Alternativa. Detto semplicemente: di fronte ad un virus o a qualsiasi disastro, non esiste gestione di massa che possa essere anti-autoritaria. Quali che siano le buone intenzioni di chiunque intenda occuparsi di tutti e di ciascuno, resterà un pastore che trasforma gli altri volenti o nolenti in greggi. In un rapporto anarchico in cui prevalgano la libertà, la reciprocità e l’unicità, l’auto-organizzazione generalizzata degli individui non sopporta nessuna uniformità, nessuna gestione, nessuna separazione delegata a specialisti, nessuna soluzione (ancor meno tecnica o medica) valida per tutti, e diciamolo un po’ crudelmente: nessuna efficacia quantitativa. Ciò che conta non è la certezza o la sicurezza, non è la data di una morte inevitabile da quando siamo nati, ma la qualità individuale, piena ed intera, della vita così come ognuno intende esplorarla. Di fronte al Covid-19 come ad ogni cosa, la prospettiva anarchica è quella di auto-organizzarsi in completa autonomia dalle istituzioni per prendersi cura gli uni degli altri a livello individuale e di coordinamento, e di continuare a minare le fondamenta del dominio.
Reclamare di fatto un confinamento (e domani un deconfinamento) diverso — quando non addirittura lo stesso dello Stato —, reclamare uno sfruttamento e un’istruzione po’ più o un po’ meno a distanza, ovvero sbirri più disarmati e prigioni più vuote, non significa battersi per la libertà. Significa promuovere un’autorità alternativa, una mera riconfigurazione dello stesso anziché la sua spietata distruzione. Non è altro che un miserabile realismo senza mezzi che non spinge fino in fondo il suo spaventoso ragionamento. In alto i cuori! Elencate in maniera un po’ dettagliata le aziende non essenziali che lo Stato dovrebbe ancora chiudere, secondo voi. Per parte nostra, è l’intera economia che vogliamo rovinare. Continuate a stabilire chi deve uscire immediatamente dal carcere, e di conseguenza chi deve rimanerci. Per parte nostra, lo vogliamo raso al suolo con tutti fuori. Spiegateci infine quali misure di polizia militante sarebbero previste contro tutti i refrattari a un confinamento alternativo o ad un tracciamento bio (nessuna gestione di massa senza monitoraggio, giusto?, altrimenti è l’anarchia).
Quando non ci si limita a parlare, essere favorevoli a misure di confinamento di massa, a queste o ad altre più indolori, cioè a misure di reclusione collettiva, non può che significare disciplina, controllo e amministrazione degli individui, oppressione delle loro varie possibilità di auto-organizzazione autonoma, e repressione dei refrattari. Il tutto nel nome dell’emergenza e del bene comune, ovviamente.
Altrove. Pandemia globale e accettazione sociale. Nessun Gran Confinamento nei Paesi Bassi, in Svezia e in Germania. Autodisciplina? Scienziati lunatici? Chiari interessi economici di fronte alla Cina o agli Stati Uniti che non si sono affatto fermati? Tanto meno un Gran Confinamento prolungato in altri continenti, dove la sopravvivenza nell’economia informale non è sufficientemente garantita dalle briciole statali. Là c’è il coprifuoco di notte o dal pomeriggio ma si lascia sopravvivere di giorno, là si cerca di confinare alternando, una settimana su due, uomini o donne, prima una zona poi un’altra… Là come dappertutto lo Stato improvvisa senza dirlo, militarizza per mantenere il potere, scientifizza come gli viene, propaganda per indorare la pillola. Spettri di moti per fame. Spettri di guerre civili. Gestione autoritaria pragmatica che si adatta in base alla resistenza che pensa di trovarsi davanti. Là come qui, d’altronde.
Attaccare. In un periodo come questo, in cui lo Stato e il capitalismo si ristrutturano piuttosto rapidamente, ma non sono pertanto garantiti della stessa stabilità per affrontare le nuove turbolenze sociali che potrebbero sorgere, non restare confinati e attaccare è più che mai importante. Oltre ai loro dispositivi di controllo e sorveglianza, gli snodi di circolazione di energia e di dati rimangono un obiettivo fondamentale in un momento in cui la pandemia tecnologica è parte integrante di tale ristrutturazione.
Detenzione. Tutte e tutti reclusi nella grande prigione sociale. Il tipo, la dimensione e il colore delle gabbie possono variare ed accavallarsi come tante bamboline russe. Ospedali psichiatrici, campi di lavoro, centri per stranieri, caserme di addomesticamento, campi profughi, templi della sottomissione, laboratori del consenso, celle familiari o galere. È da queste ultime, dove le condizioni sono più drammatiche, che continuano a partire segnali di fumo in tutto il mondo. Contro il confinamento dapprima per la fine dei colloqui, poi per il timore di venire contaminati e quindi di morire tra quattro mura sovraffollate, infine per esigere la libertà, come campeggiava su uno striscione degli ammutinati della prigione di San Juan de Pasto (Colombia). E noi, qui fuori, che pensiamo che la libertà consista nell’auto-recluderci e nell’obbedire agli ordini del potere, noi che non abbiamo né sbarre che offuscano l’orizzonte, né filo spinato che lacera la nostra carne, né garitte di sentinelle che ci sparano a vista, non abbiamo proprio nessuna struttura da devastare, nessuna gabbia da incendiare?
Domani. Il deconfinamento sarà sicuramente solo un altro momento del confinamento e durerà per molti lunghi mesi. Sarà forse un po’ meno duro per i cittadini più lavoratori e più esemplari, ma certamente più duro per tutti gli altri, tracciando nuove linee di demarcazione tra i due. Permessi di circolazione interna differenziati, esami obbligatori del sangue o della temperatura, tracciamento digitale incrociato, quarantene obbligatorie, controlli di identità abbinati a una schedatura sanitaria, limitazione degli assembramenti, mascherine nei trasporti, lavoro forzato per rilanciare l’economia, incremento della caccia ai potenziali ri-contaminatori. E frontiere sempre sbarrate al di là dei soli indesiderabili, come con la Spagna che intende farlo per tutta l’estate allo scopo di prevenire una seconda ondata di epidemia in autunno.
Gregge. In fin dei conti, alcuni ritengono che la maggioranza degli individui saranno colpiti da questo nuovo virus. I giochi di confinamento e di deconfinamento non servono quindi ad evitare una contaminazione generale (ci vorrebbe una gestione alla cinese per questo, come minimo) ma sono piuttosto misure di massa destinate a rallentarne la progressione, stabilizzando i picchi ospedalieri pur mantenendo l’economia a galla. Più ci sono persone che restano a casa, meglio lo Stato può gestire la disorganizzazione temporanea nell’industria e i servizi che ritiene importanti grazie ai suoi indispensabili scagnozzi armati. Il confinamento/deconfinamento è anzitutto una questione di continuità e di mantenimento dell’ordine, non di protezione di una popolazione da cui si prepara a difendersi in caso di crisi sociale derivante da una crisi sanitaria. Quanto al virus, gestisce il gregge sperando che una parte sufficiente della popolazione (60%) finisca, certo il più lentamente possibile, per essere definitivamente immunizzata in modo che cessi di diffondersi non trovando più ospiti (il che è una ipotesi molto relativa, dato che la durata di vita degli anticorpi contro il Covid-19 pare sia breve, portando piuttosto a prevedere una serie di ondate infettive). E qualora ciò non accada, lo Stato intende gestire il suo gregge con lo stesso genere di misure drastiche fino all’arrivo promesso per il 2021 di un futuro eventuale vaccino (il che, tra l’altro, significa inoculare artificialmente parte del virus, senza alcuna garanzia che gli anticorpi perdurino abbastanza a lungo o che l’originale non muti).
Dal primo confinamento iniziale per la paura e la servitù volontaria fino ai deconfinamenti mediante algoritmi in camice bianco, con svariate spole di andata-e-ritorno, siamo molto lontani dall’uscire dal rifugio. Per sfuggire alla statistica dei grandi numeri, forse bisognerebbe cominciare a ribaltare il tavolo senza attendere nulla dal potere, e non comportarsi più come un gregge che si considera vivo solo perché non è morto.
Guanti. Per proteggersi dalla porta che si spacca. Dalla rete metallica che si trancia. Dalla merce che cambia rapidamente di mano. Dalla vetrina che si sfonda. Dall’obiettivo che si incendia. Guanti e mascherine per proteggersi dalle impronte digitali e dal DNA, per mantenere una distanza vitale dai laboratori scientifici del virus poliziesco.
Pompieri. Qua una parte della testa del corteo parigino distribuisce mascherine protettive ai vigili, in Cile una parte della Primera Linea pulisce la metropolitana. Supermercati da espropriare? Metropolitane da incendiare? Dopo, sì dopo, i domani canteranno. Forse. O per niente. Quando il governo concederà più permessi di uscita. Nell’attesa si autogestisce il confinamento. Si umanizzano le carenze dello Stato. Auto-organizzarsi per attaccare gli sbirri, saccheggiare i magazzini alimentari o sabotare le arterie tecnologiche della prigione sociale sarebbe troppo rischioso. La rivolta potrebbe essere più contagiosa del virus, chi lo sa? Pianificatori del male minore. Contro-potere tutto contro il potere.
Primavera. Il meteorologo che ti insulta tutti i giorni prevedendo un tempo radioso prima di intimarti a restare in casa. Le nuvole al cesio della foresta di Chernobyl, in fiamme da una settimana, sarebbero forse più convincenti. Ma, come è noto, si fermano alle frontiere.
Responsabilità. Non si può essere responsabili del passato che esisteva prima di noi, né di tutti gli esseri umani che popolano la terra, il continente, il paese, la regione, la città, il villaggio, il quartiere, il vicinato. Per contro, nonostante l’oceano di dominio in cui ci bagniamo — un oceano imposto dalla servitù di molti e la repressione degli altri — si può essere responsabili delle proprie azioni per combatterlo. Laddove ogni vita è sacrificata sull’altare del profitto e dell’autorità, la sola responsabilità individuale possibile in rapporto a ciò che ci circonda è la coerenza tra l’idea anarchica che ci muove e i nostri atti che la rendono viva. Nessun piccolo gesto salverà il pianeta, nessun auto-confinamento impedirà la propagazione del virus. Identificare il nemico nel progresso industriale, la tecnoscienza o lo Stato colpendo le loro strutture senza riprodurre i loro meccanismi di dominio, sarebbe viceversa già più salutare. Sempre che si intenda salvare qualcosa, ovviamente.
Ritorno alla normalità. Non ci sarà questo genere di ritorno all’indietro. Perché noi non lo vogliamo (la normalità che c’era prima era già il problema). Perché neanche loro lo vogliono (ah, era ancora pieno di rigidità troppo umane e di piccoli formalismi, questo prima). Perché la normalità è il gigantesco laboratorio del presente, con i suoi droni e la sua sopravvivenza digitale, con i suoi militari e il suo forsennato produttivismo. Perché come è stato detto che il XX secolo in realtà è iniziato nel 1914 con la Prima grande macelleria industriale mondiale, il XXI secolo ha appena realizzato una svolta definitiva nell’attuale anno 2020, con conseguenze ancora incerte per tutti. Sta a noi fare in modo che tutti i loro calcoli e previsioni del nuovo ordine tecnologico deraglino per sempre.
Stato. Ad eccezione di noti imbecilli i quali ritengono che incoraggiare a spezzare il confinamento equivalga a negare la contagiosità del Covid-19 o ad assumere un gesto infantile di sfida, è ovvio che nessuna azione o auto-organizzazione (in diversi ambiti) possa realizzarsi virtualmente. Per di più, il confinamento di massa è strutturalmente una misura resa possibile da una gigantesca concentrazione autoritaria di forza e mezzi che rimanda direttamente allo Stato. Di fronte a una minaccia così generalizzata contro cui si atteggia a sovrano protettore dei piccoli come dei grandi, si può persino immaginare che risulterà quello che ha fatto, malgrado gli errori, il minimo necessario, o ancor peggio, l’inevitabile, preservando e organizzando la sopravvivenza della maggior parte delle persone pur sospendendo alcuni diritti di base. Quest’ultimo terreno non è certo quello dei nemici dell’autorità, da tempo avvezzi a questi giochi d’equilibrio sospesi tra emergenze decretate dall’alto e intensità della guerra sociale. Se si desidera ardentemente distruggere lo Stato, attaccare la sua onnipotenza confinante che esacerba e rafforza i rapporti di servitù come di cittadinismo, una prospettiva anarchica non può che lottare per una libertà smisurata.
Vivere. Tutto c’era già e tutto accelera. Il che significa respirare in un mondo costruito su fiumi di sangue, di sofferenza, di miseria, di guerre e di avvelenamento generalizzato del vivente. Morte lenta o morte rapida. Vita sospesa e insulsa sopravvivenza dappertutto. «Non potete ucciderci, perché siamo già morti». Rivolta cabila, davanti ai militari, 2001, all’inizio del millennio. «Ci hanno tolto così tanto che ci hanno rubato persino la paura». Sollevamento cileno, davanti ai militari, 2019, venti anni dopo. Era prima. Quando eravamo di fronte a qualcosa di visibile, di palpabile e di attaccabile. Non una dose radioattiva o un microrganismo. Eppure, i rapporti sociali sarebbero magicamente scomparsi con questo Covid-19 che non è una catastrofe naturale? Si muore globalmente di questo nuovo virus oppure del mondo che lo genera consentendo la sua rapida proliferazione in tutto il pianeta: massiccia deforestazione, metropolizzazione e concentrazione urbana, cibo industriale standardizzato, ingestione ad alte dosi di chimica farmaceutica, avvelenamento senza precedenti della terra, dell’acqua e dell’aria, ipermobilità, ecc.? Uscire per fermare tutto piuttosto che contemplare il disastro dietro uno schermo è allora proprio il minimo se si desidera un mondo totalmente diverso. Meglio vivere in libertà che morire confinati. La rivolta è la vita.
[Avis de tempêtes, n.28, 15 aprile 2020]