Il passato è passato…

“Perché il desiderio di estraneità non diventi mutilazione rassegnata, ma si armi contro ogni forma di autorità e di sfruttamento. Perché dal Potere del dialogo (con cui si pensa di risolvere tutto) e dal dialogo del Potere (che invita tutti ad una ragionevole contrattazione) si passi ad un sentimento di radicale inimicizia verso l’esistente, di distruzione di ogni struttura che aliena, sfrutta, programma e irreggimenta la vita degli individui. Il nero del cane (questo animale cui generalmente si associa l’idea di sottomissione, di servile mansuetudine) è proprio la volontà di uscire dal gregge della servitù volontaria e di aprirsi alla gioia della ribellione. Non il nero in cui tutte le vacche sono uguali (sia pure nel loro essere contro o fuori), bensì quello in cui scompare il confine tra la demolizione e la creazione, tra la difesa oltranzistica di se stessi e la costruzione di rapporti di reciprocità con gli altri.”

Oggi, in questo periodo di emergenza sanitaria, diventa di particolare importanza condividere e approfondire riflessioni sui temi della malattia e della sicurezza della vita. Per questo riproponiamo dei testi di Canenero, scritti tra gli anni ’94 – ’95, che possono aiutarci ad avere uno sguardo più lucido sulla situazione, poiché inseriti al di fuori del flusso mediatico delle notizie in cui invece noi siamo immersi.

Questa pandemia ha trovato impreparati tutti: dall’individuo che non si era mai posto tante domande su questa società a chi ha sempre trovato assurdo accettare di passare l’intera vita a respirare polveri sottili per poi ritrovarsi con un tumore. Ma anche negli ambienti cosiddetti radicali la critica sulla sicurezza della salute è venuta meno. Quello che sentiamo e leggiamo quotidianamente dai media e dai giornali è il costante bombardamento di notizie sui morti e i malati che il Coronavirus ha fatto. Dunque, come viene intesa la malattia e perché questo terrore di essa e della morte? In questa società la medicina è riuscita a creare l’opinione comune – o luogo comune – secondo il quale la salute deve essere necessariamente medicalizzata, ogni malattia o sintomo devono essere nell’immediato curati, spesso senza chiedersi nemmeno troppo l’insieme delle cause che li hanno generati. La maggior parte delle persone, di fronte al rischio di ammalarsi, si affida ciecamente nelle mani dei medici e degli esperti, rassegnandosi all’espropriazione della propria vita in cambio di una esistenza menomata ma garantita.

Infatti, sotto questa coltre di paura collettiva che lo stato e i media hanno creato, in particolar modo riguardo alla diffusione del virus, le persone si fidano del parere degli esperti senza porsi più di tanto la domanda se la distanza di sicurezza, la mascherina e i domiciliari forzati possano davvero essere la soluzione a questa pandemia.

L’idea della sopravvivenza a tutti i costi, l’idea di una vita (sopra)vissuta il più a lungo possibile anche senza goderne intensamente, per quanto qualcuno di noi possa non trovarsi idealmente d’accordo, ci porta comunque ad affidare i nostri corpi nelle mani di chi quei corpi li vede solamente come macchine funzionali alla volontà dello stato di continuare a perpetrare il suo potere.

Nei diversi testi emerge, ad esempio, la critica alla tecnica e alla paura del nulla e dell’ignoto in quanto attraverso la lotta contro il terrore del nulla può essere letta l’intera storia della civiltà della tecnica. Perché, mentre per la società la sopravvivenza è un dovere, c’è chi pensa che la propria vita appartenga esclusivamente a se stessi. Qualcuno, di fronte alla consapevolezza di non voler più continuare ad esistere, decide, senza chiedere permesso a nessuno, di togliersi la vita, qualcun altro, di fronte all’incrollabile speranza di guarire dal tumore, decide di sottrarsi alla medicina e di fuggire dalla paura della morte andandole incontro. E altri spunti, per tentare, ancora un’altra volta, di dare alla ribellione la gioia randagia e l’impulso di una distruzione tanto auspicata da chi si sente straniero in territorio nemico. E questo territorio dicasi mondo intero.

Qui trovate il PDF per leggere e scaricare i contributi di Canenero:

Il tempo è finito

Rileggendo l’editoriale del numero 10 della rivista anarchica “i giorni e le notti” – in cui si accenna al rapporto tra la finitudine dell’esistenza umana e il sogno dell’immortalità – abbiamo trovato degli spunti non inutili, forse, per questi tempi di confinamento e di percezione di qualcosa che incombe. Quanto il sentimento della paura venga alimentato e sfruttato dallo Stato e dai tecnocrati per accelerare la digitalizzazione della società e la macchinizzazione dei corpi, non sfugge ormai a nessuno. E il sogno rivoluzionario di affrontare umanamente i limiti della nostra condizione (sì, possiamo ammalarci, sì, prima o poi moriamo), in che stato di salute è? Ci sembra che nelle analisi circolate finora – e ne abbiamo lette di buone e anche di ottime – manchi proprio il lato soggettivo di quello che stiamo vivendo. Gli scenari che si aprono, gli interventi sovversivi possibili… – tutto questo è necessario quanto urgente. Ma noi, ciascuno di noi, di fronte al rischio di ammalarci e di far ammalare, alla vista delle strade deserte, siamo rimasti esattamente gli stessi di qualche mese fa? Non abbiamo riscontrato, anche fra compagni, un certo disorientamento? E dal lato esistenziale si torna a quello pratico-operativo. Non è detto che in futuro – come stiamo sperimentando anche in queste settimane – potremmo fare affidamento sulla dimensione collettiva (gli incontri, le assemblee, lo scendere in piazza insieme e in modo annunciato). Saper cogliere le occasioni, certo. Approfondire le affinità e affinare la capacità di agire anche in pochi, senz’altro. Ma forse questo tempo ci sta dicendo altro. E a poco valgono le pose con noi stessi e con gli altri. Per cosa siamo disposti a vivere (e a morire)?

Di seguito il testo dell’editoriale

Dedichiamo gran parte di questo numero della rivista all’internazionalismo.

Non esiste oggi questione di una qualche rilevanza che non abbia una dimensione internazionale. Dai salari alla logistica, dalla produzione alle spese militari, dall’estrazione di materie prime agli oggetti di uso quotidiano, dai prezzi delle merci alla repressione, dagli affitti alle pensioni, dal ruolo dei territori alle emigrazioni, dall’urbanistica ai cambiamenti climatici, internazionali sono le cause e gli effetti, i processi e le dinamiche, le lotte e i rapporti di forza.

Di conseguenza non è mai stato tanto necessario avere una prospettiva internazionalista, come sfruttati in generale e come anarchici nello specifico.

Come cerchiamo di far emergere dagli articoli che pubblichiamo, esiste un rapporto sempre più stretto tra lotta di classe e tecnologia, tra Internet ed estrattivismo, tra il mondo virtuale e i suoi rovesci materiali su scala planetaria. I mercati capitalistici oggi in espansione – pensiamo all’agribusiness, alla bio-medicina, alla riproduzione artificiale e alla sperimentazione di nuovi farmaci – seguono precise linee di classe, di genere e di “razza”. Dietro c’è il saccheggio neo-coloniale. Dietro c’è la guerra.

Come dimostrano i casi incrociati dell’attacco da parte dell’esercito turco alle comunità curde e lo stato di emergenza decretato in Cile contro la rivolta seguìta all’aumento dei prezzi dei trasporti, la ristrutturazione economica oggi si impone con i militari e la guerra si rovescia all’interno contro il conflitto sociale. Dietro le mire assassine di Erdogan c’è il capitale internazionale. Più il “Sultano” attacca l’organizzazione dei lavoratori, più gli imprenditori stranieri investono in Turchia; più devasta il territorio, più le banche lo finanziano. E intanto in Siria – dove alleanze e “tradimenti” sono funzionali alla spartizione geopolitica delle zone di influenza – si sperimentano nuove armi, per la gioia dei produttori di mezzo mondo. Dietro i caroselli dei militari in Cile, dietro gli arresti di massa, dietro gli stupri e il fuoco aperto persino sui ragazzini da parte dei carabineros, c’è il capitale nordamericano.

Ma non siamo di fronte soltanto a un gigantesco Risiko fra le grandi potenze. Sullo sfondo, ci sono le lotte, le resistenze, le rivolte. Quella in corso in Cile non ha precedenti, per intensità, negli ultimi decenni in quel Paese: si è sedimentata sciopero dopo sciopero, barricata dopo barricata, molotov dopo molotov, ed ha trovato nei compagni anarchici in carcere una fonte di ispirazione e di incoraggiamento. E mentre i degni successori del neoliberista Pinochet schierano l’esercito, che non riesce a domare le fiamme, continua la rivolta sociale in Ecuador. Ben più complesso – ma necessario – il giudizio sulla guerriglia curda. Se essa è stretta da tempo nelle stesse contraddizioni che hanno segnato la Resistenza al nazi-fascismo in Italia – cercare di essere una forza autonoma dentro uno scontro inter-imperialistico –, la logica della guerra e della diplomazia ne ha trasformato profondamente i lineamenti. Se non ci siamo mai entusiasmati per la costituzione formale del Rojava – con la sua difesa della proprietà privata e i suoi governanti (tali addirittura per volontà divina!) –, abbiamo anche còlto la forza della sperimentazione sociale in corso in diversi villaggi. (Anche se da lì ai paragoni con la Spagna del ’36…). Ma quando dei guerriglieri si prestano a fare da fanteria per l’esercito statunitense (partecipando a operazioni militari ben lontane dal Kurdistan); a gestire campi profughi con migliaia di internati; a farsi carcerieri non solo di miliziani dell’Isis, ma anche dei loro familiari, continuare ad alimentare a livello internazionale il mito di un Rojava libertario è un tragico errore. Un errore figlio del taglio che si è voluto dare da più parti alla solidarietà con la resistenza curda. Averne fatto un avamposto eroico contro lo Stato Islamico (il Male assoluto contro cui ogni fronte comune è giustificato), ha allontanato la solidarietà dall’analisi materiale delle forze capitaliste in campo e allo stesso tempo da tanti proletari arabi, che conoscono per esperienza diretta la politica e la retorica democratiche contro il “fondamentalismo islamico”. Non sono certo, queste, buone ragioni per lasciare lo Stato turco massacrare le comunità curde. E non c’è bisogno che ci si ricordi ogni volta che noi possiamo formulare i nostri giudizi critici comodamente lontani dalle bombe e dai massacri, e che non ci siamo mai trovati ad affrontare una situazione così drammatica. Lo sappiamo. Ma non è certo meno comodo riempirsi la bocca di Kurdistan e poi non danneggiare concretamente gli interessi dello Stato e del capitale turchi. Senza rinunciare mai allo spirito critico, c’è un terreno in cui non si sbaglia mai: quello internazionalista dell’attacco ai padroni di casa nostra, dell’azione contro chi organizza da qui ciò che succede laggiù (basta pensare a Leonardo-Finmeccanica e a Unicredit, tanto per citare i responsabili più diretti).

Internazionalismo è anche conoscere e sostenere le lotte che gli anarchici portano avanti in Paesi lontani dal nostro, dove condizioni di vita, conflitto sociale e forme di repressione non si possono appiattire sul nostro spazio-tempo. Basta leggere la traduzione che pubblichiamo di un testo scritto dai compagni russi sul significato del gesto di Michail Žlobickij, l’anarchico diciassettenne che si è fatto esplodere in una sede dei servizi segreti di Putin. A colpire profondamente non sono solo la brutalità della repressione e il coraggio di quel giovane compagno, ma il linguaggio impiegato dagli anarchici russi. Concetti come sacrificio, eroismo e immortalità sembrano provenire da un’altra epoca, quella dei grandi romanzieri dell’Ottocento o dei proclami anarchici dei primi del Novecento. Concetti che stonano con il nostro materialismo della gioia. Eppure fanno riflettere. Non c’è dubbio che la lotta anarchica richieda grandi sforzi, lontana com’è tanto dalla mistica religiosa quanto dalle sirene del comfort tecnologico. E non c’è dubbio che tanta retorica del piacere – non a caso assorbita dal linguaggio della merce e della pubblicità – abbia contribuito ad infiacchire la disponibilità all’impegno e al rischio. Ma è proprio la falsa dialettica fra le litanie della militanza come sacrificio – invero oggi sempre più rare e fiacche – e le cattive poesie della soddisfazione immediata, che la passione rivoluzionaria dovrebbe far saltare. Eppure. Come diceva il materialista Leopardi, la vita non può fare a meno di illusioni necessarie. La ragione che irride i grandi sogni contribuisce a rimpicciolire gli animi. Un popolo di filosofi, tagliava netto Leopardi, sarebbe un popolo di vigliacchi. Pensiamo agli esordi del socialismo rivoluzionario. A infiammare la gioventù ribelle sono stati i regicidi e le barricate della Comune, ma anche il desiderio di “immortalità” da conquistare con la rivolta. A lungo il linguaggio dell’emancipazione sociale ha attinto al messianismo religioso (pensiamo alla giustizia come redenzione immediata, che prorompe con forza da I tempi sono maturi di un Cafiero, o al titolo Fede! dato a un giornale anarchico). Il sogno della rivoluzione sociale non è stato solo un orizzonte che rovesciava la promessa religiosa mantenendone l’intensità – il paradiso da conquistare sulla Terra –, ma anche la tensione individuale nel corpo a corpo con la finitudine della vita. Di fronte al fatto piuttosto seccante che si deve morire, il materialismo rivoluzionario non ha proposto la gelosa conservazione della vita, ma un sovrappiù di rischio, di gioia, di bontà, di coraggio che proietta nel futuro la memoria del proprio passaggio sulla Terra. Non la fama, che è legata ai corsi fortuiti e meschini del successo, ma la gloria, che è legata alla virtù, cioè alla giustezza delle scelte, indipendentemente dai risultati ottenuti. Concetti antichi, non c’è dubbio. Eppure a quel sogno di immortalità – illusione necessaria, ancorché non confessata – risponde oggi la potenza che ha quasi soppiantato la religione, cioè la tecnologia. Le tre maledizioni che nel racconto religioso seguono la Caduta, cioè dover morire, partorire con dolore e guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, sono proprio le condizioni che l’apparato tecnologico promette di abolire. La riproduzione artificiale dell’umano, la robotizzazione della produzione e la crioconservazione sono i perni dell’utopia totalitaria, il sogno macchinico di superare la finitudine umana. In attesa di eternizzare i corpi, l’intelligenza artificiale promette di conservare nella memoria dei computer i segni di una vita intera. Che tutto ciò non possa prescindere dal saccheggio del pianeta e dalla fatica di qualche miliardo di iloti non intacca, purtroppo, la forza della religione tecnologica. Né deve sorprendere che, a rovescio, per milioni di poveri il riscatto assuma le forme del radicalismo religioso, che è insieme arcaico e perfettamente contemporaneo. O meglio, che fa a brandelli il discorso progressista della contemporaneità, perché rivela che il mondo è attraversato da avvenimenti, tendenze, aspirazioni tra loro non-contemporanei, come se l’epoca attuale racchiudesse numerose epoche co-presenti. Il che non vale solo per il dominio, ma anche per le lotte. Siamo, qui in Italia, contemporanei delle lotte in Cile, in Ecuador o in Libano? Siamo contemporanei della guerriglia curda? Sì, nel senso che le date del calendario sono le stesse. No, nel senso che il nostro spazio-tempo è altro, e così i problemi, i sentimenti, l’urgenza che ci pungola. Altrimenti saremmo di un’indifferenza disumana e potremmo definire la nostra disponibilità al rischio comune come micragnosa. Il tempo – anche quello della percezione e del sentimento, quindi della solidarietà – non è affatto lineare. Essere contemporanei delle rivolte in giro per il mondo non è un dato; è una scelta, uno slancio, una tensione. Una tensione letteralmente utopica e ucronica.

[…]

«Il rischio è un bisogno essenziale dell’anima», scriveva Simone Weil. Da questo punto di vista, la democrazia – che contiene al suo interno le tendenze fasciste – è penetrata negli animi. Svuotandoli di ogni ideale, la cui ispirazione sola rende «a poco a poco impossibile almeno una parte delle bassezze che costituiscono l’aria del tempo che respiriamo». Qualcosa per cui valga la pena vivere, e morire: ecco cosa manca drammaticamente. Mentre una parte crescente dei dannati della Terra vede nel martirio portatore di morte una promessa di riscatto, si fa sempre più suadente e concreta la cattiva immortalità delle macchine, il prolungamento infinito dell’effimero, l’immensità dell’insignificante. Condannati a questa eternità (la domanda di grazia, respinta – chioserebbe Ennio Flaiano). Che forza esprime, di fronte a queste contrapposte narcosi del sentimento di finitudine, il sogno rivoluzionario? Per rispondere, dobbiamo attraversare lo specchio.

A proposito di tempo. Le ultime sentenze contro gli anarchici hanno proiettato nel nostro orizzonte l’ombra di lunghi anni di carcere. Un tempo che fa male. Un tempo che non si scalfisce con gesti effimeri né con fiammate di estasi. Bensì con un ideale, con la tenacia, con una sentita, poco retorica e rinnovata disponibilità al rischio.

La virtualità avanza, le vie di fuga si sprecano. Come ammoniva già il saggio Eraclito, «unico e comune è il mondo per coloro che sono desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare». Stiamo entrando nella notte artificiale dell’idiozia generalizzata (laddove idíotes deriva da ídios – chiuso in se stesso). Tenersi desti richiede e ancor più richiederà un faticoso sforzo di attenzione, la facoltà umana contro cui l’intera organizzazione sociale muove la sua quotidiana guerra.

Il tempo a disposizione di ciascuno di noi è letteralmente finito, cioè limitato. Ciò che non ha limiti, viceversa, ma soltanto delle soglie, è la sua intensità. Che poi è il contenuto della vita. L’intensità non è faccenda di adrenalina, né di muscoli. È una questione etica. Nelle sue soglie si trovano, materialisticamente e fuori da pose superomistiche, nel silenzioso dialogo dell’anima con se stessa, nel confronto sincero con i propri compagni, il senso del giusto, l’eroismo, la nostra finita, umana immortalità.

«L’etica applicata alla storia è la teoria della rivoluzione, applicata allo Stato è l’anarchia» (W. Banjamin).

novembre 2019

 

Il tempo è finito

Cronache dallo stato d’emergenza (Numero 6)

25 aprile: segnali di ammutinamento

L’appello a violare le misure di confinamento durante la giornata del 25 aprile è stato raccolto in modo piuttosto variegato e creativo. A Trento, un gruppo di compagni e compagne è sceso in strada nel quartiere di San Pio X, mantenendo le distanze di sicurezza e dimostrando che è possibile ritrovarsi in strada, all’aria aperta, tutelando la propria e altrui salute. Il gruppo – con lo striscione “Responsabili, non ubbidienti. Resistenza ora e sempre” – è rimasto in strada per una buona mezz’ora, con interventi, musica e cori; qualche solidale e abitante del quartiere si è avvicinato, poi è arrivato un ingente quantitativo di forze dell’ordine che hanno provato ad identificare e fermare i presenti. Il tentativo degli sbirri non è andato a buon fine ed il gruppo si è allontanato intonando cori e salutando le persone affacciatesi dai balconi. Sempre in giornata c’è stato un saluto ai detenuti di Spini di Gardolo.
Per quello che abbiamo letto e saputo, diversi striscioni e cartelloni sono apparsi a Rovereto in ricordo dei partigiani, contro fascisti e capitale, in solidarietà con i detenuti in lotta, contro la logica padronale-statale che vuole le fabbriche aperte e le persone chiuse in casa… Diversi parchi sono stati “liberati” dai nastri divisori e i cartelli di divieto sono stati sostituti con altri che invitano a usare collettivamente gli spazi collettivi mantenendo le distanze fra le persone. A Tierno, musica in piazza con i vicini che hanno portato teglie di pizza. A Mori, giro in paese con musica e un cartellone. A Noriglio, striscioni appesi, giro in paese con canti partigiani e lettura di un volantino; a Lizzanella, presenza in piazza con striscioni e musica; alle Fucine, cartelli e interventi amplificati; al Brione, un gruppo di compagni e compagne – con le mascherine e distanziati fra loro – ha attraversato una parte del quartiere con uno striscione (“Organizzarsi per non subire ancora”) e un impianto. Il primo intervento sotto i palazzoni è stato seguìto con molto interesse dalle persone ai balconi, che hanno risposto con un sonoro applauso; una decina di persone si sono unite all’iniziativa. Tra i tanti discorsi (sulle cause strutturali di questa epidemia, sulle responsabilità di Confindustria e governo, contro il controllo tecnologico in nome della salute…), è stato lanciato un invito a chi è in difficoltà economiche a organizzarsi per non pagare l’affitto all’Itea (i cui dirigenti hanno annunciato una moratoria per i negozianti ma non per gli inquilini). Forse per via degli appuntamenti non annunciati e dei diversi orari, le pattuglie di polizia e Digos sono arrivate quando i compagni se ne stavano già andando. In tarda serata, fuochi d’artificio in tre punti nei dintorni di Rovereto.

Ben detto

«Mentre la produzione industriale intacca l’ultima delle foreste, la produzione di cibo selvaggio penetra ancor più in profondità a caccia di prelibatezze, o fa proprio razzia delle ultime roccaforti di natura selvaggia. Ed ecco che il più esotico dei patogeni, in questo caso il Sars-2 ospitato da pipistrelli, finisce su un camion – nelle prede o nei lavoratori poco cambia – e viaggia come una pallottola da un’estremità all’altra di un circuito peri-urbano sempre più dilatato prima di irrompere sulla scena mondiale». Così un gruppo di epidemiologi statunitensi riassume le cause tutt’altro che misteriose dell’epidemia in corso. Non essendo esperti di Stato, non isolano il “virus nemico” dalle condizioni materiali delle nostre vite. Per cui dicono quello che non si sentirà mai dire in televisione: «L’agroindustria è in guerra con la salute pubblica. E la salute pubblica sta perdendo». Ne consegue la più sensata delle domande: «Possiamo ancora permetterci di ritoccare, semplicemente, le attuali modalità con cui ci appropriamo della natura e sperare in qualcosa in più di una tregua con queste infezioni?».

Dare i numeri

+ 20% C.A.

+ 18% P.S.

+ 20,2 % UHT

Sono percentuali da quarantena, ma non sono quelle che quotidianamente ci vengono riversate contro a reti unificate. Riguardano l’acquisto e il consumo di CONSERVE ANIMALI, PESCE SURGELATO e LATTE UHT. È innegabile come la condizione che stiamo vivendo sia stata favorita dagli allevamenti intensivi di animali e dalla conseguente deforestazione attuata per la coltivazione dei mangimi destinati alla carne da macello. Riconsiderare il modo con cui si guarda il mondo, con cui ci si rapporta alla natura, mettere in discussione le proprie idee, smettere di considerare gli animali come oggetti destinati al soddisfacimento dei nostri capricci, mascherati da necessità. Niente sarà più come prima. Sta a noi far sì che sia migliore.

Ho solo eseguito gli ordini”

Dopo i giorni della rabbia esplosi con le rivolte di marzo in moltissime carceri, gli ordini impartiti dal Ministero possono essere sintetizzati brevemente: «Non fate volare una mosca nelle carceri». Mentre i contagiati (e i morti) aumentano sia tra i secondini che tra i detenuti, come pensiamo possano essere eseguite certe direttive? Umiliazioni, corpi denudati e pestati. Addirittura, nel carcere di Caserta, barba e capelli rasati. Durante una rischiosa telefonata un detenuto ha affermato «Da “detenuti” siamo diventati “prigionieri”, e c’è una bella differenza».

Ci sarà chi s’indignerà per dei presunti “diritti umani” calpestati, ma la verità è molto più acerba. Nelle strutture penitenziarie la violenza è ciò che regge l’equilibrio, poiché è la natura del potere. Quando (e se) verranno pescate le “mele marce” tra la polizia penitenziaria, ciò dovrà risuonare come la bugia che è sempre stata, perché questa è una sistematica operazione di guerra (e centinaia di agenti a volto coperto che entrano in una sezione per massacrare chiunque possono darcene l’idea). Ed avranno tristemente “ragione” costoro ad affermare di aver solo eseguito gli ordini sentendosi tradire dai loro superiori. Perché il carcere, per sua stessa natura, è uno stato d’eccezione senza fine, dove ogni dichiarazione dei “piani alti” può trasformarsi nell’incubo della morte. Pensiamoci, quando ci diranno che quello della guardia penitenziaria è un “lavoro come un altro”.

Versione pdf: Cronache6

Contro multe e repressione solidarieta’ di classe e redistribuzione

Nella mattinata di ieri, 25 aprile, abbiamo violato le misure di quarantena imposte a causa
dell’emergenza Coronavirus.
Ci siamo radunati alle case popolari di Via Fiorentina per redistribuire pane, un bene di prima necessità che, ogni giorno, a tonnellate finisce nella spazzatura a causa di assurde regole di mercato.
Lo abbiamo fatto scegliendo in autonomia i nostri livelli di sicurezza,
individuali e collettivi.
Lo abbiamo fatto per necessità: mentre infatti lo Stato ci impone
l’isolamento, la nostra fame non può che aumentare. I nostri portafogli sono sempre più vuoti: alcuni di noi sono precari, altri lavoravano in nero, altri non hanno ancora ricevuto il miserevole contributo di cassa integrazione. Nel frattempo però, arrivano le
bollette, ci sono gli affitti da pagare e, come non bastasse, gli sciacalli
della grande distribuzione aumentano i prezzi.
Lo abbiamo fatto per spezzare la narrazione romantica della quarantena. Sì, queste misure di arresti domiciliari ci stanno strette.
Non #restiamo a casa tranquilli, perché non viviamo in ville scintillanti, ma in piccoli appartamenti di città. Perché abbiamo bisogno di una rete sociale concreta, non di una rete virtuale dove regna la noia e la solitudine. Perché siamo stanchi di essere multati, fermati, rincorsi, interrogati dalla polizia.
Lo abbiamo fatto e continueremo a farlo perché sappiamo che non andrà tutto bene. La crisi generata da questa emergenza la pagheremo noi, come al solito. Il divario fra ricchi e poveri infatti non potrà che aumentare. Il Governo e i suoi burattini cercano di tranquillizzarci invitandoci ad esporre tricolori e a cantare l’inno nazionale, ma noi sappiamo che non siamo tutti sulla stessa barca.
Non lo siamo MAI stati.
Pensiamo sia importante fare rete fra sfruttati e oppressi. Per autorganizzarsi ora e anche in futuro, per mettere in atto pratiche di mutuo-aiuto, ma anche per alimentare la protesta sociale. Non ci interessa tornare a normalità vecchie o nuove. Se miseria e sfruttamento saranno pane quotidiano, la normalità sarà sempre un problema!
RIAPPROPRIAMOCI DI CIO’ DI CUI ABBIAMO BISOGNO
PRENDIAMOCI CIO’ CHE CI HANNO TOLTO!
SOLIDALI CON CHI E’ STATO FERMATO, MULTATO E
PICCHIATO DALLA POLIZIA IL 25 APRILE A MILANO,
NAPOLI E CAGLIARI

Pisa Brigante,
fine aprile 2020

 

 

 

-984079023

Imola – E se le parole si trasformassero in pietre?

Nel mese di marzo 2020, nella città di Imola (BO), sono apparse diverse scritte che inveivano contro lo Stato di Polizia e contro l’obbligo a restare chiusi in casa, agli arresti domiciliari democraticamente “volontari”.

Qualche settimana dopo che sui social e sui giornali bravicittadini ed esponenti vari della politica locale si struggevano per la rabbia e la violenza espressa da quelle scritte, nonché per il deturpamento dei preziosi muri della città, siamo statx fermatx (in maniera abbastanza ridicola, tipica delle forze dell’ordine imolesi) nelle consuete passeggiate in barba ai divieti e quel giorno, oltre all’ennesima multa son saltate fuori le notifiche.

Le indagini, ancora aperte, ci appioppano, in merito alle scritte di cui prima, istigazione a delinquere, istigazione a disobbedire alla legge, deturpamento e imbrattamento, vilipendio della repubblica e delle forze armate, violenza o minaccia a corpo politico e l’avvio di un procedimento per foglio di via.

Al di là di chi può aver fatto le scritte, al di là della nostra colpevolezza o meno, non possiamo che sorridere pensando a chi continua ancora, e speriamo indisturbatx, a infrangere la quiete. Non ci sembra assurda l’accusa di Istigazione per questi fatti, anzi, in fondo cos’altro mai dovrebbero fare delle scritte che esprimono odio nei confronti di tutto ciò che rappresenta Ordine?

Non ci sentiamo quindi preoccupatx od offesx davanti a simili accuse perché ogni volta che ci esprimiamo, in testi scritti o sussurrandoci burlesquamente idee nell’orecchio, ci sentiamo e siamo Delinquenti. E se qualcunx, parlando con noi o assaporando un testo da noi prodotto, dovesse mai sentirsi istigatx, beh, propaganda ben fatta!

Tra l’altro, dopo pochi giorni dalla notifica, hanno continuato ad apparire manifesti di saggia manodopera (di questi tempi senza copisterie, immaginiamo) che recitavano più o meno: OBBEDIENZA NON È RESPONSABILITÀ stanno distruggendo le nostre vite con la tecno socialità e la militarizzazione delle strade facciamo sì che non manchi la rivolta. Sicuramente il leit motiv dell’andrà-tutto-bene, gli arcobaleni e il restiamoacasa non hanno attecchito su tutta la popolazione della città, forse l’ondata di multe e denunce, intimidazioni, inseguimenti non hanno spento la voglia di esprimersi.

Come non eravamo ligi al Dovere prima, non lo siamo adesso e mai lo saremo.

Ci vediamo al mare, fase due, tre o sticazzi!

due viandanti in tempo di covid, cofàtt, coddèt?

Grecia – Chiamata per il sostegno alla “Cassa di solidarietà per i militanti imprigionati e perseguitati”

La “Cassa di solidarietà per i militanti imprigionati e perseguitati” è stata fondata nel 2010, un periodo in cui, da un lato, veniva effettuata una forte ristrutturazione capitalistica compiuta sotto il paravento della “crisi economica” e in cui, dall’altro lato, il movimento radicale, avendo ricordi molto recenti dall’esperienza della rivolta sociale del dicembre 2008, era in piena fioritura. In queste circostanze, la repressione si fece ancora più intensa, portando a un numero sempre crescente di prigionieri politici. È proprio in questo contesto che si è formata la Cassa di solidarietà, inizialmente con l’obiettivo di fornire un sostegno regolare e coerente a quanti sono perseguitati o imprigionati per il loro agire sovversivo o per la partecipazione alle lotte sociali.

L’obiettivo fondamentale della struttura è di garantire dignitose condizioni di vita ai compagni imprigionati attraverso un processo che si svolga in seno al movimento politico; permettendo alla dimensione materiale della solidarietà di compiere un passo ulteriore rispetto alle più strette relazioni tra compagni, familiari e amicali, oltre a contribuire alla copertura immediata delle emergenze (come le spese processuali e le cauzioni per i perseguitati). Contemporaneamente, gli interventi di solidarietà pratica e la costruzione e lo sviluppo di ponti comunicativi e di lotte congiunte tra chi è dentro e chi si trova fuori dal carcere, rimangono le priorità delle persone che formano e sostengono la struttura.

Dal 2010 a oggi, la Cassa di solidarietà ha cercato di ottenere un regolare e coerente sostegno politico, morale e materiale per la raccolta di fondi, un fatto che deriva principalmente dalla partecipazione consapevole di ognuno di noi, oltre che di gruppi e collettivi, che contribuiscono alla prosecuzione di una solidarietà fattiva. La continua repressione statale, tuttavia, si traduce in un numero elevato di prigionieri politici e spese legali e, conseguentemente, in esigenze materiali particolarmente elevate. In questo momento, la Cassa di solidarietà sostiene 24 prigionieri con una regolare base mensile (Kostantina Athanasopoulou, Dimitra Valavani, Konstantinos Yagtzoglou, Giannis Dimitrakis, Dimitris Koufontinas, Iraklis Kostaris, Giannis Michailidis, Savvas Xiros, Giorgos Petrakakos, Kostas Sakkas, Marios Seisidis, Vangelis Stathopoulos, Spyros Christodoulou e 11 militanti provenienti dalla Turchia e dal Kurdistan). In molti casi cerchiamo anche di coprire – per quanto consentito dalle nostre capacità (finanziarie) – le spese legali e le cauzioni dei compagni perseguitati per la loro identità politica, per le loro azioni o anche per i propri legami familiari o il loro rapporto di amicizia con i militanti imprigionati.

Durante questi dieci anni di attività, ci siamo rivolti ai compagni e ai collettivi in molte occasioni, siccome assicurarsi le risorse finanziarie è sempre stato un processo difficoltoso. La solidarietà e la partecipazione dei compagni sia dalla Grecia che dall’estero è la ragione principale per cui siamo stati a fianco dei nostri compagni imprigionati in maniera coerente. Nella situazione attuale, soprattutto alla luce dei nuovi fatti riguardanti la diffusione del virus e delle misure restrittive imposte dallo Stato in questo contesto, è ancora una volta estremamente difficile assicurare le risorse volte a sostenere i bisogni materiali di coloro che si trovano all’interno delle carceri. Probabilmente è più difficile che mai. Purtroppo, tutto ciò si deve aggiungere ai tempi già difficili che i nostri compagni prigionieri, così come la popolazione carceraria nel suo complesso, stanno affrontando, e per tale motivo ancora una volta ci stiamo rivolgendo ai nostri compagni.

Il sovraffollamento delle carceri greche, con l’accatastamento forzato dei prigionieri in celle e sezioni che ricordano degli alveari, l’assistenza medica inadeguata (e in alcuni casi inesistente), il rifiuto di fornire misure di protezione personale (quindi il divieto di forniture mediche, come gli antisettici) e il fatto che anche i più vulnerabili (anziani o malati) siano ancora incarcerati, tutto ciò pone le condizioni per una ondata pandemica con tassi di mortalità significativamente più alti di quelli presenti nella società fuori dalle mura. Questo può equivalere alla pena di morte per molte persone in carcere. Tale problema ha indotto a una serie di mobilitazioni nelle carceri, con le fondamentali richieste di decongestionamento e attuazione delle misure di protezione di base per i detenuti. Il punto di partenza di queste mobilitazioni è stato il carcere femminile di Korydallos, seguito dalle carceri di Chania (nell’isola di Creta), Agios Stefanos (a Patrasso) e Larissa, mentre 856 detenuti da tutte le sezioni del carcere maschile di Korydallos hanno firmato e pubblicato una dichiarazione.

In queste particolari circostanze, lo Stato e i suoi meccanismi repressivi stanno seguendo una strada già battuta. Mentre non vengono prese efficaci misure per proteggere la popolazione carceraria, vengono bloccate le comunicazioni con il mondo esterno, sospese le visite con i parenti e gli avvocati, attuate rappresaglie e misure di ritorsione in caso sorgano proteste: come accaduto per i sequestri-trasferimenti di compagni a seguito della mobilitazione avvenuta nel carcere femminile di Korydallos, con il sequestro di due prigioniere e il loro trasferimento nel carcere di Eleonas a Tebe, dove sono state poste in quarantena (una tra loro, Pola Roupa, è prigioniera politica e membro di Lotta Rivoluzionaria [Επαναστατικού Αγώνα], e al suo trasferimento, dopo pochi giorni, è seguito il violento trasferimento di Nikos Maziotis, anch’egli prigioniero politico e membro di Lotta Rivoluzionaria, nel carcere di Domokos), come accaduto con la rimozione dell’ora d’aria nel carcere di Chania, con le pequisizioni poliziesche, le indagini e la devastazione delle celle nel carcere di Patrasso. Allo stesso tempo, mentre la pandemia è ancora in corso, i compagni stanno affrontando false accuse, vengono perseguitati e imprigionati, ricordandoci le costanti priorità dello Stato, le cui dichiarazioni sul decongestionamento delle carceri riguardano solo un ridotto numero di prigionieri (considerando la totalità della popolazione carceraria), in quanto il numero di prigionieri interessati non eccede le 1500 persone.

Come Cassa di solidarietà, in questo momento, annunciamo la nostra decisione di sospendere tutte le nostre azioni pubbliche previste per l’immediato futuro, ma non sospendiamo la nostra solidarietà con i prigionieri politici. In questa difficile situazione che stiamo attraversando, ci troviamo nella difficile posizione di dichiarare una temporanea riduzione del sostegno materiale ai compagni imprigionati, in modo da poterli sostenere con coerenza nei mesi che seguiranno.

Compagni in Grecia e all’estero, la Cassa di solidarietà si trova attualmente ad affrontare un grave problema riguardante la vitalità e la funzione di una delle sue componenti fondamentali, il sostegno economico dei militanti imprigionati. A causa delle condizioni oggettive determinate dall’attuale situazione, l’incapacità della cassa di ottenere risorse a partire dalle iniziative pubbliche porterà, durante la stagione estiva, ad una situazione di stallo e allora il sostegno dei prigionieri politici sarà praticamente impossibile. L’unico modo per evitare questa situazione è il sostegno materiale e finanziario da parte del movimento antagonista più ampio presente in tutto il mondo. Da parte di tutti gli individui e di tutti i collettivi che considerano i militanti imprigionati come parte di chi lotta, una lotta che tutti noi ingaggiamo – per come ci è possibile – contro il barbaro mondo dell’autorità.

Oggi più che mai sta diventando cruciale e tangibile il motto “nessuno è solo nelle mani dello Stato”. Vi invitiamo a difenderlo ancora una volta nella pratica. La solidarietà concreta sarà di nuovo la nostra arma.

FINO ALLA DEMOLIZIONE DELL’ULTIMO CARCERE NESSUNO DI NOI E’ LIBERO
SOLIDARIETA’ CON I PRIGIONIERI POLITICI

Cassa di solidarietà per i militanti imprigionati e perseguitati

Contattaci via e-mail per supportare la campagna a sostegno dei prigionieri: tameio[at]espiv.net

A questo link il testo in inglese: https://actforfree.nostate.net/?p=37044
A questo link il testo in tedesco: https://athens.indymedia.org/post/1604303/
A questo link il testo in greco: https://athens.indymedia.org/post/1604134/

Non fa ridere

Non fanno ridere, se sono uno scherzo, le conclusioni a cui arriva il giornalista de Il Dubbio Damiano Aliprandi nell’articolo “Così i detenuti fanno ottenere sussidi e rimborsi agli agenti” pubblicato il 22 aprile sul sito del giornale.

Questo articolo descrive come dai ricavi dei tabacchi comperati dai detenuti e dalle detenute nelle carceri, si provvederà all’erogazione di sussidi per il Corpo di Polizia Penitenziaria. I sussidi verranno così suddivisi “50 euro, per ogni giorno di permanenza presso l’abitazione o altra sede protetta, a un’altra, pari a 150 euro, per ogni giorno di ricovero in istituto di cura, entrambe per un massimo di 14 giorni. È stato previsto anche un indennizzo una tantum di 4mila euro, in caso di ricorso a terapia intensiva o sub-intensiva, e il rimborso, fino ad un massimo di mille euro, in caso di trasporto in autoambulanza per dimissioni dall’istituto di cura.”, e per ora i dati sono di circa 250 poliziotti e poliziotte ammalati. Il tutto con il favore dei Garante nazionale delle persone private della libertà. Chi si occuperà di queste sussidi è l’ente predisposto alle varie necessità dei dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria “L’ente è stato istituito dall’art.41 della legge 15.12.1990, n. 395, che gli ha conferito personalità giuridica di diritto pubblico. Si tratta di un ente pubblico autonomo dall’Amministrazione penitenziaria, sottoposto alla vigilanza del ministro della Giustizia, al quale la legge conferisce compiti istituzionali e risorse economiche proprie”, dice Il Dubbio.

I soldi vengono tratti come dicevamo sopra dall’entrata più sostanziosa riguardo agli acquisti fatti dalle persone detenute dentro alle carceri, cioè il tabacco. Secondo il bilancio preventivo per il 2020, solo con questo articolo l’entrata equivarrebbe a 3 milioni e mezzo di euro.

Ma oltre a questa constatazione tecnica, il giornalista finisce in modo per niente condivisibile l’articolo che riprendiamo integralmente “Anche questa, in fondo, è una buona notizia. Forse utile per evitare quell’idea che porta a una suddivisione tra guardie e ladri, quasi come una forma di antagonismo all’interno delle patrie galere. Mentre, nei fatti, si dovrebbe parlare di comunità penitenziaria. Dove detenuti e detenenti potrebbero addirittura essere solidali tra loro”.

Scrivere una cosa del genere – tra l’altro su un giornale che comunque si è speso a divulgare le lettere di detenuti e famigliari che raccontano quello che è successo nell’ultimo mese e mezzo nelle galere di questo paese – senza fare l’elenco degli assassinii e torture vere e proprie perpetrati nelle ultime settimane sembra una presa in giro che appunto non fa ridere.

Cercare di mettere sullo stesso piano carcerieri e prigionieri è una lettura inaccettabile del mondo carcerario, né prima della situazione emergenziale, né tanto meno dopo tutto quello che è successo e sta succedendo. Confondere i piani di chi tiene le chiavi delle celle in cui sono reclusi e recluse, i nostri amici, compagni, famigliari non ci sta bene. Perché se come dice l’Aliprandi i detenuti sono le persone che consumano nella media più tabacco forse sarebbe da chiedersi perché una persona reclusa preferisce spendere per il tabacco che per del cibo migliore e più sano. Il carcere logora i nervi e la mente e a volte il tabacco aiuta a rilassarsi un minimo. Che questi soldi finiscano nelle tasche di uomini e donne che hanno massacrato i nostri cari ebbene per noi è una presa in giro bella e buona per non dire peggio.

Se c’è antagonismo tra “tra guardie e ladri”, non è questione di caricatura all’italiana come si vedono in alcuni vecchi film, bensì una questione etica. Non è tempo per la fratellanza per queste parti in causa.

Qui l’articolo de Il Dubbio:

https://www.ildubbio.news/2020/04/22/cosi-detenuti-fanno-ottenere-sussidi-e-riborsi-agli-agenti/

https://evasioni.info/2020/04/23/non-fa-ridere/

Dietro l’angolo pt.3 – Nord sud ovest est

QUALCHE IPOTESI SU COVID 19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO

Saranno innumerevoli gli effetti, i riverberi e gli echi che la presente epidemia di Covid-19 lascerà in seno al consorzio umano, tanto attesi e prevedibili quando impensabili e inauditi. Nelle righe che seguiranno si proverà a seguire una prospettiva che potremmo definire macroscopica. Riteniamo che una mappatura, pur abbozzata, di questo tipo possa essere utile per inquadrare le dinamiche con cui, su un piano più direttamente osservabile, avremo a che fare in un futuro prossimo.

I

L’epidemia ha evidenziato i nervi scoperti del modello di produzione postfordista.

Quello che sembrava il momento più avanzato del capitalismo, non ulteriormente perfettibile, è entrato in profonda crisi dopo appena un mese di blocco pur parziale del mondo. La produzione snella, il sistema just-in-time e gli enormi apparati logistici e comunicativi che sottendono le due principali caratteristiche degli odierni modelli produttivi hanno mostrato inquietanti crepe e debolezze poco prevedibili. Un tale sistema si è dimostrato rivoluzionario in un funzionamento ordinario ma incapace di affrontare battute di arresto indipendenti dal mercato:

  • i famosi colli di bottiglia – gli snodi cruciali dei vari modelli produttivi – sono esplosi;
  • le lunghissime supply chains – che, ironia della sorte, convogliavano innumerevoli linee produttive in Cina – si sono spezzate;
  • la politica no stock si è rivelata tragica (si pensi ad esempio al caso della mancanza di materiale sanitario);

L’impatto sulle economie nazionali già da dieci anni impantanate nelle sabbie mobili della recessione globale sarà devastante. Ci saranno da ripensare a livello locale obiettivi, strategie e modelli produttivi, dal ritorno al settore primario al riavvicinamento del settore secondario. La logistica e il terziario, i cui stati di salute nella crisi e al suo indomani, si trovano agli antipodi, dovranno affrontare implementazioni e sfrondature inimmaginabili.

II

L’epidemia ha colpito soprattutto i modelli economici votati all’esportazione – non più capaci di trovare sfogo alle proprie merci causa lockdown – e quelli votati alla trasformazione di beni prodotti altrove – ritrovatisi con flussi di filiere produttive non più regolari –.

Con uno scenario a medio termine caratterizzato da grande incertezza riguardo a futuri blocchi generali, ad esempio per affrontare contagi di ritorno, sembra plausibile che gli Stati tenteranno da una parte di ricercare nuove alleanze commerciali basate più sulla sicurezza delle supply chains che sul profitto immediato e si focalizzeranno sull’economia interna cercando di mitigare la dipendenza da un mercato internazionale troppo fragile. Tali strategie comporteranno una ridefinizione della competizione intercapitalistica.

Il rafforzamento del settore primario acquisterà un nuovo e antichissimo valore strategico. È bastata qualche settimana di lockdown, con i grandi Paesi produttori che hanno fermato il flusso di molte merci destinate all’esportazione, per vedere schizzare ad esempio il prezzo del grano: e se si pensa che l’Italia importa circa il 62% del suo fabbisogno di grano tenero, non è difficile capire l’importanza del ripensamento strutturale del settore.

Ma la presente emergenza ha portato alla penuria di un’altra merce non banale, il lavoro, perlomeno in quei settori, come l’agricoltura, impreparati o impossibilitati all’adempimento delle direttive anticontagio. Coldiretti già a fine marzo lamentava il fatto che con le frontiere chiuse non sarebbero arrivati gli stagionali che ogni anno garantiscono il raccolto made in Italy. Le soluzioni al vaglio sono un buon prototipo del mondo che verrà, tra proposte di regolarizzazione di massa dei braccianti – che però toglierebbe la possibilità del lavoro nero, sede principale della competitività dei prodotti nazionali – o l’ipotesi di accordi internazionali con Paesi esteri per garantire corridoi sanitari per la forza lavoro straniera, o ancora la mozione di fare lavorare nei campi chi percepisce il reddito di cittadinanza.

Risulta dunque certo che il settore, finora tenuto in piedi da aiuti statali ed europei e basato su forza lavoro migrante e irregolare, sarà costretto a rinnovarsi. Altrettanto sicuro è che l’inevitabile aumento dei prezzi dei prodotti agricoli in un frangente in cui molte persone affronteranno la crisi innescata dal virus potrebbe condurre a conseguenze facilmente immaginabili.

III

Le lunghe catene del valore sono state messe a dura prova: interi comparti hanno dovuto rallentare la produzione a causa della mancanza di questo o quel componente. Il lockdown cinese, ad esempio, ha portato i colossi globali dell’elettronica a ridurre della metà la produzione di laptop per il mese di marzo. Lo stop durante l’istituzione della prima zona rossa dell’italianissima MTA di Codogno, che produce componentistica di precisione per molti grandi marchi automobilistici, ha rischiato di compromettere seriamente il funzionamento delle catene di montaggio di Fiat, Renault, Bmw, Peugeot. Di esempi come questi se ne potrebbero trovare a bizzeffe.

La necessità di accorciare le filiere produttive al fine di evitare shock come questi si unirà alla necessità di incorporare alle aziende madri quelle funzioni che in questi anni sono state esternalizzate a una costellazione di piccole e medie aziende ultra-specializzate, dato che molte di queste, già pesantemente indebitate, non vedranno la luce alla riapertura.

Queste tendenze verosimilmente creeranno spazio per investimenti importanti sul versante tecnologico e innovativo, dando il via libera definitivo ad una ristrutturazione profonda: modelli organizzativi e strumentazioni che, pur al netto della propaganda di stato sulla rivoluzione industriale 4.0, sembrano ancora avveniristici potrebbero plasmare ogni piano della struttura economico-sociale in un futuro prossimo.

Le strategie di gestione della crisi saranno variegate e a tratti contraddittorie. Una possente corsa verso l’automazione sembra far rima con una inferiore richiesta di lavoro vivo. Eppure proprio il lavoro umano sarà, per le sue inimitabili caratteristiche, un ulteriore e conseguente campo sottoposto al ridisegnamento dei margini di sfruttamento. Già da oltralpe un chiarissimo e lucido Geoffroy Roux de Bézieux presidente dell’unione degli industriali francese ha dichiarato che «sarà necessario porsi la questione del tempo di lavoro, delle ferie e dei congedi retribuiti, per accompagnare la ripresa economica». Ma in questi giorni prossimi alla cosiddetta Fase 2 non si fa fatica a trovare dichiarazioni affini da ogni frangia dello sciocchezzaio politico italiano.

IV

Un po’ in tutto il mondo, in queste ultime settimane, sono stati presi d’assalto gli uffici atti alle richieste di disoccupazione, notevole il caso statunitense con più di sessanta milioni di richieste in pochi giorni. L’italianissimo INPS, fiore all’occhiello di un welfare state in via d’estinzione, è andato in panne per la richiesta di buoni spesa goffamente decretati da un governo sempre più simile ad una unità di crisi.

Scene che saremo destinati a rivedere. E con attori inaspettati.

Per ora, nel mezzo della crisi, assistiamo a formule molto creative di assistenza al reddito della popolazione lavoratrice (nei casi migliori, forme di cassa integrazione rispolverate da ere economiche di un passato prossimo eppure lontanissimo).

Ma molte imprese medie e piccole – che sono la carne del tessuto produttivo italiano ma anche la pancia della Confindustria nazionale –, sia nel settore industriale che in quello dei servizi, già pesantemente indebitate prima dell’epidemia, faranno fatica a riattivare macchinari e computer dopo l’arresto inatteso, nonostante i tentativi statali di agevolare prestiti – misura che, senza essere economisti esperti, puzza di malasorte e disgrazia per cosa si è visto in anni passati –.

All’indomani di una stagnazione forzata chi aveva capitali sicuri potrà facilmente ripartire, magari inserendosi nei nuovi spazi di economia produttiva e distributiva (dal tessile alla cosmetica, dal settore automobilistico all’alimentare sono diverse le aziende che sono riuscite a commutare la produzione in brevissimo tempo).

D’altra parte, crescerà la porzione di lavoratori dequalificati o più propriamente espulsi dall’enorme crisi del settore dei servizi (ristorazione, accoglienza, cura della persona). Come ogni crisi, anche questa sarà un’inattesa occasione di ottimizzazione e specializzazione delle dinamiche produttive: al prevedibile calo dei consumi post-epidemia si aggiungeranno quindi misure atte a rendere i servizi più funzionali, all’altezza dei nuovi parametri di consumo, erogazione e sicurezza (d’ora in poi con un occhio anche a quella biologica) che riconfigureranno drasticamente tutto il settore. E il nostro modo di fruirne.

Il celebre e abusato concetto di esercito industriale di riserva assumerà come protagonisti molti di coloro i quali fino a ieri ne erano minacciati. Ma ancora peggio, probabilmente si ingrosseranno le fila di coloro i quali non vi saranno neanche più arruolabili, in quanto incapaci di leggere i rapidissimi mutamenti di paradigma dei modelli produttivi.

Non osiamo immaginare quali saranno le formule con cui si combineranno i rapporti di lavoro a crisi terminata, o meglio, a crisi stabilizzata; da una parte, per quello che riguarda la inclusione forzata, riteniamo piuttosto preciso il concetto, per ora eminentemente sociologico, di working poor. Masse di lavoratori a cui il salario non garantisce gli strumenti di pianificazione minima dell’esistenza.

Per ciò che concerne tutto il resto, beh, i concetti non ci saranno d’aiuto per inquadrarne lo spettro insieme tragico e minaccioso.

V

Il comportamento degli Stati in questa epidemia evidenzia come essi siano indispensabili al funzionamento del capitalismo: un esempio su tutti, lo Stato in caso di pericolo può decidere di sospendere le leggi di mercato, con buona pace del mantra sulla famigerata mano invisibile. Si pensi ad esempio alle misure varate dalle varie banche centrali per tenere bassi gli interessi su prestiti ricevuti dai vari Stati nazione dai vari BCE o FMI. Un neo keynesismo che arriva da voci disparate, anche inaspettate.

Ad ogni modo, è opportuno ricordare che prestiti ed aiuti non sono mai emessi gratis et amore Dei, ma evidentemente come garanzia di profitti futuri soprattutto per chi li eroga. Ogni prestito dovrà essere rimborsato, e al di là delle valutazioni più o meno populiste sul ruolo dei vari fondi monetari, possiamo essere discretamente sicuri che i costi di tale montagna di operazioni parafinanziarie verranno accuratamente socializzati, in maniera diretta o indiretta. I famosi tagli alla sanità e all’istruzione, alla previdenza sociale non sono forse da catalogare in un riassetto dei conti statali? Uno Stato con i conti in ordine di questi tempi non è altro che uno Stato che ha tagliato i rami secchi nei settori non direttamente produttivi, di cui quelli appena citati non sono che l’apice.

VI

L’impatto della disoccupazione di massa su una società fortemente neoliberale in cui le forme di welfare sono state erose negli ultimi trent’anni si tradurrà in un potente attacco alle condizioni di vita di una fetta sempre più grande di popolazione. La transizione dal consumo di massa alla inoccupazione come status normale non sarà semplice né priva di conflitti.

La tenuta degli Stati si misurerà nell’elaborazione di metodi gestionali delle sacche di esclusione in continua espansione.

Un interessante testo risalente a più di dieci anni fa sosteneva, in uno studio di caso, che saranno due le principali strategie di tale contenimento: da una parte il vecchio mercanteggiare sui diritti, che prenderà la forma specifica e inedita della contrattazione di un reddito universale. Dall’altra, l’ancora più vecchia ricetta della reclusione, ovvero la criminalizzazione della miseria e la sua logica conseguenza, la galera.

Tale dicotomia, pur sbrigativa, sembra tuttavia capace di rendere conto di ciò che ad oggi è in cantiere da tempo. L’idea di un reddito d’esistenza è stato un cavallo di battaglia non solo di uno dei partiti attualmente al governo in Italia, ma anche di una certa sinistra con addosso gli ultimi cenci della radicalità. Per non citare una certa produzione accademica genericamente critica.

Balza subito agli occhi come tale strumento, a partire da una banale analisi nominale – reddito di cittadinanza, reddito di sussistenza, reddito minimo universale – porti già nella sua concezione accurate linee di demarcazione e precise relazioni di potere. Riprendendo quindi l’ipotesi delle due strategie di contenimento sociale di cui sopra, vediamo come in realtà non siano due opzioni definitivamente alternative, ma siano una il margine di definizione dell’altra, due misure strettamente intrecciate. Da qui, e lo si vedrà a breve, i destinatari di reddito di base e di restrizioni a vario titolo non saranno persone diverse, piuttosto gli stessi soggetti che, di volta in volta, riceveranno o l’una o le altre.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Cosa dicevano i partigiani e le partigiane…

Ricordare il passato può dare origine ad intuizioni pericolose, e la società stabilita sembra temere i contenuti sovversivi della memoria

Herbert Marcuse

Se per caso una bomba cade vicino alla fabbrica dove voi lavorate così da scuotere tutta la costruzione, approfittate subito per rompere le macchine. Queste macchine sono così sensibili!

Gli operai hanno almeno le stesse possibilità di ridurre la produzione. La lentezza è l’ingrediente numero uno.

Non c’è una sola macchina che non abbia qualche difetto inerente alla costruzione.

Non c’è un campo dove si possa sabotar meglio lo sforzo di guerra tedesco che quello ferroviario.

Uno dei mezzi migliori per frenare lo sforzo di guerra tedesco consiste nell’applicare alle lettera i regolamenti, specialmente durante la formazione dei treni merci. Il regolamento ordina notoriamente ai macchinisti di non correre rischi in ogni caso… di non correre, per farla breve. Quindi, al passo, con calma, compagno, al passo.

I trasporti hanno acquistato una tale importanza nella guerra moderna che non si può mai fare abbastanza per ostacolare la circolazione normale delle autocolonne tedesche.

Innanzitutto la strada. Rovinare una strada è presso a poco alla portata di tutti. Niente di più facile che fare dei buchi nella strada.

Sulle strade di campagna sarà molto efficace deviare i ruscelli con leggeri lavori si scavo: la prima grande pioggia farà frenare il fondo stradale.

I due punti più sensibili al sabotaggio di un automezzo, sono il carburatore e l’accensione.

Bisogna sforzarsi di sabotare tutte le industrie che lavorano con il nemico.

Alcuni stralci tratti da:

 

Cosa dicevano i partigiani e le partigiane…