6 – Macchine, sensi e realtà

QUALCHE IPOTESI SU COVID-19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO

Imparare a convivere con il virus. Questo il leitmotiv che ci viene ripetuto oramai da settimane.

Il peso specifico di un’epidemia non dipende solo dalle peculiarità del virus, dai suoi tassi di contagiosità e letalità, ma in buona parte dagli effetti che queste provocano all’interno di una determinata organizzazione sociale e da come quest’ultima decide di farvi fronte.

Imparare a convivere con il virus va dunque ben al di là di quell’insieme di pratiche e comportamenti utili, a livello strettamente epidemiologico, per evitare di contagiare ed essere contagiati. Quello che dobbiamo apprendere sembra piuttosto essere, l’abitare in un mondo a misura di pandemia, dove la misura non verrà certo stabilita per salvaguardare la salute collettiva.

Un mondo che prenderà forma piuttosto attorno alla priorità di limitare i danni e i fastidi possibili che emergenze di questo tipo possono arrecare al capitalismo e al funzionamento dello Stato. Tanto rispetto all’epidemia in corso, in una prospettiva più o meno breve a seconda del numero di ondate e della loro durata, che rispetto alle pandemie prossime venture, visto che le cause che hanno originato e favorito lo sviluppo di questa non verranno certo rimosse, e sono da annoverare nell’elenco di quei danni e fastidi da limitare di cui sopra.

Le nostre vite dovranno adattarsi a queste esigenze. Una logica di compatibilità che non nasce certo con il Covid19 ma è da tempo il cuore delle politiche relative alla cosiddetta emergenza climatica.

In cosa concretamente consista questa compatibilità ce lo mostrano ad esempio le ipotesi geoingegneristiche di mitigazione e adattamento all’emergenza climatica. La Gestione della Radiazione Solare (Srm), ad esempio, ossia l’iniezione tramite aerosol di solfati nell’atmosfera per deflettere parte dei raggi solari nello spazio e contrastare così il surriscaldamento globale. Senza entrare nel merito della fattibilità di simili ipotesi e delle imprevedibili e tragiche spirali di conseguenze che potrebbero innescare, qui preme sottolineare come la soluzione per far fronte a un cambiamento climatico sia quella di cambiare in maniera pianificata il clima: non potendo riconfigurare le politiche economiche alla base dei problemi ambientali si sceglie di riconfigurare materialmente il pianeta. Per quanto particolarmente emblematici non è necessario soffermarsi su macro progetti dall’aspetto vagamente fantascientifico, la stessa logica regola il funzionamento di strumenti molto più familiari, come i condizionatori presenti in molte abitazioni in grado di creare ambienti domestici a misura di surriscaldamento globale, senza contrastare ma anzi aggravando le cause del problema.

All’interno di questo quadro la vita, tanto nella sua essenza biologica che rispetto alle gradazioni di benessere materiale che vanno dalla mera sopravvivenza ai gradini più alti della scala sociale, dipenderà sempre più dal livello di artificializzazione che riuscirà a raggiungere.

Già da tempo nella retorica ufficiale c’è sempre meno spazio per l’idea di un miglioramento generale delle condizioni di vita da un punto di vista economico, sociale, culturale e tantomeno ambientale; l’unico progresso cui si accenna, per l’uomo come per il mondo in cui viviamo, e che in qualche modo fagocita tutti gli altri, coincide con il progresso tecnologico tout court.

Per questo per noi senso ha parlare di artificializzazione e pervasività tecnologica rispetto agli scenari presenti e futuri. Seppur il termine artificiale possa essere frainteso se viene opposto intuitivamente al termine naturale – mettendo in scena una contrapposizione difficile da districare riguardo al significato e alla sostanza delle attività umane – quando lo utilizziamo intendiamo un concatenamento di tecniche umane sempre più complesse che svuotano la vita individuale di capacità di autonomia, non potendo i singoli individui controllarne l’intero processo. Concatenamenti che costituiscono una sorta di ipoteca sulla propria libertà poiché legano la propria sopravvivenza a quella di una determinata organizzazione sociale.

Una condizione di dipendenza che rappresenta l’aspetto più critico della crescente pervasività tecnologica. Se dal cielo delle ipotesi geoingegneristiche in cui le entità statali che dovessero adottarle si autoattribuirebbero un ruolo di deus ex machina definitivamente necessario, abbassassimo lo sguardo verso gli aspetti più minuti della nostra vita ci accorgeremmo che una parte considerevole dei momenti in cui entriamo in contatto con il mondo, cioè dell’esperienza che facciamo nel nostro quotidiano, è filtrata attraverso tecnologie digitali, ed è lecito attendersi che di questo passo i nostri sensi saranno sempre meno in grado, da soli, di orientarci e guidarci nel mondo reale. Non è un caso se i sensori attraverso cui alcuni elementi – siano essi suoni, immagini, condizioni dell’aria, temperature etc.- vengono trasformati in dati, “catturati”e immagazzinati in rete, sono spesso paragonati alla vista, all’olfatto, all’udito e al tatto umani dato che costituiscono la base di quel processo di elaborazione delle informazioni e di apprendimento definito come Intelligenza Artificiale.

Un concetto, quello di intelligenza, che ormai da tempo non è più appannaggio esclusivamente degli esseri viventi e l’aggettivo smart è diventato una sorta di prefisso che accompagna, senza che nessuno ci faccia più caso, determinati dispositivi tecnologici e ambienti iperconnessi, come quello domestico o urbano, in grado di svolgere funzioni complesse elaborando attraverso algoritmi una mole consistente di dati. Associare questa facoltà a delle macchine è un tratto caratterizzante di quest’epoca che in passato ha suscitato non poche discussioni e critiche accese, e sarebbe interessate comprendere attraverso quali passaggi questa associazione, un tempo ricca di criticità, si sia normalizzata.

Alcuni suggerimenti utili possono forse venirci da un libro, «Macchine calcolatrici e intelligenza» scritto nel 1950 da Alan Turing che iniziava con la seguente domanda: «Propongo di considerare la questione: le macchine possono pensare?» e prosegue definendo quello che comunemente è conosciuto come il test di Turing, in cui un giudice, attraverso delle domande scritte, deve riuscire a riconoscere tra un certo numero di partecipanti un computer, programmato per cercare di convincerlo di essere umano. Alla metà del secolo scorso Turing ipotizzava che in cinquant’anni i computer sarebbero stati programmati così bene da riuscire ad ingannare 3 volte su 10 un interrogatore medio, dopo cinque minuti di domande. Ipotesi che a quanto sembra si sono rivelate abbastanza fondate e la costante crescita della capacità di elaborazione e apprendimento dei cervelli sintetici ha spinto molti a vedere nei risultati raggiunti dai computer in questo test, il criterio per rispondere affermativamente alla domanda iniziale. Sembra però che non fosse questa l’ottica dell’autore che nel prosieguo del suo testo scrive: «La domanda originale “le macchine possono pensare?” credo sia così priva di significato da non meritare alcuna discussione. Ciò nonostante, credo che alla fine del secolo l’uso delle parole e l’opinione generale delle persone informate sarà cambiata a tal punto che si sarà in grado di parlare di macchine pensanti senza aspettarsi di essere contraddetti».

Detta altrimenti, per Turing la possibilità di associare la facoltà del pensare a delle macchine non risiedeva nell’implementazione della capacità di calcolo delle stesse e nella loro capacità di ingannare un tot di volte il giudice del suo test; ma nel modificarsi del significato di parole come pensare o intelligenza fino a permettere di associarle alle macchine in grado di raggiungere determinate prestazioni.

Se alla capacità di pensare sostituiamo il concetto di vita, come ipotizziamo possa essere utilizzato tra vent’anni o forse meno? E non sono certo problemi di ordine linguistico quelli che ci poniamo. Se è la materialità del mondo e delle attività che caratterizzano le nostre vite a contribuire al significato di alcuni concetti e questi sono quindi una sorta di specchio in grado di aiutarci a capire come è organizzato il mondo in cui vengono utilizzati, le parole racchiudono altresì idee e tensioni, in grado di influenzare profondamente l’agire e modificare quindi la realtà. Idee che hanno una loro forza materiale.

Difficile valutare lo spessore e di quale materia sia fatto il filo che intreccia tra loro i concetti di vita, umanità e ambiente.

Tralasciamo – perché non meritano discussione, per dirla con Turing – le trame tessute dalle ipotesi accelerazioniste o transumaniste che individuano nell’artificializzazione dell’ambiente e della stessa vita biologica delle prospettive di liberazione. Le misure adottate per far fronte all’epidemia in corso promettono di assottigliare ulteriormente questo filo, aumentare ancor più il distacco fisico dalla realtà e accrescere quindi l’inadeguatezza delle nostre percezioni. L’isolamento sociale particolarmente rigido, vissuto nelle settimane di lockdown, minaccia a piccole o grandi dosi di durare nel tempo e anche quando questa pandemia potrà dirsi conclusa da un punto di vista epidemiologico, le nostre relazioni con gli altri esseri umani e con il mondo – i fondamenti della nostra esperienza e del nostro tentare di dar significato e intellegibilità a ciò che ci circonda – rischiano fortemente di non essere più quelle, tutt’altro che ottimali, dell’epoca pre-Covid. Perché nel frattempo quella parte di esperienza reale venuta meno sarà stata sostituita da un’esperienza mediata in misura e intensità crescente da dispositivi e infrastrutture tecnologiche digitali, in grado di offrire un ventaglio ampissimo di possibilità: dall’ottimizzare le nostre scelte quotidiane a livello nutritivo e ginnico, all’organizzare i nostri spostamenti nel modo più veloce e al contempo sicuro; dal permetterci di consumare una gamma di merci sempre più ampia attraverso un app, all’aiutarci a scegliere quali persone incontrare all’interno di safe zone relazionali; fino alla sostituzione tout court del mondo esterno attraverso il ricorso alla realtà virtuale o a quella aumentata e alla creazione di nuovi ordini di bisogni e desideri. Arrivando potenzialmente a colonizzare ogni aspetto della quotidianità.

Una colonizzazione in atto già da tempo, a cui quest’emergenza permetterà di fare notevoli salti in avanti, tanto da un punto di vista giuridico che infrastrutturale, forzando in breve tempo delle strettoie che con ogni probabilità avrebbero richiesto tempi più lunghi, – pensiamo soltanto alla rete 5G – specie in un paese come l’Italia che sotto questo profilo si trova certamente indietro rispetto ad altri. Non solo perché continuerà ad aleggiare, con una forza che non siamo in grado di prevedere, la minaccia di altre pandemie, ma perché nel frattempo la pervasività di questi dispositivi digitali sarà aumentata e una certa organizzazione della vita si sarà sedimentata.

Proviamo ora a soffermarci brevemente sulla sfera lavorativa. Una sfera che verrà profondamente riorganizzata dalla crescente automazione, in grado non solo di sostituire braccia e cervelli umani in un ventaglio molto ampio di attività ma anche di stravolgere i compiti e i comportamenti di chi non sarà espulso dall’ambito lavorativo. In attesa di vedere come e per quanti lavoratori lo smartworking diffusosi nelle ultime settimane diventerà permanente e quali conseguenze questo comporterà, un buon esempio di stravolgimento delle mansioni lavorative può essere quello del cosiddetto stoccaggio caotico con cui da tempo sono organizzati, da cervelli sintetici, i magazzini di Amazon e di altre aziende: i prodotti sono collocati sui vari scaffali non in base alla tipologia di merce, come farebbero probabilmente dei magazzinieri per memorizzarne meglio la posizione, ma in base al principio di ottimizzare i tempi – mettendo ad esempio vicini quei prodotti che più frequentemente sono spediti assieme – e gli spazi. Un ordine che non è assolutamente a portata d’uomo e che nel rendere i lavoratori del tutto dipendenti da elaborazioni algoritmiche, ne riduce le competenze e accresce la precarietà; dinamiche simili stanno iniziando a regolare, o promettono di farlo a breve, anche attività meno manuali, come quelle svolte negli uffici pubblici e nelle banche o negli studi legali e medici.

Esempi significativi del livello di condizionamento che l’automazione può arrivare ad imporre, a livello lavorativo, possiamo poi trarli dal controllo sulle cassiere adottato nella catena di distribuzione statunitense Target, dove un sistema automatico classifica come verde, gialla o rossa ogni operazione alle casse in base alla velocità e precisione. Una scala cromatica a cui sono legati stipendio e mantenimento del posto. Ancora più invasiva è la valutazione della performance emotiva effettuata nell’azienda giapponese Keikyu che misura la quantità e qualità dei sorrisi, dei propri dipendenti a contatto con il pubblico, attraverso software che controllano e interpretano i loro movimenti oculari e la curva delle loro labbra.

Una certa organizzazione della vita è in grado di sedimentarsi grazie alla raccolta e gestione di enormi mole di dati, di primaria importanza a livello economico e politico, e che permettono poi di implementare ulteriormente le capacità d’apprendimento di questi cervelli sintetici, che saranno così in grado di aumentare il ventaglio delle proprie funzioni e svolgere compiti sempre più complessi, in una dinamica capace quindi di autoalimentarsi.

Emblematica la discussione attorno alle nuove app di tracciamento in cui l’accento delle dichiarazioni governative è stato intelligentemente messo sulla loro non obbligatorietà. Una questione alquanto oziosa. Al momento, per i numerosi problemi tecnici che queste app di tracciamento sembrano avere, a partire dal fatto che non sono ancora pronte, l’introduzione del contact tracing sembra per lo più utile a fornire alle autorità una nuova figura di untore – chi sceglie di non scaricarle – cui attribuire la responsabilità di eventuali nuovi focolai. Ma una volta che applicazioni di questo tipo entreranno a far parte della quotidianità, e si saranno risolti i problemi di ordine tecnico, l’attuale non obbligatorietà risulterebbe alquanto aleatoria. Non solo perché potrebbe essere velocemente sacrificata, a livello legislativo, sull’altare della tutela della salute pubblica, ma soprattutto perché sarebbe facile renderle obbligatorie di fatto impedendo o limitando l’accesso a determinati luoghi e servizi a chi ne fosse sprovvisto. Come già accade in altri paesi più hi-tech e come alcuni, del resto, ipotizzavano sarebbe accaduto anche qui, quando a ridosso dell’inizio della Fase 2 si vociferava che la mobilità individuale sarebbe stata subordinata all’utilizzo di queste app. Discorso simile si potrebbe fare per una delle ultime new entry nel campo delle tecnologie “anti-Covid”: i braccialetti elettronici in grado per ora di di regolare “soltanto” il distanziamento sociale e che a quanto sembra hanno buone possibilità di entrare a far parte della nostra quotidianità. Ma l’esempio più lampante di obbligatorietà convergente è quello che quasi tutti portiamo già in tasca: lo smartphone. Per come sono organizzati i più svariati ambiti della vita, farne a meno risulta in molti casi estremamente difficile e anche quando è possibile richiede un notevole dispendio di tempo ed energie per elaborare strategie alternative.

Quella che stiamo tentando di tratteggiare è una tendenza che non si svilupperà certo in maniera piana e omogenea. All’incerta velocità con cui si realizzeranno le infrastrutture necessarie a rendere smart le città o i territori in cui viviamo si aggiungeranno fattori sociali e anagrafici a differenziare la diffusione di dispositivi digitali. E ci saranno poi ostacoli soggettivi, di coloro che rifiuteranno di delegare una parte più o meno consistente delle attività e scelte della propria vita a strumenti collegati in rete. Tentativi, individuali come collettivi, di sbarrare la strada a questa colonizzazione o perlomeno di utilizzare criticamente questi dispositivi indubbiamente importanti, sotto molteplici punti di vista, ma che da soli non hanno grandi possibilità di contrastare questi processi. Il rischio è anzi di convincersi e corroborare l’idea, ingenua e pericolosa, che la tecnologia si riduca a un insieme di strumenti che si possono decidere o meno di utilizzare, quando in realtà appare oggi come una fitta ragnatela che intrappola il mondo materiale, modificando le capacità percettive degli esseri umani, organizzando e regolando fette sempre più crescenti dell’approvvigionamento, della distribuzione e della produzione delle risorse su cui si basa l’esistenza umana. Le tecnologie digitali sono quindi un sistema di relazioni che contribuisce a dar forma alla realtà e alle nostre vite. Pensare di poterne semplicemente vivere al di fuori è come pensare di poter vivere al di fuori, senza esserne quindi profondamente influenzati, dal capitalismo.

Scrivevamo che ci sembra difficile valutare come si stiano intrecciando i concetti di vita, ambiente e umanità. Tra chi aspira a vivere in un mondo di liberi e uguali da un lato si corre il rischio di sottovalutare il problema, minimizzandolo o subordinandolo a priorità di altro ordine – sociale, economico, ambientale etc. – cui se ne affida automaticamente la risoluzione, o si rimanda piuttosto qualsiasi riflessione critica o iniziativa di contrasto a un indefinito domani, e se ne perdono in ogni caso di vista le specificità; dall’altro si rischia di assolutizzarlo, come se l’artificializzazione della vita non si intrecciasse e contribuisse ad approfondire le disuguaglianze sociali, come se questo processo avvenisse in un ambiente vuoto in cui il principale, se non l’unico, contrasto esistente fosse quello tra l’essere umano e quello macchinico. Una visione in cui è facile lasciarsi tramortire e catapultare in labirinti distopici in cui iniziative o lotte che nascono attorno ad altre problematiche risultano inutili e non possono che condurre a vie senza uscita.

A complicare ulteriormente il quadro il fatto che una necessaria prospettiva luddista risulta sempre più difficile, da molti punti di vista, senza un adeguato bagaglio di conoscenze tecnologiche.

Capire come difendere e ridare spazio a una certa idea e materialità, del mondo come dell’uomo, ci sembra quindi una questione estremamente complessa. In cui il necessario livello di attenzione, su un piano tanto riflessivo quanto pratico, al problema specifico dell’artificializzazione non può essere separato da quegli sforzi volti ad aprire attraverso altre lotte e conflitti delle brecce nell’organizzazione sociale della vita. Questione complessa ma centrale in una prospettiva rivoluzionaria che voglia ancora confrontarsi con la parola libertà in tutto il suo spettro di significati. Perché vivere in un mondo di liberi e uguali richiede che esistano ancora un certo tipo di mondo e di esseri umani.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Nord sud ovest est

Taglio netto

Il mondo inabitabile

 

Dietro l’angolo pt.6 – Macchine, sensi e realtà

Dietro l’angolo pt.5 – Il mondo inabitabile

Le epidemie convivono da sempre con la storia dell’umanità, sono legate indissolubilmente alle attività umane e sono apparse più volte come sintomo dei profondi cambiamenti sociali della specie umana.

Se dovessimo individuare in questo fenomeno una certa sintomatologia del nostro presente, che in qualche modo segna la discontinuità e la continuità con il nostro passato prossimo, e con un incerto futuro, potrebbe essere quella dell’impossibilità di un altrove.

Ciò che accadeva più frequentemente durante le epidemie storiche era la fuga repentina, di chi se lo poteva permettere, dai focolai di contagio. In questo caso, invece, la diffusione globale dell’infezione si è prodotta in un tempo brevissimo, al punto che anche gli Stati che ostentavano sicumera, e si pensavano in qualche modo al riparo, si sono dovuti nella quasi interezza sottomettere alle necessità proprie di una malattia che intasa gli ospedali, si appiccica ai luoghi chiusi ed affollati e di cui si conosce ancora troppo poco.

Al netto delle caratteristiche proprie di un virus piuttosto che di un altro, la velocità e l’ubiquità della diffusione è sicuramente un segno dei nostri tempi. Una velocità figlia delle infrastrutture dei trasporti mondiali, della gestione centripeta dei servizi, della concentrazione urbana, dell’industria turistica e della colonizzazione delle campagne.

Continuità e discontinuità, dicevamo, certamente gli aspetti sopra descritti del capitalismo attuale erano tra quelli più studiati e analizzati e, d’altra parte, l’aria soffocante di un mondo ultraconnesso, in cui il concetto di responsabilità diventava troppo vago – a causa dell’impossibilità di prevedere l’esito delle proprie azioni in questa catena inconoscibile di relazioni – s’era già fatta stantia in parecchie parti del mondo.

Insomma era un po’ sulla bocca di tutti l’idea che in questa interconnessione frenetica di relazioni prima o poi si sarebbe prodotto un patatrac.

All’inizio di questo processo, che in molti chiamano globalizzazione, vi era un preciso pensiero della classe dominante da loro definito come esternalizzazione, un mantra che pare oramai antico, l’idea cioè di scaricare altrove i costi sociali, sanitari e ambientali della produzione e degli imperativi produttivi del capitalismo avanzato.

Esternalizzazione che per molto tempo ha funzionato proprio come una forma di distanziamento sociale rispetto alle conseguenze del progresso tecnologico e industriale, un progresso che via via impoveriva di risorse i luoghi in cui si insediava, costringeva gli abitanti a migrare e rendeva man mano l’ambiente inabitabile.

La convinzione ultima dei dominanti su questo aspetto era, e per certi aspetti è, quella che non sarebbero mai stati loro a pagarne il prezzo.

L’irreversibilità di parecchi processi, dalla produzione nucleare al cambiamento climatico, stavano già facendo arrivare alcuni nodi al pettine.

Esternalizzare non basta più, il mondo pervaso, oramai, dal modello capitalista di sviluppo porta ovunque le sue nocività.

II

Per quel poco che si conosce di questo virus, una delle descrizioni che abbiamo trovato più pertinenti è quella rilasciata da 13 medici dell’ospedale Papa giovanni XXIII di Bergamo, il Covid-19 è :“L’Ebola dei ricchi”(…)“richiede uno sforzo coordinato e transnazionale. Non è particolarmente letale, ma è molto contagioso. Più la società è medicalizzata e centralizzata, più si diffonde il virus. La catastrofe che sta travolgendo la ricca Lombardia potrebbe verificarsi ovunque”

Già da tempo parecchi ecologisti e nemici del progresso ci avevano avvisato che l’urbanizzazione estrema, l’estrazione predatoria delle risorse e la produttività ad ogni costo stavano compromettendo fortemente le capacità riproduttive di determinati ambienti e popolazioni, una compromissione che spesso si autoalimentava generando processi a catena.

Era almeno da un decennio che in Cina la minaccia di una pandemia era percepito come un problema verosimile: ciò in virtù del repentino cambio di vita di milioni di persone, dell’intensificarsi a dismisura dell’allevamento intensivo e della mancanza di spazi intermedi tra la profonda campagna e la città che rendono sempre più fragili le barriere immunitarie tra la popolazione umana e l’ambiente in cui vivono.

I capitalisti già sapevano di dover fare i conti con questi problemi in un futuro non troppo remoto, e probabilmente pensavano di poter circoscriverne i danni.

Ma l’intelligenza biologica di ogni nuova forma di vita, compresi i virus, cerca costantemente la via più veloce e sicura per riprodursi.

La geografia della diffusione ha così seguito le vie principali degli scambi mondiali e nazionali andando a insediarsi nei poli produttivi più fortemente legati alla complessa catena di messa a valore planetaria.

L’”Ebola dei ricchi”, definizione calzante di una consapevolezza che si è imposta gradualmente nei principali Stati come minaccia alla riproduzione dei rapporti capitalistici.

E’ questo sicuramente un altro aspetto, se non proprio inedito, almeno degno di nota.

Il blocco della vita sociale e di parte delle attività produttive è stata una decisione presa certamente a malincuore dai governanti, i cui costi e le cui conseguenze sono ancora tutti da quantificare, una decisione che, per quanto abbiano cercato di posticipare, si è resa indifferibile davanti alla possibilità che il sistema sanitario collassasse, scalfendo inoltre quel poco di fiducia che i governati hanno ancora nelle istituzioni.

Da un po’ di tempo a questa parte, la vita delle popolazioni urbane stava iniziando a subire limitazioni; le mascherine in molti centri urbani asiatici erano già un armamentario necessario per uscire di casa a causa dello smog; l’anno scorso, per esempio, Nuova Delhi ha subito un lockdown del traffico aereo e di quello automobilistico, le autorità invitavano la popolazione a non uscire di casa perché l’aria era velenosa.

Il produttivismo capitalista dava segni di cedimento ben prima di questa epidemia e oramai non solo gli ecologisti sapevano che il livello dei ritmi di produzione e di scambi avevano raggiunto il limite rischiando di far collassare il sistema.

Un problema sicuramente pieno di sfaccettature e complesso quello di un sistema giunto ad un livello di saturazione tale che necessita, per sopravvivere, di essere bloccato.

In prima battuta si può affermare che un problema sistemico non sia per forza un problema avvertito da tutti gli attori, per esempio a riguardo delle emissioni di gas serra, la precaria soluzione è quella di una competizione molto feroce tra gli stati e le grandi multinazionali sulle quote di emissione.

Da questa piccola considerazione si possono intravedere alcuni scenari per il nostro presente pandemico rispetto a improbabili parametri comuni sui futuri blocchi della produzione e alla corsa forsennata per accaparrarsi soluzioni mediche all’avanguardia per competere nei mercati internazionali.La salvaguardia della salute della popolazione produttiva pare ora diventare un parametro necessario alla conservazione del proprio ruolo all’interno del sistema, cessando di essere solo un’istanza di magnati illuminati e green.

A scanso di equivoci, non si vuole qui affermare che si andrà imponendo una versione paternalistica del capitalismo attuale, dove i padroni si prodigheranno a far crescere il benessere nella popolazione oppure che gli Stati riformeranno su parametri universalistici i sistemi sanitari nazionali. Piuttosto si vuole rimarcare l’idea che la salute e l’ambiente necessariamente diventeranno centrali nel decidere le sorti della concorrenza intercapitalistica e, quindi, si imporranno come parole d’ordine a cui a tutti verrà ordinato di sottostare.

III

Se la velocità e l’ubiquità sono ciò che hanno reso questo fenomeno una brutta gatta da pelare per gli Stati, d’altra parte ciò che affligge soprattutto gli sfruttati che occupano il mondo è il suo carattere di massa. Milioni di persone hanno esperito, e stanno facendo esperienza, di cosa significhi vivere in un ambiente antropico ostile alla vita umana, un tipo di esperienza che fino a poco tempo fa era circoscritta ad ambiti di realtà gravemente compromessi.

La possibilità di questa esperienza comune potrebbe dare una materialità a tutta una serie di discorsi prima citati.

Una materialità che è prima di tutto biologica ma che potrebbe sostanziarsi in un atteggiamento di classe.

Non c’è nessun automatismo che lo garantisca, come gli esempi che ci arrivano dai tanti luoghi contaminati di questo mondo ci insegnano. Di certo per molti sfruttati l’obiettivo di riempirsi la pancia oggi potrebbe rendere un po’ più dolce la consapevolezza di produrre la propria morte dopodomani. Ma davanti a un’esperienza di massa potrebbero saltare tutti quegli escamotage individuali per indorarsi la pillola: e l’imporsi dell’idea che non c’è una via d’uscita.

Perchè, in fin dei conti, l’esposizione al rischio sta già svelando l’arcano del cosiddetto distanziamento sociale che non è altro che una rimodulazione della separazione tra le classi.

Se ne sono accorti bene i detenuti di tutto il mondo e i lavoratori costretti a continuare produrre, se ne accorgeranno a breve anche tutti gli altri che saranno costretti a tornare a lavorare e quelli che dovranno affrontare le conseguenze della nuova normalità.

E se la situazione non muta in poco tempo, i ricchi troveranno sicuramente un modo per allontanarsi dalle conseguenze del mondo nocivo su cui basano i loro privilegi.

E’ necessario comprendere come a livello ideologico sia veramente pericoloso l’imporsi di discorsi dall’impronta biologista sull’esposizione e l’allocazione del rischio infettivo. Quei discorsi che tracciano delle linee su parametri biologici, come l’età, per dare o togliere libertà o restrizioni, oppure tutti quelli che lamentano l’eccessivo sovraffollamento o la carenza di norme igieniche come un dato naturale.

Questi discorsi ci spogliano di qualsiasi capacità etica di fronte al problema, poiché riconoscono come sacrificabili alcuni individui. In questo modo tracciano delle separazioni tra coloro che potrebbero almeno desiderare, se non provare, a rovesciare questa società.

Inoltre, in questo modo, scompare la sola e gracile idea emancipatrice di questa malattia: il fatto che l’essere umano riconosca di condividere il medesimo ambiente e che se qualcuno potrà permettersi di salvarsi, per tutti gli altri, ogni giorno di più, anche quando l’epidemia sarà finita, non resterà che respirare la medesima aria.

Anche in questo caso si tratta di intravedere un ambito di intervento, un possibile orizzonte comune e non certo di una formula magica. Difatti potrebbero essere numerosissimi gli esempi di come questa situazione produca anche processi opposti di isolamento, diffidenza reciproca oppure di come in molti permanga l’illusione che questi sacrifici servano a riottenere una vita nuovamente all’altezza dei propri standard di comfort e consumi.

D’altra parte, però, non si tratta di una semplice alternativa tra libertà e paura quanto piuttosto tra libertà di esporsi o meno a un rischio e trovarsi costretti a doverlo fare per sopravvivere.

Non crediamo che svilire le altrui fobie serva a molto in questa situazione quanto piuttosto sarebbe più utile smontare la percezione del rischio che ci viene propinata, totalmente schiacciata sulle responsabilità individuali e sulla paura del corpo dell’altro. Anche perché i tempi che verranno, ci insegneranno che ci sono cose più terribili di cui avere paura.

IV

La versione ufficiale di come affrontare queste problematiche è farcita da una buona dose d’ottimismo.

Un ottimismo di certo propagandato, ma anche condiviso in buona fede da una ampia parte degli sfruttati.

Pare ci sia ancora tempo, tempo per convertire la produzione, per mitigare le conseguenze dell’inquinamento, per trovare cure a chi ne è vittima.

E insomma, proprio perché c’è tempo, l’innovazione tecnologica spinta nella giusta direzione risolverà i problemi mantenendo gli adeguati livelli di produzione, consumo e profitto.

Del resto anche ora in questa pandemia ci somministrano le stesse ricette: attraverso la quarantena cercano di guadagnare il tempo necessario a sviluppare le tecnologie adeguate, non certo per mettere in sicurezza la popolazione, ma per far ripartire il sistema.

Nel grande palcoscenico attuale le posizioni sul cambiamento climatico e sulla pandemia sono quasi simmetriche: da una parte ci sono i negazionisti – ultimamente un po’ in difficoltà poiché si trovano ad affrontare, nello stesso tempo, il crollo del prezzo del petrolio e a dover, a malincuore, bloccare la produzione industriale a causa dell’emergenza sanitaria – dall’altra i cosiddetti sostenitori del Green New Deal che a tutt’oggi sbandierano la possibilità alquanto fantasiosa secondo cui il salvataggio del pianeta e dell’umanità potrebbero convivere benissimo con la ripresa economica capitalista.

Sono effettivamente questi ultimi che da anni cercano di convincerci dell’alto valore dei buoni comportamenti individuali, spacciandoci l’apertura di nuove fette di mercato (dalle borracce, alle auto elettriche passando per le mascherine e il tracciamento dei contatti), come l’unica soluzione a dei problemi sistemici che loro stessi hanno generato.

Il problema non è soltanto quello del recupero delle istanze radicali.

Da scalfire, davanti a questa pandemia, è la speranza che il peggio possa essere posticipato, perché è una speranza che ci toglie il tempo di agire.

Non si daranno soluzioni morbide davanti alle emergenze e, come si vede bene di questi tempi, non c’è, davanti alla paura di morire, nessuna rimostranza che tenga.

La cosiddetta transizione ecologica non sarà di certo un passaggio felice e si manifesterà sempre più come un passaggio necessario alla conservazione stessa dell’apparato produttivo.

Da una parte c’è la portentosa capacità di convincimento di misure che vengono adottate per la sopravvivenza, aventi quindi carattere di necessità, che investono gli Stati di un enorme potere materiale e simbolico – di cui questa crisi sanitaria ci ha dato un buon esempio -; dall’altra ci sono le istanze degli ultimi su cui verranno sempre di più scaricate le conseguenze di questo mondo marcio, ultimi che si troveranno sempre di più a scegliere tra la mera sopravvivenza dettata da un ambiente antropico ostile e le condizioni possibili per vivere una vita che valga la pena di essere vissuta.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Dietro l’angolo pt.5 – Il mondo inabitabile

Cronache da Milano sotto il coronavirus – Salute II

Ormai in Lombardia siamo al giro di boa, sono passati due mesi dall’inizio dell’allarme Covid 19, dalle prime chiusure e dai primi contagiati riconosciuti.

La coperta corta delle risorse sul territorio è stata strattonata a destra e a manca, le strutture sanitarie e le politiche scelte nelle aree più colpite hanno lasciato che un’infezione, che agli occhi di un occidentale pareva irrealizzabile, dilagasse. Nell’Insubria, nel ricco nord est, la guerra al virus è stata persa con migliaia di vittime sacrificabili e con molteplici effetti collaterali. All’alba della fase due la manfrina è cambiata, dobbiamo imparare a con-vivere con il virus, una convivenza in cui le differenze sociali creeranno anche un differenziale del rischio.

A due mesi di distanza ne abbiamo riparlato con chi lavora negli ospedali meneghini, chi usa i ferri del mestiere e chi riesce a dare un sguardo all’ambito sanitario scevro di retorica.

A Milano è andata male ma poteva incredibilmente andare peggio. La fallacia della risposta sanitaria trova spiegazione nella struttura presente e nei meccanismi di routine del servizio lombardo. La maggior parte dei presidi sono privati e la parte pubblica è fortemente depauperata di strumenti, lavorando continuamente sotto stress, dove non esiste capillarità nella distribuzione di cure, ma accentramento.

Le decisioni che amministratori e direzioni sanitarie hanno preso hanno strappato la già sgualcita coperta. Traslochi di infetti nelle Rsa, scarsità di tamponi, oppure tamponi a pagamento, investimenti edilizi al posto di maggior formazione in ambito sanitario, sospensione delle cure per i malati cronici, impossibilità ad avere una diagnosi in questo frangente. Così si sta acuendo e moltiplicando il problema sanitario. 

Qualcuno risponde alle lacune del sistema facendo di testa propria, assieme ai colleghi si organizza per riprendere tutte quelle cartelle cliniche di chi è stato lasciato indietro. Qualcun’altro si domanda come potrà non ripresentarsi più una situazione così critica, se l’origine della malattia e la dinamica del contagio è intessuta nella trama della società in cui viviamo.

 

Cronache da Milano sotto il coronavirus – Salute II

Dietro l’angolo pt.4 – Taglio netto

QUALCHE IPOTESI SU COVID 19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO

Trovarsi con l’acqua alla gola è forse una delle immagini che fino a qualche settimana fa poteva rappresentare meglio le condizioni di vita di molti. A queste latitudini, le differenze tra chi occupava i vari gradini nella parte bassa della scala sociale consistevano per lo più nel riuscire a respirare o trovarsi invece a boccheggiare quando la corrente agitava un po’ le acque.

Il Covid19 è arrivato all’improvviso come uno tsunami.

Ad esserne travolti contemporaneamente sono stati tantissimi e non solo quelli che occupavano gli ultimissimi gradini. L’impossibilità di ottenere qualche tipo di salario sta portando sempre più persone ad annaspare, man mano che si esauriscono le scorte. Le briciole elargite dalle autorità, in svariate forme, più che affrontare il problema servono a far loro guadagnare tempo e a cercar di raffreddare un po’ gli animi, in vista di frangenti che si annunciano se possibile ancor più difficili. Il quadro non è infatti destinato a modificarsi granché anche quando le acque man mano si ritireranno.

Il numero dei disoccupati, sia tra chi percepiva un qualche reddito o salario regolare sia tra quanti riuscivano a sbarcare il lunario saltando da un lavoro all’altro all’interno o ai margini del recinto dell’economia formale, è destinato ad aumentare considerevolmente. L’impoverimento generale legato alla contingenza coronavirus si intreccerà a dinamiche già in corso d’opera.

Uno dei principali fattori in grado di espellere porzioni crescenti di uomini e donne dal mondo del lavoro è senz’altro l’ulteriore salto, a livello d’automazione, legato allo sviluppo della robotizzazione e intelligenza artificiale. Un’automazione che, almeno su un piano tecnico, non sembra avere particolari preferenze rispetto ai settori lavorativi in cui svilupparsi. Sembra infatti che robotica e cervelli sintetici siano già in grado di raccogliere verdura e frutta riuscendo anche a selezionare quella già matura, a organizzare i magazzini della logistica e caricare i camion, a guidare gli stessi camion soprattutto su lunghi percorsi al di fuori dei centri urbani, e ancora a sostituire gran parte degli addetti alla vendita al dettaglio o alla grande distribuzione, o a svolgere attività come imbiancare la facciata di un palazzo, ma anche a svolgere attività più d’intelletto sostituendo in molte mansioni chi lavora in banca, negli studi legali, nel mondo della sanità e dell’istruzione…

Tale elenco delle attività in cui le macchine potranno sostituire in parte o totalmente gli esseri umani, seppure parziale, è utile per farsi un’idea della portata del fenomeno. Alcuni studi affermano che, potenzialmente, nei prossimi 10 anni il 47% delle attività lavorative rischia di subire gli effetti di quest’ulteriore automazione. E del resto se i costi di queste innovazioni continuano a ridursi, sostituire degli esseri umani con dei robot non può che essere economicamente conveniente vista la loro produttività, il fatto che non protestano e non si stancano e last but not least non si ammalano e non fanno ammalare.

L’ostacolo principale, almeno in prospettiva, ad una tale diffusione non sembra essere di natura tecnica. A pesar non poco, accanto agli scenari anche inediti destinati a delinearsi a livello macro, ci sarà la vecchia questione del conflitto di classe e l’esigenza, per le autorità, di mantenere un certo livello di coesione e pace sociale.

Un conflitto sociale, ci sia concesso un breve inciso, destinato a pesare non soltanto in una prospettiva luddista, ma in grado di modificare e stravolgere radicalmente il complesso delle dinamiche che stiamo tentando di descrivere. Di sparigliare del tutto le carte in tavola. Ci rendiamo conto che il quadro che stiamo tratteggiando, non solo in questo capitolo ma anche nei precedenti e in quelli che seguiranno, possa risultare quindi eccessivamente piano, privo di una dimensione essenziale. Come se le politiche di oppressione si sviluppassero in un ambiente vuoto, privo di resistenze e asperità. Per una chiarezza d’esposizione abbiamo però scelto di operare questa artificiale separazione tra strategie e dinamiche di esclusione e la dimensione del conflitto, su cui ci soffermeremo alla fine. Torniamo ora a volgere lo sguardo sulle carte in mano al nemico.

Già da tempo lo stesso termine “disoccupato”, che descrive una condizione – almeno a livello teorico – temporanea, appare sempre più inadeguato a descrivere una condizione che si annuncia essere piuttosto permanente o almeno a corrente alternata. Una questione tutt’altro che terminologica o di pura lana caprina perché presuppone per lorsignori la costruzione di retoriche e strategie radicalmente differenti rispetto a quelle adottate negli ultimi tempi.

Nel corso degli ultimi secoli le condizioni di accesso a determinati ammortizzatori sociali in grado di mitigare la miseria sono rimasti simili nel tempo: l’impossibilità di lavorare – che a seconda dei casi poteva essere imputabile al soggetto inabile o a una dimensione sociale -, l’appartenenza del beneficiario a un certo territorio – per cui i mendici all’interno di una determinata comunità erano soggetti a misure, non certo piacevoli come il lavoro coatto, ma comunque volte alla loro reintegrazione, mentre ai vagabondi erano riservate solo misure strettamente punitive – e l’accettazione della loro propria condizione – che è il vero oggetto di scambio tra Stato e chi percepisce questi ammortizzatori.

Partiamo dall’ultima di queste condizioni, e guardiamo più da vicino cosa i governanti hanno chiesto in cambio ai beneficiari di questi sussidi negli ultimi decenni. Dagli anni ’80 in poi il discorso che si è affermato è più o meno questo: in un mondo del lavoro sempre più veloce la quantità e competenze della manodopera cambiano costantemente, chi lavora deve di conseguenza adattarsi a questa situazione diventando disponibile a impieghi temporanei e un continuo percorso di formazione per tentare di stare al passo con le esigenze della produzione e del mercato. La dichiarazione d’immediata disponibilità ad accettare altre offerte di lavoro o un qualche percorso formativo cui è subordinata l’erogazione di Naspi o Reddito di cittadinanza, rispondono a questo impianto teorico. Nella pratica, per caratteristiche proprie all’economia e alla macchina burocratiche nostrane, questa disponibilità, fortunatamente, rimaneva per lo più sulla carta.

Interessante come uno dei primi casi significativi in cui il cerchio di queste politiche workfaristiche sembra riuscire a chiudersi sia quello recente dei braccianti. Per colmare il vuoto lasciato dagli immigrati stagionali che non possono rientrare in Italia causa coronavirus, c’è chi chiede una qualche regolarizzazione degli immigrati presenti in Italia – non certo per un qualche afflato antirazzista ma perché ritenuti più abituati ai ritmi e alle condizioni di lavoro nei campi – e chi propone invece di inviarci i beneficiari di Naspi o reddito di cittadinanza. Accantoniamo in questa sede la questione di come l’aumento del numero di disoccupati andrà a modificare la gestione dei flussi migratori e quali saranno le conseguenti ripercussioni in termini di conflitti tra manodopera indigena e immigrata. Resta da vedere se questo rimarrà un caso isolato, legato a una contingenza extraordinaria e difficilmente preventivabile, o se invece il notevole aumento di persone senza lavoro, beneficiarie o potenzialmente tali di qualche forma di sostegno al reddito, consiglierà a padroni e governanti di trovare un modo per oliare meglio la macchina workfaristica andando così a spingere ulteriormente al ribasso le condizioni lavorative generali. Sembra in ogni caso difficile ipotizzare che quest’attività possa risolvere i problemi di un numero considerevole di disoccupati, specie quando l’imbuto dell’accesso al lavoro sarà reso ancor più stretto dal processo d’automazione cui abbiamo accennato.

Una dinamica che nel ridurre il numero necessario di braccia e cervelli aumenterà la selezione all’ingresso richiedendo competenze sempre più specialistiche a chi dovrà affiancare le macchine nella loro attività. La mera disponibilità richiesta ai beneficiari di Naspi o reddito di cittadinanza ha quindi un’indubbia funzione disciplinare. Rappresenta quell’accettazione esplicita della propria condizione che è requisito fondamentale per poter entrare, pur restandone ai margini, nel recinto dell’inclusione. L’individuo ideale che l’ideologia workfaristica vorrebbe creare ha le sembianze di un Sisifo che non ha altro orizzonte se non quello di una precarietà che – tra un impiego, una collaborazione e un lavoretto – si ripete eternamente come la propria condizione definitiva.

Con l’ulteriore infoltirsi della schiera di disoccupati, il proliferare di nuove misure di selezione nel mondo del lavoro e l’irrompere di esigenze di natura sanitaria, le politiche workfaristiche sono probabilmente destinate a intrecciarsi ed essere affiancate da altri ordini del discorso e strategie. Alla base delle nuove forme di sostegno al reddito cambierà la logica del do ut des, e non sarà più legata principalmente alla sfera lavorativa: non crediamo insomma che attualmente le autorità abbiano bisogno di far costruire torri per poi farle buttare giù come accadeva in Irlanda ai beneficiari di sussidi durante le carestie del XIX sec.

Un buon esempio della direzione verso la quale potranno essere riorientati i criteri di inclusione può essere il credito sociale cinese. Uno strumento attraverso cui lo Stato, in collaborazione con la piattaforma di e-commerce Alibaba, valuta a chi redistribuire determinati beni sociali e in che misura farlo in base all’affidabilità mostrata dai singoli cittadini. Gli elementi alla base di questa valutazione unitamente ad un’affidabilità diciamo creditizia (pagamento di multe, mutui, bollette etc.) si legano ai più variegati aspetti della vita quotidiana: dall’attenzione nella raccolta differenziata, al tempo passato davanti a dei videogiochi, alle caratteristiche dei propri profili social (con particolare attenzione a possibili commenti sull’operato delle istituzioni naturalmente). A rielaborare questa mole di dati per stabilire il grado di inclusione degli uomini e donne monitorati sono degli algoritmi. È di questi giorni la notizia che anche la mobilità, la possibilità di potersi spostare o viaggiare in tempi di epidemia, dovrebbe rientrare nel paniere di beni da redistribuire in base a queste valutazioni. Consapevoli delle differenze sotto vari punti di vista tra l’Italia, e in generale l’occidente, e la Cina, con questo esempio non vogliamo certo dire che lo strumento del credito sociale verrà mutuato in toto e applicato anche a queste latitudini per delineare i contorni dell’inclusione sociale. Sono diversi però i segnali di come anche qui si stiano riconfigurando in maniera simile il concetto di cittadinanza e parallelamente di nemico: dai criteri sempre più stringenti per poter lavorare in quello che è il comparto pubblico, a una retorica sempre più bellica utilizzata da uomini delle istituzioni per descrivere comportamenti illegali, cui corrisponde un attività legislativa volta a ampliare sempre più la sfera dell’illegalità e estendere l’ombra del carcere ben oltre le mura dei penitenziari con l’aumento di misure limitative della libertà oltre a quelle strettamente custodiali, fino ad arrivare alla recente decisione di negare i buoni spesa a chi è ritenuto colpevole di determinati reati (ad esempio l’associazione a delinquere).

Introiettare una mentalità da Sisifo non è più sufficiente: della società salariale e della coesione sociale che quel mondo riusciva in qualche modo a garantire non resta granché. Con il ridursi del perimetro dell’inclusione sociale i criteri di selezione sempre più stringenti tenderanno a concentrarsi sulla vita quotidiana, nelle sue molteplici manifestazioni.

L’epidemia in corso ci ha catapultato in una situazione che ci sembra renda quanto mai chiare le dinamiche e i criteri relativamente nuovi di selezione che si stanno affermando. Se da un punto di vista strettamente sanitario l’intensità dell’emergenza è certamente proporzionale, come un po’ tutti riconoscono, alla riduzione delle capacità del sistema sanitario nel suo complesso, la speranza che quest’evidenza possa da sola far invertire rotta alle politiche statali in materia è con ogni probabilità destinata a rimanere tale.

Per quanto la natura contagiosa di quest’emergenza sembra possedere una certa capacità di convincimento in questo senso, visto che a livello economico non ci si possono permettere altri lockdown di queste proporzioni e durate, le strategie che verranno adottate ci sembra vadano o almeno proveranno ad andare in altre direzioni, specie in prospettiva. E ruoteranno attorno alla possibilità di permettere a chi ci governa di adottare meccanismi di selezione di chi sarà sacrificabile, in maniera quanto più indolore per il resto della popolazione e soprattutto per le esigenze del Capitale. Meccanismi che andranno a braccetto con i tanto sbandierati test sierologici che affibbiando patenti di immunità di durata e gradi ancora dubbi – veri e propri passaporti da pandemia – , contribuiranno a tracciare una linea d’inclusione su basi genetiche di cui è difficile prevedere gli esiti.

Un criterio di sacrificabilità già adottata del resto, in maniera certo molto raffazzonata per l’impreparazione generale, rispetto a strutture chiuse come le carceri, i Cpr o le Rsa. Se per i primi due la selezione dei sacrificabili è stata operata scegliendo scientemente di far ammalare e nel caso lasciar morire chi si trovava ristretto, guardie comprese, senza adottare strategie alternative per l’importanza strategica e simbolica della carcerazione; nel caso delle Rsa gli anziani e gli operatori sono stati abbandonati al loro destino, dopo che queste strutture sono state riempite di positivi provenienti dagli ospedali, man mano che la coperta si faceva sempre più corta e si è scelto quali porzioni di mondo si potevano lasciar scoperte.

Per affinare questi meccanismi di selezione, oltre a misure e dispositivi materiali efficaci riguardo la necessità di isolare e limitare i movimenti di pezzi della popolazione, sarà necessario costruire un discorso in grado di giustificare e rendere quanto più pacifiche le decisioni adottate. E il discorso neoliberale sulla colpevolizzazione dei poveri, funzionale alle politiche workfaristiche, non sembra del tutto adeguato e con ogni probabilità dovrà essere ricalibrato. A livello di digeribilità sociale un conto è limitare l’accesso a determinati beni e servizi arrivando a causare la morte di chi ne è escluso, come è stato fatto in passato con i tagli alla sanità, un conto invece è isolare e lasciar morire deliberatamente, a causa di un male che per di più minaccia contemporaneamente tutti.

Questo non vuol dire che il taglio delle prestazioni sanitarie smetterà di presentare il suo conto, a cominciare dal collo di bottiglia che si sta già incominciando a intravedere nelle regioni in cui l’emergenza Covid19 ha allentato un po’ la pressione. E in cui l’aver trascurato a livello di cura e diagnosi buona parte delle altre patologie minaccia di produrre conseguenze molto gravi, accentuando le differenze di classe tra chi potrà accedere alle corsie della sanità privata. Emblematico il dibattito che in questi giorni contrappone governo e governatori regionali sul tema sanità: continuare a lasciarla in mano alle Regioni o riportarla sotto l’ala del governo centrale? Un bivio che da una parte conduce a una sanità pubblica uniformemente inadeguata a livello di risorse e dall’altra a un modello federalista in cui alla polarizzazione sociale continuerà ad aggiungersi quella geografica, con Regioni che per la loro fiscalità possono garantire uno standard di servizi un po’ più elevato di altre. Come nel caso del Veneto che si è fatto garante con gli istituti di credito, per l’anticipazione delle casse integrazioni in deroga che a livello nazionale tardano ad arrivare.

Abbandoniamo ora l’ambito sanitario per soffermarci brevemente sul settore dei trasporti pubblici di cui avremo modo di assaggiare a breve le novità. Limitandoci all’ambito urbano, l’unica certezza è che autobus, tram e linee della metro dovranno ridurre notevolmente il numero di viaggiatori per garantire una certa distanza di sicurezza e che questo provocherà enormi problemi man mano che aumenterà il numero di viaggiatori. Che la controparte brancoli nel buio rispetto a come farvi fronte è evidente e il ventaglio di soluzioni di cui si sta discutendo risponde piuttosto all’esigenza di ottimizzare il servizio e riempire per quel che si può ogni singola corsa. Una delle proposte è quella di rendere obbligatoria la prenotazione dei posti e filtrare poi con l’installazione di tornelli chi ha diritto a viaggiare. Elaborando poi i dati di queste prenotazioni, oltre a organizzare le singole corse sarà possibile anche riorganizzare nel suo complesso questa nuova mobilità urbana. Le linee da implementare per soddisfare il maggior numero di prenotazioni e quelle invece da ridurre ulteriormente, tagliando fuori delle zone o almeno degli isolati in cui si è tradizionalmente restii a pagare una corsa, figuriamoci a prenotarla. Una dinamica del resto già in atto, a Torino come in altre città, con la raccolta dati sui viaggiatori paganti garantita dai biglietti bippabili. Facile prevedere poi che le aziende di trasporto, già in rosso da tempo, tenteranno di mettere una toppa alla diminuzione di entrate aumentando prima o poi il prezzo dei biglietti. E già da più parti si ventila l’ipotesi di introdurre “leve tariffarie”, ossia tariffe diverse a seconda degli orari, così da ridurre l’affollamento nelle ore di punta con degli sconti su quelle meno frequentate. E chissà che anche al Ministro dei trasporti nostrano non venga in mente di dichiarare, come il suo collega cileno alla vigilia della rivolta di ottobre, che «chi vuole pagare meno può sempre svegliarsi qualche ora prima, per andare a lavorare». Tra aumento dei prezzi, riduzione strutturale dei posti e selezione di chi si potrà spostare è lecito attendersi che il trasporto pubblico sarà un focolaio di forti tensioni sociali.

Ci sembra superfluo, alla luce del quadro che abbiamo tentato di tratteggiare, soffermarci sulla sensatezza del dibattito tornato prepotentemente alla ribalta in questi giorni su un reddito universale. Indipendentemente dalle varie declinazioni di questa forma di sostegno al reddito – che arriva fino ad esser dipinto come un tassello fondamentale di quel “comunismo di lusso completamente automatizzato” sbandierato in maniera imbarazzante da qualche accellerazionista di sinistra –, l’ipotesi che le autorità assicurino la possibilità di vivere o sopravvivere gratuitamente e indistintamente va nella direzione opposta a quella verso cui ci si era da tempo incamminati e verso cui si sta ora correndo.

Il termine universale, perlomeno nella sua accezione positiva, non solo non è contemplato nelle strategie politiche che daranno forma a questo mondo, ma è destinato a scomparire anche dagli stessi vocabolari cui attinge la retorica politica.

Dietro l’angolo pt.4 – Taglio netto