tratto da Bentruxu
19 Aprile
Riceviamo e pubblichiamo un contributo ricevuto da Sassari:
Ci sono tante cose che velocemente stanno cambiando sotto i nostri occhi: le relazioni, il controllo, il modo di lavorare o semplicemente di guardarci in strada, ma ciò che mi dà più di tutto il voltastomaco è la retorica nazional patriottica del “siamo tutti uguali”. Qualche giorno fa parlavo con una vicina di quartiere: una famiglia con tre bambini, al momento ovviamente tutti senza lavoro; da una vita si arrangiano con lavoretti in campagna o in edilizia, regolarmente tutto in nero, ma ora tutto è fermo. Pagano 400 euro di affitto una piccolissima casa e, viste le difficoltà, hanno chiamato il proprietario e gli hanno chiesto di venirgli incontro per il pagamento dell’affitto. Il proprietario ha risposto:” Se non hai i soldi di Marzo non preoccuparti, ad Aprile mi pagherai Marzo ed Aprile”. Altri due amici sono dovuti andare a vivere dai genitori di lui, poiché gli hanno staccato luce ed acqua. La signora africana menata dalla sbirraglia municipale ieri, nel quartiere di Carbonazzi a Sassari, stava buttando fuori orario la mondezza…un reato di una gravità assoluta che ben valeva i cazzotti al volto e i calci. La stampa, che non poteva ignorare soltanto perché la notizia nel giro di poco ha letteralmente fatto il giro di tutta la città, ha scritto un articolo che supera le veline della Questura per biecaggine e miseria umana. Due giorni fa, i due bimbi di un amico della via sono usciti con una palla mentre ancora il sole occhieggiava tra i palazzi: sono esattamente 33 giorni che non escono di casa…non so come lo sappiano, devono aver iniziato la conta sul diario di scuola. Il silenzio assordante si era riempito delle voci che da sempre animano queste piazze; la madre li aveva fatti uscire perché aveva sentito al TG che il Governo dava la possibilità ai bimbi di stare un’ora fuori. Il giorno dopo mi ha raccontato che gli sbirri erano passati di lì e le avevano intimato di far rientrare i bambini. Il sindaco illuminato di questa città non aveva accolto la direttiva del Governo; i bambini hanno ripreso la conta sulle pagine del diario. Ogni mattina apro la finestra e inesorabilmente sento la musica del vicino: vive in un buco buio, con una sola finestra sul vicolo che non gli dona però la fortuna di ricevere un raggio di sole. Guardo il piccolo mondo che mi circonda e penso: “Eh, no, non siamo tutti uguali”. E non solo non siamo uguali tra noi che viviamo le stesse vie, ma non lo siamo nemmeno dall’altra parte del mondo. Mentre il virus riempie le pagine dei giornali e ogni nostro pensiero, l’Africa è alle prese con il proliferare senza precedenti di cavallette che sta distruggendo i raccolti di milioni di persone. Il Sud America è ritornato a essere il caro giardino degli Stati Uniti, i quali sperano di trovare la loro autonomia energetica nel saccheggio delle risorse di quelle terre. Ma nessuno ne parla, l’Africa è sparita, della Siria non si sa più niente, il Sud America è una terra innominata.
Non solo non siamo tutti uguali, ma spero che almeno non saremo così coglioni da pensarlo
20 Aprile
Kontra is presonis nishunu est solu
Riceviamo e pubblichiamo:
“in questo periodo di emergenza abbiamo pensato di raccogliere un pò di notizie su cosa stia accadendo dentro il carcere di Uta (sarebbe anche interessante negli altri carceri isolani ma non abbiamo contatti diretti) perché istituzioni e media se ne disinteressano o peggio insabbiano tutto.
Attraverso corrispondenze, racconti e i contributi che arrivano sul gruppo WA “Nishunu est solu”, raccoglieremo settimanalmente più informazioni possibili e le pubblicheremo.
Le informazioni verranno spedite in carcere, fatte girare su internet e attaccate in qualche muro della città.
Più gente lo legge e contribuisce più sarà interessante, completo e utile, per questo vi chiediamo una mano nel farlo girare sia per far sapere cosa accade dentro, sia per coinvolgere nuove persone.
Se volete iscrivervi al gruppo nel manifesto trovato il QR Code. Non è molto ma se non vogliamo lasciarli soli non che rimboccarci le maniche e iniziare dalle piccole cose.
“KONTRA IS PRESONIS NISHUNU EST SOLU, FEUS KUMENTE S’ORTIGU.”
21 Aprile
La vergogna del campionato di calcio.
Se ancora ci fossero stati dubbi l’emergenza coronavirus li ha cancellati, il calcio moderno fa schifo, o come piace ad alcuni Skyfo.
Non solo per gli stipendi da capogiro che vengono dati ai vari Ronaldo di turno, ma anche per le vergognose proposte che vengono settimanalmente avanzate per trovare un modo di concludere le stagioni interrotte a causa dell’emergenza sanitaria.
La cosa che più risalta all’occhio è che il tentativo di trovare una soluzione non sia spinto dalla pressione dei milioni di tifosi, ma sia cercato per non venir meno agli accordi commerciali con sponsor e paytv.
In nome di milioni e milioni di euro vengono fatte proposte a dir poco assurde, dove i tifosi -teoricamente vera anima del calcio – non sono minimamente considerati.
Una delle più agghiaccianti – ma anche più probabili – è quella di far disputare tutte le partite mancanti a porte chiuse all’Olimpico di Roma, imponendo alle squadre e agli arbitri di stare in quarantena per sessanta-settanta giorni in strutture varie sparse nel Lazio, in modo da essere disponibili un giorno si e un giorno no per giocare e non rischiare nulla, o quasi, dal punto di vista sanitario.
I presidenti di alcune squadre all’inizio si erano opposti a questo tipo di soluzioni, ritenendo il risultato sportivo falsato da condizioni troppo inconsuete, ma sono tornati indietro sui loro passi e ora sono anche loro d’accordo nel provarci. Ieri in un’assemblea di Lega della serie A è stato deciso all’unanimità di fare di tutto per finire la stagione in corso.
Se ciò accadesse, e lo scenario non si potrà discostare molto dall’ipotesi sopra citata, si creerebbe un situazione mai vista e piena di aspetti schifosi.
Gli stadi vuoti costringerebbero tutti a vedersi le partite sulle paytv, ma parallelamente saranno chiusi anche i locali dove di solito vengono trasmesse le partite, quindi ci sarà un elevatissimo numero di nuovi contratti su Sky e DAZN, che probabilmente si staranno già sfregando le mani.
A essere un po’ malevoli ci viene da pensare che le società prima contrarie siano state convinte a suon di milioni proprio dalle emittenti televisive che non vogliono perdere questa ghiotta occasione (parliamo di più di 120 partite che dovrebbero essere giocate in un solo stadio quindi tutte in orari diversi, una sorta di sogno proibito per Sky e soci).
Immaginiamo che anche le istituzioni politiche non siano contrarie a questo tipo di soluzioni, un po’ perché comunque saranno soldi che si muovono e quindi lamentele in meno, un po’ perché il calcio da sempre è un fattore distraente per le persone (a maggior ragione dopo tre mesi di pausa, si parla di riprendere a giocare a Giugno) un po’ perché sarà un modo elegante per proseguire nel mantra #iorestoacasa.
Questo se ancora ce ne fosse bisogno è la prova che in Europa (e Sud America) il calcio – perlomeno quello professionistico – non è più uno sport, e non è nemmeno uno sport come tutti gli altri. Gli interessi che muove, le persone che coinvolge lo collocano nel mondo dell’industria.
In primis dovrebbero essere i tifosi e gli appassionati a opporsi a questa manovra, ma subito dopo ci dovrebbero essere anche tutti gli altri. Perché far finire la stagione a agosto ha anche un’altra enorme serie di problemi e ricadute sociali, in buona parte da scoprire, come ad esempio le migliaia di assunzioni legate al mondo del calcio non giocato, che non si capisce come potranno svolgere le loro mansioni in condizioni di sicurezza sanitaria e garanzia contrattuale.
Infine ci sono anche i calciatori, tra professionisti e non sono decine di migliaia, non tutti hanno ingaggi a sei zeri, in molti sono già da settimane senza stipendio. La loro voce non conta nulla, schiacciati tra le clausole dei contratti e il ricatto di sapere che nella vita sanno fare solo quello (pensiamo ad esempio a tutti i giocatori giovani delle categorie come l’eccellenza o la promozione).
Apparentemente la soluzione potrebbe essere semplice, basterebbe una grande campagna di boicottaggio delle paytv, e tutto il castello crollerebbe.
Ma questo non accadrà, perché il calcio è un’industria globale, e se anche questo accadesse in Italia non sarebbe sufficiente a ottenere ciò che ci auguriamo.
E allora?
E allora probabilmente ci ritroveremo in milioni davanti agli schermi per tutta l’estate, e l’unica cosa che resta da fare è la scelta individuale. A settembre rinnoveremo il nostro abbonamento allo stadio o con Sky?
Idolatreremo ancora Nainggolan o Joao Pedro?
Scrive un tifoso deluso, amante del calcio come di poche altre cose nella vita, con un piccolo passato da ultras e un amore per la sua squadra che non svanisce nonostante tempeste di ogni tipo.
Il calcio, o meglio il Toro, mi ha portato da Bilbao a Helsinki, da Udine a Catania, ho pianto e gioito, passato migliaia di ore a parlarne con gli amici, davanti alla TV e allo stadio.
Vorrei che il Toro si opponesse a questa assurda ripresa, che attraverso il presidente dicesse che “senza i nostri tifosi noi non scendiamo in campo” che i giocatori e il nostro capitano si rifiutassero di poter far gol ed esultare nel silenzio, di farsi chiudere per 60 giorni in un albergo nelle campagne laziali lontano da famiglie e affetti. Dimostrando di essere anche persone oltre che professionisti.
Ma questo non accade.
E non accade neanche più che i gruppi Ultras e in generale il tifo organizzato riescano a esprimersi e ad agire. Vent’anni fa la ripresa non sarebbe mai stata ammessa, e se lo stato avesse forzato la mano i gruppi ultras lo avrebbero letteralmente impedito.
Ma i tempi sono cambiati, la repressione ha distrutto questo mondo, a favore di un tifo omologato e ubbidiente.
Non so quanto cambierà il mio rapporto con il calcio e con i colori del mio cuore, ma qualcosa cambierà, perché questo schifo è troppo.
Non è facile spiegare cosa si prova e cosa si vuole, un buon riassunto sono le poche parole contenute in alcuni cori cantati nelle curve, che spiegano meglio di mille frasi quello che in tanti vorremmo vedere, e di certo non questa merda.
22 Aprile
Tutti sulla stessa barca?
“Il virus è democratico, la vita non lo è”, con queste parole si è espresso un ragazzo di via Schiavazzi, nel quartiere Sant’Elia, durante un filmato pubblicato dall’Unione Sarda in merito alle difficili condizioni che spesso si vivono nei quartieri popolari di Cagliari, e che la quarantena non può che aver acutizzato.
Parole che ci fanno pensare.
Probabilmente il ragazzo ha ragione, il virus è “democratico” perché colpisce proprio tutti, indipendentemente dalla posizione sociale in cui ci si trova. Si sono ammalati persino Boris Johnson, Carlo d’Inghilterra, Alberto di Monaco, Dybala, Massimo Cellino, Tom Hanks e chi più ne ha più ne metta. Ma siamo sicuri che costoro verranno curati allo stesso modo delle decine di migliaia di ammalati in giro per il mondo? Siamo sicuri che anche loro rischiano di non trovare posto nelle terapie intensive piene fino all’orlo?
Queste parole dovrebbero farci ricordare le profonde disuguaglianze nelle quali la società in cui viviamo affonda le sue radici. Ed è a partire da queste che dovremo valutare gli #“iorestoacasa” o “siamotuttisullastessabarca”.
L’altro giorno passeggiando per il quartiere in cui vivo, uno di quelli filmati dall’Unione, ho sentito una frase che ben riassume la situazione comune a moltissime famiglie: “viviamo in 4 in 40 metri quadri, devo uscire perché se sto a casa mi impicco”.
Sarebbe divertente vedere una discussione tra questo signore e Fedez, uno di quelli che da subito si è fatto promotore della campagna #iorestoacasa, ben comodo nel suo attico di 280 mq con tanto di jacuzi all’aperto e palestra. Un vero e proprio sputo in faccia a tutti quelli che vivono in case anguste, prive di particolari comfort, sottodimensionate rispetto al numero di residenti, in quartieri con alti tassi di disoccupazione e dove quindi ci si arrangia spesso con qualche lavoretto qua e là. Perlopiù mansioni che non rientrano nelle categorie destinatarie di sussidi, e neanche in quelle delle autocertificazioni richieste dagli sbirri.
I dati Istat, dicono che in Sardegna quasi il 27% della popolazione vive in case sovraffollate e il 22% dei sardi vive in case con problemi strutturali o di umidità.
Questa è la realtà quotidiana, dove l’emergenzialità non è una condizione di certo nuova o sconosciuta, e questa nuova forma causata dal virus andrà solo a sommarsi a tutte le precedenti.
E’ nei quartieri dove ritroviamo queste condizioni che è più facile vedere gente in giro in questi giorni, e spesso queste abitudini non allineate, purtroppo, portano con se anche una maggior presenza di forze dell’ordine, che non tollerano volentieri queste piccole forme di disobbedienza.
Abbiamo esempi come Sassari, nel quartiere Carbonazzi, dove dei municipali, ben contenti di non mettere solo multe alle auto, hanno picchiato due signori che uscivano a buttare la spazzatura.
Oppure quanto accaduto a delle famiglie del Pilone di Palermo, che dopo aver indirizzato dei fuochi d’artificio pasquali contro l’elicottero della polizia, che si era “intromesso” nel pranzo sui tetti delle palazzine, hanno subito l’intervento della celere che non solo a multato tutti i residenti, ma ha letteralmente buttato via i tavoli e le sedie delle famiglie. Ultimi in ordine di tempo i fatti avvenuti a Torino, nel quartiere di Aurora, dove alcuni compagni che abitano in quella zona si sono messi in mezzo a un controllo della polizia piuttosto violento, e sono stati arrestati.
Questi fatti sono abbastanza facili da leggere, le condizioni di vita nelle periferie stanno diventando di anno in anno sempre più complicate, le istituzioni – solo in tempo di virus – paragonano la Lombardia alla Basilicata o il Veneto alla Sardegna, paragonano i centri cittadini ai quartieri periferici. Per evitare esplosioni di rabbia usano quindi la forza pubblica (i posti di blocco a San Michele spesso sono composti da 4 volanti, quelli a Villanova?), o l’ipocrita elemosina assistenziale, come l’altro giorno ha fatto Truzzu dichiarando che gli abitanti delle case popolari (solo quelle comunali, non quelle regionali che sono numerose) possono non pagare il canone di locazione. Sembra quasi una barzelletta. Eh si, perché moltissimi assegnatari delle case popolari pagano cifre ridicole di canone di locazione (ci sono canoni da 12 euro al mese) oltre al fatto che se non hanno possibilità non lo pagano e basta. Perché il Comune non interrompe invece il pagamento dei biglietti del CTM?
Ma tanto non c’è da preoccuparsi, lo dicono tutti: andrà tutto bene. Come se prima del virus vivessimo in paradiso…
23 Aprile
In questi giorni di epidemia si sente spesso parlare della crisi che comporterà questa fermata della società, soprattutto per i settori economici legati al terziario e ai servizi.
In piena primavera, e con il sole che inizia a scaldare le giornate, in Sardegna gran parte della preoccupazione deriva dall’instabilità della prossima stagione turistica. Senza voli e senza navi l’industria delle vacanze non può funzionare, e ovviamente neanche senza vacanzieri. Gli strascichi di questa epidemia potrebbero essere molto lunghi, le persone avere paura di spostarsi e di conseguenza gli arrivi estivi calerebbero drasticamente. Le precauzioni e le misure di sicurezza potrebbero non bastare come antidoto alla paura e, in ogni caso, imporranno un tipo di vacanza diversa dal solito. Cosa succederà all’economia sarda? Quali rischi?
Per cercare di darsi degli strumenti di comprensione del fenomeno e delle conseguenze che ne potrebbero scaturire, crediamo sia utile soffermarci su alcuni dati e sulle caratteristiche tipiche del settore turistico in Sardegna, al fine di chiarirsi le idee sul colosso che abbiamo davanti.
In bilico
“Senza turismo la Sardegna crolla”
Gian Mario Pileri, presidente
della Federazione agenzie di viaggio
“Come in tutto il mondo Villasimius
sta vivendo un momento drammatico.
Come è noto, la vita della nostra Comunità è
scandita dal turismo, che seppur con la sua marcata
stagionalità, ne condiziona l’economia e con essa i posti
di lavoro e la vita delle imprese e delle famiglie”
Sindaco di Villasimius
Potremo sostituire “Villasimius” con numerosi altri paesi o piccole città delle zone costiere sarde che il significato non cambierebbe. Sono tanti i luoghi in Sardegna che hanno fatto del turismo la principale fonte di profitto e sussistenza, abbandonando progressivamente altre forme di economia e modificando, spesso irrimediabilmente, l’ambiente locale.
Nei paesi attorno a Cagliari, così come nella zona di Olbia-Santa Teresa di Gallura, ma anche nella zona di Bosa-Alghero, numerose comunità hanno adattato la propria economia all’industria turistica, la quale si è posta (o imposta?) come principale fucina di posti di lavoro e come principale fonte di profitto, motivo per il quale in questo periodo pre-estivo di epidemia la paura che la stagione salti è molto alta.
Gli studiosi continuano a dare i numeri e parlano di perdite molto grosse.
D’altronde il turismo è un pilastro per l’economia sarda, si parla di circa 12 mila aziende solo nel settore ricettivo, capaci di ospitare i circa 3 milioni e mezzo di vacanzieri. Ma non si tratta solo di alberghi e campeggi, l’industria del turismo è molto ampia e l’indotto tocca tante aziende, dalle più grosse compagnie aeree ai piccoli venditori ambulanti di souvenir. Influisce anche su quelle aziende che lavorano durante tutto l’anno ma che d’estate registrano un guadagno ben più alto. Sempre secondo G.M. Pileri infatti “il turismo è un sistema concatenato e se si inceppa un ingranaggio l’effetto domino è devastante”.
Parliamo di circa il 14 % del Pil regionale ma che contando l’indotto complessivo arriva quasi al 50 %, ossia 16 miliardi di euro.
Per quanto riguarda i posti di lavoro si parla di circa 47 mila posti a rischio solo nell’indotto diretto. Secondo uno studio dell’Aspal se si paragonano le assunzioni avvenute tra il 24 Febbraio e il 10 Aprile nel 2019 e nel 2020 nel settore alberghiero-ristoranti si vedrà come le assunzioni sono calate del 68% rispetto all’anno precedente.
Come faranno tutti quei lavoratori stagionali che lavorano per 2-4 mesi e vivono poi con la disoccupazione (Naspi) per il resto dell’anno?
Per molti giovani isolani il lavoro stagionale è la principale fonte di reddito, anche perché non è facile trovare altre occupazioni durante l’anno (il tasso di disoccupazione giovanile nel 2019 si è attestato intorno al 35%, anche se il dato è sottostimato perché non tiene conto di chi non cerca lavoro, di chi non ha mai lavorato o chi ha lavorato pochissimo: per esempio non viene considerato disoccupato chi ha lavorato anche solo un’ora a settimana).
L’alto tasso di disoccupazione favorisce il ricatto lavorativo stagionale: o accetti quel poco che ti viene dato, oppure emigri. E infatti gran parte dei posti di lavoro legati al turismo sono sottopagati o prevedono condizioni sfavorevoli. Moltissimi lavoratori sono costretti a trasferirsi nel vero senso della parola nella struttura che li assume, assicurando quindi al padrone una reperibilità 24 ore su 24.
D’altronde però non rimangono tante altre possibilità per chi vive nelle zone costiere, dal momento che agli altri tipi di economia viene letteralmente tolta la terra da sotto i piedi.
Acquistare un terreno nelle zona costiera è praticamente impossibile, la speculazione edilizia degli ultimi cinquant’anni ha causato un innalzamento dei prezzi notevole, condizionando negativamente lo sviluppo di economie legate all’agricoltura e alla pastorizia. E ovviamente questo fenomeno avviene anche nelle zone costiere non altamente turistificate.
Inoltre la crisi di alcuni settori dell’economia isolana favorisce la svendita delle terre: lasciare che la crisi della pastorizia mieta le sue vittime vuol dire mettere una parte consistente di proprietari o affittuari di grandi porzioni di terra nella condizione di venderle, un po’ perché non hanno più bestiame un po’ perché non hanno più introiti, e non sarà difficile immaginare chi potrebbe comprare quei terreni.
Le crisi di alcuni settori dell’economia non sono mai un fatto naturale, bensì il frutto di imposizioni amministrative e di logica del mercato, si salvano solo i settori più produttivi (per le tasche degli imprenditori). E i finanziamenti che verranno dati al turismo saranno ben diversi da quelli elargiti per altri settori (a tal proposito abbiamo già scritto il 17 Marzo).
Alcuni tipi di economia sono quindi destinati a scomparire o comunque a ridimensionarsi, a favore della crescita di altri settori. In questo momento l’industria turistica si sta definendo come economia traino, anche grazie alla formidabile mobilitazione mediatica e istituzionale per convincerci della naturale vocazione dell’isola. Nel corso del tempo essa finirà per inglobare ancora altre parti di mondo produttivo, e tanta gente dovrà adattarsi all’industria delle vacanze, da cui diventeremo sempre più dipendenti.
Un processo di questo tipo sta già avvenendo, pensiamo per esempio alla riconversione immobiliare che vede molti appartamenti trasformarsi in B&b. Nell’ultimo anno le strutture private registrate erano circa 37 mila, circa il doppio rispetto a due anni prima. Addirittura a San Teodoro poco meno della metà delle abitazioni del paese risulta registrata su Airbnb nei mesi estivi. Arriveremo al punto in cui tutti decideremo di lasciare le nostre case nel periodo estivo per poter affittarle ai vacanzieri?
Che sia per via della riconversione immobiliare, per l’ampliamento dei posti di lavoro nelle strutture o per l’apertura di nuove aziende legate all’indotto turistico una cosa appare certa, ossia da qui in avanti saranno sempre di più le persone che entreranno nell’orbita dell’industria turistica. E proprio come una vera e propria industria non avrà bisogno solo di operai, bensì anche di tecnici, ragionieri e dirigenti. Non è un caso che nell’isola esistano già dei corsi di laurea e di specializzazione in questa nuova scienza del turismo.
Ma torniamo a noi, torniamo al più recente presente che ci vede chiusi in casa e dubbiosi sulla futura possibilità di movimento. Se nei giornali e nei discorsi degli amministratori si percepisce una certa paura rispetto all’instabilità della stagione turistica un motivo c’è. Il motivo è che siamo già troppo dipendenti dall’arrivo dei vacanzieri e che se effettivamente la stagione dovesse saltare, per l’isola potrebbe aprirsi una crisi profonda, che come al solito non coinvolgerà i grandi imprenditori bensì la massa dei dipendenti.
Ma allora cosa fare? Sperare che tutto finisca in fretta e che le orde di turisti approdino presto sull’isola? Oppure rendersi conto di quanto è instabile un’economia così sbilanciata su un unico settore? Rendersi conto che non possiamo dipendere esclusivamente dalla vendita e dall’abuso delle nostre spiagge da parte dei vacanzieri. E se poi i turisti un domani non ci fossero più?
Oggi a causare un calo degli arrivi è l’epidemia, domani potrebbe essere un conflitto, dopodomani l’immagine della Sardegna che viene sostituita dall’offerta di un altro competitor o mille altri motivi.
E sopratutto, senza i turisti che pagano a noi cosa rimane?
Solo crisi, devastazione ambientale e omologazione culturale…
24 Aprile
Università ai tempi del Covid 19
Una premessa
Tra le istituzioni pioniere del lock down totale, l’università è, probabilmente, uno dei contesti che meno ha sofferto l’imposizione della distanza e la chiusura dei suoi spazi. È sicuramente così da un punto di vista dell’“erogazione del servizio”.
Più che altrove, rimodulare le proprie attività in modo che queste continuassero a svolgersi, ma a distanza e mediate da supporti tecnologici, non ha presentato grossi intoppi. È certo che non ne abbia risentito il modello didattico dominante, caratterizzato dalla lezione frontale come unico metodo pedagogico. Se già nelle aule di Scienze Politiche (dove io studio) regnavano quiete e indifferenza, ora che per ascoltare il prof. é sufficiente collegarsi con la web cam, sono cessati anche quei silenzi imbarazzanti, rimpiazzati da reaction virtuali come sui social network o nelle chat più diffuse.
Ciò che registro io – con il limite della mia esperienza parziale basata più su raccolta di sensazioni che su statistiche – è una sostanziale accettazione di queste nuove metodologie, piuttosto acritica, totalmente in linea con le abitudini di tanti studenti contemporanei, che già cedevano alla tecnologia un ruolo primario nella gestione dei rapporti umani. Non andare a studiare in biblioteca è un po’ una noia, ma si può sempre fare pausa pranzo o aperitivo in videochiamata.
L’Esame
Per sostenere l’esame occorrono: un pc (in alternativa tablet o smartphone) con connessione internet, webcam, microfono e altoparlanti – meglio se il mix di questi funziona bene e contemporaneamente. Raccolto l’essenziale, ci si collega in una riunione virtuale nella quale candidati, docente e assistente simulano ciò che tradizionalmente si svolge in aula, non senza che l’effetto sia particolarmente macchinoso.
Un elemento di discontinuità che ho registrato è rappresentato proprio dal non trovarsi in aula. Viene meno la neutralità del luogo nel quale si è abituati ad essere interrogati e si è costretti a far entrare professori e colleghi (a volte degli sconosciuti) nella propria cameretta; se l’ansia dell’orale viene mitigata dalla possibilità di appiccicare qualche post-it con suggerimenti sullo schermo del computer, non si più non notare il distacco tra la bella libreria dietro la poltrona del professore e la mia casetta trasandata, con i piatti sporchi lasciati in bella vista dal coinquilino più disordinato.
Altro aspetto da segnalare, è il fatto che tutto avviene in modo distratto e un po’ farraginoso. Si rischia di stare più tempo a chiedersi se ci si sente bene o se il video funzioni piuttosto che ascoltarsi mentre si descrivono le parti del programma richieste: il mio docente, che non godeva da prima della fama del più attento degli ascoltatori, mentre io ero impegnato nel tentativo di rispondere correttamente, dava l’impressione di utilizzare liberamente il pc piuttosto che starmi a sentire. Più concentrato l’assistente, che sembrava ci tenesse a fare una bella figura.
Piccolo bilancio
In quattro e quattr’otto l’esame è finito. Meno di mezzora, niente traffico per arrivare in facoltà, niente tempo perso a cercare parcheggio, nessuna sudata nella salita di viale Fra Ignazio e nessuna ricerca strenua dell’aula. Ma nemmeno un confronto al volo con un collega prima dell’ interrogazione, o una rassicurazione da chi è stato interrogato prima di me. Niente dritte last minute su “cosa chiede di più”, nessuno sguardo d’intesa o di conforto con i colleghi con cui ho preparato l’esame. Solo una videochiamata, fredda, asettica.
Qualcuno ipotizza sia il modello dell’università del futuro. Sarò conservatore, pure primitivista, ma, con tutte le sue lacune, a me andava di più quella del passato.
25 Aprile
Io esco e protesto?
In mattinata una trentina di persone si sono riunite in piazza Garibaldi, in centro città, con uno striscione che recitava “25 Aprile io esco e protesto”. Sotto gli occhi di una decina di agenti della Digos e di qualche passante incuriosito si è ribadita l’importanza di mettere in discussione i decreti governativi, la necessità di non chiudersi impauriti in casa ma piuttosto di uscire e sperimentare assieme come gestire distanze e precauzioni, oltre che ribadire quali sono i veri responsabili del disastro sanitario. Ci si è anche soffermati sulla vergognosa scelta di proseguire le esercitazioni militari in questo periodo di epidemia, ricordando quanto lo Stato spende in materia di armamenti e equipaggiamento militare, al fronte del menefreghismo per quanto riguarda le strutture sanitarie.
Alcuni dei presenti sono stati identificati dagli agenti di via Amat, e probabilmente arriveranno le famose multe.
Provare ad uscire di casa, provare a prendere posizione, provare a superare la diffusione della virtualizzazione delle opinioni, è fondamentale.
Il mondo attorno a noi sta cambiando e, come dice qualcuno, “niente sarà più come prima”.
La tecnologia sta travolgendo continuamente ogni piccolo aspetto della vita sociale, segnando sempre più il solco tra chi è incluso e chi è escluso. Non aderire ad alcune forme di tecnologizzazione sta diventando sempre più complicato. Lo smartphone si sta confermando come conditio sine qua non per far parte dell’organizzazione sociale: se non lo hai sei strano, hai qualcosa da nascondere. Non c’è da sorprendersi se la gran parte della popolazione aderirà alla nuova applicazione sul tracciamento dei contagi.
Intanto anche gran parte delle organizzazioni “antagoniste” hanno affidato la propaganda e l’organizzazione delle lotte al mondo virtuale. Assemblee online e campagne social sono sempre più frequenti. Sarà solo un palliativo momentaneo o nuove forme di comunicazione che si cementificano?
Le strade intanto iniziano a ripopolarsi ma il controllo poliziesco è ben attento, pronto ad intervenire ogni qual volta ci sarà qualcuno che dirà la sua ad alta voce. Certo, è sempre stato così, non c’è da sorprendersi, ma non si può neanche non ammettere che l’accostamento tra norma sanitaria e giuridica abbia conferito alle forze armate un’ulteriore dose di potere e spavalderia.
C’è poi il problema sanitario, che non scomparirà con i decreti e le restrizioni. Senza dubbio il pericolo di ammalarsi continuerà ad esistere e con questo anche le abitudini e le paure cambieranno. Non sarà facile liberarsi di mascherine e distanze, né dalla paranoia del contagio, e allo stesso tempo ci sembra doveroso rispettare chi, per paura di ammalarsi, ci tiene a tenersi più distante.
Qualsiasi iniziativa in piazza dovrà tenere conto di questo fattore.
Questi tre aspetti, tecnologizzazione delle vite e delle lotte, controllo poliziesco che si fa più pressante e convivenza con il pericolo sanitario ci pongono nella condizione sempre più urgente di una discussione su ciò che accade attorno noi, su ciò che possiamo fare per intervenire e su come autogestire il pericolo sanitario, affinché anche le persone a cui ci rivolgiamo possano sentirsi coinvolte e tutelate.
26 Aprile
La seconda uscita del bollettino di informazione sulle carceri sarde. Per chi volesse contribuire iscrivitevi al gruppo o scriveteci