Sulle rivolte di marzo

Quel che sta succedendo nelle carceri italiane, tra le rivolte scoppiate intorno al 10 marzo in più di 30 strutture detentive e quel che ancora deve accadere, non può spiegarsi esclusivamente attraverso la “paura di essere contagiati”. Se questa è la goccia che ha fatto scatenare la rabbia, le motivazioni e l’insofferenza della vita al di là del muro possono essere spiegate solo attraverso uno sguardo che vada al di là del momento emergenziale. Il carcere è uno stato d’emergenza senza fine, dove misure repressive “speciali” vengono attuate quotidianamente.

Le rivolte sono state raccontate dai giornali perlopiù come momenti di violenza irrazionale. Ma ogni lotta dietro le mura ha le sue rivendicazioni, le sue storie, le sue specificità. In questi giorni però, è come se la disperazione e la rabbia dei detenuti avessero avuto lo stesso cuore. Non è un caso che la stampa ufficiale abbia ritenuto opportuno dichiarare che dietro di esse si nascondesse la stessa mano organizzativa. Da chi si è sentito di dire che a dirigere le rivolte ci fosse la criminalità organizzata, al dirigente di Polizia Penitenziaria Daniela Caputo che ha parlato di “piano organizzato” da una non meglio specificata “mano anarchica”. Quest’ultima, in barba alle rivendicazioni dei detenuti, ha rievocato addirittura l’art. 41 bis fino a fine disordini per tutte le carceri interessate alle rivolte. Probabilmente segue la stessa logica la decisione di dire che i morti durante le rivolte siano tutti morti di overdose da farmaci. “Una manciata di rivolte organizzate dall’esterno, scoppiate nel caos irrazionale dell’assalto alle infermerie”, questo è ciò che lo Stato ha voluto far passare. Questo prima di oscurare qualsiasi notizia al riguardo. Dopotutto sarebbe stato impensabile per lo Stato parlare di rivolte spontanee e in grado di comunicare velocemente tra loro, cresciute nella cattività di luoghi di tortura, anni di pestaggi, condizioni igieniche repellenti; perché se ne sarebbe parlato diversamente, e se ne sarebbe parlato di più. E non è sorprendente che il fatto di aver ripreso parte di ciò che stava accadendo all’interno delle carceri con dei cellulari faccia paura alla polizia ancor più delle rivolte stesse. Perché quel che succede dentro, soprattutto durante momenti di tensione come quelli dei giorni scorsi, non si deve sapere. Così che si possa tranquillamente parlare di morti per overdose negando i massacri di Modena, Rieti, Bologna e di tutti i pestaggi avvenuti in moltissime altre carceri.

La cosa che più fa paura allo Stato è che rinasca una coscienza collettiva tra i detenuti, che le lotte mettano in difficoltà il sistema carcerario, che ci sia chi è pronto a battersi per la propria libertà e, come in questi casi, ad arrivare fino in fondo, a dare la vita.

Il fatto che le rivolte stiano scoppiando in tutto il mondo all’interno delle carceri, impone di chiedersi se non siano proprio i detenuti i primi a suggerirci che l’immenso stato di emergenza di cui oggi siamo i reclusi deve portare con sé le occasioni per rivedere il mondo in cui siamo costretti con uno spirito internazionalista. Proprio mentre televisioni, radio e proclami cittadini all’opposto invocano le bandiere alle finestre e l’orgoglio nazionale.

Stare vicini ai prigionieri e conoscerne le lotte è anche un modo per far capire a chi oggi sventola tricolori che non siamo “tutti sulla stessa barca” solo perché ad affondare è anche una parte di un sistema di controllo e profitto. E dobbiamo chiederci davvero cosa significhi, soprattutto in un momento come questo, in cui è fondamentale misurare la distanza tra ciò che è giusto e ciò che è legale, scegliere da che parte stare.

In quei giorni disperati sono morti Hafedh Chouchane, Slim Agrebi, Alis Bakili, Ben Masmia Lofti, Erial Ahmadi, Arthur Isuzu, Abdellah Rouan, Hadidi Ghazi, Salvatore Piscitelli Cuono, Marco Boattini, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri.

Qui sotto una stretta cronologia dei fatti avvenuti nelle carceri italiane durante la settimana delle rivolte:

7 marzo: il decreto ministeriale che rende l’Italia un unica grande zona protetta, limitando gli spostamenti e istituendo restrizioni alle libertà individuali e collettive in risposta alla diffusione del covid-19, tocca anche le carceri: sono infatti sospesi i colloqui (che potranno, ove possibile, svolgersi via videoconferenza), i permessi premio, i regimi di semi-libertà. Anche le udienze sono sospese. Inizialmente il blocco è previsto fino al 31 maggio, notizia smentita nei giorni seguenti. Queste misure erano già state adottate da tutte le carceri di Lombardia e Veneto a partire dal 2 marzo.

7 marzo, Vicenza: un secondino risulta positivo al covid-19.

7 marzo, Salerno, Campania: scoppia la rivolta a Salerno. Per cinque ore, in quasi duecento hanno devastato un’intera sezione dell’istituto di Fuorni, sfondando una cancellata e salendo sul tetto della struttura armati di ferri divelti dalle brande. I detenuti hanno chiesto di sottoporre tutta la popolazione carceraria a tamponi per il test sul coronavirus e di accedere a misure alternative al carcere. All’esterno, presenti familiari di detenuti.

8 marzo, Napoli, Campania: scoppia la rivolta al carcere di Poggioreale. Decine di detenuti sono saliti sul tetto e hanno bruciato materassi chiedendo provvedimenti contro il rischio dei contagi dal Coronavirus all’interno della struttura. Hanno gridato frasi come “Stiamo morendo” e “Poggioreale è uno schifo”. La rivolta è proseguita fino a sera, poi i reclusi sono rientrati nelle loro celle, mentre i familiari hanno proseguito a manifestare all’esterno del penitenziario.

8 marzo, Cassino e Frosinone, Lazio: in entrambe le carceri comincia una battitura che si protrae per diverse ore. A Frosinone la protesta si fa più intensa: sono state occupate, devastate e rese inagibili due sezioni del penitenziario, mandando a fuoco i materassi e in frantumi gran parte delle suppellettili. Approfittando del caos e passando dalle zone di passeggio del carcere, alcuni detenuti sono riusciti ad uscire in strada, e qualcuno a scappare. La rivolta è stata sedata a metà giornata, e verso sera è cominciato il trasferimento dei detenuti.

8 marzo, Carinola, Campania: proteste anche al carcere di Carinola.

8 marzo, Modena, Emilia Romagna: scoppia la rivolta anche al carcere Sant’Anna, Modena. Circa un centinaio di detenuti hanno dato fuoco a materassi e suppellettili, lanciato oggetti contro i secondini, alcuni si sono barricati nell’armeria, altri hanno raggiunto il cortile nel tentativo di evadere, ma sono stati bloccati. In giornata cominciano ad arrivare le notizie dei morti: in tutto nove, di cui quattro morti durante i trasferimenti verso Ascoli, Parma, Alessandria e Verona. La verità di Stato dice: overdose.

8 marzo, Vercelli, Piemonte: battiture in protesta per il nuovo regolamento.

8 marzo, Foggia, Puglia: la protesta contro la gestione dell’epidemia comincia con una battitura e diventa guerriglia, dentro e fuori dal carcere; i carcerati hanno divelto un cancello della “block house”, la zona che li separa dalla strada, al grido di “indulto, indulto”. In una cinquantina si sono riversati in strada. Molti si sono poi arrampicati sui cancelli del perimetro del carcere. Un gruppo è riuscito a salire sul tetto, a rompere le finestre e ad appiccare un incendio all’ingresso della casa circondariale. Sei risultano in fuga. Negli scontri con le forze dell’ordine, un detenuto è rimasto ferito alla testa ed è stato portato via in barella.

8 marzo, Bari, Puglia: è cominciata una rivolta anche nel carcere di Bari. Un gruppo di parenti dei detenuti, all’esterno, ha iniziato a gridare slogan e invocare maggiore tutela: “Liberi, liberi”, bloccando anche il traffico a tratti. Dalle celle, grida e urla d’aiuto, oltre al rumore di oggetti di metallo sulle grate delle finestre e ad oggetti incendiati lanciati dalle sbarre. L’intervento della polizia ha sedato le proteste in giornata.

8 marzo, Palermo, Sicilia: proteste in entrambe le carceri di Palermo, con battiture, oggetti dati alle fiamme, e una presenza solidale all’esterno da parte di parenti che hanno anche bloccato il traffico. Il 9 marzo, tentativo di evasione da parte di detenuti dell’Ucciardone, che hanno provato a divellere la recinzione, venendo bloccati dai secondini. Il 10 marzo continuano le proteste all’Ucciardone: dalle finestre delle celle si levano le grida “assassini” e vengono lanciate lenzuola incendiate.

8 marzo, Brindisi, Puglia: la sera comincia la protesta, con grida, incendi nelle celle; anche qui gruppi di familiari si sono riuniti all’esterno, unendosi alle grida dei detenuti.

8 marzo, Ariano Irpino, Campania: battiture e lancio di oggetti delle finestre delle celle.

8 marzo, Cremona, Lombardia: una cinquantina di detenuti ha cominciato a protestare, incendiando materassi e altri suppellettili. Rivolta sedata alla fine della giornata dall’intervento di penitenziaria, carabinieri, polizia in antisommossa. I giornali non riportano alcun ferito, sia fra i detenuti che fra gli sbirri.

8 marzo, Pavia, Lombardia: Verso sera è cominciata la rivolta anche a Pavia: un gruppo di parenti si è riunito all’esterno per protestare contro lo stop dei colloqui, mentre da dentro i detenuti hanno cominciato a bruciare materassi e altri oggetti. In seguito sono stati presi in ostaggio due secondini a cui sono state sottratte le chiavi delle celle, con successiva apertura e liberazione di decine di detenuti. I secondini sono stati liberati nel giro di un’ora, e quando verso sera la protesta sembrava sedata (sono intervenuti rinforzi della penitenziaria da Opera e San Vittore, celere e carabinieri) i detenuti sono comunque riusciti a salire sul tetto e appiccare altri fuochi.

8 marzo, Reggio Emilia, Emilia Romagna: inizia una prima protesta, è stata danneggiata l’infermeria e distrutte due sezioni. In serata, il magistrato di sorveglianza incontra una delegazione di detenuti. Il 9 marzo, una quarantina di detenuti rifiuta di rientrare dall’ora d’aria: vengono riportati in cella uno per uno, opponendo resistenza passiva. In seguito, comincia un lancio di oggetti dalle celle e vengono appiccati incendi. Lo stesso giorno comincia il trasferimento dei detenuti.

8 marzo, Barcellona Pozzo di Gotto, Sicilia: battiture che si sono protratte per ore.

8 marzo, Trani, Sicilia: alcuni detenuti hanno fatto esplodere delle bombolette del gas e danneggiato alcune celle, ma tutto è rientrato dopo circa due ore, dopo una trattativa con il comandante della Polizia penitenziaria.

8 marzo, Augusta, Sicilia: sono cominciate delle lunghe battiture. Il 9 marzo, una quarantina di detenuti si rifiutano di rientrare dopo l’ora d’aria. La protesta rientra dopo qualche ora di trattative con la penitenziaria.

8 marzo, Bergamo, Lombardia: la sera, battiture in solidarietà coi detenuti in rivolta nelle altre carceri.

8 marzo, Matera, Basilicata: una decina di detenuti si rifiuta di rientrare dopo l’aria. Un detenuto riesce a raggiungere il tetto. Intervento di polizia, carabinieri e finanza.

9 marzo, Secondigliano, Campania: un gruppo di familiari dei detenuti protesta fuori dal carcere; viene disposto, per chi usufruisce della semi-libertà, di poter rientrare al proprio domicilio invece che al carcere. Il 12 marzo, viene diffuso questo comunicato, firmato dai detenuti: “I detenuti del reparto Adriatico F1 le parti S1, S2, S3, S4 e S5 da giovedì 12 per tre volte al giorno, alle 12, 16 e 18 inizieranno una pacifica protesta3 con battiture, rifiuteranno il vitto dell’amministrazione e dalla settimana prossima i detenuti rifiuteranno anche il sopravvitto, non comprando più generi alimentari extra. Noi tutti eseguiremo lo sciopero nel massimo rispetto dell’amministrazione del carcere di Secondigliano fin quando non riceveremo risposte concrete dallo Stato e non dall’amministrazione penitenziaria in merito alla nostra condizione.

  • 1- Lo stato non è presente per noi detenuti e continua a respingere i nostri diritti;
  • 2- Molti detenuti aspettano la libertà in attesa di avere confermati i provvedimenti per buona condotta perché i Tribunali di Sorveglianza sono bloccati;
  • 3- Sono stati bloccati i colloqui allontanandoci maggiormente dalle nostre famiglie in questo grande momento di difficoltà che riguarda il nostro stato di affettività. Alfonso Bonafede non può decidere sull’affettività dei nostri familiari vietando gli incontri;
  • 4- Siamo solidali con i nostri compagni detenuti che sono morti e con tutta la penitenziaria che è stata ferita. Ringraziamo l’amministrazione del carcere di Secondigliano che accoglie le nostre richieste per far uscire fuori la nostra voce

In attesa di risposta i detenuti, per le condizioni disumane delle carceri italiane, sperano in un provvedimento da parte del governo di clemenza, di amnistia e indulto, nel più breve tempo possibile. Tutti i detenuti del carcere di Secondigliano.”

9 marzo, Rebibbia, Lazio: protestano anche i detenuti di Rebibbia, incendiando materassi; la polizia irrompe nella struttura facendo uso di lacrimogeni. Un gruppo di parenti e solidali, all’esterno, ha bloccato la via Tiburtina gettando transenne o altri oggetti sull’asfalto. Il presidio è stato caricato e disperso dalla polizia. È stato poi chiamato un presidio davanti al ministero della giustizia, per le 12 del 10 marzo. Anche questo presidio è stato caricato e ci sono stati fermi e arresti per tre persone, poi rilasciate.

9 marzo, Alessandria, Piemonte: protesta al carcere Don Soria, con incendio di lenzuola, sedata piuttosto velocemente dagli stessi secondini, e anche al carcere San Michele, dove sono stati appiccati incendi in due sezioni e c’è stato l’intervento di carabinieri, polizia, vigili del fuoco. Era diretto ad Alessandria il mezzo su cui viaggiava uno dei detenuti poi deceduto, proveniente da Modena.

9 marzo, Liguria: proteste nelle carceri di Marassi (Genova), Imperia, Sanremo e Pontedecimo (Genova) con lunghe battiture. Al Villa Andreina (La Spezia), proteste dei detenuti, alcuni dei quali sono riusciti a salire su un cornicione. Intervento della celere e trattative con la direzione del carcere.

9 marzo, Milano, Lombardia: la mattina comincia la rivolta nel carcere di San Vittore: distrutti gli ambulatori e due sezioni, incendi e allagamenti. Un gruppo di detenuti riesce a raggiungere il tetto, dove viene esposto lo striscione “INDULTO” e si grida “libertà”. Presenza solidale all’esterno.

9 marzo, Milano, Lombardia: proteste al carcere di Opera. L’esterno viene subito militarizzato anche se alcun solidali riescono a comunicare coi detenuti, che gridano e battono sulle sbarre. Dentro scoppia la rivolta, vengono appiccati degli incendi e la risposta poliziesca è molto dura. I giorni successivi i detenuti riferiranno alle persone solidali che, una volta sedata la rivolta, non hanno ricevuto cibo, gli è stata tolta la televisione, sono stati privati delle ciabatte, gli sono state negate le telefonate. Sono stati picchiati, hanno riferito di avere le ossa rotte e di non aver ricevuto cure. Tensioni anche al carcere di Bollate, dove vengono sfasciati uffici del personale.

9 marzo, Turi, Puglia: proteste anche a Turi, all’interno e all’esterno del carcere, a partire dal 9 marzo. Gruppi di familiari si sono riuniti fuori le mura del carcere, chiedendo indulto per i propri cari, dall’interno sono state portate avanti lunghe battiture. Interventi della polizia per disperdere i parenti all’esterno.

9 marzo, Larino, Molise: i detenuti si sono rifiutati di rientrare in cella.

9 marzo, Rieti, Lazio: rivolta nel carcere di Rieti. Dall’esterno erano ben visibili le colonne di fumo degli incendi; anche qui i detenuti sono riusciti a raggiungere il tetto. I danni alla struttura ammontano a 2 milioni di euro. Purtroppo il bilancio è drammatico: tre morti e otto feriti; un quarto detenuto morirà in ospedale l’11 marzo. Anche questi morti vengono catalogati come overdose. Al diffondersi della notizia, ripartono le proteste nella struttura. In data 14/03 un detenuto, durante una chiamata, riesce ad informare del fatto che dentro i secondini pestano indiscriminatamente, i reclusi “cercano almeno di salvarsi la testa”.

9 marzo, Torino, Piemonte: Vallette, i detenuti delle sezioni del padiglione B si sono barricati dall’interno posizionando dei letti contro gli accessi del padiglione.

9 marzo, Bolgona, Emilia Romagna: la mattina del 9 marzo, la tensione sfocia in rivolta nel carcere la Dozza di Bologna. I detenuti (in tutto 400 sui quasi 900 presenti nella struttura) hanno incendiato materassi e altri oggetti, barricandosi poi al pianterreno. Hanno raggiunto il tetto, esponendo lo striscione “INDULTO” e, da qui, lanciato oggetti contro le forze di polizia, riuscendo a incendiare quattro mezzi di polizia e carabinieri. “Ci hanno lanciato di tutto – ha detto a Bologna Today un ripresentante sindacale della penitenziaria – dalla copertura dei tetti, pezzi di metallo e cemento, oltre a insulti.“ Durante la rivolta vengono tagliate luce e gas al blocco maschile. Dopo aver fatto irruzione nelle zone barricate gli sbirri sedano la rivolta, al termine della quale vengono ritrovati i cadaveri di due detenuti, anche questi attribuiti all’overdose.

9 marzo, Santa Maria Capua Vetere, Campania: una decina di detenuti del Reparto Nilo sono saliti sui tetti in segno di solidarietà con i detenuti delle altre carceri italiane ma anche per protestare contro la decisione di sospendere i colloqui con i familiari.

9 marzo, Regina Coeli, Lazio: cominciano le proteste a Regina Coeli, i giornali parlano di “roghi e disordini”.

13 marzo, Catania, Sicilia: al carcere di piazza Lanza cominciano le proteste: urla, battiture, lenzuola bruciate, un detenuto urla dalla finestra: “Non siamo animali! Abbiamo bisogno di cure, stiamo morendo”. Nei giorni precedenti, gruppi di familiari si erano riuniti all’esterno per accertarsi delle condizioni dei detenuti, protestando contro la sospensione dei colloqui.

Nei giorni seguenti risulteranno positivi al covid-19 detenuti nelle carceri di Brescia, Milano, Voghera, Pavia, Lecce, Modena (caso risultato positivo prima della rivolta), Bologna. Diversi positivi anche tra i secondini.

ilrovescio.info/2020/04/03/sulle-rivolte-di-marzo

Berlín – La catástrofe se llama capitalismo, y es la regla – Un comunicado (y una apelación)

“Ocuparemos…
…hasta que no tengamos que hacerlo más”, solíamos escribir. A menudo hemos ocupado casas en Berlín, muchas han sido evacuadas de nuevo. Pero ahora la situación es diferente. En tiempos de “crisis”, esta frase puede extenderse a un llamamiento: “¡Tenéis que uniros – en toda Europa!”
COVID-19 se está extendiendo por más y más áreas del mundo y resulta que el así llamado estado de catastrofe es la regla. Porque allí, donde la gente es  c por el supuestamente necesario y estricto estado paterno: “Quédate en casa”, no todo el mundo tiene hogar. Como si eso no fuera suficiente, el propio estado ha aumentado el número de personas sin hogar desalojándolas. Al mismo tiempo está cerrando los alojarmiento precarios, que les desamparades necesitan para un poco de pan, agua y jabón. En su doble moral, nos exhorta patriarcalmente: “¡Cuidado con la higiene!”
“¡Evitar el contacto social!” es lo que los gobiernos nos piden que hagamos. Pero, ¿hacia dónde deberían retirarse les refugiades cuando están hacinados en campos y prisiones de deportación en las fronteras exteriores de Europa y en la periferia alemana? Al lado de quitarles sus derechos humanos – como el asilo, la libertad de movimiento y la vivienda – también se han visto privades de la posibilidad de protegerse eficazmente contra COVID-19.
En este país la catástrofe es que ni siquiera los últimos restos arruinados de este sistema de salud son accesibles para todos. Es una farsa social que los médicos, paramédicos y personal de enfermería que declararon este estado de emergencia mucho antes de COVID-19 fueran ignorados. Por esto pueden hacer lo menos posible y merecen toda nuestra solidaridad. Pronto tendrán que decidir, como en Italia, a quién se le permite vivir y quién tiene que morir. Eso en sí mismo es catastrófico. 
La catástrofe se llama capitalismo. Y es la regla.
Durante días les inquilinos, las asociaciones sociales y los partidos socialdemócratas han exigido la confiscación de las casas de vacaciones y de las plazas libres para ponerlas a disposición de las personas sin hogar y de los solicitantes de asilo. Mientras que los pisos son ambiguamente la protección más efectiva contra el coronavirus, la ciudad de Berlín ha creado 350 plazas en un albergue juvenil y una instalación de refrigeración. Vender esto como solidaridad es cínico.
En la situación actual, la confiscación de la vivienda es un deber social.
                                                                                 ¡Por eso nosotros ocuparemos – únete!
Saludos desde Berlin a todes que luchan!