Op. Bialystock

Rom – Kommunikee Op.Bialystock

Über die repressive Operation “Bialystock”

Aridaje.
Die x-te antianarchistische Repressionsoperation begann im Morgengrauen des 12.06.20 in den von den italienischen, französischen und spanischen Staaten dominierten Gebieten. In großem Stil, sodann mit Sturmhauben und abgeflachten Waffen, durchsuchten die Bullen mehrere Häuser, beschlagnahmten das übliche und verhafteten 7 Leuten, von denen sitzen 5 im Gefängnis und 2 unter Hausarrest.
Nichts Neues unter dem Sternenhimmel.
Die Anklagen, die der Staat gegen sie erhebt, sind vielfältig, darunter die übliche Vereinigung zu terroristischen Zwecken ebenso wie Brandstiftung, Anstiftung zu Straftaten und so weiter und so fort.
Nun ist es nicht wichtig, hinter ihren juristischen Spitzfindigkeiten zurückzubleiben, aber es ist notwendig, noch einmal zu betonen, dass direkte Aktion, gegenseitige Unterstützung, Ablehnung aller Hierarchien und aller Autoritäten und die Praxis der Solidarität, der Ausdruck unserer anarchischen Spannung ist.
Wir sind nicht daran interessiert, uns auf die Schuldig/unschuldig Logik einzulassen, die Betroffenen sind unsere Gefährten/innen und werden unsere Nähe, Solidarität und Komplizenschaft haben.

Ros merde
Jedem das Seine.

manche* Besetzer* von Bencivenga Occupato

Im Moment sind die bekannten Adressen vorhanden:

Nico Aurigemma
C.C. Rieti
Viale Maestri Del Lavoro, 2 – 02100 Vazia (RI)

Flavia Di Giannantonio
C.C. femminile Rebibbia
Via Bartolo Longo 92. Rom 00156

Claudio Zaccone
C.C. Syrakus Via Monasteri, 20C.
Contrada Cavadonna
Siracusa 96100

Cropo Roberto
Num ecrou : 1010197
Centre pénitentiaire
1 allée des thuyas
94261 Fresnes CEDEX
Frankreich

Francesca Cerrone
C.P.de Almeria-El Acebuche CTRA. cuevas-ubeda km2,5
04030, Almèria

https://roundrobin.info/2020/06/roma-comunicato-op-bialystock/

«Inferno o utopia?»

È una delle tante scritte comparse nei pressi del commissariato del terzo distretto di Minneapolis, quello andato in fumo nella notte fra il 28 e il 29 maggio nel corso della rivolta provocata dall’omicidio di George Floyd. Non è uno slogan, né un appello, e neppure un grido di battaglia. A fomentare ed eccitare gli animi ci aveva già pensato — ci pensa quotidianamente — il braccio armato dell’autorità, con la sua brutale arroganza. No, quella scritta vergata solleva una questione. Non rivolge una domanda al nemico (come il sarcastico «ci ascoltate adesso?»), pone a chi è sceso in strada un interrogativo su cui riflettere: to hell, or utopia? Qual è il senso di tanta rabbia e tanto furore? Cosa si vuole ottenere? Andare all’inferno, quello della riproduzione sociale, oppure dare vita all’utopia, a qualcosa che sia tutt’altro rispetto a leggi a cui obbedire, merci da acquistare, ruoli cui sottostare, denaro da accumulare, governi da eleggere e a cui delegare?
C’è chi pensa si tratti di un quesito inutile che verrà risolto da sé, superato dalla forza stessa degli avvenimenti, e che indugiare a prenderlo in considerazione fa solo perdere del tempo prezioso che viceversa andrebbe usato per risolvere problemi organizzativi immediati. Comodo determinismo che alleggerisce l’azione, sgravandola dalla fatica del pensiero, e consente di seguire più velocemente («senza tante menate») la corrente trionfale della Storia — anziché sforzarsi ad inventare e realizzare la propria, di storia. 
Eppure, i fuochi accesi a Minneapolis nel corso di quelle notti sono illuminanti anche a tal proposito. Sembra infatti, giacché testimoniato da più parti (anche da non sospettabili di complottismo), che alcuni di quegli incendi siano stati appiccati da estremisti di destra. Se ciò fosse vero, il sospetto ricadrebbe sugli appartenenti a quello che negli Stati Uniti viene ormai definito «movimento boogaloo», sigla guazzabuglio che raccoglie genericamente chi ama comparire in pubblico armato fino ai denti e lanciare infuocati proclami contro la politica del governo. Sebbene al loro interno non manchino sfumature contrastanti, gli estremisti boogaloo sono per lo più suprematisti, miliziani, maniaci delle armi, «survivalisti»… Tutta gente che non nasconde l’intenzione di scatenare una Seconda Guerra Civile in grado di ripulire le strade dalla feccia ed instaurare un «vero governo americano». 
Si dirà che si tratta di puro folklorismo, truce spettacolo mediatico che talvolta può anche fuoriuscire dalla rappresentazione ed assumere forme materiali pericolose — uccidendo una manifestante a Charlottesville nel 2017, ad esempio — ma che in sé non costituisce una vera minaccia sociale. Può darsi, ma… non si potrebbe dire lo stesso di qualsiasi nera rivolta a noi cara? In fondo siamo proprio noi a sostenere che, in determinate circostanze, ciò che in tempi di normalità appare impossibile diventa a portata di mano. Pensiamo davvero di essere gli unici ad aver osservato come basti una piccola scintilla per provocare un grande incendio, o come la fine della pace sociale possa aprire innumerevoli possibilità per rimettere in discussione questo mondo? 
No, certo. E quindi che si fa, per evitare preoccupazioni che intralcerebbero le azioni, ci tranquillizziamo ripetendoci che la situazione per forza di cose evolverà in un senso a noi propizio? Non lo pensiamo. Peggio ancora, poiché i tanti bassi istinti sono molto più facili da provare, condividere ed esaudire rispetto ai rari alti ideali, è assai probabile che se nei periodi di sommovimento ci si limitasse a lasciarsi trasportare dal vento, si finirebbe dritti all’inferno — e non verso l’utopia.
Prendiamo ad esempio la rivolta scoppiata nelle ultime settimane negli Stati Uniti. Non è il frutto della convergenza strategica di più movimenti di lotta, ognuno con una lunga storia alle spalle e una ragionevole bandiera da sventolare sopra la testa, che hanno visto ingrossare le loro fila fino a decidersi di dare all’unisono una spallata al potere. È l’improvvisa deflagrazione provocata da una scintilla verificatasi in un ambiente sovraccarico di tensioni di ogni genere. Ha colto di sorpresa tutti e un po’ tutti hanno cercato di approfittarne (compresi inquilini, ex-inquilini ed aspiranti inquilini della Casa Bianca). Come un tornado, è diventata giorno dopo giorno sempre più potente mutando con una velocità impressionante. Per evitare che travolgesse ogni cosa, e in attesa che esaurisca le proprie forze, le autorità più attente a mantenere la pace sociale sono state costrette a correre ai ripari annunciando profonde riforme (a Minneapolis lo smantellamento del locale dipartimento di polizia, a New York la penalizzazione della stretta al collo). 
Manovra disperata vanificata dallo stillicidio di omicidi commessi in quel paese dagli agenti di polizia, l’ultimo dei quali avvenuto la notte del 12 giugno, due sere fa, quando un altro nero è stato ammazzato ad Atlanta nel corso di un controllo da parte di una pattuglia. Si chiamava Rayshard Brooks e la sua terribile colpa era di dormire nella propria auto all’interno del parcheggio di un ristorante fast-food, con gran disappunto del proprietario del locale che ha richiesto l’intervento della polizia. Ora quel proprietario non avrà più preoccupazioni simili: il suo spaccio di merda è stato incendiato ieri notte, nel corso di una protesta che ha fatto registrare oltre trenta arresti. All’inizio gli agenti si sono giustificati dichiarando che Brooks si era ribellato all’arresto, minacciandoli col loro stesso taser che aveva sottratto durante la colluttazione. Ma poi l’ennesimo video li ha clamorosamente smentiti, mostrando come uno di loro gli avesse sparato alle spalle a distanza mentre cercava di scappare. L’agente che ha fatto fuoco è stato immediatamente licenziato e il capo della polizia di Atlanta si è subito dimessa al fine di «ristabilire la fiducia nella comunità», ma è ovvio che quella fiducia è persa per sempre. Andata letteralmente in fumo.
Lo scrittore nero James Baldwin diceva che «l’impossibile è il minimo che si possa domandare». Dopo l’omicidio di George Floyd nel giro di pochi giorni in tutti gli Stati Uniti folle di persone sono passate da una richiesta comprensibile, come l’arresto dei poliziotti responsabili della sua morte, ad una rivendicazione iperbolica come l’abolizione della polizia. Si tratta di una rivendicazione radicale, ottima per procurar battaglia (come scoperto dal sindaco di Minneapolis, il quale è stato insultato ed allontanato da un incontro pubblico per essersi rifiutato di appoggiarla). Ma se a furia di essere ripetuta diventasse conseguente — non più una provocazione momentanea per aprire le ostilità, bensì un obiettivo da realizzare — dove porterebbe una simile rivendicazione? All’inferno di una sicurezza la cui garanzia sarà contesa fra gruppi di autodifesa (modello sinistro, gli Asayish curdi) e movimento delle milizie (modello destro, gli Oath Keepers statunitensi), o all’utopia di una libertà che non offre alcuna garanzia, alcuna sicurezza, e dove spetta ad ognuno il compito di badare a sé, a chi ama, a chi sente vicino? Per altro, a quale nuova autorità affidare il compito di decretare tale abolizione? Lo stesso autore di La prossima volta, il fuoco ricordava che «la libertà non è una cosa che si possa dare; la libertà uno se la prende, e ciascuno è libero quanto vuole esserlo». Per cui l’impossibile è sì il minimo che si possa chiedere, ma solo perché — essendo una richiesta inaccettabile — permette di smettere di chiedere ponendo fine ai negoziati.
Che dei politici tentino di cavalcare la rivolta, che in mezzo ad essa si possa trovare di tutto, ciò non può stupire nessuno. Ma questo non significa restare indifferenti. I politici vanno disarcionati, non importa quali riforme istituiscano, quante dimissioni pretendano, che regole di ingaggio modifichino. I militanti autoritari vanno neutralizzati, non importa quali siano le loro intenzioni. Nel vecchio continente la differenza fra autorità e libertà non scompare all’interno delle composizioni «anticapitaliste», così come nel nuovo mondo non scompare all’interno delle composizioni «antigovernative». 
Inferno o utopia — o l’uno o l’altra. Ignorarlo o confonderli significa ottenere al massimo la possibilità di venir arrestati un domani per aver cercato di smerciare una banconota di 20 dollari, ma con sopra l’immagine della schiava ribelle nera Harriet Tubman anziché del presidente schiavista bianco Andrew Jackson.
 
[14/6/20]
 
https://finimondo.org/node/2489

Roma – Comunicato Op.Bialystock

Sull’operazione Bialystock

Aridaje.
L’ennesima operazione repressiva anti-anarchica è iniziata all’alba del 12/06/20 nei territori dominati dallo stato italiano, francese e spagnolo. In grande stile, quindi passamontagna e armi spianate, le guardie hanno perquisito diverse abitazione sequestrato il solito materiale e arrestate 7 persone, 5 di loro sono in carcere e 2 agli arresti domiciliari.
Nulla di nuovo sotto il cielo stellato.
Le accuse che lo stato muove contro di loro sono varie, tra cui la solita associazione sovversiva con finalità di terrorismo oltre ad incendio, istigazione a delinquere ecc ecc.
Ora, non è importante stare dietro ai loro cavilli giudiziari, ma è necessario ribadire che l’azione diretta, il mutuo appoggio, il rifiuto di ogni gerarchia e di tutte le autorità e che la pratica della  solidarietà  sono espressione della nostra tensione anarchica.
Non ci interessa entrare nella logica colpevol*/innocent*, le individualità colpite sono le nostre compagne e avranno la nostra vicinanza, solidarietà e complicità.

Ros merde
Ad ognuno il suo.

Alcun* occupant* del Bencivenga Occupato

Per il momento, gli indirizzi conosciuti dei e delle compagne arrestate sono:

Nico Aurigemma
C.C Rieti
Viale Maestri Del Lavoro, 2 – 02100 Vazia (RI)

Flavia Di Giannantonio
C.C Femminile Rebibbia
Via Bartolo Longo 92. Roma 00156

Claudio Zaccone
C.C Siracusa Via Monasteri, 20C.
Contrada Cavadonna
Siracusa 96100

Arresti a Roma operazione “Bialystok” – INDIRIZZI

Indirizzi per scrivere ai compagni e compagne:

 

Francesca Cerrone
Casa Circondariale di Latina
Via Aspromonte 100
04100 Latina
Italia

Nico Aurigemma
Casa Circondariale di Terni
Str. Delle Campore 32
05100 Terni (TR)
Italia

Claudio Zaccone
CC di Siracusa, strada monasteri 20
96014, Cavadonna (SR)
Italia

Flavia Digiannantonio
C.C di Roma Rebibbia
via Bartolo Longo 72
00156 Roma
Italia

Roberto Cropo
C.R. “san Michele”
Via Casale, 50
15122 Alessandria
Italia

 

¿Qué sigue después de la pandemia?

¿Qué sigue después de la pandemia?

—Al querido Gabriel Pombo Da Silva y a todas las compañeras y compañeros secuestrados por el Estado en estos días de la plaga.

El carácter multidimensional de la «crisis» actual nos recalca que la «emergencia sanitaria» originada por la Covid-19 es solo una de sus diversas facetas. Vivimos una «crisis sitémica» –como rezan los «expertos»– donde la pandemia es el rostro visible del experimento en curso en el que se enfrentan con ahinco dos modelos de capitalismo con sus rivalidades geopolíticas. A todas luces, lo que está en crisis en este mundo tripolar (Rusia/China/Estados Unidos) es la totalidad del paradigma de dominación existente, engendrado en las entrañas del progreso con el estallido de la Segunda Revolución Industrial. O, lo que es lo mismo, la hegemonía del consenso de Washington (hoy mal llamado neoliberalismo), entendido como la voz de mando del proceso de globalización económica, cultural y política, que ha impuesto como patrón universal de gestión política a la democracia representativa (partidocracia) y, al actual modelo de expansión y acumulación de capital, como ejemplo de gestión económica.

La dominación moderna ha alcanzado su límite objetivo, generando gran escepticismo en torno al sistema y sus instituciones. Esta evidencia ha provocado una metamorfosis que está dando paso al nuevo sistema de dominación. Maquillada con la soflama del «capitalismo consciente» la nueva dominación se impone, instaurando una administración política aún más autoritaria y un capitalismo con «impacto social» mucho más regulado y centralizado, infundido en los preceptos de la Cuarta Revolución Industrial (4IR, por sus siglas en inglés);i o sea, en la reconfiguración de la gestión capitalista en el Siglo XXI a través de la implantación de nuevas tecnologías, consolidando su infraestructura en el Internet de las cosas.

Con la convergencia e interacción del Internet del conocimiento, el Internet de la movilidad y, el Internet de la energía, el «capitalismo consciente» no solo consolida la prolongación del trabajo (intelectual masificado, inmaterial y comunicativo) sino la acumulación ilimitada de capital asegurando la repartición de migajas; mientras el Estado nacional –reciclado, recargado y celebrado desde los balcones de las metrópolis– se encarga de la gestión de riesgos, el análisis eficiente del Big data (con algoritmos de inteligencia artificial) y, el control progresivo de la vigilancia digital mediante las tecnologías informáticas móviles apoyadas en la red de (50 mil) satélites 5G que pueblan el espacio exteror.

Sin lugar a duda, la pandemia de la Covid-19 está dramatizando la refundación del capitalismo y su consecuente traspaso de poder hacia el Oriente, como atinadamente alerta Byung-Chul Han. Esta transferencia no será inmediata. En verdad, este cambio paradigmático –que no «crisis final» como pregonan en los círculos del bolcheviquismo posmoderno y sus ideologías satélites–ii se efecturá de manera paulatina, mediando mucha vaselina de por medio, hasta consolidarse como modelo hegemónico, siendo casi imperceptible para la mayoría de la gente de a pie que continuará en el precariado a pesar del incremento progresivo de su limosna que asegura la arrolladora continuidad del consumo,iii lo que sin duda motivará un incremento consecutivo en la percepción de bienestar en contraste con el desfase provocado por los procesos de histéresisiv –en sentido bourdieuano– recién inaugurados con la intrusión de la Cuarta Revolución Industrial y la expansión del capitalismo cognitivo. Este desfase temporal entre el ejercicio de una fuerza social y el despliegue de sus efectos por la mediación retardada de su incorporación, será cada día más evidente con el incremento del desempleo en los sectores manufactureros y, la segregación de la población adulta mayor, que no solo resultará socialmente inútil en este nuevo paradigma («nueva normalidad») sino que se convertirá en estorbo para el capital –por su improductividad digital– y, en lastre para el Estado-nación remasterizado.

Concretar el cambio implicará el apogeo de guerras comerciales (¿hay otras?) y, quizá, hasta de enfrentamientos militares por el control del espacio exterior y el dominio y/o influencia geopolítica; además de la erradicación sistemática de los conflictos internos («terrorismo doméstico») incitados por una reducidísima minoría refractaria que continuará en pie de guerra frente a toda autoridad a pesar de contar con el repudio unánime de las mayorías ciudadanas. Pero, definitivamente, esta mudanza de paradigma de la mano de la ascención del imperialismo chino, no tendrá nada que ver con la «programación predictiva» de los «reptilianos pedófilos-satánicos» –en alianza con el lobby judío y los nuevos Illuminatis de Baviera– que, animados por su ambición infinita, tratan de imponer una dictadura global regida por los mandarines chinos con campos de concentración y consumo obligatorio de arroz frito, como profetiza el vulgo neonazi estadounidense. Lejos de la tesis conspiranoica sobre la instauración del Gobierno Global; el Estado nacional recargado, está reafirmando su legitimidad y autoridad en el actual proceso de desglobalización acelerada. Así se erige como la única fuerza capaz de proteger a sus ciudadanos y librar la guerra a gran escala contra el «enemigo invisible» con el auxilio incondicional de las nuevas tecnologías. El nuevo Estado nacional aprovecha la emergencia y se torna omnipresente y omnipotente: se alzan fronteras rígidas (muros y alambradas); los ejércitos se aprestan a «servir» y; se reafirma peligrosamente la identidad nacional expandiendo el repudio a todo lo «extraño». Se vislumbra el retorno a la «producción nacional» desde la óptica del «decrecimiento» (argumentando desfachatadamente que «es insostenible el crecimiento cero»). Los mandatarios de los Estados nacionales asumen poderes plenipotenciarios con el apoyo de las mayorías que cierran filas asintiendo las gestiones gubernamentales durante la pandemia. Emerge nuevamente la Hidra de Lerna con sus múltiples cabezas: el Estado, el capital, la religión y, la ciencia, consolidan su autoridad. El fascismo –en sus acepciones roja o parda–, gana aceptación y popularidad entre la muchedumbre y se alza como «solución final» frente a la «amenza» ofreciendo protección a sus connacionales.

El Nuevo Mundo parece un déjà vu de la década de 1920. Se trata de una restauración profunda. Una suerte de cambio radical de look del poder capitalista que va mucho más allá de la clásica remozada con hojalatería y pintura a la que se ha sujetado siempre de manera cíclica. Esta vez ha decidido someterse a una intervención quirúrgica de reconstrucción total a través de las nuevas tecnologías y la instrumentalización de formas inéditas de explotación que articulan y/o superponen la clásica explotación del trabajo asalariado con la autoexplotación del sujeto de rendimiento y, la hiperexplotación del ciberconsumidor: la nueva fuerza de (co)producción gratuita. Esta vez no habrá una nueva vuelta de rosca ni siquiera habrá una tuerca que apretar. En esta ocasión, los «ajustes» seran constantes y se efectuaran desde la nube.

Para reforzar esta permuta ya se anuncia la confluencia de los pares opuestos (izquierda/derecha), evidenciando, una vez más, la falsedad de sus antagonismos «irreconciliables»: marxistas y anarcocapitalistasv sellan con beso de lengua la imposición global de la Cuarta Revolución Industrial, afianzando la agenda con más de lo mismo; es decir, más capitalismo in saecula seculorum. Para eso se alistan en nombre del «capitalismo social» y en defensa de las nuevas tecnologías «emancipatorias» los intelectuales orgánicos al servicio de Otro mundo posible. En este sentido, llama la atención la fusión de dos posturas político-económicas opuestas, generalmente presentadas como contradictorias: el paternalismo y el libertarismo o anarco-capitalismo.

Desde 2008, el profesor de economía y ciencias del comportamiento, Richard Thaler, catedrático por la Universidad de Chicago y Premio Nobel en Ciencias Económicas 2017 –por «sus aportes en economía conductual»–, ha venido desarrollando el concepto de «paternalismo blando» o «paternalismo libertario». Lo que lo llevó a escribir Nudget vi en co-autoría con Cass Sunstein, profesor de jurisprudencia de la Escuela de Leyes de Harvard. La «teoría del nudging (del “empujoncito”)» de Thaler, se basa en la factibilidad de diferentes procedimientos que coadyuvan a «empujar», o sea, a incentivar o alentar, ciertas decisiones influyendo en el «sistema automático» de las personas con el propósito de provocar cambios en el comportamiento público, impulsando decisiones más racionales que los haga felices a largo plazo. A este proceso inductivo que establece vínculos entre los análisis de la economía del comportamiento y la psicología social, lo denominan «arquitectura de las decisiones» y, lo fomentan en busca de «mejores resultados individuales y sociales». Thaler y Sunstein, consideran que «es legítimo que los arquitectos de decisiones influyan en el comportamiento de las personas haciendo sus vidas más largas, más sanas, y mejores»;vii diseñando la arquitectura del contexto decisional de manera que se induzca a la toma de «una decisión más consciente en función del beneficio social y del beneficio propio»,viii lo que embona con el tránsito hacia ese «capitalismo consciente» que comentaba antes y que hoy se presenta –en palabras de Rajendra Sisodia y John Mackey–, como «la cura del mundo».

Tampoco hay que rascarle mucho para encontrar en el bando «opuesto», es decir en marxistlandia, una veintena de impulsores de este «capitalismo social». En esas mismas latitudes (de arenas movedizas), encontraremos desde filósofos, sociólogos, economistas y catedráticos, hasta cibermarxianos optimistas de las tecnologías que plantean que su icónica «lucha de clases» se ha trasladado al terreno del conocimiento y que la batalla final se librará en el ciberespacio; apostándole a la toma del Palacio de Invierno por las comunidades cibernautas: germen de la nueva organización político-social fundada en la cooperación mutua a través de la conexión en red. Uno de estos especímenes que destaca con creces en los círculos cibermarxianos es Richard Stallman. Adorado hasta en nuestras tiendas, Stallman es fundador del movimiento del software libre, del sistema operativo GNU/Linux y de la Fundación para el Software Libre.

Otro notorio cibermarxiano es Eben Moglen, profesor de derecho e historia en la Universidad de Columbia y fundador/director del Software Freedom Law Center; autor de un texto sui géneris que imita el espíritu del Manifiesto Comunista intitulado «The dotCommunist Manifesto».ix Desde luego, no todos los cibermarxianos se han sentido a gusto con el tufillo que desprende semejante Manifiesto –más asociado hoy a la exégesis marxiana-leninista que a las elucubraciones del propio Carlos Enrique de Tréveris– y han recurrido a la sana distinción entre «comúnistas» (commonists) y, «comunistas», haciendo énfasis en la palabra «común» y resaltando la sutil diferencia que produce un acento o, una letra de más, como resulta con la doble «n» en lengua inglesa. Tal es el caso de Lawrence Lessig, célebre creador de la «sana distinción» entre comunista sin acento y la acentuación políticamente correcta. Fundador de la encumbrada Creative Commons, profesor de jurisprudencia de la Harvard Law School, especializado en derecho informático y, precandidato en las primarias del Partido Demócrata para la nominación presidencial de los Estados Unidos. Desde la década de 1990 detectó que los oligopolios de la computación y los Estados nacionales, comenzaban a controlar el ciberespacio y a adaptarlo a su provecho mediante la imposición del Protocolo de Internet (IP) y la acumulación de datos de los internautas, en detrimento de la idea original que promovía un Internet creativo basado en la descentralización, la libre información y la socialización del conocimiento a través del libre acceso y la posesión en común.x Sin embargo, vale señalar –aunque para nosotros debería resultar obvio– la concordancia intrínseca entre las teorías fomentadas desde el cibermarxismo y el «anarco-comunismo informacional» y, los promotores del capitalismo cognitivo o cibercapitalismo en torno a las ilusiones tecnológicas y la producción de lo común. Una lectura rápida del discurso de la nueva empresa en línea, nos confirma ampliamente la instrumentalización comercial del común y, el uso permanente de la «inteligencia colectiva» y la «cooperación mutua» como recursos fundamentales del rendimiento de las empresas.

Curiosamente, las tesis en torno a la categoría de común han ido hilvanando la metanarrativa de la neoizquierda en nuestros días. El culto al común –así en singular– no es nuevo, hace un siglo que viene cocinándose en los círculos marxianos antibolcheviques.xi La paradoja es que desde principios del milenio, comenzaron a machacarnos el concepto dos egregios del leninismo posmoderno: Antonio Negri y Michael Hardt. En los primeros años de la década del 2000, ambos autores pusieron sobre la mesa este «producto», definiéndolo en Imperio como «la encarnación, la producción y la liberación de la multitud».xii Retomarían su desarrollo conceptual en las páginas de Multitud xiii y, Commonwealth,xiv haciendo uso de una retórica gatopardista que a veces pretende confundirse con las viejas tesis anarco-mutualistas en busca de incautos, subrayando que «el capitalismo y el socialismo, aunque en ocasiones se han visto mezclados y en otras han dado lugar a enconados conflictos, son ambos regímenes de propiedad que excluyen el común. El proyecto político de institución del común que desarrollamos en este libro traza una diagonal que se sustrae a estas falsas alternativas –ni privado ni público, ni capitalista ni socialista– y abre un nuevo espacio para la política».xv

No obstante, Hardt y Negri no han sido los únicos en promoverxvi este libreto. Una nutrida legión de marxianos posmodernos –muchas veces antagónicos, of course– le ha seguido el hilo, desarrollando alianzas con una fauna variopinta que, como era de esperar, incluye al neoblanquismo invisible; al situacionismo tardío; al «comunismo internacionalista» (GCI); al anarcopopulismo especificista (neoplataformismo); a sectores del trasnochado anarcosindicalismo; al anarcofederalismo de síntesis y; al ecologismo municipalista; sin olvidar a uno que otro liberal con esteroides de esos que gozan de gran reputación en nuestras tiendas, a pesar de ser confesos propagandistas del Sanderismo y ahora, inescrupulosos promotores de la candidatura presidencial de Joe Biden en nombre del «voto responsable» –léase Michael Albert, Noam Chomsky, o ese deleznable piquete de ex «radicales» de izquierda, fundadores de la Students for a Democratic Society en la década de 1960 y, firmantes de una carta de apoyo a Bidenxvii (Todd Gitlin, Carl Davidson, Robb Burlage, Casey Hayden, Bill Zimmerman, entre otros personajes «connotados»).

Entre los marxianos posmodernos que se encargan de continuar sentando las bases estructurales del común, destaca la mancuerna Pierre Dardot-Christian Laval. Fundadores del grupo Question Marx y, especializados en la obra de San Carlos Enrique de Tréveris, han publicado en coautoría varios ensayos sobre las disquisiciones del viejo gurú, así como reflexiones propias sobre la revolución en el siglo XXI. Con una prosa mucho menos densa que la metatranca discursiva de Negri y Hardt y, guardando distancia del enfoque leninista de éstos, han abordado el tema del común como alternativa socio-económica alejados de las apretadas hormas de las distintitas variedades de comunismo de Estado realmente existentes.

En ese tenor sacaron a la luz «Común. Ensayo sobre la revolución en el siglo XXI»,xviii un texto con claras ínfulas refundacionales en el tenor marxiano-libertario con cierta reminiscencia gueríniana que coloca nuevamente en la agenda la temática de la Revolución, a partir de la disección minuciosa de la trilogía intelectual de Hardt y Negri, no sin dejar de acusar cierto «neoproudhonismo incapaz de concebir la explotación de otro modo que como “captación ilegítima de los productos del trabajo a posteriori” [que demuestra] una ceguera cargada de consecuencias acerca de las formas contemporáneas de explotación de los asalariados y las transformaciones inducidas por el neoliberalismo en las relaciones sociales y las subjetividades».xix

Con ese espíritu refundacional, no escatiman a la hora de echar mano extensa (a veces de manera crítica) de Proudhon y, reiterar ese distanciamiento con la alienación comunista que mencionábamos antes, ratificando que: «Lo que ellos [comunistas y socialistas] llaman “emancipación” es en realidad la opresión política absoluta y una nueva forma de explotación […] porque creen que el poder y la fuerza provienen del centro y de arriba, no de la actividad de los individuos. En el fondo ahí no hay más que un ideal de Estado organizador que generaliza la policía y que sólo toma del Estado su lado reaccionario, el de la pura coerción».xx

Dando rienda suelta a sus asépticas interpretaciones teóricas en torno al devenir de los «movimientos sociales» que se suscitaron a comienzos de la década pasada (2010-2012) y captaron la atención de los medios de desinformación masiva –léase las romerías de los Indignados (15-M) con su camping en la Puerta del Sol; la movilización del 15 de octubre (15-O) con su espectacular Occupy Wall Street; la ocupación de la Plaza de Syntagma en el centro de Atenas y; la ocupación de la Plaza Taksim en Estambul–, Dardot y Laval «descubren» en estos simulacros «una invención democrática» que puso en práctica el «principio de común» como crítica a la democracia representativa, evidenciándose como el principio de la democracia política bajo su forma más radical y, erigiéndose como el «término central de la alternativa política para el siglo XXI»,xxi obviando la inmediata recuperación sistémica de estos movimientos y su compulsiva degeneración en partidos políticos (Partido X, Podemos, el Sanderismo con Biden, Syriza, etc., etc.).

Evidentemente, la ausencia de experiencia empírica de los autores de Común, debilita toda la argumentación del ensayo y, explica la carencia de propuestas fácticas y consecuentes con los tiempos a lo largo de 669 páginas. Como ya es costumbre entre los teóricos marxianos –incluidos los marxianos-libertarios– la recurrencia a extrapolar sus contemplaciones académicas a la construcción de paradigmas es una constante. Desde luego, esta afirmación no corresponde en absoluto con una postura anti-intelectual –más próxima a la vulgata fascista que a nuestra praxis–; más bien corrobora la necesidad de tamizar toda la producción académica guardando prudencial distancia con la manufactura institucionalizada y sus vacas sagradas, siempre divorciadas de la práctica y, generalmente al servicio del «establishment». Pero además, pretende ratificar la urgencia de reelaboración teórica a partir de la práctica anárquica más notoria, facilitando los contextos intelectuales que la nutran y ensanchando las arterias de la praxis. Sólo así, podremos afrontar globalmente la propia vastedad de nuestros proyectos destructivos y nuestros propósitos de emancipación total, rompiendo definitivamente con toda la alienación izquierdista, abandonando las conceptualizaciones y las prácticas ajenas, comprendida la remasterización del común.

Gustavo Rodríguez,

Planera Tierra, 22 de mayo de 2020

(¡con Mauri en el corazón!)

(Extraído del folleto «Covid-19: la anarquía en tiempos de pandemia», Rodríguez, Gustavo, mayo 2020)

i Así quedó asentado a finales de enero del presente año en el nuevo manifiesto «Davos 2020», emitido en el marco de su 50 Reunión Anual del Foro Económico Mundial (WEF, por sus siglas en inglés): «El propósito universal de las empresas en la Cuarta Revolución Industrial, en la cual impulsa el capitalismo de stakeholders como la nueva vía para los negocios con impacto social». Disponible en: https://www.weforum.org/agenda/2019/12/davos-manifesto-2020-the-universal-purpose-of-a-company-in-the-fourth-industrial-revolution/ (Consultado 18/5/20).

ii El mejor exponente de estas expresiones del bolchevismo posmoderno es el filósofo lacaniano Slavoj Žižek, quien publicara recientemente un artículo intitulado «Coronavirus es un golpe al capitalismo al estilo de ‘Kill Bill’ y podría conducir a la reinvención del comunismo», donde asegura que la epidemia «es una especie de ataque de la ‘Técnica del corazón explosivo de la palma de cinco puntos’ contra el sistema capitalista global», en alusión al clásico de Tarantino y en detrimento de los sermones de San Carlitos de Tréveris: «Las contradicciones crean explosiones, crisis en el curso de las cuales todo trabajo se detiene temporalmente mientras que una importante parte del capital se destruye, volviendo de nuevo el capital, por la fuerza, a un punto en donde, sin suicidarse, puede volver a emplear nuevamente de forma plena su capacidad productiva» Marx, K., Le Capital, livre I, Presses Universitaires de France; París, 1993.

iii Los guarismos económicos estimados por los apologetas de la Cuarta Revolución Industrial auguran la abundancia; según sus cálculos la revolución 4.0 agregará US$14,2 billones a la economía mundial en los próximos 15 años con un impacto social directo, erradicando de la faz de la tierra cualquier negatividad aún presente en la servidumbre voluntaria, argumentando ad nauseam su infinita felicidad.

iv Bourdieu, Pierre: Argelia 60. Estructuras económicas y estructuras temporales, Siglo XXI, Buenos Aires, 2006; y en ensayos en torno a las investigaciones sobre las «estrategias» en las prácticas de los bearneses y cabileños en Argelia.

v Este oxímoron a cobrado presencia en las últimas tres décadas al configurarse como «tendencia» al interior del autodenominado «movimiento libertario (libertariano)», también conocido como Libertarian Party. En el plano económico, mantiene los mismos postulados del libertarismo con fuerte influencia de la escuela austriaca y las «tesis» de Robert Nozick (Anarquía, Estado y utopía, 1974). En años recientes sus congresos anuales han sido motivo de notas sensacionalistas al realizarse en el enclave turístico del puerto de Acapulco, en México, bajo el pomposo rótulo de «Anarchapulco», contando con la presencia de especialistas internacionales en transacciones financieras en criptomonedas; gurús del «capitalismo social» y; activistas políticos como Rick Falkvinge, fundador del Partido Pirata Sueco y uno de los principales ideólogos de la lucha contra la corrupción política en Suecia y; Derrick Broze, periodista de investigación, conferencista, aspirante a alcalde de la ciudad de Houston (2019) y, activista indigenista, dedicado al «empoderamiento de las comunidades indígenas» y la denuncia de «la hipervigilancia del Estado sobre los ciudadanos».

vi Thaler, Richard H., Sunstein, Cass R., Nudge: Improving Decisions about Health, Wealth, and Happiness, Yale University Press, 2008 (Traducción al castellano, Un pequeño empujón: El impulso que necesitas para tomar mejores decisiones sobre salud, dinero y felicidad, Taurus, México, 2017).

vii Ibíd.

viii Ibíd.

ixMoglen, Eben, The dotCommunist Manifiesto, enero 2003. Disponible en línea: http://emoglen.law.columbia.edu/publications/dcm.html (Consultado 20/5/2020)

x Vid., Lessing, Lawrence, The Future of Ideas: The Fate of the Commons in a Connected World, Random House, 2001 (Traducción al castellano, El futuro de las ideas: el destino de los comunes en un mundo conectado).

xi Llama la atención que ni en las premisas del anarco-comunismo (Kropotkin, mediante) ni en la tradición anarcosindicalista, jamás se haya postulado nada sobre el «común». Siempre han teorizado sobre la propiedad colectiva de los medios de producción y la socialización de los servicios y bienes de consumo sin diferencias de clase, es decir, de manera igualitaria y nada más; sin mayores diferencias con los postulados marxista-leninistas y, guardando distancia del paradigma proudhoniano que ya identificaba la fuerza social espontánea de lo común. Salvo las críticas al secuestro burocrático de los marxianos-leninoides con la firme decisión de prolongar la vida del llamado Estado proletario que, claramente, dista de las tendencias libertarias; tanto anarco-comunistas como anarcosindicalistas, optan por instaurar un «sistema» (con bastantes imprecisiones teórico-prácticas) de colectivización y socialización, que no presenta mayores divergencias en los hechos con las prácticas burocráticas leninistas que tanto critican. Vale, agregar sobre el tópico que en los contadísimos y excepcionales casos en que los teóricos comunistas marxistas han tratado de conceptualizar lo «común», lo han hecho expresando verdaderos desatinos, como aquella afirmación de Lenin a principios del período denominado Comunismo de guerra (1918-1921): «todo es común, incluso el trabajo».

xii Vid., Hardt, Michel & Negri, Antonio, Empire, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, 2001 (traducción al castellano: Imperio, Paidós, Buenos Aires, 2002).

xiii Hardt, Michael y, Negri, Antonio, Multitud: guerra y democracia en la era del Imperio, Debate, Barcelona, 2004.

xiv Hardt, Michael y, Negri, Antonio, Commonwealth. El proyecto revolucionario de una revolución del común, Akal, 2011.

xv Ibíd. p. 11.

xvi El empleo de este vocablo –aparentemente inocuo– no es casual, encubre una conceptualización bastante más intrincada que halla sus raíces en los objetivos básicos de la mercadotecnia en la denominada marketing mix, en referencia a la mezcla de tácticas o acciones empleadas para posicionar una marca o producto en el mercado mediante la intervención de las 4P: precio, producto, promoción y plaza (lugar).

xviiDisponible en: https://www.thenation.com/article/activism/letter-new-left-biden/(Consultado 20/5/2020).

xviii Laval, Christian y, Dardot, Pierre, Común. Ensayo sobre la revolución en el siglo XXI, Gedisa, Barcelona, 2015.

xix Ibíd. p. 223

xx Ibíd. p. 243.

xxi Ibíd. Presentación, s/p.

¿Qué sigue después de la pandemia (1)

IERI MALFATTORI OGGI SOVVERSIVI – SOLIDARIETÁ ALLE ANARCHICHE E ANARCHICI VITTIME DELLA REPRESSIONE STATALE DENOMINATA OPERAZIONE “Byalistok “A ROMA

COMUNICATO STAMPA
 
SOLIDARIETÁ ALLE ANARCHICHE E ANARCHICI VITTIME DELLA REPRESSIONE STATALE DENOMINATA OPERAZIONE “Byalistok “A ROMA
 
IERI MALFATTORI OGGI SOVVERSIVI
Lo Stato fin dalla sua nascita ha sempre avuto degni oppositori politici che hanno messo in discussione il sistema di annientamento istituzionale sull’individuo e sulle classi proletarie, definendo malfattore chi si opponeva con ogni mezzo necessario alla sbirraglia di ogni tempo.
Oggi continuiamo ad essere malfattori e sovversivi e lo ammettiamo pubblicamente perché vogliamo eliminare ogni forma autoritaria dalle nostre vite.
Il 12 Giugno del 2020 è scattata l’operazione “Byalistok”; per cinque compagni è stata richiesta la custodia cautelare in carcere, mentre per altri due sono scattati gli arresti domiciliari.
Ora, non è importante stare dietro ai loro cavilli giudiziari, ma è necessario ribadire che l’azione diretta, il mutuo appoggio, il rifiuto di ogni gerarchia e di tutte le autorità e che la pratica della solidarietà  sono espressione della nostra tensione anarchica.
Per quello che si sa fino ad ora tra i reati contestati ci sono l’attacco ad una Caserma dei Carabinieri a Roma, l’incendio di due auto Enjoy dell’Eni e anche delle iniziative pubbliche.
Lo Stato, il governo a guida PD -M5 Stelle e frattaglie di sinistra ed i carabinieri dei ROS , per propria ammissione continuano a colpire in maniera preventiva chi, nei loro occhi é un avversario politico del regime statale .
LIBERTÀ SUBITO PER TUTTI E TUTTE!
Solidarietà e complicità sempre e comunque con chi lotta contro l’esistente, i suoi difensori e contro questo quieto vivere e questa alienante pacificazione sociale imposte a colpi di repressione, sgomberi, sorveglianza, controlli, sbirri, telecamere, carceri e oppressione quotidiana.
RIBELLI SEMPRE !
 
Sovversivi Val di Noto , 14 Giugno 2020
sovversivivaldinoto@libero.it
https://www.facebook.com/situazionisovversivevaldinoto
sovversivivaldinoto.altervista.org/

Dietro l’angolo PT.9 – Movimento disordinato

QUALCHE IPOTESI SU COVID 19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO. La diffusione globale del Covid-19 ha salutato l’inizio degli anni ’20 del Duemila.

Dalla Cina, ma si può mettere in discussione l’epicentro unico senza che il risultato cambi, la portata del virus è diventata rapidamente omogenea alle traiettorie mercantili e sociali che sono di fatto le moderne condizioni di vita della stragrande maggioranza di persone sulla Terra.

Scrivevamo all’inizio di queste riflessioni che la vita di una buona parte degli uomini e delle donne si sostanzia da tempo nel tentar di rimanere aggrappati ai pioli di una scala, senza più nemmeno la speranza di poterla risalire. Un’impresa particolarmente difficoltosa che rischia di diventare proibitiva a causa di questa pandemia che ha reso questa scala ancor più carica e traballante, togliendole al contempo punti d’appoggio. Se è lecito attendersi che, per evitare di scendere sempre più in basso o caderne, aumenteranno numero e ferocia di calci e gomitate contro i propri compagni di sventura, tenderanno altresì a moltiplicarsi quelle strategie di resistenza, individuali e collettive, volte invece a prendersela con chi ne è responsabile.

La retorica sulla colpevolizzazione dei poveri, secondo la quale determinati problemi sociali non sono dovuti a cause strutturali ma sono piuttosto da ricercare nella biografia di chi li subisce, farà sicuramente più fatica ad attecchire in un momento come questo in cui le ragioni delle difficoltà di arrivare a fine mese sono chiare quanto non mai.

Abbiamo infatti scritto e sostenuto che questa pandemia ha avuto le caratteristiche di un’esperienza di massa, contingenza che nella storia recente, ha come precedente più prossimo l’ultima guerra mondiale.

Chiaramente non tutti ne avranno avuto la stessa percezione, e non tutti ne pagheranno le conseguenze in egual misura, ma il carattere sismico di questa pandemia, in grado di peggiorare contemporaneamente le condizioni di vita di tanti, potrebbe favorire lo svilupparsi di una rinnovata capacità di leggere le iniquità che potremmo definire di classe.

Una situazione simile, seppur di portata ben minore, ci sembra essere quella seguita alla crisi del 2008 in cui le responsabilità delle banche nell’impoverimento generale erano talmente evidenti e note che risultavano estremamente comprensibili le ragioni di chi ad esempio lottava contro gli sfratti o occupava delle case, verso cui c’era una certa empatia anche in molti di coloro che non si trovavano con l’acqua alla gola. Una finestra che non è rimasta aperta troppo a lungo e, alla luce del fatto che il conflitto sociale, almeno a queste latitudini, non è riuscito a produrre significative rotture della normalità, il sentimento di indifferenza e la guerra tra poveri, potenziati anche dal vecchio caro razzismo, hanno ripreso prepotentemente terreno.

Ci sembra quindi tutt’altro che remota la possibilità che questa pandemia crei un qualche cortocircuito alla retorica che vuole i poveri responsabili della loro sorte e a quell’atomizzazione sociale così feroce vissuta negli ultimi anni. Un cortocircuito la cui durata e profondità sarà inevitabilmente legata non solo allo spazio che determinate lotte e il conflitto sociale in generale riusciranno ad allargare, ma anche a quali dinamiche di esclusione riusciranno a contrastare o invertire e a quanto riusciranno a far retrocedere quella normalità statale di cui abbiamo provato nel corso di questo testo a delineare degli aspetti.

Se il peso e l’importanza di tutta quella sfera di problemi legati ai bisogni più basilari è destinata ad aumentare e con questo i conflitti e la tensione sociale che ruoteranno attorno ad essi, la forma che queste lotte prenderanno tanto nel breve quanto in un periodo più ampio risulteranno con ogni probabilità almeno in parte diverse da quelle che abbiamo avuto modo di conoscere finora.

Un impoverimento generale e rapido, le cui conseguenze devono ancora iniziare a manifestarsi, non ha precedenti recenti in questa porzione di mondo e le dinamiche in Paesi più o meno lontani, piombati altrettanto velocemente in una recessione economica di tali proporzioni, potrebbe fornire più di una suggestione riguardo ad alcuni degli scenari che potrebbero delinearsi. Ben difficilmente conflitti di tipo rivendicativo o vertenziale attorno a questioni come quella lavorativa, abitativa o sanitaria si limiteranno a muoversi lungo quei binari che solitamente conducono a trattative di tipo sindacale, pur particolarmente accese. È facile prevedere che possano invece dare il la o intrecciarsi a esplosioni di rabbia e malcontento diffusi se non a vere e proprie sommosse popolari.

Di questi tempi più che mai l’importanza di questi conflitti specifici attorno alla sfera dei bisogni non sarà allora soltanto legata a ciò che queste singole lotte saranno in grado di produrre nel tentare di ‘risolvere’ i problemi che le hanno causate, ma anche al loro carattere in qualche modo propedeutico a sommovimenti più ampi, eterogenei e anche contraddittori.

La contraddittorietà non è solo quella che potrebbe manifestarsi in un terreno di contestazione, o anche di lotta ampia, in cui alcune propaggini sono strumentalizzate da partitucoli, associazioni o affini. Il recupero di istanze sociali nell’alveo di riforme politiche che in qualche modo le pacifichino è un nodo storico a cui ahinoi si arriva quasi sempre e su cui le teorie dei sovversivi da tempo immemore si interrogano. La contraddittorietà in tempi di crisi acuta all’interno di un campo sociale di complessità caotica come quella contemporanea, emerge spesso in quella che si è definita guerra civile. Una nozione identificabile non solo nei grandi scontri intranazionali degli ultimi secoli, ma il cui germe serpeggia sottotraccia e viene puntualmente rinvigorito dalle politiche di impoverimento e infinita differenziazione. Nelle periferie la guerra per la sopravvivenza prende spesso forme di conflitto acuto, tracciate sotto etichette diverse che non restituiscono l’essenza del problema: dai benpensanti di sinistra certi conflitti vengono definiti semplicemente come la conseguenza del razzismo innato a una certa componente autoctona e ignorante; da una certa popolazione radicata nelle città e impoverita la delinquenza di strada viene percepita come il maggior problema da affrontare quotidianamente; per alcuni individui in forte deprivazione l’arrangiarsi a danno dei propri vicini di casa non è che l’unica maniera per campare.

Ma queste non sono solo percezioni da correggere con una sana educazione alla realtà sociale, come si usa dire ora dei bias frutto di una distorsione cognitiva, ma la materia viva di cui è fatta l’esistenza delle persone e che prende spesso il nome imposto e propagato dai media e dall’organizzazione della società. I fatti e le divisioni sono dunque reali e quasi sempre gravosi, l’intelligibilità è invece falsata dal discorso pubblico. Come fare a scardinare le frizioni tra parti di popolazione in forte difficoltà e farne emergere conflitti che non siano orizzontali ma contro padroni e governanti? Questo è da tempo un interrogativo pressante a cui ora più che mai è necessario guardare con attenzione perché l’acuirsi di quel germe di cui parlavamo non è una previsione pessimistica del futuro delle città, ma un fatto che si sta sviluppando esponenzialmente.

Ecco, a nostro parere, l’importanza dei momenti di lotta specifica: la loro esistenza e crescita potrebbe essere uno dei pochi antidoti che abbiamo a questa guerra anomica e strisciante.

Le relazioni che in questi conflitti specifici riusciranno a crearsi saranno un pezzo importante di questi percorsi: la solidarietà che nasce nel lottare fianco a fianco, accomunati dagli stessi problemi, è un obiettivo importante almeno quanto il far fronte ai problemi che generano quei conflitti.

Sappiamo bene come la solidarietà non sia un sentimento aprioristico, qualcosa di religioso o culturale, ma come scaturisca dal vivere un esperienza di lotta comune, la comunanza del conflitto.

Inedite tanto quanto le forme saranno le problematiche con cui i conflitti si troveranno a dover fare i conti e da cui nasceranno.

Si pensi in primis alla possibilità di spostarsi senza vincoli e restrizioni. Al di là degli aspetti più strettamente economici relativi all’aumento dei prezzi e alla riduzione selettiva dell’accesso al trasporto pubblico, aspetti che assumeranno una sempre maggior importanza specie nelle grandi città – il lusso di poter prendere la metropolitana di cui parlavano ad esempio i rivoltosi cileni –, qui ci preme concentrarci brevemente sul coprifuoco con cui ci siamo improvvisamente trovati a convivere. Un fatto del tutto nuovo che non poteva che trovare tutti impreparati; un’impreparazione inevitabile che riguarda tanto la sfera della vita in senso stretto, con le sue abitudini e relazioni, come quella della possibilità di lottare, esprimere la propria rabbia e insofferenza senza introiettare soltanto frustrazione e senso di impotenza.

In una città parzialmente o totalmente deserta, organizzarsi con e conoscere altri possibili compagni di lotta presenta indubbiamente difficoltà inedite, così come prendere l’iniziativa in pochi, pur avendo già conoscenze e affinità. Ragionare su un simile coprifuoco appare ancor più complesso anche a causa della legittimità che in parte ha avuto per le innegabili ragioni sanitarie che ne hanno causato l’imposizione. Far tesoro dell’esperienza appena conclusa, con l’idea di capire cosa fare, quali accorgimenti prendere, quali discorsi elaborare e come eventualmente diffonderli non può che partire dal riconoscimento di tali ragioni sanitarie.

Il rischio altrimenti è di suffragare una lettura di questo fenomeno alquanto distorta. Da questo punto di vista gli strali sul popolo-gregge quanto mai ubbidiente e servile nell’accettare tali misure risultano a dir poco semplicistiche, dato che restare dentro casa e limitare spostamenti e assembramenti non era una scelta figlia soltanto e principalmente della paura o del non voler rischiare conseguenze penali o amministrative. Ma questo è un discorso da approfondire altrove.

Si deve far tesoro di quest’esperienza a partire dal fatto che non è dato sapere che natura potranno avere eventuali futuri lockdown per ragioni di ordine sanitario, né è dato sapere se la popolazione reagirà in toto allo stesso modo in presenza di nuovi focolai: è innegabile che a causa di questa sorta di domiciliari di massa si sia accumulato un senso d’insofferenza generale. Ma a monte, probabilmente la forza delle ragioni sanitarie ci sembra essere inversamente proporzionale alla gravità delle altre problematiche da cui si è assillati. Un esempio significativo, che griderà ancora a lungo vendetta, ce lo hanno fornito i familiari dei detenuti di molte carceri italiane, i quali sono stati non a caso tra i primi a esporsi in prima persona in momenti in cui il problema epidemiologico era più acuto e le misure di lockdown più rigide; altrettanto significative, anche se mosse naturalmente da altri assilli, le pressioni contro misure di distanziamento sociale e affini provenienti dai settori del commercio al dettaglio.

Ma la misura di lockdown, magari con una diversa gradazione a livello spaziale, potrà ripresentarsi nei prossimi tempi pur a pandemia finita per ragioni esclusivamente di ordine pubblico, vista l’aria che minaccia di tirare tra le strade dei quartieri di tante città. Una differenza che modificherebbe in maniera sostanziale il quadro nelle possibili resistenze dal basso, che non dovrebbero più fare i conti con preoccupazioni di ordine sanitario ma si troverebbero ad avere a che fare con una gestione dall’alto probabilmente ben diversa da quella attuale. Davanti a un siffatto coprifuoco a uscir di casa o assembrarsi non si rischierebbe infatti solo una multa o una denuncia per l’art.650 c.p.

Torniamo alle accennate proteste di ambulanti, del commercio al dettaglio e dei vari rami della ristorazione. Tra chi non riaprirà e chi rialzerà la serranda per breve tempo per poi seguire l’esempio dei primi, saranno con ogni probabilità in tanti a ritrovarsi in breve tempo senza una fonte di reddito e senza grandi risparmi per tirare avanti. Se molti non versavano già da tempo in floride condizioni, ben difficilmente avrebbero immaginato di dover chiudere bottega così all’improvviso e in così gran numero. I miseri fondi stanziati e promessi dallo Stato italiano funzioneranno da frangiflutti fino ad un certo punto.

Difficile prevedere quali forme assumerà l’inevitabile tensione prodotta da questo improvviso, generale e, almeno per queste caratteristiche, inaspettato impoverimento. Se hanno certamente le loro valide ragioni le previsioni più pessimiste che prevedono la crescita soltanto di un blocco reazionario, non meno sensate appaiono quei paralleli con il recente movimento francese dei Gilets Jaunes non tanto da un lato sociologico, piuttosto per il senso di ingiustizia subita.

Pur coscienti che il conflitto di classe serpeggi in ogni società secondo modalità minute, continue, irregolari e individuali, se dovessimo ricapitolare le sollevazioni più imprevedibili che hanno movimentato il corso del tempo prima del Coronavirus, potremmo definire il 2019 come l’anno dei Gilet Jaunes, dei disordini in Ecuador, in Catalogna, in Cile, a Hong Kong, per citare solo quelle con una copertura mediatica imponente.

Rivolte la cui dinamica, pur alimentata da cause diverse, persone diverse, diverse ‘parole d’ordine’, diversi mezzi e diversi fini, ci risulta combaciare in alcuni punti.

Il primo aspetto, pur conosciuto dalla letteratura rivoluzionaria ma sempre troppo sottovalutato, potrebbe essere definito come la banalità dell’innesco delle sollevazioni, l’insignificanza delle cause scatenanti di molte rivolte, se non insurrezioni e perfino rivoluzioni o guerre. Difficilmente la rabbia esplode a livello collettivo per ragioni ideali – o peggio, ideologiche – rispetto a quelle più minute e insignificanti.

Un altro aspetto, collegato al precedente, è l’immediato e contagioso sentimento di legittimità del protestare e lottare contro misure imposte, percepite come ingiuste. Un sentimento che qualcuno in passato ha definito economia morale in riferimento a dei conflitti contro l’innalzamento dei prezzi del pane nel XVIII sec. in Inghilterra, moti, seconda questa lettura, alimentati non solo da un fattore strettamente economico ma anche da quanto tale peggioramento venisse vissuto e interpretato come particolarmente ingiusto rispetto alle condizioni precedenti.

Un simile sentimento, di questi tempi di misure e contromisure, licenziamenti e cassa integrazione forzosi, potrebbe certo accomunare e far da collante ai tanti uomini e donne messi all’angolo dalla pandemia.

Prevedere fin da ora che la retorica che accompagnerà eventuali mobilitazioni di questo tipo con tutto il suo portato populista potrà contenere numerose ambiguità e criticità è fin troppo facile; val la pena anticipare che sarebbe assai miope però la critica di chi si limitasse a tentar di capire cosa bolle in pentola guardando solo alle rivendicazioni scritte o verbali di simili situazioni.

Ben più difficile immaginare che piega potrebbero prendere questi conflitti sulla spinta di questo pezzo di mondo, soprattutto se riuscisse ad attrarre quel malcontento e quella rabbia generati da questa emergenza che faranno fatica a trovare altre occasioni per esprimersi.

Una suggestione di una qualche utilità potrebbe forse venire dall’esperienza “nostrana” che maggiormente sembra alludere al quadro appena tratteggiato, quella dei Forconi del dicembre 2013, in grado di sorprendere un po’ tutti e, a Torino, di bloccare all’improvviso buona parte della città richiamando una parte significativa di chi viveva nei suoi quartieri.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Nord sud ovest est

Taglio netto

Il mondo inabitabile

Macchine, sensi e realtà

Lockdown, quarantene e zone rosse

Un lato oscuro. Ancora su guerra civile e insurrezione.

 

DIETRO L’ANGOLO PT.9 – MOVIMENTO DISORDINATO

Chi non muore si ritrova – Considerazione in merito all’operazione “Ritrovo”

CHI NON MUORE SI RITROVA

Considerazioni in merito all’operazione “Ritrovo”

Intorno alle due di notte di mercoledì 13 maggio 2020, i Ros di Bologna, Firenze e Fidenza insieme a 200 carabinieri irrompono nella vita di 12 anarchiche e anarchici. Il gip Panza, su richiesta del pm Dambruoso, ne dispone per sette l’arresto  e per cinque l’obbligo di dimora con rientro notturno (per quattro di questi anche la firma quotidiana). Un copione che conosciamo bene e che grazie alle dichiarazioni della procura, che ci rivelano la natura “preventiva” degli arresti, rende a chiunque ancora più esplicito il messaggio lanciato: sia ben chiaro a chi spera che la crisi apra la possibilità di dare uno scossone agli attuali rapporti sociali che lo Stato non cambia. Le accuse sono associazione con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico, avente per reati scopo l’istigazione a delinquere, il compimento di alcuni danneggiamenti e un incendio.

 

270 bis: associazione con finalità di terrorismo

Sebbene in fase di riesame l’accusa sia stata ritenuta inappropriata dal tribunale delle libertà, azzardiamo qualche parola in merito visto che su di essa, e il suo avvallamento da parte del gip Panza si sono rette le misure cautelari.

Anche in quest’operazione, denominata “Ritrovo”, al centro delle accuse stanno le lotte. Due in particolare: quella contro i CPR e quella contro il carcere – fosse questo destinato a compagni e compagne o meno. Lo Stato parla chiaro: terrorista è chi  esprime solidarietà, chi lotta, chi non tiene la bocca chiusa, chi manifesta aperta approvazione verso l’azione diretta e le forme di opposizione radicali – anche illegali – alle strategie della repressione e dello sfruttamento. Non solo, una ricorrenza che si ritrova anche in altre recenti operazioni repressive è l’utilizzo del reato di istigazione a delinquere come collante dell’ipotesi associativa: la parola, di questi tempi, fa paura e lo Stato si muove ormai con modalità da regime. Accade da un po’ e ci aspettiamo accadrà ancora.

Almeno in potenza, dicono le carte, la “cellula” di Bologna aveva la capacità di attivare azioni piccole ma replicabili su scala nazionale da gruppi ad essa simili. Gruppi con cui la suddetta “cellula” era in contatto: una ramificazione capace di “costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto”.

La nostra posizione in merito è semplice: se portare solidarietà a chi si rivolta e schierarsi contro le ingiustizie è terrorismo, allora siamo tutti e tutte terroristi. Ben lieti di accettar l’accusa se in questo mondo terrorista è chi non chiude la bocca e sceglie di attaccare. Attaccare quelle stesse istituzioni che sulla paura fondano il governo dei popoli. A riguardo potremmo parlare di guerre, bombe nelle piazze, morti in mare e manganellate, ma a che serve? Gli ultimi tre mesi non sono forse bastati a farci capire di quanta paura ha bisogno lo Stato per governarci? La paura dei controlli, la paura dell’arbitrio delle forze dell’ordine, dell’“abuso di potere”, la paura dell’ammalarsi e del far ammalare, costretti a doversi recare a lavorare per forza e a non potersi curare adeguatamente a fronte dello smantellamento della sanità. Una paura che si fa sempre più terrore se pensiamo agli arresti degli scioperanti e alle quattordici morti nelle carceri.

Le gestione delle crisi da Covid-19 ha rivelato in maniera lampante quali siano le vite più sacrificabili per il potere in un regime di produzione tecnodigitale come ad esempio anziani e disabili nelle case di riposo o case per disabili; piuttosto che le persone detenute, corpi criminalizzati nelle carceri e nei Cpr.

Una parte sempre più ampia della popolazione subisce un livello di violenza sempre maggiore e reagire è presto detto terrorismo.

 

Istigazione a delinquere

Oggi, l’accusa di istigazione a delinquere esplicita una contraddizione evidente, l’ingiustizia e l’arbitrio su cui il potere si fonda. Perché l’istigazione si verifichi – afferma il pm Dambruoso – è necessario un contesto adeguato e recettivo; perché non si perseguano le idee, è necessario, come in questo caso, che l’ambiente economico-sociale sia adeguato a recepire l’istigazione all’atto illecito. Il senso è: quello che ieri non era istigazione oggi lo diventa perché i tempi sono cambiati. Di cos’altro c’è bisogno per capire che il codice penale non è altro che uno strumento per il mantenimento della disparità di classe, finalizzato alla sola tutela della classe dirigente che, a seconda dell’aria che tira, rischia oggi di vedersi volar via il cappello e domani la testa?

È in quest’ottica che la “strategica valenza preventiva” assume tutto il suo senso. In un momento come questo un’operazione che tolga di torno dodici teste pensanti, dodici cuori liberi, fa assai comodo, perché – l’hanno detto loro stessi – la crisi incalza e i tempi a venire saranno bui per chi siede sul trono. Le sei misure cautelari rimaste (obblighi di dimora con rientro notturno) infatti riguardano proprio il reato di istigazione.

Permetteteci però una breve parentesi su questa “preventività”. La prima richiesta delle misure cautelari, inizialmente respinta dal gip, risale al luglio 2019, la seconda e accettata ci parla invece del 6 marzo 2020, alla vigilia delle rivolte nelle carceri. L’operazione era pronta a dispiegarsi da un bel pezzo e la “strategica valenza preventiva” si aggiunge, assieme a qualche recente segnalazione circa i presidi sotto il carcere della Dozza, a un malloppo già denso.

Agitatori, fomentatori, sobillatori, propagandisti, questo anarchici e anarchiche lo sono da sempre. Una cosa però ci sentiamo di dover chiarire: gli anarchici e le anarchiche non dicono a nessuno di fare per loro conto qualcosa. Essi difendono quello che ritengono essere giusto, agiscono in prima persona, da soli o con altre persone, ma mai si pongono al di sopra degli altri, pronti a plasmarne i comportamenti e l’agire. Questa è una strategia propria della politica e noi nella politica non crediamo, crediamo nell’azione diretta, nelle sue mille forme, che sono della politica l’esatto opposto.

Non si tratta di rispedire al mittente le accuse, né tanto meno capire se anarchismo e istigazione vadano di pari passo (una diatriba che lasciamo volentieri agli avvocati), ci preme semmai interrogarci su quale siano le cause profonde della rivolta. La rivolta secondo qualcuno sta nelle parole istigatrici del sobillatore, nelle insinuazioni del folle, che avrebbero la capacità di incrinare questo migliore dei mondi possibili. Secondo costoro se fuori dalle mura di carceri e CPR fossero mancate le presenze solidali le rivolte all’interno non si sarebbero verificate. Come ben sappiamo le rivolte in certi luoghi abbondano, anche senza che ci siano presenze solidali là fuori a far da cassa di risonanza. Questo perché la presa di coscienza della miseria in cui si vive, l’individuazione del nemico e la necessità di agire non sono certo determinate da discorsi istigatori, quanto piuttosto dalle angherie subite e dalle ingiustizie non più sopportabili.

È d’abitudine nei CPR da anni, è stato così nelle carceri nel marzo 2020 e lo è in questi giorni negli Stati Uniti, dove all’ennesimo sopruso, all’ennesimo omicidio di una persona nera compiuto da poliziotti bianchi, parte della popolazione è insorta. La rabbia negli Stati Uniti lo dice forte e chiaro: non sono necessari gli anarchici che istigano, lo schifo di questo mondo è di per sé sufficiente.

Eretici, socialisti, autonomi, anarchici, antifa… di categorie con cui i governi hanno  cercato, da sempre, di mistificare il fenomeno dell’opposizione radicale, pur di non affermarne le radici profonde, non se n’è mai fatta parsimonia. La verità, però, è che il seme della rivolta sta in un terreno fatto di sfruttamento, controllo, repressione, razzismo, ingiustizia e, sempre più, gratuita prevaricazione. Non c’è da stupirsi se un giorno decidesse di germogliare anche qui, anche nel più completo e assordante silenzio di voci oppositive. Statene certi, accadrà.

Lo si è visto durante i mesi di quarantena. Mentre fuori il governo della paura ammansiva la popolazione, dentro le carceri questa stessa paura è diventata ingestibile per chi su di essa ha sempre costruito il proprio potere. Già dal 26 febbraio, Roberto Ragazzi, dirigente del Dipartimento di Medicina Penitenziaria dell’Ausl di Bologna, ordinava ai suoi operatori di non indossare mascherine nel reclusorio al fine di non allarmare la popolazione detenuta.

Il 9 marzo, messi all’angolo ed esasperati, i detenuti decidono che la paura loro imposta è divenuta oramai insopportabile, la situazione sfugge dalle  mani delle istituzioni penitenziarie e alla Dozza esplode una rivolta, sulla scia delle altre che si accendono nelle prigioni lungo la penisola.

Chi può, di fronte a ciò, ancora pensare che la rivolta sia di fatto il prodotto della cospirazione o di qualche isolato contestatore? Istigano gli anarchici o è l’invivibilità di una vita fondata su paura e terrore la prima fonte di istigazione?

 

Azioni e sabotaggi

Tutto parte da qui, o almeno così dicono, anche perché intercettazioni ambientali e telefoniche erano già attive da tempo, almeno dal 2016, dalla bomba messa alla caserma di Corticella. Tutto comunque partirebbe da una notte del dicembre 2018, quando fu dato fuoco a un’antenna sui colli bolognesi. I ponti radio di Santa Liberata erano in uso a radio e televisioni locali, nonché a forze dell’ordine (rete interforze) e a non meglio precisate ditte coinvolte in sorveglianza audio-video. Quella sera alcune reti televisive si trovano oscurate e la Guardia di Finanza subisce un’interruzione momentanea delle sue comunicazioni radiofoniche. “Spegnere le antenne, risvegliare le coscienze, solidali con gli anarchici detenuti e sorvegliati” questa la scritta lasciata nei pressi. Era questa una delle tante azioni che in Italia ed Europa si verificano ai danni dell’infrastruttura fisica del mondo immateriale.

Durante il periodo febbraio-aprile 2019, contestualmente a manifestazioni di piazza, ma non solo, si verificavano poi imbrattamenti e danneggiamenti alle filiali delle banche BPER e BPM, entrambe coinvolte nella proprietà della struttura del CPR di Modena in previsione d’apertura, oltre che contro telecamere, monumenti nazionalisti e una caserma dei carabinieri. Che dire, quando ai responsabili di ingiustizie ed oppressione tocca un po’ dell’amaro che ci fanno ingoiare ogni giorno non riusciamo a non rallegrarcene. Certe azioni, seppur piccole, hanno tutto un loro senso per noi. Il nostro criterio di giustizia non è dato da un codice che non abbiamo mai sottoscritto, ma dalla non casualità di queste azioni e dal significato dell’obiettivo che scelgono.

Che provino pure a tapparci la bocca a suon di denunce, colpire chi sfrutta e reprime è giusto e questo è un fatto.

 

Solidarietà

Affrontare la repressione significa cercare di trasformare la merda in fiori.

Le dimensioni della solidarietà ricevuta sono state una bella sorpresa. Non solo “militanti ed attivisti”, ma anche molte persone che nessuno avrebbe immaginato poter prendere le difese di una “banda di anarchici”. In ciò hanno sicuramente avuto un peso non indifferente le amicizie, le conoscenze, gli incontri e le persone che segnano la quotidianità, la vita di tutti i giorni insomma. Con ciò non vogliamo affermare che il “radicamento sociale” sia la ricetta contro la repressione, anche perché una sua precisa definizione risulta piuttosto difficile, né i percorsi di anarchici e anarchiche debbono prevederlo di necessità. Tuttavia ciò è stato in questa specifica situazione un dato che ci sentiamo di dover riportare.

Questa solidarietà ricevuta non è casuale, così come non lo è il fatto che dopo mesi di reclusione domiciliare, paura e angherie poliziesche, qualche persona abbia pensato che quest’ulteriore svolta repressiva, destinata a chi negli ultimi tempi aveva chiaramente fatto voce contraria all’andazzo securitario, fosse davvero troppo.I vecchi rapporti sociali sono mutati in peggio per gli sfruttati e devono essere repentinamente normalizzati; forse c’è chi non se l’è sentita di abbassare la testa, anche solo di fronte alle affermazione inerenti la “strategica valenza preventiva”, come se i propri amici e conoscenti fossero un virus da debellare, gente scomoda di cui sbarazzarsi a prescindere.

Ad essere sinceri, però, va rilevato un fatto, di cui siamo consapevoli e su cui è necessario riflettere per quel che sarà il futuro: la debolezza dell’ipotesi accusatoria è stata sicuramente un fattore importante di mobilitazione della solidarietà, soprattutto da parte di persone lontane dalle lotte. Essa ha sicuramente contribuito a far nascere l’idea di un’ingiustizia da regime che andava compiendosi. La situazione contingente ha fatto gioco, lo riconosciamo. Sappiamo pure, però, che la solidarietà dev’essere rivoluzionaria, sempre a fianco di chi lotta contro Stato e padroni e non condizionata dalle accuse mosse. Dobbiamo avere l’onestà di leggere i contesti, ma pure la coerenza di rimanere fedeli alle nostre convinzioni anche nei momenti più duri, cercando di dimostrare una solidarietà forte e decisa anche quando la repressione colpisce più forte. Proprio per questo non ci siamo mai permessi di parlare di “montature”, né mai si è scelto – come giusto che fosse – un discorso innocentista, anche di fronte all’allargamento della solidarietà, cercando di continuare a portare discorsi radicali a più orecchie possibili. “Spegnere le antenne, risvegliare le coscienze”, così si apriva il corteo del 30 maggio, una dichiarazione di come l’azione diretta, il sabotaggio e le pratiche di attacco a strutture e servi di questo sistema siano giuste.

La prima risposta di fronte a tutto questo è stata quella di tornare nelle strade, come prima, più di prima, nonostante la paura e i divieti, per esprimere ciò che per noi è solidarietà: le pratiche.

La repressione quando sequestra compagni e compagne alle lotte, ha per scopo il limitarci materialmente togliendoci forze e spaventandoci. Bisogna essere coscienti che i nostri percorsi prevedono la possibilità che lo Stato prima o poi bussi alle nostre porte, bisogna prepararsi all’eventualità che la repressione arrivi e in quel momento mantenere la lucidità, per non farsi affossare e – sarà banale, ma – rispondere rilanciando le lotte, per non dichiarare la resa. Proprio quando è la solidarietà ad essere attaccata – come in questo caso – e proprio quando le sue reti sono messe in discussione,occorre far della repressione condizione e opportunità di rafforzamento e rilancio. Nella difficoltà comune essa può divenire opportunità e condizione per conoscersi, capirsi e organizzarsi meglio, rafforzarsi e rendere la solidarietà un’arma.

Il periodo che stiamo vivendo dimostra che lo Stato ha imboccato una strada chiara e significativa, abbiamo ben compreso che i prossimi mesi e anni saranno delicati e tesi.

Più consapevoli e più forti di prima, ci ritroveremo nelle strade.

 

«E dite, dite! Che cosa sareste voi

senza dio, senza re, senza padroni,

senza ceppi, senza lacrime?

— Il finimondo!»

 

“Matricolati!”,Cronaca sovversiva, 26 maggio 1917

 

Anarchici e anarchiche di Bologna

 

 

*Poco prima della stesura definitiva del testo ci è giunta la notizia dell’ennesima operazione repressiva che ha colpito 7 tra compagni e compagne, 5 in carcere e 2 ai domiciliari, messa in campo dalla Procura di Roma. Le notizie sono ancora un po’ frammentarie, ravvisiamo però diverse similitudini con quella bolognese. A condurla sono anche qui i Ros, le accuse sono di 270bis (per le persone in carcere) più numerosi fatti specifici, tra cui attentato con finalità di terrorismo, incendio e istigazione a delinquere, diversi episodi riguarderebbero azioni in solidarietà con prigionieri e prigioniere. L’abbiamo detto, lo Stato mostra i muscoli in un momento storico che si preannuncia denso di possibili tensioni. La solidarietà è fondamentale e la ribadiamo senza se e senza ma nei confronti dei compagni e delle compagne colpiti a Roma.