DIETRO L’ANGOLO PT.10 – UN’ALTRA VITA

Accanto a un generale e indiscutibile impoverimento legato all’emergenza pandemica, di cui ancora non si vedono chiaramente le conseguenze, con ogni probabilità l’affaire Covid 19 avrà acuito riflessioni critiche anche in chi, pur non essendo tra i maggiormente colpiti a livello economico, avverte come sempre più soffocante e insopportabile l’organizzazione della vita e dell’ambiente ad opera del capitalismo. In toto o perlomeno alcuni dei suoi tratti.

Brusche interruzioni del tran tran quotidiano del resto possono lasciar più spazio di quanto non vi sia di solito nelle vite di tutti alla messa in discussione, anche profonda, anche di ampio respiro, delle condizioni di esistenza, soprattutto quando se ne percepisce l’insensatezza e l’iniquità. E le caratteristiche stesse di questa pandemia, e della sua gestione, non hanno certo lesinato input a chi abbia avuto la capacità e volontà di coglierli. I segnali di quanto lo sviluppo capitalistico imponga all’ambiente e agli esseri viventi, un grado di sottomissione sempre più profondo e rigido ai dettami che regolano l’attuale organizzazione sociale, affioravano già da tempo. Il merito, se così si può dire, dell’attuale epidemia è quello di averli portati a galla con maggior abbondanza e velocità. E sarà interessante vedere quali forme di proteste e conflitti e quali discorsi sapranno emergere al di fuori della stretta inesorabile della logica capitalista, e in quali ambiti. Ad esempio immaginiamo che, nelle scuole, la teledidattica dovrebbe comunque continuare anche nel prossimo anno scolastico, anche se non se ne conosce ancora l’intensità ed ampiezza. Come reagiranno genitori, studenti e personale docente a un modello d’istruzione che nell’acuire ulteriormente le differenze sociali favorisce un’atomizzazione sociale 4.0? Una scuola a misura di pandemia potrebbe avere chissà tutte le carte in regola per diventare uno dei rivoli in grado di dar più precisione e sostanza ad un’opposizione contro l’installazione della rete 5G. Non solo per le ineludibili ragioni sanitarie ma anche contro il mondo cui quest’infrastruttura contribuirà a dar forma con la polarizzazione sempre più feroce tra inclusi ed esclusi e in cui le vite di tutti saranno sempre più mediate e controllate nel loro relazionarsi con l’ambiente e con gli altri, da artifizi tecnologici che rischiano di stravolgerne profondamente il senso e significato.

E in ambito sanitario cosa avrà lasciato in chi vi lavora l’emergenza delle settimane passate? Il decorso della pandemia ha mostrato chiaramente non solo l’evidente inadeguatezza della sanità pubblica ma anche i limiti strutturali di un certo modello centralizzato che è stato tra i principali fattori di moltiplicazione dei contagi. Un modello che, come hanno rilevato molti medici e infermieri a caldo, in piena emergenza epidemica, ha dimostrato con una certa sfacciataggine di esser pronto a sacrificare una parte di popolazione, non solo nelle carceri e nelle Rsa, ma anche tra chi lavora negli ospedali, mandandoli allo sbaraglio con regole e strumenti di protezione ugualmente raffazzonate rispetto alle esigenze che la situazione richiedeva.

Quale spazio troveranno questo tipo di critiche all’interno delle prevedibili agitazioni su rivendicazioni strettamente lavorative – aumento di stipendi e del personale – e fin dove riusciranno a spingersi nella messa in discussione, tanto teorica quanto pratica, di un certo modello sanitario, del rapporto lavoratori/utenti e, a salire, della funzione che la medicina svolge all’interno dell’attuale società? Questioni particolarmente importanti specie se si riusciranno a trovare punti di incontro tra esigenze dei lavoratori e dei cosiddetti utenti della sanità. E ancora quali ragionamenti si saranno sgretolati e quali invece si staranno sedimentando nei tanti, soprattutto giovani, che negli scorsi mesi avevano riempito le piazze un po’ in ogni dove contro le conseguenze del riscaldamento climatico? Uno dei dati più inconfutabili emersi durante l’emergenza Covid è che per fermare o perlomeno ostacolare la devastazione ambientale è necessario, né più né meno, fermare la produzione capitalista. A dircelo chiaramente erano tanto le immagini satellitari sui livelli d’emissione di Co2, abbassatisi come non mai durante il lockdown, sopra la Cina come un po’ in tutto il globo, quanto l’aria fattasi improvvisamente più respirabile lungo le strade delle città in cui viviamo; per non parlare delle tante immagini di animali e vegetazione che riconquistavano pian piano terreno man mano che la macchina capitalista rallentava i suoi giri. Dati di cristallina evidenza: vedremo se e come stravolgeranno i discorsi e le pratiche alquanto generiche e aleatorie che hanno finora contraddistinto buona parte del movimento contro i cambiamenti climatici. Tanto più che altrettanto evidenti sono i segnali di ciò che accadrà con l’intensificarsi di determinati problemi ambientali: le misure di lockdown, la crescente militarizzazione e l’acuirsi delle disuguaglianze sociali di cui abbiamo avuto un breve ma significativo assaggio ci illustrano chiaramente quale futuro ci attende sotto la cappa di una ragion di Stato d’emergenza.

Quale sarà infine la spinta che quest’emergenza saprà dare alla messa in discussione dell’agricoltura come dell’allevamento intensivi, delle principali fonti attraverso cui gran parte dell’umanità si riproduce attualmente? E quali progetti di autorganizzazione e autogestione della produzione alimentare sapranno trarre nuova linfa dai segnali allarmanti, ultimi di una lunga serie, lanciatici da quest’epidemia? Non limitandosi magari, non certo per sminuirne l’importanza, ad una risposta principalmente sanitaria ed ecologica alla produzione industriale ma riconfigurando ipotesi in grado di rimettere in discussione le strutture fondanti ­– tra tutte proprietà e lavoro salariato – di quest’organizzazione sociale e trarre così forza e al contempo darne ai conflitti che si svilupperanno nelle città. In un rapporto città/campagna – se così quest’ultima si può ancora definire – da sempre alla base delle ipotesi rivoluzionarie che meriterebbe di essere ripensato in un mondo come quello in cui ci troviamo.

Non siamo così ingenui, o abbastanza ottimisti, per pensare che il carattere extraordinario dell’emergenza in cui siamo stati catapultati produca di per sé il risveglio di un certo spirito critico e di una certa conflittualità. La forza di una certa ragion di Stato, in grado di presentarsi come l’unica entità in grado di fornire soluzioni di un qualche tipo, per quanto parziali e limitate, è innegabile, tanto più in una fase in cui lo Stato è tornato a mostrare il carattere su cui fonda la propria sovranità: quello di poter interrompere e sospendere la normalità. Di certo la capacità attrattiva di questa forza, che emerga in esplicito consenso o anche solo in senso di impotenza, sarà inversamente proporzionale allo svilupparsi di esperienze e conseguenti riflessioni critiche in grado di aprire qualche breccia e fornire suggerimenti e suggestioni altre. Altre modalità per far fronte ai problemi materiali, altre logiche su cui regolare le nostre vite e le relazioni tra esseri umani.

Un’alterità che con ogni probabilità tenderà a manifestarsi con un ventaglio di pratiche molto differenti tra loro che potranno andare – per limitarsi ad alcune tra quelle condivisibili – da scelte di rifiuto, a pratiche di nonviolenza attiva, a pratiche di solidarietà materiale basilare, al sabotaggio, allo scontro con la polizia e al saccheggio. E tenderà ad esplicitarsi con riflessioni anch’esse molto differenti, confuse e a volte tra loro contraddittorie, portatrici come saranno sia a livello discorsivo che pratico di interessi e visioni del mondo specifici e parziali. Riguardo a questa contradditorietà sarà necessario non farsi stupire dalle parole d’ordine e dall’habitus informe con cui certi conflitti si presenteranno: come è probabile che non poche rivendicazioni saranno all’apparenza prive di mordente sovversivo e avranno obiettivi per lo più riformisti, è altrettanto plausibile il moltiplicarsi di frizioni sociali di larga scala che saranno il frutto della differenziazione sociale che la governance della competizione sfrenata ha imposto negli ultimi decenni. Da una parte i dispositivi come la razza, l’etica produttivista, la morale legalitaria, il decoro e la paura di perdere anche i beni primari, dall’altra la mancanza di uno status formale (dai documenti identificativi ai contratti d’affitto e di lavoro), di punti di riferimento relazionali e di un radicamento ritenuto appagante sono elementi che tra gli sfruttati assumono spesso questa polarizzazione ma che si combinano nelle crisi in formazioni inedite e di difficile decifrazione per ricavarne una lotta puntuale contro i responsabili della miseria. Val la pena dunque ribadire che ridursi a sottolineare questi limiti e contraddittorietà non sembra sia il modo migliore per approcciarvisi e capire cosa bolle in pentola. Ben più interessante tentar di coglierne gli aspetti di rottura non solo rispetto a quel senso di inesorabilità di cui è ammantato il capitalismo ma anche alla conseguente idea che sia possibile, quando non l’unica via praticabile, apportarvi dei cambiamenti sostanziali soltanto collaborando con autorità politiche e padronato. Una logica di collaborazione che potrebbe avere una certa diffusione, sempre che la controparte sia interessata e disponibile a promuoverla, laddove tenderanno ad acuirsi i problemi legati alla sopravvivenza materiale. La vecchia ricetta dell’assistenza, insomma, che possiede fondamenta e appeal tenuti ben fermi dalla sua decennale storia all’interno delle democrazie avanzate alla luce della sua sostanziale inoffensività; di più, che sembra fondare la propria ineludibilità di fronte a tutte quelle privazioni, anche estreme, e a quelle necessità materiali generate dallorganizzazione sociale all’interno di cui nasce.

Del resto come attendersi qualcosa di differente? I decenni di relativa pace sociale, ameno a queste latitudini, hanno scavato profonde e paludose trincee da cui non è certo facile uscire materialmente o anche solo spingersi con lo sguardo un po’ più in là di quanto lasci intravedere il capitalismo con il suo inesorabile procedere. Molto angusti sono i passaggi per chi prova a dare corpo ad un radicale sovvertimento delle attuali condizioni di vita, crinali stretti da una parte dalla logica dellagire per non star a guardare, dall’altra dalla logica di una distruzione col respiro corto. Da una parte quindi un attivismo che pur di arginare l’apocalisse in atto non va per il sottile, che alla bisogna collabora con agenti interni al sistema sociale che vorrebbe emendare, secondo logiche allineate e funzionali al mantenimento dello status quo. E trascina, più o meno volontariamente, in dinamiche di recupero o totale affossamento tutte quelle spinte di rottura da cui prende abbrivio. Dall’altra invece quella risposta alle difficoltà teoriche e pratiche proprie del conflitto sociale che, al netto dalla loro sacrosanta necessità, misura gli interventi rivoluzionari solo sulla base del volume offensivo; su tutti, il cosiddetto nichilismo anarchico, sviluppato ad esempio in Grecia nell’immediato indomani dei cicli di rivolte tra il 2008 e il 2012.

Ecco perché anche conflitti di combattività bassa non sono contesti da guardare storcendo il naso. Le teorie anarchiche classiche evocano il momento dell’insurrezione come un momento di rottura che rende insensato il tempo canonico e impone in tal modo una nuova vita; non diversamente, nell’incommensurabile piccola lotta che potrebbe prendere piede in un reparto di ospedale o in un magazzino della logistica potrebbe aprirsi la piccola breccia dell’interruzione, della possibilità. Non si va certo scrivendo che ogni situazione simile apre orizzonti di portata epica, ma in questi decenni di realismo fatalista e rassegnato, il mettersi di traverso al lavoro o per pretendere un servizio, fare ciò organizzandosi con chi condivide quell’oppressione o quel problema, può scalfire il moloch che abitiamoI momenti di autonomia dalla governamentalità del capitalismo contemporaneo non nascono certo sotto ai cavoli insieme ai bambini né principalmente dalle astrazioni teoriche di alcuni rivoluzionari, ma sono il frutto di esperienze conflittuali di chi si mette faccia a faccia e ragiona su come ostacolare i suoi sfruttatori e migliorare le proprie condizioni di vita e di libertà. Guardare con attenzione a certe situazioni conflittuali, laddove si evince un certo spontaneismo lontano dalle proposte logore dei politicanti, non significa credere che gradualmente possano espandersi fino alla rivoluzione, ma è per la necessità di riprendere in mano anche i più piccoli spazi di vita e libertà per organizzarsi, dando per ormai assodato che la vita dell’umano sia ormai così dipendente dall’organizzazione capitalistica e dalla sua risoluzione interna dei conflitti, che non ci si può permettere di non dare una giusta occhiata ai rapporti sociali che entrano sul terreno dello scontro.

Non è certo un caso che la forza dell’Idea emancipatrice, che nei secoli o anche solo alcuni decenni fa, ha spinto tanti rivoluzionari e sfruttati a battersi per la loro libertà e per quella delle generazioni che sarebbero venute dopo, da tempo risulta quantomeno vaga e affievolita. Ormai da tempo chi si ostina ad avere come obiettivo un mondo di liberi e uguali non ha più ha che fare soltanto con un problema di espropriazione e distribuzione – la terra ai contadini e le fabbriche agli operai e poi a ciascuno secondo i propri desideri e da ciascuno secondo le sue possibilità, una formula quanto mai difficile da realizzare ieri come oggigiorno, dato che ci son pur sempre padroni e governanti di mezzo, ma perlomeno semplice da immaginare e verso cui dunque tendere, –. Ormai da lunghi anni la complessità dell’organizzazione sociale, l’opera di devastazione ambientale e di colonizzazione della vita quotidiana da parte del capitalismo ha posto problemi che non lasciano molto spazio a utopie così semplici e lineari, almeno da ipotizzare.

La vita altra cui accennavamo irrompe nel migliore dei casi come un’ombra, riuscendo con le sue chiare linee di confine a tracciare nette demarcazioni tra l’attuale organizzazione sociale, che appare nitida e immediatamente visibile, e ciò che invece sta al di là, e appare oscuro e indistinto. Un’ombra che si distingue quindi soprattutto in relazione al resto, un’alterità che si connota prevalentemente in negativo, rispetto a ciò che non è e non vuole essere. Non potrà quindi essere la mancanza di una visione complessiva, lineare e ordinata di come dovrà andare il mondo il criterio principale attraverso cui valutare la radicalità delle pratiche e, soprattutto dei discorsi, che riusciranno eventualmente a diffondersi a livello sociale. Come detto nessuno, compresi i rivoluzionari, ci sembrano in grado di elaborare utopie positive e lineari come quelle che hanno rischiarato altre epoche di oppressione e ingiustizie.

Se i contorni di un mondo di liberi e uguali sapranno delinearsi oggigiorno, sarà con ogni probabilità per l’intrecciarsi di una profonda e dolorosa opera di distruzione, tanto materiale quanto culturale, di ciò che il capitalismo ha con tanta cura e ferocia costruito nel tempo, e per i tanti tentativi, più o meno significativi, di vivere e abitare negli spazi che quest’attività insurrezionale permetterà di sottrarre al controllo dello Stato. Opera di distruzione a attività creativa che saranno tanto più precise e possibili quanto più nasceranno conflitti all’interno della società, nei quartieri, nel mondo del lavoro, della sanità etc. che, pur senza mettere in discussione il capitalismo nel suo complesso, saranno però in grado di rompere l’isolamento feroce e il senso di impotenza che attanaglia un po’ tutti e di rendere più precise le conoscenze e le riflessioni di come funzionano determinati pezzi di mondo e di come e se è possibile farli funzionare altrimenti. Ben difficilmente riflessioni e percorsi critici che nascono da problemi specifici potranno intrecciarsi tra loro a priori, a tavolino, vista la debolezza del collante ideologico che visioni del mondo altre hanno rispetto al passato. Se e quando percorsi di lotta differenti riusciranno realmente a intrecciarsi o coordinarsi sarà molto probabilmente perché il livello del conflitto che saranno stati in grado di raggiungere potrà stimolarli, o costringerli tout court, a perseguire delle ipotesi e avere una visione critica più complessiva. Altre ipotesi di coordinamento, o ricomposizione che dir si voglia, è facile diano vita invece a pachidermici e formali carrozzoni, come abbiamo avuto modo di vedere in questi anni, frutto del tentativo operato dalle componenti più militanti di mettere assieme, a tavolino, lotte differenti riuscendo a intrecciare per lo più qualche parola d’ordine e slogan da scrivere sugli striscioni di apertura di qualche manifestazione.

Pare necessario quanto mai prima dare una qualche forma a quel concetto di autonomia che affinché sia tale deve riuscire a tenere intrecciate la sfera della libertà e quella della necessità, come dolorosamente ci avverte l’epidemia attuale. A meno di non sposare o accettare di buon grado ipotesi apocalittiche in cui saranno solo in pochi a sopravvivere.

Per dire altrimenti occorre trovare il modo di riaffermare, in un’epoca che sta cancellando questo termine da ogni vocabolario, a parte quello peloso di alcuni politicanti, la centralità del concetto di universalità, contro ogni logica di selezione ed esclusione. E per farlo ci sarà bisogno di una spinta sovversiva talmente forte da far incontrare realtà e utopia.

Torino aprile-giugno 2020

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Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

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Lockdown, quarantene e zone rosse

Un lato oscuro. Ancora su guerra civile e insurrezione.

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