Rileggendo l’editoriale del numero 10 della rivista anarchica “i giorni e le notti” – in cui si accenna al rapporto tra la finitudine dell’esistenza umana e il sogno dell’immortalità – abbiamo trovato degli spunti non inutili, forse, per questi tempi di confinamento e di percezione di qualcosa che incombe. Quanto il sentimento della paura venga alimentato e sfruttato dallo Stato e dai tecnocrati per accelerare la digitalizzazione della società e la macchinizzazione dei corpi, non sfugge ormai a nessuno. E il sogno rivoluzionario di affrontare umanamente i limiti della nostra condizione (sì, possiamo ammalarci, sì, prima o poi moriamo), in che stato di salute è? Ci sembra che nelle analisi circolate finora – e ne abbiamo lette di buone e anche di ottime – manchi proprio il lato soggettivo di quello che stiamo vivendo. Gli scenari che si aprono, gli interventi sovversivi possibili… – tutto questo è necessario quanto urgente. Ma noi, ciascuno di noi, di fronte al rischio di ammalarci e di far ammalare, alla vista delle strade deserte, siamo rimasti esattamente gli stessi di qualche mese fa? Non abbiamo riscontrato, anche fra compagni, un certo disorientamento? E dal lato esistenziale si torna a quello pratico-operativo. Non è detto che in futuro – come stiamo sperimentando anche in queste settimane – potremmo fare affidamento sulla dimensione collettiva (gli incontri, le assemblee, lo scendere in piazza insieme e in modo annunciato). Saper cogliere le occasioni, certo. Approfondire le affinità e affinare la capacità di agire anche in pochi, senz’altro. Ma forse questo tempo ci sta dicendo altro. E a poco valgono le pose con noi stessi e con gli altri. Per cosa siamo disposti a vivere (e a morire)?
Di seguito il testo dell’editoriale
Dedichiamo gran parte di questo numero della rivista all’internazionalismo.
Non esiste oggi questione di una qualche rilevanza che non abbia una dimensione internazionale. Dai salari alla logistica, dalla produzione alle spese militari, dall’estrazione di materie prime agli oggetti di uso quotidiano, dai prezzi delle merci alla repressione, dagli affitti alle pensioni, dal ruolo dei territori alle emigrazioni, dall’urbanistica ai cambiamenti climatici, internazionali sono le cause e gli effetti, i processi e le dinamiche, le lotte e i rapporti di forza.
Di conseguenza non è mai stato tanto necessario avere una prospettiva internazionalista, come sfruttati in generale e come anarchici nello specifico.
Come cerchiamo di far emergere dagli articoli che pubblichiamo, esiste un rapporto sempre più stretto tra lotta di classe e tecnologia, tra Internet ed estrattivismo, tra il mondo virtuale e i suoi rovesci materiali su scala planetaria. I mercati capitalistici oggi in espansione – pensiamo all’agribusiness, alla bio-medicina, alla riproduzione artificiale e alla sperimentazione di nuovi farmaci – seguono precise linee di classe, di genere e di “razza”. Dietro c’è il saccheggio neo-coloniale. Dietro c’è la guerra.
Come dimostrano i casi incrociati dell’attacco da parte dell’esercito turco alle comunità curde e lo stato di emergenza decretato in Cile contro la rivolta seguìta all’aumento dei prezzi dei trasporti, la ristrutturazione economica oggi si impone con i militari e la guerra si rovescia all’interno contro il conflitto sociale. Dietro le mire assassine di Erdogan c’è il capitale internazionale. Più il “Sultano” attacca l’organizzazione dei lavoratori, più gli imprenditori stranieri investono in Turchia; più devasta il territorio, più le banche lo finanziano. E intanto in Siria – dove alleanze e “tradimenti” sono funzionali alla spartizione geopolitica delle zone di influenza – si sperimentano nuove armi, per la gioia dei produttori di mezzo mondo. Dietro i caroselli dei militari in Cile, dietro gli arresti di massa, dietro gli stupri e il fuoco aperto persino sui ragazzini da parte dei carabineros, c’è il capitale nordamericano.
Ma non siamo di fronte soltanto a un gigantesco Risiko fra le grandi potenze. Sullo sfondo, ci sono le lotte, le resistenze, le rivolte. Quella in corso in Cile non ha precedenti, per intensità, negli ultimi decenni in quel Paese: si è sedimentata sciopero dopo sciopero, barricata dopo barricata, molotov dopo molotov, ed ha trovato nei compagni anarchici in carcere una fonte di ispirazione e di incoraggiamento. E mentre i degni successori del neoliberista Pinochet schierano l’esercito, che non riesce a domare le fiamme, continua la rivolta sociale in Ecuador. Ben più complesso – ma necessario – il giudizio sulla guerriglia curda. Se essa è stretta da tempo nelle stesse contraddizioni che hanno segnato la Resistenza al nazi-fascismo in Italia – cercare di essere una forza autonoma dentro uno scontro inter-imperialistico –, la logica della guerra e della diplomazia ne ha trasformato profondamente i lineamenti. Se non ci siamo mai entusiasmati per la costituzione formale del Rojava – con la sua difesa della proprietà privata e i suoi governanti (tali addirittura per volontà divina!) –, abbiamo anche còlto la forza della sperimentazione sociale in corso in diversi villaggi. (Anche se da lì ai paragoni con la Spagna del ’36…). Ma quando dei guerriglieri si prestano a fare da fanteria per l’esercito statunitense (partecipando a operazioni militari ben lontane dal Kurdistan); a gestire campi profughi con migliaia di internati; a farsi carcerieri non solo di miliziani dell’Isis, ma anche dei loro familiari, continuare ad alimentare a livello internazionale il mito di un Rojava libertario è un tragico errore. Un errore figlio del taglio che si è voluto dare da più parti alla solidarietà con la resistenza curda. Averne fatto un avamposto eroico contro lo Stato Islamico (il Male assoluto contro cui ogni fronte comune è giustificato), ha allontanato la solidarietà dall’analisi materiale delle forze capitaliste in campo e allo stesso tempo da tanti proletari arabi, che conoscono per esperienza diretta la politica e la retorica democratiche contro il “fondamentalismo islamico”. Non sono certo, queste, buone ragioni per lasciare lo Stato turco massacrare le comunità curde. E non c’è bisogno che ci si ricordi ogni volta che noi possiamo formulare i nostri giudizi critici comodamente lontani dalle bombe e dai massacri, e che non ci siamo mai trovati ad affrontare una situazione così drammatica. Lo sappiamo. Ma non è certo meno comodo riempirsi la bocca di Kurdistan e poi non danneggiare concretamente gli interessi dello Stato e del capitale turchi. Senza rinunciare mai allo spirito critico, c’è un terreno in cui non si sbaglia mai: quello internazionalista dell’attacco ai padroni di casa nostra, dell’azione contro chi organizza da qui ciò che succede laggiù (basta pensare a Leonardo-Finmeccanica e a Unicredit, tanto per citare i responsabili più diretti).
Internazionalismo è anche conoscere e sostenere le lotte che gli anarchici portano avanti in Paesi lontani dal nostro, dove condizioni di vita, conflitto sociale e forme di repressione non si possono appiattire sul nostro spazio-tempo. Basta leggere la traduzione che pubblichiamo di un testo scritto dai compagni russi sul significato del gesto di Michail Žlobickij, l’anarchico diciassettenne che si è fatto esplodere in una sede dei servizi segreti di Putin. A colpire profondamente non sono solo la brutalità della repressione e il coraggio di quel giovane compagno, ma il linguaggio impiegato dagli anarchici russi. Concetti come sacrificio, eroismo e immortalità sembrano provenire da un’altra epoca, quella dei grandi romanzieri dell’Ottocento o dei proclami anarchici dei primi del Novecento. Concetti che stonano con il nostro materialismo della gioia. Eppure fanno riflettere. Non c’è dubbio che la lotta anarchica richieda grandi sforzi, lontana com’è tanto dalla mistica religiosa quanto dalle sirene del comfort tecnologico. E non c’è dubbio che tanta retorica del piacere – non a caso assorbita dal linguaggio della merce e della pubblicità – abbia contribuito ad infiacchire la disponibilità all’impegno e al rischio. Ma è proprio la falsa dialettica fra le litanie della militanza come sacrificio – invero oggi sempre più rare e fiacche – e le cattive poesie della soddisfazione immediata, che la passione rivoluzionaria dovrebbe far saltare. Eppure. Come diceva il materialista Leopardi, la vita non può fare a meno di illusioni necessarie. La ragione che irride i grandi sogni contribuisce a rimpicciolire gli animi. Un popolo di filosofi, tagliava netto Leopardi, sarebbe un popolo di vigliacchi. Pensiamo agli esordi del socialismo rivoluzionario. A infiammare la gioventù ribelle sono stati i regicidi e le barricate della Comune, ma anche il desiderio di “immortalità” da conquistare con la rivolta. A lungo il linguaggio dell’emancipazione sociale ha attinto al messianismo religioso (pensiamo alla giustizia come redenzione immediata, che prorompe con forza da I tempi sono maturi di un Cafiero, o al titolo Fede! dato a un giornale anarchico). Il sogno della rivoluzione sociale non è stato solo un orizzonte che rovesciava la promessa religiosa mantenendone l’intensità – il paradiso da conquistare sulla Terra –, ma anche la tensione individuale nel corpo a corpo con la finitudine della vita. Di fronte al fatto piuttosto seccante che si deve morire, il materialismo rivoluzionario non ha proposto la gelosa conservazione della vita, ma un sovrappiù di rischio, di gioia, di bontà, di coraggio che proietta nel futuro la memoria del proprio passaggio sulla Terra. Non la fama, che è legata ai corsi fortuiti e meschini del successo, ma la gloria, che è legata alla virtù, cioè alla giustezza delle scelte, indipendentemente dai risultati ottenuti. Concetti antichi, non c’è dubbio. Eppure a quel sogno di immortalità – illusione necessaria, ancorché non confessata – risponde oggi la potenza che ha quasi soppiantato la religione, cioè la tecnologia. Le tre maledizioni che nel racconto religioso seguono la Caduta, cioè dover morire, partorire con dolore e guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, sono proprio le condizioni che l’apparato tecnologico promette di abolire. La riproduzione artificiale dell’umano, la robotizzazione della produzione e la crioconservazione sono i perni dell’utopia totalitaria, il sogno macchinico di superare la finitudine umana. In attesa di eternizzare i corpi, l’intelligenza artificiale promette di conservare nella memoria dei computer i segni di una vita intera. Che tutto ciò non possa prescindere dal saccheggio del pianeta e dalla fatica di qualche miliardo di iloti non intacca, purtroppo, la forza della religione tecnologica. Né deve sorprendere che, a rovescio, per milioni di poveri il riscatto assuma le forme del radicalismo religioso, che è insieme arcaico e perfettamente contemporaneo. O meglio, che fa a brandelli il discorso progressista della contemporaneità, perché rivela che il mondo è attraversato da avvenimenti, tendenze, aspirazioni tra loro non-contemporanei, come se l’epoca attuale racchiudesse numerose epoche co-presenti. Il che non vale solo per il dominio, ma anche per le lotte. Siamo, qui in Italia, contemporanei delle lotte in Cile, in Ecuador o in Libano? Siamo contemporanei della guerriglia curda? Sì, nel senso che le date del calendario sono le stesse. No, nel senso che il nostro spazio-tempo è altro, e così i problemi, i sentimenti, l’urgenza che ci pungola. Altrimenti saremmo di un’indifferenza disumana e potremmo definire la nostra disponibilità al rischio comune come micragnosa. Il tempo – anche quello della percezione e del sentimento, quindi della solidarietà – non è affatto lineare. Essere contemporanei delle rivolte in giro per il mondo non è un dato; è una scelta, uno slancio, una tensione. Una tensione letteralmente utopica e ucronica.
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«Il rischio è un bisogno essenziale dell’anima», scriveva Simone Weil. Da questo punto di vista, la democrazia – che contiene al suo interno le tendenze fasciste – è penetrata negli animi. Svuotandoli di ogni ideale, la cui ispirazione sola rende «a poco a poco impossibile almeno una parte delle bassezze che costituiscono l’aria del tempo che respiriamo». Qualcosa per cui valga la pena vivere, e morire: ecco cosa manca drammaticamente. Mentre una parte crescente dei dannati della Terra vede nel martirio portatore di morte una promessa di riscatto, si fa sempre più suadente e concreta la cattiva immortalità delle macchine, il prolungamento infinito dell’effimero, l’immensità dell’insignificante. Condannati a questa eternità (la domanda di grazia, respinta – chioserebbe Ennio Flaiano). Che forza esprime, di fronte a queste contrapposte narcosi del sentimento di finitudine, il sogno rivoluzionario? Per rispondere, dobbiamo attraversare lo specchio.
A proposito di tempo. Le ultime sentenze contro gli anarchici hanno proiettato nel nostro orizzonte l’ombra di lunghi anni di carcere. Un tempo che fa male. Un tempo che non si scalfisce con gesti effimeri né con fiammate di estasi. Bensì con un ideale, con la tenacia, con una sentita, poco retorica e rinnovata disponibilità al rischio.
La virtualità avanza, le vie di fuga si sprecano. Come ammoniva già il saggio Eraclito, «unico e comune è il mondo per coloro che sono desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare». Stiamo entrando nella notte artificiale dell’idiozia generalizzata (laddove idíotes deriva da ídios – chiuso in se stesso). Tenersi desti richiede e ancor più richiederà un faticoso sforzo di attenzione, la facoltà umana contro cui l’intera organizzazione sociale muove la sua quotidiana guerra.
Il tempo a disposizione di ciascuno di noi è letteralmente finito, cioè limitato. Ciò che non ha limiti, viceversa, ma soltanto delle soglie, è la sua intensità. Che poi è il contenuto della vita. L’intensità non è faccenda di adrenalina, né di muscoli. È una questione etica. Nelle sue soglie si trovano, materialisticamente e fuori da pose superomistiche, nel silenzioso dialogo dell’anima con se stessa, nel confronto sincero con i propri compagni, il senso del giusto, l’eroismo, la nostra finita, umana immortalità.
«L’etica applicata alla storia è la teoria della rivoluzione, applicata allo Stato è l’anarchia» (W. Banjamin).
novembre 2019