Contro l’ospedale e la sua medicalizzazione, a rischio della vita!

Dopo il raccono di Lucia, nuove testimonianze di vite al bivio

La “morfina” rifiutata in ospedale e la rinascita a casa. Storia di Giusy.

La signora Giusy, 79 anni, cardiopatica, a detta dei medici di un ospedale lombardo aveva un’unica possibilità: ricoverarsi e assumere morfina per lenire il dolore e farsi accompagnare a una probabile morte da soffocamento per una polmonite dovuta, forse, al coronavirus. A distanza di due settimane, racconta all’AGI la figlia Alessandra, docente universitaria, Giusy sta bene e ha voglia di farsi al più presto una passeggiata al sole.

“È stata curata a casa dal mio medico di base e da un suo collega mio amico, dopo che noi figlie abbiamo rifiutato di farla restare in ospedale, messe di fronte a quell’unica, orribile strada”. Uno dei due dottori, Paolo Gulisano, parla di “sentenza di morte non eseguita”, mentre il medico di famiglia, che preferisce l’anonimato (“Non mi interessa apparire”), giudica un “grave errore quello compiuto al pronto soccorso, soprattutto perché, a livello psicologico, non puoi dare una mazzata così ai familiari senza avere elementi sufficienti”.

Sabato 28 marzo, le condizioni di Giusy peggiorano dopo che da giorni accusava dei forti dolori al torace e difficoltà a muovere il braccio sinistro. “Pensando, visti i suoi precedenti, a un infarto o a un ictus – dice Alessandra – avevo paura a chiamare un’ambulanza perché temevo finisse tra i pazienti di Covid_19, così, su consiglio di Gulisano, l’ho accompagnata al pronto soccorso portando con me tutta la documentazione relativa ai problemi al cuore». Alla paziente viene assegnato un codice giallo e «la sistemano nel reparto per i sospetti casi di coronavirus, nonostante avessi chiesto di non farlo. Per fortuna io indossavo una mascherina”.

L’esito della radiografia al torace a cui viene sottoposta è di “diffuso ispessimento della trama interstiziale con reperti sospetti per patologia flogistica interstiziale”. Insomma, è proprio il tipo di polmonite diagnosticata ai malati di coronavirus.

“Il medico mi spiega che la mamma probabilmente ha il virus, che la situazione è compromessa e che, se non voglio vederla morire soffocata nelle prossime 48 ore, mi conviene lasciarla in ospedale dove verrà accompagnata dolcemente con la morfina. Chiedo se si può tentare in ospedale una terapia antibiotica, ma la risposta è che è già troppo tardi. Mia mamma però non ha febbre, pressione e battiti sono perfetti, respira bene. Non sono per nulla convinta e chiamo per un consulto i miei medici di riferimento. Tutti e due concordano che me la devo portare a casa. Intanto davanti ai miei occhi, vedo che tre anziani vengono ricoverati, dicono ad alta voce gli operatori sanitari, «con morfina al bisogno», senza un tampone. Nessuno di loro aveva febbre né problemi a respirare. Mentre torno a casa ho davanti agli occhi le centinaia di bare portate via da Bergamo dai militari, persone che, forse, hanno trattato come avrebbero voluto fare con mia mamma, abbandonandole a loro stesse”.

Nella cartella clinica delle dimissioni si legge: “Diagnosi: polmonite interstiziale. I parenti, resi edotti della situazione, prospettate le eventuali complicanze, rifiutano il ricovero assumendosi ogni responsabilità”.

Tornata a casa, Alessandra, su indicazione dei medici, si mette alla caccia del Plaquenil, uno dei farmaci indicati dai medici e utilizzato negli ospedali per il coronavirus, da aggiungere all’antibiotico e alle maltodestrine. “Tutte pastiglie che si prendono per bocca facilmente e che costano sei euro l’una – spiega. – È questo il valore della vita delle persone? Grazie all’intuito del mio medico di base, a casa avevo anche una bombola per l’ossigeno, uno dei motivi per cui ho avuto il coraggio di portare via la mamma”. Di giorno in giorno, la signora Giusy ha mostrato continui progressi e sembra essere in via di guarigione.

“Magari domani muore per un infarto o altro perché ha un quadro clinico complesso, ma non per il virus che non è stato nemmeno diagnosticato con un tampone. Io ho provato a chiederlo ma mi hanno detto che lo facevano solo ai ricoverati gravi. Qualsiasi cosa accada, potremmo dire che le siamo state vicine e ci dona i suoi baci e il suo sorriso ogni volta”.

“Ad Alessandra – riflette Gulisano che sulla vicenda ha scritto un articolo sul sito www.lanuovabq.it – avevo spiegato subito che non era una lotta, ho sentito fin troppo parlare di metafore belliche. Tutta vuota retorica. Il compito di un medico non è combattere un virus ma prendersi cura di un paziente. Niente guerra, niente armi: farmaci e la vicinanza e la tenerezza di una figlia. La sentenza di morte non è stata eseguita e io tiro un sospiro di sollievo e penso che la medicina ha sempre avuto questo compito: puoi guarire, puoi anche assistere al fallimento, ma puoi e devi curare”.

https://www.agi.it/cronaca/news/2020-04-11/coronavirus-morfina-lombardia-morti-in-casa-8306084/

 

Interruzione di corrente. L’impatto di un attacco fisico sulla rete elettrica

“Qualsiasi gruppo terroristico che voglia mettere in ginocchio un Paese ha i mezzi per farlo. ”

Grégoire Chambaz, capitano dell’esercito svizzero, sugli attacchi alla rete elettrica

Cosa hanno in comune gli aeroporti, gli impianti di trattamento delle acque, le stazioni di servizio e le macchine per il caffè espresso? La dipendenza da una rete affidabile e stabile per la produzione e la distribuzione di energia elettrica. In tutto il mondo, le reti elettriche stanno invecchiando, sono troppo stressate e sempre più esposte ad attacchi. La maggiore centralizzazione e interdipendenza di queste reti fa sì che il rischio di guasti su larga scala non sia mai stato così elevato. La prossima volta che le luci si spegneranno, potrebbero non riaccendersi più.

La rete elettrica

Prima di tutto, immaginiamo cosa causerebbe un blackout generalizzato (un blackout). In primo luogo, le luci, i proiettori e i computer si spegnerebbeo. Non potendo lavorare o studiare, si dovrebbe trovare una via d’uscita. La maggior parte delle porte e dei cancelli automatici non funzionerebbero.

Potreste voler prendere qualcosa da mangiare. Tuttavia, avrete una serie di problemi. In primo luogo, senza contanti, non si può comprare nulla, perché la carta di credito ha bisogno della rete per funzionare. Dopo poche ore, tutto il cibo congelato nei ristoranti e nei supermercati deve essere mangiato o buttato via, con conseguenti enormi perdite. Infine, dato che la maggior parte dei piani cottura sono elettrici, probabilmente dovrete portare fuori i fornelli da campeggio per cucinare.

Naturalmente, gli aerei verrebbero immediatamente bloccati a terra a causa della mancanza di controllo del traffico aereo. I treni e i mezzi pubblici (tram, metropolitana) funzionano a corrente elettrica, quindi fermi anche loro. Il traffico su strada ostacolato perché i semafori spenti, causando incidenti e rallentamenti. Ma questo non durerebbe a lungo: le pompe di benzina funzionano a corrente elettrica. Presto le strade sarebbero vuote.

Il mercato monetario si ferma, la borsa si ferma immediatamente. Senza computer, comunicazioni e trasporti, la maggior parte delle attività economiche si arresta.

Pure i telefoni, le stazioni base e i trasmettitori restano senza corrente. Da quel momento in poi, le notizie arriverebbero solo sporadicamente. Anche i responsabili delle decisioni navigano a vista: senza strumenti di controllo centrali o di comunicazione, sono del tutto impotenti.

Blackout: un super-rischio

L’elettricità risulta quindi fondamentale. È necessaria a tutti gli aspetti delle nostre attività, non possiamo più farne a meno. Ecco cosa spiega Grégoire Chambaz:

“Perché il rischio di blackout è così singolare? Si tratta soprattutto di un rischio direttamente legato al terzo settore, cosa che non avviene in caso di pandemia o di crisi economica. Quel terzo settore è la fornitura di energia elettrica. Senza elettricità, le nostre società non potrebbero funzionare. Se possono permettersi di rimanere senza petrolio per qualche giorno, un’interruzione di corrente le colpirebbe nell immediato.

Come mai? Per due motivi principali. Il primo è che l’elettricità alimenta tutti gli altri settori e le infrastrutture. Sono praticamente incapaci di funzionare senza di essa. La seconda ragione è che il blackout sta paralizzando i due settori critici più importanti dopo l’elettricità, ovvero le telecomunicazioni e i sistemi informativi. Senza di loro, il coordinamento diverrebbe molto difficile, soprattutto in una situazione di crisi come il blackout. Questa centralità dell’elettricità è stata evidenziata nel 2010 in un rapporto dell’Ufficio federale della protezione della popolazione (UFPP) sulla criticità dei settori critici. In questo rapporto, l’UFPP definisce la criticità come “l’importanza relativa di un settore in termini di effetti che la sua chiusura o distruzione avrebbe sull’economia e sulla popolazione”.

https://renverse.co/local/cache-vignettes/L943xH679/criticite_-a13fc-90aba.png?1585574488

In questo quadro, il rapporto effettua una valutazione qualitativa (su quattro livelli: 0, 1, 2, 3) dell’importanza di ciascuna area rispetto alle altre. I risultati mostrano la centralità della fornitura di energia elettrica, che interessa più settori di qualsiasi altro e che ha il maggiore impatto sull’insieme (vedi tabella seguente). I sistemi di informazione e le telecomunicazioni sono rispettivamente al secondo e al terzo posto. Al contrario, i settori più vulnerabili alla chiusura degli altri sono i servizi di emergenza e gli ospedali. Di conseguenza, la vulnerabilità dell’alimentazione elettrica determina il blackout come il rischio più importante e ne motiva la qualifica di “super-rischio”.

Trasformatori, parti centrali della rete

Ci sono trasformatori a tutti i livelli della rete. Il ruolo di un trasformatore è semplicemente quello di cambiare la tensione dell’elettricità. Alcuni lo alzano in modo che possa percorrere lunghe distanze (su linee ad “alta tensione”), altri lo abbassano in modo che corrisponda alla tensione delle nostre prese elettriche. Sono quindi necessari per collegare le diverse parti della rete stessa.

Ci sono moltissimi trasformatori, piccoli e standardizzati, che si trovano ogni 3 o 4 case. In caso di guasto, questi sono facilmente sostituibili. E poi ci sono quelli che passano dall’alta alla bassa tensione, che sono enormi (e invecchiano). Questi sono quelli che ci interessano.

Queste cose sono mostruose, costano milioni di euro, pesano fino a 350 tonnellate. Sono delle dimensioni dei container di spedizione, realizzati interamente in acciaio e rame (metalli che rappresentano la metà del prezzo esorbitante del materiale). La produzione di tali apparecchiature richiede molto tempo (da 5 a 20 mesi) perché è fatta su misura. In generale, per ogni modello viene costruito un solo pezzo alla volta, quindi non ci sono parti di ricambio o intercambiabili. Di conseguenza, anche le riparazioni sono molto lunghe e complesse.

Anche il trasporto è un rompicapo. Il mezzo più comune è la ferrovia, ma solo i carri specializzati possono sostenere il peso. In Francia, la STSI effettua questo tipo di trasporto, dispone di un totale di 10 carri speciali. Negli Stati Uniti, ci sono solo 30 auto. Se il luogo non è accessibile con la ferrovia, lo spostamento avviene su strada. Vengono utilizzati semirimorchi specializzati, o “cingoli”, con 200 ruote. Hanno bisogno di un permesso per passare attraverso qualsiasi comune, e le strade devono essere modificate e le linee elettriche devono essere spostate per consentire il passaggio. Per concludere, la costruzione dei trasformatori e il loro trasferimento non è cosa facile.

Criticità dei trasformatori

Come abbiamo detto, i trasformatori sono essenziali per la rete. Sono installati in quelle che vengono chiamate sottostazioni, circondate da muri e reti metalliche. Alcune sottostazioni sono molto vulnerabili. Quando un trasformatore si guasta, può avere un effetto a cascata sull’intero sistema. Ad esempio, ci sono 55.000 sottostazioni negli Stati Uniti. 350 di loro sono le più critiche. Studi del governo e dei servizi pubblici statunitensi stimano che solo 9 sottostazioni fuori servizio potrebbero far crollare l’intera rete degli Stati Uniti per 18 mesi. Ricordiamoci delle conseguenze di un blackout di 5 giorni. 18 mesi sarebbero fatali per la rete.

Protezione del trasformatore

Data la vulnerabilità di tali apparecchiature, ci si aspetterebbe che siano ultraprotette. In realtà, la sicurezza dei posti è talmente carente da risultare a volte comica.

Ad esempio, una sottostazione in Arizona – la sottostazione Liberty – è una grande sottostazione che collega molti stati del nord e del sud della rete occidentale. E nel 2013 sono state effettuate una serie di sabotaggi contro questa stazione.

In primo luogo, qualcuno ha tagliato i cavi in fibra ottica di Liberty, che hanno bloccato le comunicazioni per qualche ora. Non hanno mai capito chi è stato o perché. Ma due settimane dopo, in un centro di controllo vicino, sono scattati diversi allarmi che indicavano che qualcosa non andava nella sottostazione. Questi sono scattati per due giorni prima che qualcuno venisse mandato a controllare. Quando sono arrivati, hanno scoperto che la recinzione era stata aperta, l’edificio di controllo era stato scassinato e diversi computer sul posto erano stati utilizzati. Quando il team di sicurezza ha controllato i filmati delle telecamere, si è reso conto che la maggior parte delle telecamere erano puntate verso il cielo.

Così hanno installato nuove telecamere. Ma due mesi dopo, c’è stata un’altra effrazione nella stessa stazione. Quando hanno controllato le nuove telecamere, hanno scoperto che nessuna di esse funzionava perché non erano state programmate correttamente. Se questo esempio vi ha scioccato, un altro esempio è ancora più impressionante.

L’esempio dell’attacco di Metcalf

Nel 2013 ha avuto luogo il più misterioso e interessante attacco alla rete elettrica 6, quindi siamo a Coyote, in California, appena fuori San Jose. Lì, una società chiamata Metcalf ha una sottostazione che trasmette molta elettricità della California.

La notte del 17 aprile 2013, intorno all’1 del mattino, qualcuno ha fatto irruzione in un caveau proprio accanto alla sottostazione e ha tagliato alcuni cavi in fibra ottica. L’operatore ci ha messo un po’ di tempo a capirlo. Dieci minuti dopo, un’altra serie di cavi è stata tagliata in un altro caveau nelle vicinanze.

30 minuti dopo, una telecamera di sicurezza della sottostazione ha notato una leggera scia in lontananza. Gli investigatori si sono poi resi conto che questa scia luminosa era un segnale luminoso. Subito dopo – all’1:31 del mattino – la telecamera ha registrato il flash dei fucili e le scintille dei proiettili che colpivano la recinzione in lontananza. Tutta questi “movimenti” ripresi dalle telecamere hanno fatto scattare l’allarme. E’ l’1:37 del mattino, pochi minuti dopo l’inizio delle riprese.

All’1:41 del mattino, 10 minuti dopo il segnale, il dipartimento dello sceriffo riceve una chiamata al 911; in realtà è stato il tecnico dell’impianto a sentire gli spari. Lo sceriffo allertato è arrivato 10 minuti dopo, quando tutto era ormai tranquillo. E’ arrivato un minuto dopo che un altro segnale della torcia ha messo fine all’attacco.

A cosa stavano sparando? Proprio a quei trasformatori molto grandi.

I trasformatori sono in realtà cose fisicamente semplici, sono solo fili di rame avvolti in grandi gabbie di metallo. Ma i trasformatori diventano molto caldi, e quindi vengono raffreddati. Per farlo, hanno serbatoi con del refrigerante. Lo sparo ha preso di mira questi serbatoi di liquido, nei quali sono stati fatti centinaia di buchi , facendo sfuggire il liquido. La polizia è arrivata e non si è accorta di nulla, era buio, come biasimarli. Oltre 200.000 litri di olio si sono lentamente prosciugati. Dopo un po’, i trasformatori si surriscaldarono ed esplosero. Un operaio è arrivato qualche ora dopo per vedere i danni, troppo tardi.

L’attacco ha allarmato le autorità. L’FBI ha indagato. Hanno trovato proiettili provenienti dal luogo in cui erano partiti gli spari, ma le impronte digitali erano state cancellate. Hanno trovato delle pietre che segnano il punto in cui mirare e sparare, il che significa che avevano già individuato il luogo e sapevano esattamente dove andare per infliggere il massimo danno. Prendere di mira il serbatoio di raffreddamento dimostra che sapevano a cosa mirare per generare danni.

17 dei 21 trasformatori della sottostazione sono stati messi fuori servizio. Ce ne sarebbero voluti solo uno o due in più per mettere la California al buio.

L’attacco è stato descritto come un sofisticato attacco terroristico, eseguito da una squadra di cecchini. Si pensava che fosse un banco di prova per un attacco più ampio alla rete elettrica della nazione. Solo che, secondo l’FBI, l’attacco non è stato particolarmente difficile da compiere, e avrebbe potuto essere eseguito da una sola persona, e questa persona non è stata particolarmente precisa nella sua sparatoria. “Non pensiamo si sia trattato di un attacco sofisticato”, ha detto John Lightfoot, che gestisce gli sforzi antiterrorismo dell’FBI nella Bay Area. “Non ci vuole un alto grado di formazione o di accesso alla tecnologia per portare a termine questo attacco”. Tuttavia, l’FBI ad oggi non ha alcuna pista.

17 dei 21 trasformatori della sottostazione sono stati messi fuori servizio. Ce ne sarebbero voluti solo uno o due in più per mettere la California al buio. In questo caso, la società elettrica è stata in grado di bypassare rapidamente la sottostazione. La Silicon Valley ha continuato a disporre di elettricità, anche se è stato chiesto loro di ridurre il consumo di energia giornaliero. Il danno è stato riparato in 27 giorni. Se diverse sottostazioni fossero state interessate in quel periodo, impedendo il reindirizzamento, sarebbe stata un’altra storia.

Madrid – Quarantena city – nuova pubblicazione

Esce il primo numero di una nuova pubblicazione anarchica a Madrid, in tempi di Stato di Emergenza, per dell’estensione della guerra sociale.

qui il pdf della pubblicazione

Contenuto:

-In acque inesplorate
-Che tornino gli scioperi. Che prolifichino le occupazioni. Che arrivino i saccheggi
-A proposito dell’attacco ai nostri legami
-Cronaca di rivolte, evasioni ed accadimenti nelle carceri e CIE a causa della crisi del coronavirus
-Tornare dove? Tornare a cosa?

In acque inesplorate

Siamo in stato di emergenza da più di una settimana. La capacità distruttiva del virus non è più in discussione. Ma vorremmo fare alcune annotazioni sulle sue conseguenze non cliniche e sulle sue origini.
Che la COVID-19 sia nata a causa di un pipistrello o di un tentativo americano, che è sfuggito di mano, per disabilitare l’economia cinese, ci sembra ora poco rilevante. Questo virus, come altri prima di esso nella storia che hanno massacrato intere popolazioni dell’Amazzonia, in Mesoamerica, Africa e Oceania, è un fenomeno biologico. Ma il contesto in cui è nato, il modo in cui si diffonde e come viene gestito sono questioni sociali.
Questo virus è il risultato di un sistema che mercantilizza ogni processo, oggetto, relazione o essere vivente sulla terra.
Esteso rapidamente a causa della macro-concentrazione di manodopera e del corpo consumista delle città, che si nutre di agroindustria e di allevamento intensivo. Un flusso
di risorse umane (5 miliardi di persone volano annualmente in tutto il pianeta) a velocità frenetiche, riflesse in 200 caratteri e 5000 like.
E’ proprio questo sforzo nell’artificializzare tutto, persino le nostre emozioni, basando tutto sul profitto, vedendo il mondo attraverso uno schermo, lasciando che la nostra mente sia colonizzata dall’”efficacia”, quello che ci ha portato ad una graduale perdita dell’”umano”, di ciò che è “vivo”.
Questo agevolando il fatto che misure così estreme, per cui ci sono solo due motivi per uscire di casa (lavorare e consumare) si sono imposte in un modo non esageratamente traumatico. Allo stesso tempo, questa ci viene proposta come via di fuga dalle stesse dinamiche tecnofile che ci hanno portato al disastro. Se a tutto ciò aggiungiamo la paura, il governo della paura,
finiamo per perdere la bussola e reinterpretare concetti come quelli di responsabilità o solidarietà.
Sarai marchiatx da irresponsabile, ad esempio, se non ti sottometti all’arresto domiciliare volontario. Che perversione di significato, che non è altro, infatti, che l’abbraccio tra il cuore e la testa, tra
analisi, decisione e azione. Con quel grido di “incoscente”, come minimo, che riceverai dalla finestra se andrai, per esempio, mano nella mano con x tux compagnx per strada, ti urlano contro, in realtà, “obbedisci alla norma!” Lo stesso vale per le chiamate alla solidarietà
che si traducono in servitù volontaria collettiva quando si convertono in acritico #iorestoacasa.
Che dire delle centinaia di persone che si ammassano ad Atocha e Chamartin tra le 6.30 e le 8.30 del mattino? Perché non si sono fermate la costruzione di edifici in una città che ha un eccesso esorbitante di appartamenti?
Le persone ammassate all’IFEMA [Fiera di Madrid, NdT] non sono persone?
È assurdo stare chiusi per una settimana? E passare rinchiusi 5, 10, 15, 30 anni e ora non è possibile ricevere una visita, nemmeno un colloquio e in molti casi le chiamate e la posta sono totalmente limitati? Per citare solo alcuni esempi dolorosi.
Per le persone senzatetto non è più possibile una sopravvivenza anonima, non possono più passare inosservate quando la giungla di vetro si è tramutata in un deserto di cemento. Sono, ancora di più di prima, persone proibite. Che nel migliore dei casi saranno portate a pascolare in ovili come l’IFEMA.
Si è anche scatenata la, già di per sé esacerbata, impunità della polizia contro gli/le altrx proibitx, quelle persone che non possono dimostrare attraverso scritti burocratici che sono persone con “pieni diritti”, o i cui tratti o colore della pelle inducono i torturatori in uniforme a pensare che non lo siano. (La stampa di maggioranza registra numerosi casi di aggressione da parte della polizia a Lavapiés, Centro e in altre città). Perché una pandemia continua ad essere una questione di classe, di privilegio, di morti non tanto casuali.
Non ci è stato dato il potere dei presagi come a Cassandra, ma abbiamo, in cambio, la maledizione di Apollo. Sarebbe a dire, non abbiamo la certezza che questi pronostici si compiranno (anche se vi sono prove inequivocabili di dove punta il potere e prove, già inconfutabili, di questo tipo di misure), tuttavia, temiamo di non essere ascoltatx.
Crediamo che tutte queste misure di controllo diventeranno permanenti, come è già successo con le leggi antiterrorismo dopo l’11 settembre, o con quelle ricorrenti; che non c’è da stupirsi che in futuro saremo nuovamente chiamatx al confinamento in circostanze come tempeste, uragani e ogni tipo di crisi climatiche, che sicuramente arriveranno, o nuove e vecchie epidemie che torneranno a bussare alla nostra porta.
Tracciamento degli spostamenti attraverso il telefono, controlli biometrici e di temperatura, limitazioni di movimento a seconda di questi parametri… sono già una realtà e sono arrivati per rimanere. A questo va aggiunta la precarizzazione generalizzata della vita che arriverà in mezzo a tutto ciò, la socializzazione della povertà…

A questo punto vorremmo condividere l’idea che il mondo presente, o piuttosto passato come lo conosciamo: basato sul il dominio, con le sue strutture che perpetuano la miseria, la sua ortodossia, il suo affanno liberticida… non è abbastanza per noi. E in nessun modo vogliamo tornarci.

Cominciamo a provare. Considerando che ci sono persone che non ci piacerebbe infettare, rompiamo l’isolamento. Agiamo, se necessario, a livello individuale. In questa realtà anche colpendo alla cieca è molto facile centrare il bersaglio. Comunichiamo, parliamo, diffondiamo informazioni e siamo criticx, forziamo il coprifuoco, mappiamo il controllo (dove e quando si pattuglia, quali spazi sono stati banditi, dove trovare le forniture…). Fomentiamo gli scioperi e le chiusure delle aziende. Non vogliamo una gestione della crisi. Vogliamo sperimentare, scontrarci, lottare, confliggere…
Sforziamoci di incidere sul presente anche se quando alziamo lo sguardo non vediamo l’orizzonte. Forse è proprio qui che si trova la chiave, lasciamoci alle spalle verità, convinzioni e sicurezze, navighiamo con la passione per l’avventura in acque inesplorate, verso aurore di libertà e rivolta.

Sull’attacco ai nostri legami

“Io dipendente dal mio e tu dal tuo, ascolta il tuo orologio, il suo ticchettio è un mormorio”.

Il confinamento ha conseguenze disastrose per uno dei pilastri più importanti della nostra vita: le relazioni personali. Queste sono costrette a prendere le distanze, a rompersi, a sostituire il contatto della carne con l’isolamento dei bit e degli schermi. Non è come quando qualcuno che ami parte attraverso situazioni di vita verso qualche luogo remoto, quando hai la certezza che il legame sarà sicuramente polveroso ma intatto al ritorno, o che vivrà nella memoria; ma si mantiene il sostegno di tutte le altre relazioni su cui contiamo nella nostra vita quotidiana. Questa situazione di quarantena ha interrotto con la forza il corso delle nostre interazioni sociali dalla sera alla mattina, confinando le nostre vite nel modulo di isolamento.
C’è chi è ha fortuna e almeno (almeno perché non colma il vuoto lasciato da legami estranei) può passare la prigionia con persone che ama e con le quali si può sostenere a vicenda, ma che dire delle persone che vivono da sole? Chi ascolterà le loro grida di aiuto quando il suicidio dovuto all’ansia busserà alla loro porta? E le donne che hanno il loro carceriere in casa? Si dice che la polizia sarà attenta alle chiamate per violenza di genere, ma non possiamo aspettarci che la polizia risolva questi problemi, ancor meno quando sappiamo che il più delle volte contribuiscono all’umiliazione e alla vessazione della donna maltrattata. Inoltre, sarai davvero in grado di alzare il telefono stando rinchiusa con qualcuno che ti domina? Sarai in grado di uscire? Le cifre dei femminicidi ci dimostreranno di no. E chi non ha un posto dove vivere? Quelli che i militari “aiuteranno” e “trasferiranno”. Non dovremmo fidarci per nulla di quello che l’Esercito dice che farà in momenti in cui non staremo guardando perché siamo chiusi in casa.
E per aggiungere un’altra pietra allo zaino, il panico sociale non solo ha fatto sì che i singoli individui rompessero i loro legami, ma che cercassero di spezzare quelli che cercavano di resistere. Dai balconi si rimprovera chi cammina insieme per strada, chi si stringe la mano, chi si abbraccia, chi si bacia… Ansia collettiva sulla base del “Io mi sto chiudendo in casa e tu la prendi come uno scherzo”. Ma parlare via whatsapp, skype, social network e altre alternative fornite dalla tecnologia non è neanche lontanamente valido per uscire dalla palude di ansia e follia in cui ci hanno affondato. C’è bisogno di contatto, di camminare con qualcuno senza pensare che un’auto di pattuglia ti darà una supermulta per aver mantenuto i legami e non essere caduto nell’isteria.
Cosa succederà quando potremo tornare per strada e non sapremo rapportarci in gruppo, faccia a faccia in piazza? Quando l’ansia sociale sarà generalizzata e dovremo unirci e lottare contro il mondo di merda in cui viviamo?
Non lasciamo che il panico sociale e il controllo statale distruggano la cosa più preziosa che abbiamo, rafforziamo i nostri legami per essere catene indistruttibili che spazzino il dominio.

Che tornino gli scioperi. Che prolifichino le occupazioni. Che arrivino i saccheggi

La crisi di Covid-19 ha evidenziato ancora una volta che questo mondo appartiene a loro perché ce lo strappano. I ricchi e i potenti ne usciranno più forti, sostenuti dallo Stato. E noi, più poveri di quanto eravamo prima. E se lo eravamo, è perché c’erano ricchi. La crisi non fa che intensificare questi processi.

Ci portano via tutto perché c’è la proprietà privata, la proprietà della terra, della casa, dello spazio… E in base a questo diritto di proprietà, regolato dallo Stato, ci costringono a pagare le cose più elementari: (cibo, alloggio…) e ci costringono a lavorare per loro se vogliamo denaro per sopravvivere. Cosa fanno se no milioni di lavoratori che vanno a lavorare in pieno confinamento?

La crisi di Covid-19 ha evidenziato ancora una volta che questo mondo appartiene a loro perché ce lo strappano. I ricchi e i potenti ne usciranno più forti, sostenuti dallo Stato. E noi, più poveri di quanto eravamo prima. E se lo eravamo, è perché c’erano ricchi. La crisi non fa che intensificare questi processi.

Ci portano via tutto perché c’è la proprietà privata, la proprietà della terra, della casa, dello spazio… E in base a questo diritto di proprietà, regolato dallo Stato, ci costringono a pagare le cose più elementari: (cibo, alloggio…) e ci costringono a lavorare per loro se vogliamo denaro per sopravvivere. Cosa fanno se no milioni di lavoratori che vanno a lavorare in pieno confinamento? E intanto, si fanno compromessi, si ascoltano politici e giornalisti parlare di moderazione, unità e responsabilità con un orizzonte di sfratti, licenziamenti e incertezze, perché la crisi sanitaria passerà, ma le condizioni di sfruttamento e di miseria a cui siamo sottoposti prevarranno e aumenteranno in modo esponenziale. Una crisi sanitaria che lascia un’altra domanda: qualcuno crede che Amancio Ortega o Esperanza Aguirre si vedranno negare un letto in terapia intensiva se prenderanno il virus? Questo è quanto.
Non possiamo tornare alla normalità, non ci sarà più la normalità. Il Potere si sta preparando per ciò che verrà dopo. Facciamolo noi: scioperi degli affitti, scioperi nei luoghi di lavoro e nei centri di studio, scioperi selvaggi, al di fuori dei partiti, dei sindacati e delle strutture stagnanti. E prendiamo, non aspettiamo, occupiamo le proprietà vuote che sono il terreno di pascolo della speculazione capitalistica delle società immobiliari, delle banche e dei fondi di investimento. Tessiamo reti di solidarietà e di sostegno reciproco.

Non possiamo tornare alla normalità, non ci sarà più la normalità. Il Potere si sta preparando per ciò che verrà dopo. Facciamolo noi: scioperi degli affitti, scioperi nei luoghi di lavoro e nei centri di studio, scioperi selvaggi, al di fuori dei partiti, dei sindacati e delle strutture stagnanti. E prendiamo, non aspettiamo, occupiamo le proprietà vuote che sono il terreno di pascolo della speculazione capitalistica delle società immobiliari, delle banche e dei fondi di investimento. Tessiamo reti di solidarietà e di sostegno reciproco.

E facciamolo sapendo che lo Stato è già preparato con migliaia di militari, polizia, telecamere e droni per proteggere l’ordine, per proteggere la proprietà e il lavoro, perché l’autorità è un garante per gli sfruttatori per continuare a sottomettere gli sfruttati. Ci prenderemo le strade, non dimentichiamo, non perdoniamo, non ci sarà nessun governo, urna, elezione, militare, polizia, giornalista o giudice capace di contenere l’epidemia di rabbia e di rivolta. Dipende da noi il fatto di restituirgli il colpo.
Saccheggia i ricchi.

Un manifesto attacchinato a Madrid inserito nella pubblicazione:

 

“La catastrofe è il capitalismo”

Più pericolosi di un virus ci sono i militari che controllano le strade

perché sono il braccio armato del potere, perché invadono, assassinano e saccheggiano per gli interessi capitalisti nelle guerre.

Perché proteggono i ricchi dalle rappresaglie dei poveri.

Non proteggono te.

NON SONO SALVATORI, SONO ASSASSINI

 

https://roundrobin.info/2020/04/madrid-quarantenacity-nuova-pubblicazione/

Bollettino “Ruggiti (n. 0) – Cronache di epidemie”

È uscito “Ruggiti n. 0” – Bollettino “Ruggiti-Cronache di Epidemie”.

L’intento del bollettino è quello di stimolare analisi e portare spunti di riflessione sull’attuale instaurazione dello stato d’emergenza. All’interno c’è una sezione dedicata alle rivolte e resistenze che si stanno diffondendo all’interno di carceri e centri di detenzione per persone migranti di tutto il mondo, contro l’ulteriore repressione imposta dalla situazione d’emergenza legata al coronavirus. Solidali con le persone recluse rivoltose, questa rubrica cerca di dare un minimo di voce a tutto ciò che sta succedendo, con la possibilità anche di creare contatti tra l’interno e l’esterno delle mura.

Il bollettino è stato realizzato in versione cartacea, distribuita per strada e nelle bucalettere, cosi come in versione digitale. È possibile richiedere delle copie presso l’indirizzo e-mail: ruggiti@riseup.net e trovarlo in versione digitale sul blog https://frecciaspezzata.noblogs.org/

Qui il link al pdf

Le carceri sono un focolaio di contagio

Da inizio marzo sono state numerose le proteste portate avanti dalle persone detenute, e ci siamo uniti e unite a chi ha lottato davanti le carceri al fianco dei propri affetti. Anche noi abbiamo i nostri affetti in carcere, non solo a Roma, e siamo disposti a lottare al fianco di chi neanche conosciamo. Il nostro cuore e la nostra testa sono anche con chi sta lottando nei Centri di espulsione per immigrati, da cui escono pochissime notizie perché lo Stato gioca sulla difficoltà di avere contatti con l’esterno.

Il governo non ha mosso un dito per tutelare l’incolumità delle persone detenute e dichiara l’intenzione di attivarsi, con un mese di ritardo, con misure insignificanti. Domani, lunedì 6 aprile, il Senato voterà gli emendamenti al Cura Italia rispetto la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare: per come si prospetta, non sarà risolutiva né del sovraffollamento né tantomeno della crisi sanitaria nelle carceri.
Ovviamente gioiamo per ogni singola persona detenuta che riuscirà a mettersi in salvo dal contagio ma è necessario guardare alle altre decine di migliaia in pericolo.

Lo Stato ha parlato delle rivolte descrivendo i detenuti come burattini nelle mani di “regie esterne”. E quindi ci sarebbero regie esterne in tutto il mondo, visto che le rivolte e le proteste sono esplose ovunque?
Durante le rivolte sono state uccise 14 persone e ci è molto chiara la responsabilità di queste morti,nonostante le dichiarazioni ufficiali ci raccontino di morti per overdose. Sono state sminuite se non addirittura ignorate le preoccupazioni di parenti e amici facendo circolare false informazioni, concedendo la parola solo a sindacati dei secondini e burocrati, utilizzando i media per creare un clima rassicurante nel tentativo di soffocare la giusta rabbia delle persone detenute.

Quando la paura di chi è oppresso diventa forza collettiva per alzare la testa, il copione degli Stati è sempre lo stesso.

Oggi più che mai le persone detenute hanno indicato con coraggio l’unica soluzione per mettersi in salvo: liberarsi dalle galere, tornare tutte e tutti a casa.
Che lo Stato costringa a morire in carcere, tra negligenza medica, sovraffollamento, abusi e pestaggi, non è una novità. Ignorare totalmente il pericolo del contagio è una scelta, non è assolutamente una svista.

I dati sui contagi in carcere non sono assolutamente credibili, ogni dichiarazione parla solo dei contagi tra guardie e personale medico, pochissimo esce sulla condizione delle persone detenute. A quanto pare in carcere si diventa immuni al virus!
Anche le parole del Garante dei detenuti sono vuote, non si basano su alcuna informazione concreta. I giornalisti, invece di prendere informazioni da fonti dirette come i parenti dei detenuti, preferiscono come al solito essere uno strumento di contenimento per conto del governo.
Due giorni fa è morto il primo (chissà se è davvero il primo) detenuto per COVID-19 in ospedale a Bologna.
Era uno dei detenuti trasferiti nel carcere di Bologna dopo le rivolte a Modena.
Solo guardando alla regione Lazio, venerdì hanno iniziato a parlare di 5 contagi nel carcere di Rieti, dove sono già morti 4 detenuti a seguito delle rivolte, e di 60 persone in quarantena perché venute a contatto con sanitari positivi nella sezione femminile di Rebibbia. Sempre venerdì, a Rebibbia è morto un detenuto. Lo chiamano suicidio ma per noi è stato ucciso dal carcere.

A Roma sono presenti diverse carceri e tutto quello che sappiamo è frutto delle relazioni tra i familiari e amici delle persone detenute. Sappiamo che questo è l’unico modo per conoscere la situazione reale nelle carceri.

In questo momento è necessario un colpo di reni, una presa in carico collettiva.
Aspettare è la peggior cosa che possiamo fare.

Chiediamo a tutte e tutti di restare attenti a quello che accadrà nelle carceri in questi giorni. Attiviamoci concretamente per abbattere la “distanza sociale” imposta da quelle mura perché tutte e tutti possano mettersi in salvo a casa.

Rete Evasioni, 5 Aprile 2020

Le carceri sono un focolaio di contagio

Dietro l’angolo Pt.1 – Qualche ipotesi su COVID19 e sul mondo in cui vivremo

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

 

Tra salti e accelerazioni. A mo’ d’introduzione.

«È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo».

Un affermazione che ha riscosso un certo successo negli ultimi tempi, quelli pre-Covid19 tanto per intenderci, a causa della crescente attenzione sviluppatasi attorno ai cambiamenti climatici e alla devastazione ambientale e alla contemporanea debolezza delle ipotesi rivoluzionarie. Un affermazione che risulterebbe probabilmente ancor più convincente oggi, in seguito al diffondersi di un contagio di cui è difficile intravedere, per l’appunto, la fine, o perlomeno comprendere quali scenari possa evocare questa parola.

Al di là del suo carattere suggestivo, è un affermazione che però non ci convince granché, ancorata come ci sembra sia a una certa fantascienza da giorno X, in cui da un momento all’altro un fenomeno apocalittico farà la sua comparsa avviando il definitivo conto alla rovescia.

Se proprio dobbiamo pensare a una fine o comunque a una china discendente, ci sembra molto più appropriata, e cupa, l’idea di una discesa graduale e costante, con picchi e momenti topici com’è quello che stiamo vivendo, verso una sempre più diffusa impossibilità di far fronte anche solo alle basilari necessità di vita.

Le riflessioni che seguiranno tenteranno di muoversi lungo questo solco, provando a non lasciarsi schiacciare dal carattere epocale della situazione che stiamo vivendo. Cercheremo quindi di mettere in luce alcune dinamiche che non sono state certo prodotte dal diffondersi di questa epidemia o dalla sua gestione, ma sono in atto già da tempo e con ogni probabilità potranno nei prossimi tempi subire una drastica accelerazione. Proveremo poi a cogliere alcune tra le peculiarità che l’epidemia in corso sta facendo emergere e che sembrano invece suggerire scenari diversi, o che almeno possono apparire tali.

Per la complessità e contemporaneità della situazione, e per i limiti che ci sono propri, pensiamo a queste riflessioni come una sorta di bozza, con uno sguardo rivolto principalmente a questo pezzo di mondo, da precisare e magari rimettere in discussione nei prossimi tempi. Oltre che come un contributo per un dibattito a più voci, che possa aiutare a precisare i contorni del mondo in cui ci troveremo a vivere e lottare.

Nel tentare di fornire una lettura del presente, specie in alcuni periodi, può certamente essere utile guardare al passato per sottolineare i corsi e ricorsi storici. In più di un’occasione, ad esempio, è stato fatto emergere il filo che lega le recenti misure sul decoro urbano e la più generale colpevolizzazione dei poveri alle leggi contro il vagabondaggio, che nel XVII secolo portarono poi alla Grande reclusione: dover gestire masse crescenti di uomini espropriati della possibilità di aver di che vivere.

Altrettanto prezioso sarebbe però, oltre a rintracciare gli elementi di continuità, tentar di far emergere le rottura con il passato, ciò che traccia una netta discontinuità tra l’oggi e l’altroieri.

Rimanendo sull’esempio precedente, quali analogie si possono intravedere tra le condizioni economiche, sociali e ambientali di allora e quelle attuali? Di quanta forza lavoro ha attualmente bisogno il capitalismo, e di quanta ne avrà bisogno domani? Quali dimensioni è destinata a raggiungere la schiera degli inutili al mondo? La necessità di serrare le vite di tanti uomini e donne alle catene del lavoro salariato con la prigione, il marchio a fuoco e con la forca, quali corrispondenze conserva con l’oggi? E ancora, quali porzioni di territorio restano da colonizzare per dar sfogo, isolare e valorizzare, come in passato, chi è di troppo?

Le differenze che emergono, tra passato e presente, nel tentar di rispondere a queste domande sono qualitative.

Il capitalismo ha oramai raggiunto ogni angolo del pianeta, nell’organizzare la natura in base alle proprie esigenze ha devastato l’ambiente e consumato le sue risorse con un’intensità tale da rendere sempre più territori inabitabili, a partire proprio da quelli che, attraverso il colonialismo, hanno conosciuto politiche di sfruttamento più feroci. Paesi che se un tempo hanno assorbito una buona fetta dell’umanità in eccesso, mandata lì per esigenze militari, economiche o anche solo punitive, ora producono invece una parte considerevole degli inutili al mondo cui non resta che migrare, senza per di più grandi possibilità di tornare prima o poi indietro, come avveniva in passato.L’inabitabilità delle loro terre ben difficilmente, a voler essere ottimisti, risulterà reversibile.

Fattori ambientali cui si intrecciano quelli più strettamente economici. Senza volersi addentrare in un’analisi complessiva dell’attuale fase economica, sia per l’obiettivo più circoscritto di questo testo che per la nostra inadeguatezza a farlo, ci sembra di poter dire che uno dei punti su cui un po’ tutte le analisi concordino è la tendenziale riduzione del numero di lavoratori necessari su scala globale. Una tendenza che, nonostante le profonde differenze da paese a paese, è resa irreversibile dal crescente livello d’automazione che si sta diffondendo in un ampio ventaglio di attività lavorative. Un processo tecnologico da cui derivano delle conseguenze che non tarderanno a manifestarsi. Tra queste le più evidenti e prossime saranno lo smantellamento di determinati comparti produttivi e attività commerciali, e la crescente concentrazione di ricchezza e capacità produttive nelle mani di pochi.

Mezzi di sostentamento che vengono dunque a mancare per un numero sempre maggiore di esseri umani, man mano che porzioni sempre più estese del pianeta diventano letteralmente invivibili e che al contempo vengono meno le modalità attraverso cui, negli ultimi decenni, era in qualche modo organizzato il soddisfacimento di determinati bisogni. Masse crescenti di persone ammassate attorno a pezzi di città, più o meno ampi, in cui si riuscirà a mantenere un certo livello di sopravvivenza – perchè riusciranno a rimanere ancorati al lavoro salariato o ad alcune tra le molteplici forme di sostegno al reddito che verranno istituite, – quando non un notevole benessere, grazie anche a una sempre più intensa artificializzazione dello spazio fisico e della vita, di cui potranno godere, se così si può dire, sempre meno persone.

Un’esclusione che sembra profilarsi quindi come permanente e verso cui sarà ancor più difficile che in passato trovare delle alternative in qualche “fuori”, almeno per porzioni così cospicue di popolazione, vista l’intensità con cui il capitalismo si è costantemente prodigato a cancellare qualsiasi forma di autonomia.

É il carattere permanente che sembra gravare sull’attuale condizione di escluso a renderla qualitativamente differente dal passato.

Una fine, se si vuole continuare a utilizzare questo termine per descrivere questo processo, che evidentemente è già iniziata.

Si sarebbe conclusa all’incirca così questa sorta d’introduzione, se l’avessimo scritta alcune settimane fa.

Ora non si può non provare ad interrogarsi su cosa ci suggerisce l’epidemia in corso, e la gestione di essa, riguardo le dinamiche di selezione ed espulsione legate a fattori sociali e, diciamo così, ambientali abbozzate finora.

Ritorniamo per un momento alla repressione del vagabondaggio. Le strutture ospedaliere vennero allora utilizzate con funzioni prevalentemente di contenimento, per rinchiudere un buon numero di poveri e ridurre così la crescente insalubrità delle città, che minacciava non solo gli ultimi ma anche i primi gradini della scala sociale.

Che peso ha oggi avuto, assieme a valutazioni di altro tipo, la natura contagiosa di quest’emergenza, nel costringere le autorità nostrane a doversi in qualche modo occupare di un po’ tutta la popolazione, anche di quella parte cui normalmente non sono destinate così tante risorse sanitarie – visto che, almeno su grandi numeri, non sarebbe stato possibile adottare misure di isolamento efficaci, da un punto di vista epidemiologico, per tutti gli altri -?

E sarà possibile sostenere questo sforzo per molto tempo, se quest’epidemia come tutto lascia prevedere durerà, magari a fasi alterne, ancora a lungo? Un’ipotesi in forte contrasto con le politiche sanitarie recenti e che potrebbe sembrare in linea con la decisione del Parlamento europeo di ridefinire la Sanità, «non più come un servizio ma come un’infrastruttura», strategica perchè essenziale per poter continuare o ritornare a produrre.

O si possono intravedere altre strade che, attraverso misure di selezione e separazione, permetteranno alle autorità di poter decidere di non farsi carico di determinati pezzi di popolazione? Come consentono almeno in parte di intravedere, tra le altre, alcune dichiarazioni su possibili passaporti d’immunità da rilasciare a chi abbia anticorpi “validi” nel sangue.

Soluzioni che non si escludono certo a vicenda e che dipenderanno e al contempo influenzeranno anche la gestione dell’ambiente urbano: quanto smart diverranno le città, o dei pezzi di queste, e che possibilità di gestire e delimitare la mobilità ci saranno, tanto a livello tecnologico e militare, quanto economico e politico? Una questione che non nasce certo oggi – pensiamo tra i tanti all’introduzione dei daspo urbani o alla banalizzazione delle zone rosse – ma che potrebbe diventare quanto mai stringente, legata com’è alle modalità e tempistiche con cui si sta progettando la fantomatica fase 2.

Soluzioni che poi, assieme alle dinamiche finora accennate, contribuiranno a dar forma e intensità a quegli scenari di guerra civile che promettono di diventare una costante di quest’epoca e su cui varrà quindi la pena tentar di affinare dei ragionamenti.

Sarà infatti su questo sfondo di conflitti, che tracimano l’alveo dello scontro tra sfruttati e sfruttatori o tra oppressi ed oppressori che dir si voglia, che dovrà muoversi chi continua testardamente a pensare che non ci sia altra strada da percorrere, se non quella della guerra sociale.

Resterà infine da tentare di intravedere come si snoderà e di cosa sarà lastricata questa strada, dopo quella che è forse la prima esperienza in grado di sconvolgere contemporaneamente la normalità di tutti gli abitanti di questo pianeta, a partire dalla seconda guerra mondiale.

Cosa resterà di questo sconvolgimento davanti a problemi che si presenteranno sempre più assillanti e feroci? In che misura questa frattura potrà stimolare la crescita e l’intensificarsi di queste lotte, anche nella capacità di squarciare il velo d’inesorabilità dietro cui il capitalismo si ripara? E quale spazio potrebbe aprirsi per l’irragionevolezza di ipotesi rivoluzionarie?

Sentimenti e riflessioni che ci sorgono – gruppo di supporto ax prigionierx di Lleida

Poche settimane dopo l’attuazione dei protocolli di “prevenzione e protezione” del COVID-19 nelle carceri, sentiamo il bisogno di esprimerci. Esprimerci sulla base dei nostri sentimenti, della nostra rabbia, della nostra preoccupazione, dell’impotenza e dell’indignazione per come la situazione viene gestita, per come i/le compagnx detenutx sono statx isolatx e imprigionatx ancora di più, per le notizie di abusi, maltrattamenti, percosse che ci arrivano con difficoltà, per come si abusa più che mai del potere e dell’impunità, e per come sebra si considerino “positive” certe misure che hanno cominciato ad essere adottate dalle Istituzioni Penitenziarie, che a nostro avviso sono solo un pulirsi la faccia.

Sembra certo che, almeno in alcune comunità, si stanno prendendo misure incipienti per calmare gli spiriti dex prigionerx e contrastare gli effetti delle restrizioni per prevenire il coronavirus in carcere. Va ricordato che le misure adottate si sono basate su un maggiore isolamento, solitudine e punizione. Nessun permesso di uscita, nessuna comunicazione ai colloqui, nessun vis a vis, sospensione delle attività, ecc. Ci siamo rassegnatx a pensare che questa fosse l’unica soluzione. Siamo sicure che ci deve essere un modo per continuare ad avere contatti con x prigionierx, almeno attraverso un vetro. Questo implicherebbe più lentezza, più lavoro, cambiamento delle strutture, delle regole e delle operazioni. Investire in più misure di igiene e disinfezione. Ma crediamo che questo sarebbe stato possibile, se davvero alle autorità e alla società importasse minimamente della popolazione carceraria. Con il pretesto di intervenire in relazione all’espansione di COVID-19, i diritti di queste persone sono stati violati in modo ancora più brutale.

È tutta un’insensatezza che ci genera rabbia. Vengono distribuiti documenti assurdi e le istruzioni per lavarsi le mani quando non gli viene fornito il gel disinfettante o a malapena lo shampoo. Ricordiamo la precarietà dei kit per l’igiene, e che x detenutx sono obbligatx ad acquistare – chi può farlo- carta igienica, sapone e altri materiali sanitari di base. Si proibisce ingiuriosamente il contatto con il loro ambiente, quando i carcerieri entrano ed escono ogni giorno seguendo controlli e protocolli minimi, tornano a casa e ritornano in prigione, e sono loro il principale focolaio di infezione. Quando ci sono stati possibili casi di contagio, hanno messo x prigionierx in celle di punizione, per “isolarlx”. Vengono vietate le visite dall’esterno quando la struttura stessa del carcere è una macchina di morte che rende impossibile qualsiasi tipo di misura di sicurezza contro il virus. Ad esempio, come possono mantenere una distanza di sicurezza quando mangiano insieme, quando molte volte sono costretti a condividere celle di 2 x 3 metri?

Come sempre, quando si cerca di contattare le carceri, si diventa vecchi ad aspettare che rispondano al telefono, e quando lo fanno, di solito non sono in grado di rispondere alle domande. Nella maggior parte dei casi ti dicono che non possono darti le informazioni che chiedi, che non sanno quali misure vengono prese, quali protocolli vengono seguiti. O si applicano regole diverse in ogni luogo, oppure la persona che risponde al telefono ti dice la prima cosa che le viene in mente. Non abbiamo nemmeno potuto capire se la posta funziona, se x prigionierx possono inviare lettere e se ricevono lettere dall’esterno. Come è possibile che non sappiano o possano dare queste informazioni? A volte ti dicono che funziona, ma questo non è coerente con il fatto che non riceviamo lettere da nessunx da settimane, né con le informazioni che ci vengono date dai loro parenti.

Come dicevamo, dopo diverse settimane, sembra che il governo cominci ad adottare alcune misure. Misure che ci sembrano ancora tardive e insufficienti. E non dimentichiamo che, se vengono portate avanti, o se si pensa di farlo, è, in gran parte, grazie alla pressione che molte persone private della libertà stanno facendo in decine di carceri della Catalogna e dello Stato. Rivolte in alcuni moduli, scontri con le guardie, scioperi dell’aria, azioni coordinate, incendi di oggetti… Sono principalmente loro che hanno ottenuto queste conquiste, loro quellx che sono riuscitx a fare pressione affinché gli diano “qualcosa”, affrontando ancora una volta la repressione e la punizione per essersi rivelati. Non è per la buona volontà delle istituzioni né perché si preoccupano dex prigionierx e dei loro diritti, poiché i loro diritti sono sistematicamente violati già in uno scenario “normale”, e hanno continuato ad essere atrocemente violati con la comparsa del COVID-19.

Si diceva che avrebbero dato più telefonate ax detenutx. Queste chiamate si pagano, come sempre, a prezzi esorbitanti. In altre parole, le compagnie telefoniche continueranno a trarre profitto dalla disperazione di quellx dentro. E dalla disperazione delle famiglie, che hanno più bisogno che mai di dare soldi ax loro carx. Tirandoli fuori da qualsiasi cosa, in modo che possano chiamare, visto che ora non possono nemmeno vederli, e perché sono preoccupate per quello che succede dentro. Ora dicono che, almeno in Catalogna, daranno chiamate “gratis” ax prigionerx senza soldi. “Grazie, che atto di buona volontà!” Perché non danno 20 chiamate gratis a tuttx? Perché continuano a far pagare le chiamate quando in questo momento è l’unico contatto con l’esterno? Perché la prigione è ancora un business, anche in “stato di emergenza”. E chi è considerato un detenuto senza risorse? Per quanto ne sappiamo, sono considerate persone indigenti solo quex detenutx che non hanno nessun tipo di ingresso di denaro. Cioè che non hanno alcun tipo di reddito. Questo significa che tuttx coloro che prendono 30, 40 euro al mese, che basta appena per 4 caffè, qualcosa dallo spaccio e un paio di telefonate, non possono avere accesso a queste telefonate gratuite, perché si ritiene che “hanno già delle risorse”, o in altre parole “non sono abbastanza poveri”. Per quanto ne sappiamo, non è che si stiano dando le, ma che si danno 3 o 5 euro a settimana, a seconda del carcere in cui ci si trova, per poter chiamare. Questo basta per fare una chiamata e mezza a settimana (una chiamata dura 8 minuti). Per tutte queste persone, cioè la maggior parte di loro, sia quelle a cui la famiglia dà 40 euro al mese, sia coloro che devono ringraziare l’istituzione per avergli regalato 3 euro di merda, non serve a nulla che abbiano aumentato il numero di chiamate che si possono fare a settimana. Perché potranno continuare a farne solo poche, praticamente le stesse che facevano prima di questa situazione di doppia reclusione.

Si dice anche che sarà possibile “cambiare” i colloqui vis a vis con delle videoconferenza. Come se si potesse comparare uno sguardo negli occhi con uno attraverso uno schermo. Ovviamente è meglio di niente, ma è una piccola cosa. E che succede alle comunicazioni attraverso un vetro? Ci sono moltissimx prigionierx che non fanno colloqui vis a vis. Che succede con loro? Anche le comunicazioni attraverso il vetro si potranno convertire in videoconferenze? E se la persona fuori non ha Internet, risorse o tecnologia per fare queste videoconferenze?

La Generalitat de Catalunya ha ordinato di iniziare il 24 marzo, a Quatre Camins, l’applicazione di videoconferenze di 1 ora in sale con computer. Hanno detto che al più presto l’avrebbero applicata alle altre carceri. Cosa ne sappiamo? Ebbene, secondo i parenti delle persone detenute a Quatre Camins, non è vero. Quello che si sta realizzando sono 10 minuti di videochiamate tramite Whatssap in piccole stanze, attraverso dei cellulari. Si sta applicando anche al Mas d’Enric e da giovedì 2 aprile inizierà a Brians. A Wad-Ras e Lledoners non è ancora stato applicato e a Ponent dicono che lo stanno gestendo. È molto complicato ottenere informazioni.

Innumerevoli misure di restrizione sono applicate in relazione al contatto con il mondo esterno, con il pretesto di prevenire il Coronavirus, ma lì le persone continuano ad essere ammassate, in condizioni di mancanza di igiene, spesso senza acqua calda, con permanente trascuratezza sanitaria, condividendo minuscole celle e numerosi spazi comuni. Usando la stessa cabina telefonica per decine di persone, il che genera code, ansia e tensione. Ma x carcerierx vanno e vengono, vanno in diversi spazi del carcere, a volte senza misure di protezione. E x prigionerx non hanno nemmeno la possibilità di lavarsi le mani frequentemente, di indossare una mascherina o di mantenere una distanza di sicurezza. Gli anziani, le persone con problemi respiratori, con malattie croniche, continuano ad essere rinchiuse in un’infermeria o in una cella di punizione.

Questo si può vedere nelle diverse esperienze deelle persone detenute e delle loro famiglie. Per esempio: non molto tempo fa, nel carcere di Lledoners, nel modulo 8, mentre mangiavano, il capo del servizio camminava come fosse a casa sua, fumando una sigaretta e non senza indossare la mascherina. Un altro esempio: nella prigione di Ponent, è stato chiesto se c’era bisogno di mascherine per le prigioniere siccome si poteva parlare con le reti che sono state create per fare le mascherine, qui a Lleida. Ma quello che hanno risposto è che non ce n’era bisogno. Che hanno già abbastanza materiale e che le persone imprigionate non possono indossare maschere. Negano la produzione e l’ingresso delle mascherine per le prigioniere. Lo vediamo riflesso nelle notizie uscite il 25 marzo sul quotidiano “el Segre”, possiamo leggere il titolo “Isolano un prigioniero accusato di aver spinto gli altri a ribellarsi nel bel mezzo di una crisi” e il sottotitolo è: “I parenti affermano che è stato accusato di indossare una mascherina”.

Siamo anche un po’ stufe del fatto che le istituzioni catalane diffondano il discorso che lo Stato spagnolo è quello cattivo per rafforzare l’idea che le loro carceri siano migliori, che si prendano cura dex prigionierx e che pensino a loro. Sì, possiamo vedere che ci sono piccole cose diverse, e potremmo dire positive, nelle prigioni catalane, ma questo non significa che nelle prigioni catalane si salvino dal trattamento denigratorio che molte persone continuano a ricevere nella loro vita quotidiana, e ancora di più, dalla falsità che le istituzioni catalane hanno, con il loro volto gentile, visto che vediamo che rispetto a quello che dicono fanno ancora meno. Fingono sempre di essere “progressisti e avanzati”, ma poi vediamo che la metà di quello che dicono non è reale, oppure lo applicano in modo meschino e carente, come si può vedere rispetto al tema delle videoconferenze che abbiamo spiegato prima.

La situazione e quindi l’informazione sta cambiando di giorno in giorno, quindi essere consapevoli di ciò che sta accadendo è molto importante affinché le persone dentro non siano sole e isolate in questa situazione di vulnerabilità e di doppia punizione.

Non ci dimentichiamo dex nostrx compagnx prigionerx. Tanta forza per tuttx, e tutto il nostro sostegno alle forme di lotta che si stanno portando avanti dentro le carceri.
Ora siamo qui, e qui saremo quando tutto questo sarà passato.

Morte al carcere e viva la libertà.

fonte: supportpresxslleida.noblogs.org

https://roundrobin.info/2020/04/sentimenti-e-riflessioni-che-ci-sorgono-gruppo-di-supporto-ax-prigionierx-di-lleida/

Genova – A proposito di pandemia e “normalità”

Testo diffuso in diversi modi a Genova

Stiamo vivendo una difficile situazione data dalla diffusione di un virus nominato Covid-19. Rispetto alla sua genesi non crediamo a nessuna “ipotesi di complotto”: semplicistica soluzione, per non leggere la situazione per quel che è. A conferma, il fatto che nessuno ne sta giovando, anzi. A causare l’epidemia è una tipica condizione di ultra-sviluppo industriale e mercantile. Milioni di contadini deportati in Cina per affollare le nuove metropoli, con stili di vita ancora agresti (animali selvatici, animali da allevamento e avicoli smembrati vivi in mercati malsani affollati di persone) e condizioni di sovraffollamento urbano sono state il detonatore di questa pandemia. La globalizzazione degli spostamenti umani (basta un passeggero su un aereo a portare un virus in 6 ore dall’altra parte del mondo) ha fatto il resto, contaminando l’intero pianeta. Gli imprenditori e i loro viaggi d’affari sono stati appunto i primi untori in giro per il mondo. L’ipotesi complottista è per certi aspetti un’ipotesi consolatoria. In fin dei conti è più facile credere che ci siano delle persone massimamente cattive, in grado di fare una simile perfidia. Più difficile è accettare che sia l’intera società a essere massimamente cattiva. Il vero lato oscuro, che il complottismo cerca di oscurare ancora di più.

Ci preme dire che governi, politici, capitalisti, le annesse mafie, imprenditori e tirapiedi, sfruttano tutte le situazioni ed eventi per il loro tornaconto. Poco o niente interessa loro di sfruttati e poveri, se non il fatto che rimangano tali: sfruttabili e “forza lavoro”.
Tanti esempi si possono citare, come le “ricostruzioni” dopo i terremoti e altri eventi naturali, quando i costruttori si sfregano le mani per gli appalti mentre sta finendo di tremare la terra; o durante e dopo le Guerre ecc.
Purtroppo abbiamo la memoria corta. Lo stato d’emergenza concentra ancora di più il pensare agli affari propri, a fregarsene di tutto e di tutti, a rimbecillirsi davanti alla TV e ai “social”, e a mandare giù tutto quello che ci imboccano. La peggiore abitudine a cui ci ha costretti il sistema è l’ignoranza, l’abbandono all’informazione di massa e alla disinformazione “social”. Così un virus più che annidarsi nei nostri corpi è sicuramente entrato nelle nostre teste. Certo una pandemia, tra le tante nella storia umana, si è sviluppata, ha fatto e continua a fare morti tragiche, lasciando conseguenze per chi si ammala e non solo. Si accompagna a questo un bombardamento mediatico di regime, più che chiarificatore, confusionario e di convenienza.

Memoria corta dicevamo. Sui politici soprattutto, quegli stessi che si sono sempre arricchiti sulle spalle altrui, che speculano attraverso le banche, nel riproporsi di scandali finanziari, potere e privilegi. Ora si fanno passare per “salvatori della patria”, tra corali appelli all’unità conditi da una retorica di “guerra”. Non è però la vera guerra militare e le tante altre guerre che finanziano o fanno direttamente questi sinceri democratici al potere. Quelle migliaia di morti civili sono numeri?
Ci viene detto che “siamo tutti sulla stessa barca”, ma sappiamo bene chi è impegnato a mantenere i propri profitti e i propri interessi, quindi sarebbe il momento di buttare a mare parecchia gente: politici, banchieri, capitalisti, e i loro sbirri, padroni, prelati e tanti altri.
La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, organo indiscusso di quel potere politico della Scienza, sembra essere l’unica salvezza. La stessa che tra i suoi vertici ha dirigenti legati agli interessi delle lobby per la produzione di vaccini o forniture mediche diventano i buoni samaritani della situazione. Come quelli che in piena emergenza (febbraio 2020) hanno trovato il tempo per dare il via libera al 5G in Italia e in Europa, e all’aumento dell’utilizzo delle tecnologie di intelligenza artificiale e delle reti di controllo sociale, facendo passare come “innocui” per la salute gli incrementi esponenziali di campi elettromagnetici su vasta scala. Ma come, non era nocivo un singolo telefonino?
Che dire poi degli industriali, dei ricchi padroni, che si mostrano filantropi quando conviene, pur di continuare a produrre profitto. Un esempio sono alcuni colossi automobilistici, anche di lusso, che hanno “convertito” temporaneamente la produzione per assemblare parti di apparecchiature sanitarie e mascherine. Questo sia chiaro più come propaganda che come effettiva produzione sistemica. I numeri sono comunque irrisori. Un “gesto simbolico” di stampo nazional-imprenditoriale, comodo a gettare altro fumo negli occhi. A proposito di fumo, queste industrie, appena torna la “normalità”, torneranno a sfornare automobili che inquinano sia per le emissioni di idrocarburi che per la produzione dell’energia necessaria alle auto elettriche (già, l’energia non piove dal cielo ma viene prodotta nelle centrali), e continueranno a mantenere il livello di insalubrità della terra nella quale potenzialmente prolificherà qualche altra epidemia. Allora ci vorranno le mascherine per l’aria inquinata.

La filantropia dei ricchi non ci imbroglia. Torneranno loro, come i padroni, la Chiesa e i politici, a imporre quella “normalità” dell’economia globale capitalista, fatta di tasse, produzione-consumo, guerre, sfruttamento e speculazioni.
Il sistema capitalista e lo Stato non hanno mai reso “tutti uguali”. Mai lo faranno. Padroni e sfruttati si combattono da sempre, e il servilismo volontario di qualcuno non significa che sia giusto o normale piegarsi a chi comanda. E’ importante non delegare alle istituzioni la propria esistenza, già schiacciata in una vita di regole, leggi, paure indotte, “emergenze” e doveri. L’unità e la solidarietà deve esserci tra sfruttati e oppressi di tutto il mondo, per la realizzazione dell’ autogestione delle proprie vite in una prospettiva di autonomia e liberazione.
Alla pandemia lo Stato ha risposto con la polizia. Imprenditori e gli industriali si sono fatti minacciosi con gli organi predisposti a proteggerli: polizia, militari e Ministero dell’Interno. Alla ribellione dei tanti lavoratori che minacciano lo sciopero (e lo fanno) per le condizioni di lavoro, gettati al macello nelle fabbriche, nei campi e nelle imprese in piena pandemia, lo Stato democratico è ricorso alla possibile precettazione, alle denunce/multe per chi sciopera. La repressione la sentiamo anche per le strade, é viva nelle carceri che hanno ammazzato 12 detenuti. La sentono i migranti che nelle campagne del centro-sud Italia lavorano come schiavi nei campi per la raccolta agricola, e vivono in baraccopoli in condizioni disumane anche in tempi di pandemia, per garantire il nostro pasto. Certo, i migranti “fanno comodo” finché si fanno sfruttare e finché si trovano i prodotti sul bancone del supermercato. Altrimenti si invoca l’esclusione e il razzismo, e voti per chi grida all’”invasione”…
Sindaci, politici e pennivendoli della stampa, a turno reclamano in coro la polizia e l’esercito; repressione e controllo tecnologico individuale e di massa, arresti e denunce. E poi appelli alla delazione per chi avvista assembramenti e chissà cos’altro, inviti a diventare cittadini-poliziotti, cioè spie. A chi si adegua ubbidiente a queste infami pratiche delatorie va tutto il nostro sincero disprezzo e i più sinceri auguri di ripercussioni vendicative.

Intorno a quest’odierna micro situazione c’è la macro economia, o meglio la grande Finanza, che si avvia verso una crisi globale. La pandemia del Covid-19 è un evento casuale che ha accelerato una tendenza già avviata da tempo: la crisi della globalizzazione.
“Un nuovo modello industriale e sociale basato sul futuro delle nuove tecnologie è già in atto e lo stiamo vivendo…”, citano gli esperti. Gli stati-nazione tendono a tornare protagonisti, e sarà peggio. Alcuni governi ricorrono a primi ministri onnipotenti più di prima, e si riaffacciano dittature e nazionalismi qua e là. La recessione è dietro l’angolo, la crisi della moneta ancor di più. Sapranno, come sempre, dove e chi spremere: gli sfruttati. Il velo del “migliore dei mondi possibile” comincia a perdere i pezzi.
La retorica unitaria di salvezza nazionale è una strategia che tenta di mantenere la pace sociale al fine di frenare il conflitto sociale. Se c’è conflitto sociale non c’è crescita economica dicono gli “esperti” nella speranza che la disuguaglianza sociale venga sempre fatta digerire con fasulli ideali identitari aggreganti. A tal poposito urliamo: “Io non canto l’Inno!!!”

Tanta gente è morta e muore, questo purtroppo è vero. Ma non piangeremo per il manager della Porsche o il Principe d’Inghilterra, il ricco industriale o un Primo Ministro, lo sbirro che ci reprime, ci multa, ci manganella durante gli scioperi o spara alle manifestazioni e nelle proteste, che pratica pestaggi nelle caserme e nelle carceri.
I nove anni di guerra in Siria hanno fatto 390.000 morti; 11 milioni di persone hanno dovuto lasciare le proprie case; 4 milioni di profughi in fuga. Gli stessi migranti e profughi vengono usati come ricatto economico-sociale dalla Turchia e duramente repressi alle frontiere con la Grecia. Ce li siamo dimenticati? E le migliaia di morti nella guerra in Yemen, sostenuta dalle forniture di armi dell’Italia e della Francia?
Non ci salveranno le preghiere del Papa e di quei ladri e truffatori morali dei preti. Non cantiamo l’inno, nessun tricolore, ombra dei nazionalismi più beceri che hanno sempre mandato alla rovina guerrafondaia la popolazione e arricchito la borghesia.
Necessario più che mai è una presa di coscienza degli sfruttati. La Storia è sempre raccontata dai vincitori dominanti, dal potere governativo, per tutelarsi e dividere gli sfruttati, usata come strumento per scatenare la guerra tra poveri. Sarà invece la lotta degli sfruttati agli sfruttatori che potrà garantirci l’emancipazione, in totale libertà, e a suggerirci e mostrarci la strada da intraprendere, i momenti da cogliere per rovesciare e distruggere un sistema corrotto e marcio, ribellandoci.

“Le macerie non ci fanno paura. Sappiamo che non erediteremo che rovine, perché la borghesia cercherà di buttare giù il mondo nell’ultima fase della sua storia. Ma, le ripeto, a noi non fanno paura le macerie, perché portiamo un mondo nuovo nei nostri cuori…Questo mondo sta crescendo in questo istante” Buenaventura Durruti, rivoluzionario anarchico.

L’Ideale anarchico porta in seno il rispetto fraterno fra chi non vuole più servi ne padroni, sfruttati e sfruttatori. La pace fra gli oppressi, la guerra sociale agli oppressori che vogliono mantenere privilegi politici, economici e sociali.
Anarchia come cambiamento rivoluzionario della qualità della vita. Liberi dalla divisione in classi, dai pregiudizi sessuali, dal razzismo, dalla religione, tutti strumenti per dividere e dominare il più debole. Liberi dal ricatto del lavoro salariale, dalle istituzioni repressive (carceri, tribunali, militari) non necessarie dove non ci sono ne potere ne proprietà privata. E’ necessario emanciparsi per liberarsi dallo Stato, autorganizzandosi. Questo attraverso la lotta, senza mediazioni politiche e pacificatrici di sindacati istituzionalizzati e asserviti, senza politicanti di turno.

“Noi invochiamo l’anarchia, questa manifestazione della vita e delle aspirazioni, l’eguaglianza vera di tutte e tutti.
Come noi abbiamo piena fiducia negli istinti delle masse popolari, il nostro mezzo di rivoluzione è nello scatenamento organizzato di ciò che chiamasi cattive passioni, e nella distruzione di ciò che, nel medesimo linguaggio borghese, chiamasi ordine pubblico”. Michael Bakunin

Alcuni “Anormali”

Come rendere “visibile” un nemico invisibile

Storicamente il potere si è sempre fondato sulla creazione di un nemico comune da combattere, concetto da dare in pasto ai “popoli” al fine di continuare a perpetrare sfruttamento, soggiogamento e cieca ubbidienza all’autorità. Il patriottismo ne è un semplice esempio, come d’altronde ogni nazionalismo.

Come è chiaro il fatto che ad ogni guerra, lo stato moderno ha sentito l’esigenza di creare l’immagine del nemico da combattere, fosse esso il ricco ebreo che comanda il mondo o un pericoloso comunista, il nemico capitalista o il più moderno terrorista fondamentalista. Insomma… un nemico comune crea una comunanza d’intenti, una sorta di fronte unico, tra sfruttati e sfruttatori, tra governati e governanti, tra oppressi e oppressori.
Ma a cosa serve realmente? Che dinamiche di potere si nascondono dietro questa falsificazione della realtà?
Basta ragionare sull’attualità di oggi: l’italiano che per la guerra al COVID-19 si fa “popolo”.
Davanti ad un nemico invisibile e pericoloso, il potere non ha potuto far altro che creare un nemico visibile, per spingere le persone a farsi “popolo”, facendosi coraggio a vicenda, ed esortarle così con più facilità a sottomettersi, anima e corpo, al Governo e contro il nemico comune: l’UNTORE!
Dall’inizio di questa situazione d’emergenza, infatti, ognuno sta vivendo sulla propria pelle gli effetti del clima di caccia alle streghe che si è insinuato tra le persone. Diffidenza, delazione tramite foto o video, infamia tra chi vive la stessa situazione di disagio, aggressività, sottomissione passiva agli ordini sono diventate ormai la prassi.
Per essere funzionali allo stato, non bisogna soffermarsi troppo davanti alle
cause più generali della comparsa di questo virus, quali la globalizzazione o la mancanza di difese immunitarie adeguate grazie ad es. all’inquinamento e al malsano stile di vita imposto da questo sistema produttivo; bensì è necessario soprattutto cercare il nemico da combattere in ogni luogo, che può essere una persona che cammina per
strada, un viandante su un sentiero o una persona qualunque che non risiede nel quartiere.
Perché soffermarsi a pensare a quanti posti letto sono scomparsi dagli ospedali negli ultimi trent’anni…? IO RESTO A CASA!
Perché ragionare sul fatto che solo chi ne ha le possibilità economiche può permettersi di vivere senza uno stipendio…? IO RESTO A CASA!
Perché pensare che, visto che c’è l’obbligo di stare a casa, c’è chi una casa non ce l’ha…? IO RESTO A CASA!
Basterebbe ragionare un po’ di più per comprendere come non sia una passeggiata nelle strade ad aumentare il contagio, ma tutti ormai sono pronti a denunciare chi non si attiene alle norme emergenziali prese dal governo. Non importa davvero come ridurre le probabilità di contagio, quel che è importante è accettare acriticamente il potere, arrivando a diventare a propria volta dei poliziotti infami. Tutto questo al fine di salvaguardare la “salute pubblica”, ma a che prezzo?
In un periodo buio come quello delle leggi razziali davanti alle deportazioni parte del “popolo italiota” rispose chiudendo le imposte delle finestre per non vedere. Oggi, in una situazione simile, invece quasi tutto il “popolo italiota” apre le imposte per vedere se qualcuno non segue alla lettera gli ordini.
Forse, il maggior numero di morti non sarà a causa del virus, ma delle misure liberticide messe in atto palesemente dallo Stato.
Il vero prezzo del contagio, se vorremo sottostare alle leggi imposte, sarà proprio la perdita di se stessi, la perdita della capacità di guardarsi allo specchio, in nome di qualcosa che dovrebbe rappresentarci, lo Stato.
Siete proprio sicuri che ne valga la pena?
D’altronde, c’è un male peggiore del Covid, quello sì difficile da debellare…
…una volta assorbito tutto il peggio dell’autorità, avremo ancora una vita che vale la pena di essere vissuta?

Anarchici e anarchiche

Cronache dallo stato d’emergenza (Numero3)

Nulla sarà più come prima

Questo ci stanno dicendo. Siccome non si può mettere in discussione la società industriale – la cui costante fuga in avanti produrrà epidemie sempre più letali con frequenza sempre maggiore –, dobbiamo spingere ancora di più sull’acceleratore delle soluzioni tecnologiche. Siccome non si possono fermare la deforestazione, l’estrazione forsennata di materie prime, l’avvelenamento di aria e acqua, l’agricoltura e l’allevamento intensivi, la produzione di cibo artificiale e la devitalizzazione degli esseri umani, dobbiamo abituarci a convivere con le pandemie. Il 75% delle nuove malattie infettive sono trasmesse agli umani da animali selvatici a cui è stato distrutto ogni habitat naturale; a fare da “autostrade del contagio”, poi, ci pensano le polveri sottili prodotte dall’inquinamento (come ha scritto di recente un membro della Società italiana di medicina dell’ambiente). Quindi? Rendiamo a ciò che resta della fauna selvatica i suoi spazi e fermiamo questa corsa demente? No. Avanti tutta, sotto comando digitale!

Nulla dovrà essere più come prima

Questo lo diciamo noi. Apriamo il prima possibile spazi di discussione e di organizzazione dal basso. Nelle città, nei quartieri, nei paesi. E affrontiamo insieme tutto ciò che riguarda le nostre vite, dai bisogni materiali immediati alla medicina, dalla ristrutturazione economica che arriverà feroce alla direzione che vogliamo dare alla società. Che non vengano a dirci che dobbiamo pagare noi, ancora una volta. Che non ci vengano a parlare di Grandi opere per rilanciare la loro economia, di automazione della produzione, di 5G e di altre porcherie. Il virus non è la causa, ma la conseguenza della malattia industriale. E da quella dobbiamo partire, finalmente.

Sciopero internazionale degli affitti

È la proposta che dal 1° aprile si sta diffondendo in diversi Paesi (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Svezia, Cile, Spagna…). Scrive, ad esempio, il Sindacato Inquilini di Gran Canaria, nel suo invito “all’intera classe operaia e agli inquilini a sostenere lo sciopero generale e lo sciopero degli affitti a tempo indeterminato”: «La situazione attuale non potrebbe essere più allarmante, non solo a livello sanitario, ma anche a livello economico e sociale. Le misure adottate dal governo, che ha dichiarato lo stato di emergenza in risposta al Covid-19, sono palesemente misure anti-operaie, del tutto superficiali (moratoria sui mutui limitata) e se ne fregano delle esigenze di base: migliaia di famiglie che vivono alla giornata, che sopravvivono con lavori mal retribuiti, persone che sono state licenziate illegalmente, famiglie rimaste senza reddito a causa dell’isolamento; tutti devono far fronte all’impossibilità di pagare l’affitto». E propone, in aggiunta: «Le case abbandonate nelle mani di fondi, società finanziarie e bancarie (in particolare quelle che sono state salvate con denaro pubblico) devono essere socializzate e rese disponibili alle migliaia di persone o famiglie che si trovano oggi senza alloggio».

Parole e barriere

“Un tiranno ha sconvolto la nostra vita, e si chiama coronavirus”. Gli ospedali diventano “trincee”, mentre i morti vengono trasportati su mezzi militari. Così nella mente si aprono scenari di guerra con tutto il loro portato simbolico ed emotivo. Perché le metafore evocano immagini e i termini concetti. Il linguaggio è tutto fuorché neutro: dà forma alle opinioni, enuncia delle relazioni che si dispiegano nel tempo. Le parole creano il mondo. Agiscono su ciascuno di noi e ci portano ad agire, in un modo piuttosto che in un altro.

Trattare una malattia come fosse una guerra rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate.

La scelta fra questa o quell’altra parola non è questione di lingua, ma di decisione politica. Politici: siete voi i fautori della paura e dell’odio contro l’altro. Avete trovato nel virus un’ulteriore occasione per delineare confini ed erigere barriere.

Ora che i potenziali infetti siamo noi

I container che lo Stato austriaco aveva preparato al Brennero in funzione anti-immigrati, da settimane sono usati per i controlli anti-Coronavirus di chi arriva dall’Italia. Le “misure eccezionali” in corso dovrebbero farci riflettere su quanto da sempre accade agli ultimi, ai senza-documenti, a quella parte di umanità buona da sfruttare fin che occorre e poi lasciar morire o rimpatriare. Di là dai privilegi dietro ai quali non ci accorgiamo più di vivere, ci sono coloro che sono tristemente abituati ad una quotidianità di distanze, controlli, visti, di “chissà quando potremo rivederci”. Mentre le merci corrono e migliaia di essere umani sono intrappolati ai confini d’Europa, forse potremmo accorgerci che il virus delle frontiere non passa in qualche settimana.

Per le sommosse scoppiate nelle carceri il 7 marzo, giornali e televisioni si sono affrettati a parlare di azioni dirette dalla “criminalità organizzata”. (Lo stesso copione, non a caso, è stato poi usato per criminalizzare chi ha cercato di uscire dai supermercati senza pagare la spesa). Qualcuno ha invece parlato di “piano organizzato” da una non meglio specificata “mano anarchica”. Impensabile per lo Stato ammettere che si tratta di rivolte spontanee e in grado di comunicare velocemente tra loro, cresciute nella cattività di luoghi di tortura, anni di pestaggi, sovraffollamento endemico, condizioni igieniche repellenti; perché se ne sarebbe parlato diversamente, e se ne sarebbe parlato di più. Il fatto è che le rivolte stanno scoppiando anche in Spagna, Francia, Brasile, USA, Belgio, Venezuela, Iran, Perù, Sri Lanka, Colombia (dove, nel solo carcere di Bogotà, sono morti ventitre prigionieri)… Ora devono parlarne per forza. Persino Stati come l’Iran e la Turchia hanno scarcerato rispettivamente 110mila e 90mila detenuti. Persino il segretariato dell’ONU invita i governi ad adottare misure urgenti contro la diffusione dei contagi nelle carceri mondiali, dove sono rinchiuse 12 milioni e mezzo di persone. Sono proprio i prigionieri i primi a suggerirci che l’immenso stato di emergenza di cui oggi siamo i reclusi può e deve portare con sé le occasioni per liberarci e per liberare, guardando oltre i nostri confini.

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Cronache3

 

Cronache dallo stato d’emergenza (Numero3)