La nave dei folli – Episodio 12

Episodio 12

Catapultata fuori dagli abissi dell’interiorità, la memoria diventa un dispositivo per immagazzinare dati che rende possibile lo scambio di informazioni. Totalmente immerso nel processo comunicativo, il soggetto cibernetico – ormai privo di interiorità – cresce in un mondo dove l’idea stessa di autonomia politica perde di senso, dove conta solamente la lotta all’entropia.

Nel 1964 Wiener farà un intervento al convegno di Royaumont, Parigi, intitolato “L’uomo e la macchina” in cui sostiene: «le macchine che apprendono diventano diverse a seconda della loro esperienza.» (All’epoca si riferiva a un computer in grado di giocare a dama, non ancora a scacchi). La capacità di memorizzare e prendere decisioni sulla base delle informazioni ricevute portava, proprio mentre la nozione di interiorità soggettiva veniva svalutata, a riconoscere paradossalmente un’individualità alla macchina. E a un intervento del pubblico che sottolineava come la macchina non ha coscienza di sé in quanto incapace di provare dolore, lo scienziato si limiterà a rispondere: «Non è così sicuro…»

Le macchine cibernetiche, negando la specificità del vivente, divengono loro equivalenti. Concepita e fabbricata dall’essere umano, la macchina se ne distacca per imporsi come un nuovo stato di natura.

Riferimenti episodio 12

• Point Alpha, Data Blast (101+303+808 = Now form a Band, 1995)
• Mitch Walking Elk, If They Come in the Morning (Indians, 1988)
• Combo de la Muerte, Peace Sells (Megadeth) (Tropical Steel, 2008)
• LETTURE A MEZZA VOCE – Divieto di socialità (III puntata)
• Enore Zaffiri, Q64II (Musica reticolare, 1965-68)
• Werner Herzog, Il ventesimo secolo è stato un errore? Werner Herzog in conversation with Paul Holdengräber, 16/2/2007
• Werner Herzog, Cuore di vetro, 1976
• Νικόλας Άσιμος, Μην καρτεράτε άλλο πια (Με το βαρέλι που για να βγει το σπάει, 1978) – Nikolas Asimos, Mhn Me Karterate (Me to bareli pou gia na bgei to spaei, 1978)
• John Lee Hooker, The Motor City Is Burning (Urban Blues, 1967) (testo)

https://lanavedeifolli.noblogs.org/

Nuovo foglio murale da Lecco: VIRULENZE – paziente 0

VIRULENZE
Insorgere è necessario: lo capiscono anche i muri!

Pensando all’esperienza surreale e distopica vissuta con l’emergenza Covid, è assolutamente necessario discutere della realtà che ci circonda. Questo foglio murale nasce per opporre il virus della ribellione al silenzio e all’assuefazione del muro digitale, che annichilisce la socialità e aliena gli individui. Nasce per affrontare l’inquietante involuzione della vita quotidiana in ogni suo aspetto: salute, ambiente, repressione, educazione e quant’altro.

La volontà di accettare il rischio

Dalla diffusione del virus Covid-19 e dalla conseguente emergenza sanitaria, chiunque ha passato buona parte del suo tempo a preoccuparsi, in un modo o nell’altro, di non essere contagiato. Ognuno naturalmente ha reagito a modo suo, chi cadendo nella paranoia, chi affidandosi totalmente a leggi statali e regionali e chi seguendo il proprio buon senso. In ogni caso, magari anche per via del martellamento mediatico in atto, la conservazione della propria salute fisica è stata in cima alla lista delle priorità per tutti e, in nome di questo obiettivo, qualunque sacrificio o rinuncia è sembrato per molti accettabile e desiderabile. Anzi, con “ammirevole” spirito cattolico, è parso quasi che la penitenza della quarantena, la contrizione dell’isolamento, il flagellamento dei propri desideri potessero costituire un ulteriore schermo protettivo contro il temuto virus…maggiore la rinuncia, maggiore la ricompensa! Eppure l’atteggiamento di fronte all’epidemia non può e non deve ridursi soltanto a questo, ad una mera conservazione biologica di se stessi, a discapito di ogni relazione sociale, ogni attività, ogni altra cosa che realmente ci definisce in quanto individui. Non può esserlo né per la comprensibile paura né perché uno stato lo impone dall’alto. Per questo, per quanto possa sembrare paradossale, è necessario rivendicare a sé il diritto al rischio. Il diritto, la volontà di vivere la propria vita in modo completo, seguendo le precauzioni che si ritengono opportune ma accettando, se lo si sceglie il rischio del contagio ed eventualmente della malattia. Naturalmente una tale presa di posizione è complicata dal fatto che, in questo caso, la propria salute è indissolubilmente legata a quella delle altre persone con cui si entra in contatto, e quindi mantenersi al riparo dal contagio significa anche proteggere gli altri. Nonostante questo argomento sia stato frequentemente usato, in maniera sottilmente ricattatoria, da mezzi di informazione e governanti per accusare senza appello di follia ed egoismo chi accetta su di sé una parte di rischio, esso è di fatto un falso argomento. Infatti, si badi, affrontare consapevolmente il rischio non significa gettarsi allo sbaraglio senza il minimo pensiero per sé o gli altri. Non è poi così complicato assumere le precauzioni sanitarie necessarie per non contagiare persone a rischio o che preferiscono isolarsi. Al contrario, con accordi chiari tra individui è possibile accettare che una certa componente di pericolo sia inevitabile e valga la pena essere corsa per poter mantenere dei rapporti sociali degni di questo nome, reali e non telematici, con chi lo desidera. Concettualmente, anche se a livelli di urgenza ed importanza probabilmente diversi, è lo stesso processo mentale fatto da un alpinista che, arrampicando, decide di correre il rischio di cadere per poter godere del rapporto con la montagna.
Urge riaffermare la propria volontà e responsabilità nell’accettare il rischio in nome della propria libertà, a prescindere da qualunque proibizione imposta. Il potere infatti non potrà mai privare un individuo del diritto di determinare la sua condotta, foss’anche a rischio dell’esistenza stessa.

Scuola: indottrinamento…online?

Che la scuola sia una risorsa fondamentale per l’indottrinamento delle masse è un fatto palese.
A dimostrazione di ciò si possono fare svariati esempi presi dal passato, come la gioventù hitleriana, pietra miliare dell’indottrinamento nazista che ha portato, insieme ad altri fattori, al secondo macello mondiale e alle altre brutalità degli anni ’40.
Il potere ha sempre utilizzato la scuola per inculcare i propri “valori”.
Tuttavia, oggi non voglio soffermarmi sulla lettura astratta e teorica dell’educazione, bensì sul vissuto generato in chi l’ha dovuta affrontare.
Ciò che la scuola ha dato nonostante la propria struttura, in termini di vita vissuta, sono la socializzazione, l’incontrarsi, il condividere emozioni.
Non penso che molti ricordino quanto è stato bello imparare che 5 per 5 fa 25…ma le prime marachelle combinate coi compagni chi se le è dimenticate? I primi lavori in gruppo, i progetti, le simpatie, gli intervalli, le amiche e gli amici, le giornate tristi e quelle allegre, l’odio verso quel maestro o la stima verso quell’altro…insomma, il vissuto che ci ha lasciato l’esperienza scolastica è veramente ampio e importante per ciò che uno è, a volte con un bilancio positivo altre negativo. Senza dubbio ha costituito un percorso esperienziale intenso.
Poi è arrivato il COVID!
Come già da anni la spinta tecnologica voleva imporre, la scuola sta diventando una fredda esperienza esclusivamente nozionistica.
Pensare a bambini e ragazzi costretti a ore di videoconferenze davanti ad uno schermo per “imparare” è ciò che più dovrebbe fare arrabbiare. In pratica è rimasta la parte meno formativa, che, pur essendo un patrimonio conoscitivo, non arricchisce la sfera emozionale.
Per questo non può essere accettata la didattica online!
Rifiutarla e combatterla è l’unica via percorribile, sia prima del COVID, sia durante, sia in futuro.
Un passo fondamentale è non trasformarsi in scatole vuote da riempire con nozioni sterili e preconfezionate.
Contro la Scuola, tanto più se online!

L’angolo delle skifezze

La prima edizione di questa rubrica, dedicata alle cose più brutte e skifose vissute negli ultimi mesi, non può esimersi dal parlare del tricolore.
In un momento in cui, in tutto il globo, le vittime di questo virus si contano a migliaia, ridursi a pensare ai cosiddetti “compatrioti” è da annoverarsi sicuramente tra le dinamiche più pericolose che si sono sviluppate. Oltre al fatto che non possiamo dimenticare i fiumi di sangue provocati in nome di quella bandieruola a tre colori (dalle imprese coloniali fasciste alle più attuali carneficine in Iraq, Libano, Afghanistan, Libia…).
Ciò che ora possiamo fare è distruggerle tutte!
Con le forbici, col fuoco, con la rabbia!
Le gare di street-boulder non si possono più fare? Bene, sfogati arrampicandoti sui terrazzi a strappar bandiere, è un ottimo allenamento, per il corpo e per la mente!
Sarà bello ricordare a tutti che “la nostra patria è il mondo intero!”

DIETRO L’ANGOLO PT.10 – UN’ALTRA VITA

Accanto a un generale e indiscutibile impoverimento legato all’emergenza pandemica, di cui ancora non si vedono chiaramente le conseguenze, con ogni probabilità l’affaire Covid 19 avrà acuito riflessioni critiche anche in chi, pur non essendo tra i maggiormente colpiti a livello economico, avverte come sempre più soffocante e insopportabile l’organizzazione della vita e dell’ambiente ad opera del capitalismo. In toto o perlomeno alcuni dei suoi tratti.

Brusche interruzioni del tran tran quotidiano del resto possono lasciar più spazio di quanto non vi sia di solito nelle vite di tutti alla messa in discussione, anche profonda, anche di ampio respiro, delle condizioni di esistenza, soprattutto quando se ne percepisce l’insensatezza e l’iniquità. E le caratteristiche stesse di questa pandemia, e della sua gestione, non hanno certo lesinato input a chi abbia avuto la capacità e volontà di coglierli. I segnali di quanto lo sviluppo capitalistico imponga all’ambiente e agli esseri viventi, un grado di sottomissione sempre più profondo e rigido ai dettami che regolano l’attuale organizzazione sociale, affioravano già da tempo. Il merito, se così si può dire, dell’attuale epidemia è quello di averli portati a galla con maggior abbondanza e velocità. E sarà interessante vedere quali forme di proteste e conflitti e quali discorsi sapranno emergere al di fuori della stretta inesorabile della logica capitalista, e in quali ambiti. Ad esempio immaginiamo che, nelle scuole, la teledidattica dovrebbe comunque continuare anche nel prossimo anno scolastico, anche se non se ne conosce ancora l’intensità ed ampiezza. Come reagiranno genitori, studenti e personale docente a un modello d’istruzione che nell’acuire ulteriormente le differenze sociali favorisce un’atomizzazione sociale 4.0? Una scuola a misura di pandemia potrebbe avere chissà tutte le carte in regola per diventare uno dei rivoli in grado di dar più precisione e sostanza ad un’opposizione contro l’installazione della rete 5G. Non solo per le ineludibili ragioni sanitarie ma anche contro il mondo cui quest’infrastruttura contribuirà a dar forma con la polarizzazione sempre più feroce tra inclusi ed esclusi e in cui le vite di tutti saranno sempre più mediate e controllate nel loro relazionarsi con l’ambiente e con gli altri, da artifizi tecnologici che rischiano di stravolgerne profondamente il senso e significato.

E in ambito sanitario cosa avrà lasciato in chi vi lavora l’emergenza delle settimane passate? Il decorso della pandemia ha mostrato chiaramente non solo l’evidente inadeguatezza della sanità pubblica ma anche i limiti strutturali di un certo modello centralizzato che è stato tra i principali fattori di moltiplicazione dei contagi. Un modello che, come hanno rilevato molti medici e infermieri a caldo, in piena emergenza epidemica, ha dimostrato con una certa sfacciataggine di esser pronto a sacrificare una parte di popolazione, non solo nelle carceri e nelle Rsa, ma anche tra chi lavora negli ospedali, mandandoli allo sbaraglio con regole e strumenti di protezione ugualmente raffazzonate rispetto alle esigenze che la situazione richiedeva.

Quale spazio troveranno questo tipo di critiche all’interno delle prevedibili agitazioni su rivendicazioni strettamente lavorative – aumento di stipendi e del personale – e fin dove riusciranno a spingersi nella messa in discussione, tanto teorica quanto pratica, di un certo modello sanitario, del rapporto lavoratori/utenti e, a salire, della funzione che la medicina svolge all’interno dell’attuale società? Questioni particolarmente importanti specie se si riusciranno a trovare punti di incontro tra esigenze dei lavoratori e dei cosiddetti utenti della sanità. E ancora quali ragionamenti si saranno sgretolati e quali invece si staranno sedimentando nei tanti, soprattutto giovani, che negli scorsi mesi avevano riempito le piazze un po’ in ogni dove contro le conseguenze del riscaldamento climatico? Uno dei dati più inconfutabili emersi durante l’emergenza Covid è che per fermare o perlomeno ostacolare la devastazione ambientale è necessario, né più né meno, fermare la produzione capitalista. A dircelo chiaramente erano tanto le immagini satellitari sui livelli d’emissione di Co2, abbassatisi come non mai durante il lockdown, sopra la Cina come un po’ in tutto il globo, quanto l’aria fattasi improvvisamente più respirabile lungo le strade delle città in cui viviamo; per non parlare delle tante immagini di animali e vegetazione che riconquistavano pian piano terreno man mano che la macchina capitalista rallentava i suoi giri. Dati di cristallina evidenza: vedremo se e come stravolgeranno i discorsi e le pratiche alquanto generiche e aleatorie che hanno finora contraddistinto buona parte del movimento contro i cambiamenti climatici. Tanto più che altrettanto evidenti sono i segnali di ciò che accadrà con l’intensificarsi di determinati problemi ambientali: le misure di lockdown, la crescente militarizzazione e l’acuirsi delle disuguaglianze sociali di cui abbiamo avuto un breve ma significativo assaggio ci illustrano chiaramente quale futuro ci attende sotto la cappa di una ragion di Stato d’emergenza.

Quale sarà infine la spinta che quest’emergenza saprà dare alla messa in discussione dell’agricoltura come dell’allevamento intensivi, delle principali fonti attraverso cui gran parte dell’umanità si riproduce attualmente? E quali progetti di autorganizzazione e autogestione della produzione alimentare sapranno trarre nuova linfa dai segnali allarmanti, ultimi di una lunga serie, lanciatici da quest’epidemia? Non limitandosi magari, non certo per sminuirne l’importanza, ad una risposta principalmente sanitaria ed ecologica alla produzione industriale ma riconfigurando ipotesi in grado di rimettere in discussione le strutture fondanti ­– tra tutte proprietà e lavoro salariato – di quest’organizzazione sociale e trarre così forza e al contempo darne ai conflitti che si svilupperanno nelle città. In un rapporto città/campagna – se così quest’ultima si può ancora definire – da sempre alla base delle ipotesi rivoluzionarie che meriterebbe di essere ripensato in un mondo come quello in cui ci troviamo.

Non siamo così ingenui, o abbastanza ottimisti, per pensare che il carattere extraordinario dell’emergenza in cui siamo stati catapultati produca di per sé il risveglio di un certo spirito critico e di una certa conflittualità. La forza di una certa ragion di Stato, in grado di presentarsi come l’unica entità in grado di fornire soluzioni di un qualche tipo, per quanto parziali e limitate, è innegabile, tanto più in una fase in cui lo Stato è tornato a mostrare il carattere su cui fonda la propria sovranità: quello di poter interrompere e sospendere la normalità. Di certo la capacità attrattiva di questa forza, che emerga in esplicito consenso o anche solo in senso di impotenza, sarà inversamente proporzionale allo svilupparsi di esperienze e conseguenti riflessioni critiche in grado di aprire qualche breccia e fornire suggerimenti e suggestioni altre. Altre modalità per far fronte ai problemi materiali, altre logiche su cui regolare le nostre vite e le relazioni tra esseri umani.

Un’alterità che con ogni probabilità tenderà a manifestarsi con un ventaglio di pratiche molto differenti tra loro che potranno andare – per limitarsi ad alcune tra quelle condivisibili – da scelte di rifiuto, a pratiche di nonviolenza attiva, a pratiche di solidarietà materiale basilare, al sabotaggio, allo scontro con la polizia e al saccheggio. E tenderà ad esplicitarsi con riflessioni anch’esse molto differenti, confuse e a volte tra loro contraddittorie, portatrici come saranno sia a livello discorsivo che pratico di interessi e visioni del mondo specifici e parziali. Riguardo a questa contradditorietà sarà necessario non farsi stupire dalle parole d’ordine e dall’habitus informe con cui certi conflitti si presenteranno: come è probabile che non poche rivendicazioni saranno all’apparenza prive di mordente sovversivo e avranno obiettivi per lo più riformisti, è altrettanto plausibile il moltiplicarsi di frizioni sociali di larga scala che saranno il frutto della differenziazione sociale che la governance della competizione sfrenata ha imposto negli ultimi decenni. Da una parte i dispositivi come la razza, l’etica produttivista, la morale legalitaria, il decoro e la paura di perdere anche i beni primari, dall’altra la mancanza di uno status formale (dai documenti identificativi ai contratti d’affitto e di lavoro), di punti di riferimento relazionali e di un radicamento ritenuto appagante sono elementi che tra gli sfruttati assumono spesso questa polarizzazione ma che si combinano nelle crisi in formazioni inedite e di difficile decifrazione per ricavarne una lotta puntuale contro i responsabili della miseria. Val la pena dunque ribadire che ridursi a sottolineare questi limiti e contraddittorietà non sembra sia il modo migliore per approcciarvisi e capire cosa bolle in pentola. Ben più interessante tentar di coglierne gli aspetti di rottura non solo rispetto a quel senso di inesorabilità di cui è ammantato il capitalismo ma anche alla conseguente idea che sia possibile, quando non l’unica via praticabile, apportarvi dei cambiamenti sostanziali soltanto collaborando con autorità politiche e padronato. Una logica di collaborazione che potrebbe avere una certa diffusione, sempre che la controparte sia interessata e disponibile a promuoverla, laddove tenderanno ad acuirsi i problemi legati alla sopravvivenza materiale. La vecchia ricetta dell’assistenza, insomma, che possiede fondamenta e appeal tenuti ben fermi dalla sua decennale storia all’interno delle democrazie avanzate alla luce della sua sostanziale inoffensività; di più, che sembra fondare la propria ineludibilità di fronte a tutte quelle privazioni, anche estreme, e a quelle necessità materiali generate dallorganizzazione sociale all’interno di cui nasce.

Del resto come attendersi qualcosa di differente? I decenni di relativa pace sociale, ameno a queste latitudini, hanno scavato profonde e paludose trincee da cui non è certo facile uscire materialmente o anche solo spingersi con lo sguardo un po’ più in là di quanto lasci intravedere il capitalismo con il suo inesorabile procedere. Molto angusti sono i passaggi per chi prova a dare corpo ad un radicale sovvertimento delle attuali condizioni di vita, crinali stretti da una parte dalla logica dellagire per non star a guardare, dall’altra dalla logica di una distruzione col respiro corto. Da una parte quindi un attivismo che pur di arginare l’apocalisse in atto non va per il sottile, che alla bisogna collabora con agenti interni al sistema sociale che vorrebbe emendare, secondo logiche allineate e funzionali al mantenimento dello status quo. E trascina, più o meno volontariamente, in dinamiche di recupero o totale affossamento tutte quelle spinte di rottura da cui prende abbrivio. Dall’altra invece quella risposta alle difficoltà teoriche e pratiche proprie del conflitto sociale che, al netto dalla loro sacrosanta necessità, misura gli interventi rivoluzionari solo sulla base del volume offensivo; su tutti, il cosiddetto nichilismo anarchico, sviluppato ad esempio in Grecia nell’immediato indomani dei cicli di rivolte tra il 2008 e il 2012.

Ecco perché anche conflitti di combattività bassa non sono contesti da guardare storcendo il naso. Le teorie anarchiche classiche evocano il momento dell’insurrezione come un momento di rottura che rende insensato il tempo canonico e impone in tal modo una nuova vita; non diversamente, nell’incommensurabile piccola lotta che potrebbe prendere piede in un reparto di ospedale o in un magazzino della logistica potrebbe aprirsi la piccola breccia dell’interruzione, della possibilità. Non si va certo scrivendo che ogni situazione simile apre orizzonti di portata epica, ma in questi decenni di realismo fatalista e rassegnato, il mettersi di traverso al lavoro o per pretendere un servizio, fare ciò organizzandosi con chi condivide quell’oppressione o quel problema, può scalfire il moloch che abitiamoI momenti di autonomia dalla governamentalità del capitalismo contemporaneo non nascono certo sotto ai cavoli insieme ai bambini né principalmente dalle astrazioni teoriche di alcuni rivoluzionari, ma sono il frutto di esperienze conflittuali di chi si mette faccia a faccia e ragiona su come ostacolare i suoi sfruttatori e migliorare le proprie condizioni di vita e di libertà. Guardare con attenzione a certe situazioni conflittuali, laddove si evince un certo spontaneismo lontano dalle proposte logore dei politicanti, non significa credere che gradualmente possano espandersi fino alla rivoluzione, ma è per la necessità di riprendere in mano anche i più piccoli spazi di vita e libertà per organizzarsi, dando per ormai assodato che la vita dell’umano sia ormai così dipendente dall’organizzazione capitalistica e dalla sua risoluzione interna dei conflitti, che non ci si può permettere di non dare una giusta occhiata ai rapporti sociali che entrano sul terreno dello scontro.

Non è certo un caso che la forza dell’Idea emancipatrice, che nei secoli o anche solo alcuni decenni fa, ha spinto tanti rivoluzionari e sfruttati a battersi per la loro libertà e per quella delle generazioni che sarebbero venute dopo, da tempo risulta quantomeno vaga e affievolita. Ormai da tempo chi si ostina ad avere come obiettivo un mondo di liberi e uguali non ha più ha che fare soltanto con un problema di espropriazione e distribuzione – la terra ai contadini e le fabbriche agli operai e poi a ciascuno secondo i propri desideri e da ciascuno secondo le sue possibilità, una formula quanto mai difficile da realizzare ieri come oggigiorno, dato che ci son pur sempre padroni e governanti di mezzo, ma perlomeno semplice da immaginare e verso cui dunque tendere, –. Ormai da lunghi anni la complessità dell’organizzazione sociale, l’opera di devastazione ambientale e di colonizzazione della vita quotidiana da parte del capitalismo ha posto problemi che non lasciano molto spazio a utopie così semplici e lineari, almeno da ipotizzare.

La vita altra cui accennavamo irrompe nel migliore dei casi come un’ombra, riuscendo con le sue chiare linee di confine a tracciare nette demarcazioni tra l’attuale organizzazione sociale, che appare nitida e immediatamente visibile, e ciò che invece sta al di là, e appare oscuro e indistinto. Un’ombra che si distingue quindi soprattutto in relazione al resto, un’alterità che si connota prevalentemente in negativo, rispetto a ciò che non è e non vuole essere. Non potrà quindi essere la mancanza di una visione complessiva, lineare e ordinata di come dovrà andare il mondo il criterio principale attraverso cui valutare la radicalità delle pratiche e, soprattutto dei discorsi, che riusciranno eventualmente a diffondersi a livello sociale. Come detto nessuno, compresi i rivoluzionari, ci sembrano in grado di elaborare utopie positive e lineari come quelle che hanno rischiarato altre epoche di oppressione e ingiustizie.

Se i contorni di un mondo di liberi e uguali sapranno delinearsi oggigiorno, sarà con ogni probabilità per l’intrecciarsi di una profonda e dolorosa opera di distruzione, tanto materiale quanto culturale, di ciò che il capitalismo ha con tanta cura e ferocia costruito nel tempo, e per i tanti tentativi, più o meno significativi, di vivere e abitare negli spazi che quest’attività insurrezionale permetterà di sottrarre al controllo dello Stato. Opera di distruzione a attività creativa che saranno tanto più precise e possibili quanto più nasceranno conflitti all’interno della società, nei quartieri, nel mondo del lavoro, della sanità etc. che, pur senza mettere in discussione il capitalismo nel suo complesso, saranno però in grado di rompere l’isolamento feroce e il senso di impotenza che attanaglia un po’ tutti e di rendere più precise le conoscenze e le riflessioni di come funzionano determinati pezzi di mondo e di come e se è possibile farli funzionare altrimenti. Ben difficilmente riflessioni e percorsi critici che nascono da problemi specifici potranno intrecciarsi tra loro a priori, a tavolino, vista la debolezza del collante ideologico che visioni del mondo altre hanno rispetto al passato. Se e quando percorsi di lotta differenti riusciranno realmente a intrecciarsi o coordinarsi sarà molto probabilmente perché il livello del conflitto che saranno stati in grado di raggiungere potrà stimolarli, o costringerli tout court, a perseguire delle ipotesi e avere una visione critica più complessiva. Altre ipotesi di coordinamento, o ricomposizione che dir si voglia, è facile diano vita invece a pachidermici e formali carrozzoni, come abbiamo avuto modo di vedere in questi anni, frutto del tentativo operato dalle componenti più militanti di mettere assieme, a tavolino, lotte differenti riuscendo a intrecciare per lo più qualche parola d’ordine e slogan da scrivere sugli striscioni di apertura di qualche manifestazione.

Pare necessario quanto mai prima dare una qualche forma a quel concetto di autonomia che affinché sia tale deve riuscire a tenere intrecciate la sfera della libertà e quella della necessità, come dolorosamente ci avverte l’epidemia attuale. A meno di non sposare o accettare di buon grado ipotesi apocalittiche in cui saranno solo in pochi a sopravvivere.

Per dire altrimenti occorre trovare il modo di riaffermare, in un’epoca che sta cancellando questo termine da ogni vocabolario, a parte quello peloso di alcuni politicanti, la centralità del concetto di universalità, contro ogni logica di selezione ed esclusione. E per farlo ci sarà bisogno di una spinta sovversiva talmente forte da far incontrare realtà e utopia.

Torino aprile-giugno 2020

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Nord sud ovest est

Taglio netto

Il mondo inabitabile

Macchine, sensi e realtà

Lockdown, quarantene e zone rosse

Un lato oscuro. Ancora su guerra civile e insurrezione.

Movimento disordinato

 

DIETRO L’ANGOLO PT.10 – UN’ALTRA VITA

Morte allo stato – Morte al patriarcato

La mattina del 12 giugno 2020 i Ros inscenano l’ennesima operazione
repressiva anti-anarchica, stavolta firmata dalla Procura di Roma. Due
compagni finiscono agli arresti domiciliari e altre/i cinque vengono
arrestate/i sul territorio italiano, francese e spagnolo. Tra le accuse,
come ormai prassi, quella di associazione sovversiva per finalità di
terrorismo e istigazione a delinquere. Ancora una volta lo scopo è
quello di colpire chi si rivendica la solidarietà come pratica offensiva
e supporta attivamente i compagni e le compagne anarchiche nelle maglie
della repressione. Come a Bologna il mese scorso, con l’operazione
Ritrovo, le modalità si ripetono: sbirri in passamontagna, in alcuni
casi pistole spianate e porte sfondate, telefoni requisiti, perquise e
sequestri di materiale informatico e cartaceo.

Lo stato attraverso queste dimostrazioni muscolari tenta di impaurirci e
farci sentire isolate, in linea con questa società patriarcale che ci
vorrebbe docili, rinchiuse nei nostri predefiniti ruoli di genere. Non
ci sorprende quando, come in questo caso, i media sottolineano la
presenza di donne all’interno delle inchieste, mostrando stupore nel non
trovarci relegate in seconda fila. Rifiutiamo queste logiche impregnate
di paternalismo, non cerchiamo protezione ma complicità nell’attaccare.
Al tentativo di sottrarci l’uso della violenza come risposta a ciò che
ci opprime ci si è sempre ribellate e sempre ci si ribellerà.

Non vogliamo avere in concessione un posto in questa società
patriarcale, che si mantiene e si riproduce anche attraverso la
distribuzione del potere al genere socializzato come femminile, ma solo
danzare sulle sue macerie.

Non ci interessano i tecnicismi legali e i concetti dicotomici di
colpevolezza e innocenza. Come femministe e anarchiche possiamo solo
rivendicare la solidarietà con chi colpisce il sistema patriarcale in
tutte le forme con cui questo si esprime.

Trasformiamo la paura in rabbia e la rabbia in forza. E questo ci rende
pericolose.

Morte allo stato
Morte al patriarcato
Per l’Anarchia
Complici e solidali con le arrestate/i dell’operazione Bialystock
TUTTI E TUTTE LIBERE

Alcune anarchiche femministe

Small is beautiful?

«Ho studiato il fenomeno della dedizione, spesso cieca, dei tecnici per il proprio compito.
Considerando la tecnologia moralmente neutra, costoro erano privi del minimo scrupolo
nello svolgere le loro attività. Più tecnico era il mondo che ci imponeva la guerra,
più pericolosa era l’indifferenza dei tecnici davanti alle conseguenze delle loro attività anonime».

Albert Speer, architetto membro del partito nazista 
e Ministro per gli armamenti e la produzione bellica dal 1942 al 1945
 
Nel 1959, un fisico che aveva partecipato al programma di ricerca che ha portato alla costruzione della bomba atomica, fece una curiosa presentazione in una università californiana. Concluse pronunciando parole che volevano essere profetiche, come si addice ai grandi visionari della scienza: «C’è molto spazio in fondo alla scala». Per decenni la sua profezia generò più speculazioni che accurate ricerche. Fino al giorno in cui i primi laboratori di ricerca cominciarono, negli anni 80, a dedicarsi allo studio dell’«infinitamente piccolo». Battezzate «nanotecnologie», queste ricerche comprendono tutti i procedimenti di fabbricazione o di manipolazione di strutture su scala nanometrica (1 nanometro corrisponde ad 1 miliardesimo di metro; un filamento di DNA umano ha una larghezza di 2 nanometri). Il «grande balzo in avanti» è stato fatto nel 2001, quando gli Stati Uniti riconobbero le nanotecnologie come un settore strategico per la ricerca scientifica, irrorando i laboratori col più grande piano di investimenti della loro storia.
Ma le tenebre durarono ancora per un po’ in fondo alla scala. Passò diverso tempo e molti laboratori faticavano a produrre qualcosa di «concreto», nel senso di applicazioni industrializzabili. Diventarono un po’ più discreti, non solo a causa della feroce concorrenza tra differenti potenze, ma forse anche per timore di una contestazione «irrazionale» e «tecnofobica» come quella incontrata dall’introduzione degli OGM in alcune parti del mondo (oggi in gran parte sconfitta, anche se alcuni paesi come la Francia continuano a vietare la loro commercializzazione per l’alimentazione umana nel proprio territorio — il che non impedisce che la quasi totalità delle coltivazioni di mais negli Stati Uniti sia transgenica, così come il riso in India, il grano e la colza in Argentina, ecc.). Assisteremo dunque all’ennesimo inutile annuncio da parte di scienziati che giurano di «rivoluzionare il mondo»? Dappertutto sono stati creati nuovi laboratori, unità di ricerca, cluster che raggruppano istituzioni e aziende, tutti dediti a ricerche sulle nanotecnologie. In Francia, si contano almeno 240 laboratori di nanoscienze. I «poli di competitività» collegati alle nanotecnologie si trovano a Lione (Lyonbiopôle), Grenoble (Minalogic), Besançon (Microtechniques), Provence Alpes-Côtes d’Azur (Optitec e Solutions Communicantes Sécurisées) e Centre-Limousin (Sciences et systèmes de l’énergie électrique). Invece i più importanti istituti di ricerca sono a Grenoble (Institut des Neurosciences), Saclay (Triangle de la Physique), Strasburgo (Centre International de Recherche aux Frontières de la Chimie) e Aix-Marseille (Institut Carnot). Si noti comunque che la maggior parte delle università dispongono ognuna di almeno un laboratorio specifico per le nanotecnologie e che molte regioni si sono dotate di un «centro di competenze» che raggruppa gli attori della ricerca e della produzione nanotecnologica.
Qualche anno fa, lo Stato francese ha istituito un meccanismo di dichiarazione obbligatoria per le imprese che usano nanomateriali nei propri prodotti. Senza ovviamente riportarne i nomi esatti (non esiste alcuna regolamentazione relativa alla segnalazione di presenza di nanoparticelle prodotte, come avviene ad esempio nel caso di additivi negli alimenti), ma l’ultimo rapporto annuale (relativo al 2019) rileva almeno 900 prodotti alimentari contenenti nanoparticelle. Tra questi c’è il latte per bambini, dolciumi, cereali per la colazione, barrette di cereali o dolci e dessert surgelati. Inoltre l’utilizzo di nanomateriali in altri settori conosce da qualche anno un aumento significativo: nanocomponenti in elettronica, nanoparticelle nei prodotti cosmetici, nanopolveri utilizzate per trattare e migliorare le superfici metalliche, ecc., senza dimenticare — e questo con un po’ meno «trasparenza» — le loro numerose applicazioni in campo militare. E siccome ogni produzione genera la sua parte di rifiuti, i residui dei processi produttivi di nanomateriali si accumulano. Sembra che per il momento questi scarti vengano semplicemente bruciati oppure spediti altrove, preferibilmente verso i campi della morte in Africa (come in Ghana, dove si trova una delle più grandi discariche a cielo aperto per i rifiuti informatici del mondo intero).
 

E allora? In cosa i nanomateriali differiscono da qualsiasi altro prodotto industriale? Da qualsiasi tossicità prodotta dall’economia? Oseremmo dire, a rischio di dare forse troppo credito all’entusiasmo dei ricercatori, che un’altra soglia qualitativa può essere superata coi nanomateriali, e che non si tratta di una mera estensione quantitativa di ciò che già esiste. Per fare il parallelo con gli OGM: questi costituiscono, sì o no, una soglia-limite in rapporto alla devastazione già provocata dall’agricoltura industriale? Sono semplicemente «un po’ più della stessa cosa» o stanno aggiungendo «qualcosa d’altro» alla somma delle schifezze esistenti? Per gli OGM, non v’è dubbio che la risposta sarebbe generalmente affermativa, trattandosi di manipolazioni che influenzano la struttura stessa del vivente e della sua diffusione nell’ambiente. Ebbene, noi saremmo piuttosto propensi a dare la stessa risposta in materia di nanotecnologie.

La sintetizzazione di composti chimici non è certo nuova. Durante la Seconda guerra mondiale, i complessi chimici del Terzo Reich producevano già un «petrolio sintetico» per rispondere ai bisogni della Wehrmacht. La novità con le nanotecnologie è la scala su cui è possibile lavorare, e soprattutto il fatto che su scala nanometrica le proprietà della materia cambiano. Non si comporta più secondo le medesime leggi fisiche. Il carbonio ad esempio può diventare più resistente dell’acciaio. Il rame può diventare trasparente e l’alluminio esplosivo. Basta e avanza per suscitare l’entusiasmo degli apprendisti stregoni in questo mondo in cui l’artificiale prevale sempre più sul «naturale». Modificare le proprietà della materia potrebbe semplicemente trasformare nel tempo l’insieme della produzione attuale e generare nuovi «insormontabili problemi» (rifiuti, tossicità, limiti fisici…). Basti pensare a come potrebbe essere sconvolto il panorama del trasporto di elettricità, considerata l’attuale perdita di quasi il 5% sulla linea, se alcuni nanomateriali superconduttori venissero usati per sostituire i cavi odierni, costituiti per lo più da una lega di alluminio. O se i microchip diventassero così microscopici (oggi, la loro miniaturizzazione è limitata dalle proprietà dei materiali usati, di solito il silicio) da non essere quasi più rilevabili. 
Parlando di irrilevabile, istituzioni di controllo come l’Anses (Agenzia nazionale di sicurezza sanitaria) ammettono da parte loro che è molto difficile e per il momento abbastanza aleatorio rilevare le nanoparticelle nei prodotti o nell’ambiente. Inoltre le nanoparticelle sono «indistruttibili», non scompaiono mai, viaggiano di corpo in corpo, dai laboratori ai prodotti, dai prodotti alla terra, dalla terra al cibo, ecc. Queste particelle, le cui proprietà sono state modificate, trapassano per di più tutte le membrane e i «filtri» protettivi di cui sono dotati la maggior parte degli organismi viventi. Pertanto, una nanoparticella può passare dallo stomaco o dal polmone al sangue, quindi dal sangue al cervello e così via, e sono disponibili pochissimi dati sulla loro tossicità. A titolo di esempio, lo Stato francese ha vietato nel 2019 in base al «principio di precauzione» l’additivo E171, il biossido di titanio, in tutti i prodotti alimentari ma non nei 4000 farmaci che lo contengono. Secondo cifre ufficiali, lo stesso biossido di titanio utilizzato dall’industria può contenere fino al 2,3% di nanoparticelle. Come per gli altri veleni industriali, la tossicità nanometrica è legata principalmente a una questione di gestione, con soglie modificabili all’infinito in funzione delle necessità del momento.
 
Per il momento, i «limiti» contro cui si scontra l’attuale produzione capitalistica sono parecchi, ma non costituiscono ostacoli insormontabili tali da annunciare la fine della loro preziosa crescita. Al contrario, costituiscono altrettante «sfide» per un’economia in perpetua ristrutturazione. Ad esempio, le previsioni di penuria di petrolio (tra l’altro abbastanza discutibili) incitano da decenni alla ricerca, alla commercializzazione e alla produzione di idrocarburi alternativi, e oggi possiamo vedere dovunque i disastri causati dal superamento di tale «limite»: monocolture di mais e colza per produrre idrocarburi, esplosione del fracking, sostituzione dei tradizionali motori a combustione con motori elettrici (e domani forse a idrogeno) e così via. Le nanotecnologie svolgeranno sicuramente un ruolo fondamentale nell’ulteriore artificializzazione del mondo. In questo senso, ogni attesa non fa che contribuire al progresso del dominio e delle sue opprimenti prospettive. Perdersi in interminabili discussioni sui gradi di pericolosità delle nanoparticelle rischia allo stesso modo di far perdere di vista che si tratta anzitutto di una via importante per l’economia allo scopo di superare determinate soglie e perpetuare così, ipotecando permanentemente il mondo, la sua mortifera esistenza.
In fondo, come davanti alle altre promettenti tecnologie del dominio, la sola questione di qualche interesse da porre, qui e ora, resta quella dell’attacco distruttivo.
 
[Avis de tempêtes, n. 30, 15 giugno 2020]
https://finimondo.org/node/2493
 

Non se, ma quando

Non se, ma quando

Ad appena un mese dall’operazione Ritrovo una nuova operazione sbirresca, detta Bialystock, ha colpito sette compagni e compagne anarchiche. Due di loro si trovano ai domiciliari, tre nelle patrie galere, e due, sempre in carcere, attendono di essere trasferiti in territorio italiano, poiché al momento dell’arresto si trovavano all’estero. A questi compagni e compagne va la nostra piena solidarietà e vicinanza.

Vorremmo anche, con questo scritto, provare ad articolare qualche più ampia riflessione.

Non se, ma quando: è quel che verrebbe da pensare nell’analizzare, globalmente, le operazioni antiterrorismo condotte dallo Stato italiano negli ultimi anni a danno di chi si richiama all’ideale anarchico. Non è un ripiegamento vittimista, né un’invocazione iettatoria, semplicemente prendiamo atto del fatto che sempre più spesso il tentativo del potere è quello di incarcerare e reprimere le individualità anarchiche… in quanto tali.

Questa conclusione è banale solo in parte. Nelle costruzioni giudiziarie, infatti, sono sempre meno i fatti specifici ad essere contestati, e sempre più spesso si ricorre abbondantemente al reato di istigazione. Testi, scritte sui muri, volantinaggi, diffusione di idee ed inviti alla solidarietà attiva con gli individui incarcerati sono ritenuti ormai l’armatura del terrorismo e dell’eversione, complice anche l’esistenza di una norma quale l’articolo 270 sexies – il quale definisce come terroristica qualsiasi condotta che possa intimidire lo Stato o una sua estensione (aziende, organizzazioni ritenute strategiche), portandolo ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto o progetto. La vaghezza di questa formulazione va a braccetto con gli intenti sempre più esplicitamente preventivi dell’apparato giudiziario, come a dire: ‘sono anarchici, prima o poi colpiranno, tanto vale portarsi avanti col lavoro e bloccarli subito’. O, come nel caso dell’operazione Ritrovo, la prevenzione viene sostanziata dalla dimensione contestuale e risponde al timore che in un momento di crisi sempre più acuta (quale quella che viviamo dal principio della pandemia da covid-19) la presenza delle anarchiche e degli anarchici nelle strade, nei luoghi di sfruttamento, sotto le mura delle galere possa costituire un rischio per il mantenimento dell’ordine costituito.

Così arriviamo a ragionare sul quando: quand’è che lo Stato riconfigura l’estensione dei propri mezzi repressivi? In quale momento storico viviamo? Quali sono i rischi per la stabilità delle istituzioni, e quali le possibilità per chi, nelle istituzioni, vede solo il dispiegamento di una violenza schiacciante, insopportabile?

La pandemia ha esacerbato una serie di processi già in atto da tempo, come l’impoverimento e la marginalizzazione ai quali alcuni strati della società erano già soggetti, ed ha reso evidente in modo doloroso chi fossero gli ultimi e le ultime. Molte analisi sono state condivise durante gli ultimi mesi e sappiamo bene ormai in quali punti nodali si sono concentrate le peggiori conseguenze della pandemia e della sua gestione, personificata nello stato d’emergenza sanitario. Non ci sorprende allora che in vari angoli del globo la paura sia diventata insofferenza, e poi rabbia, e poi rivolta. Non ci sembra assolutamente improbabile che negli Stati Uniti, ad esempio, la gestione della pandemia abbia esasperato le profonde disuguaglianze sociali e materiali e ulteriormente minato le condizioni di vita degli afroamericani e in generale di chi non sia bianco, e che questa rabbia sia esplosa assieme a quella causata dalle terribili morti di George Floyd, Maurice Gordon e Rayshard Brook, uccisi dalla violenza poliziesca e razzista. Nei giorni in cui gli Stati Uniti letteralmente bruciano, il presidente Trump inveisce sempre più violentemente contro dimostranti antifa e anarchici, definendoli, tanto per cambiare, terroristi.

In Italia dall’inizio della pandemia, un’ondata di fuoco ha devastato molte carceri, e quattordici persone detenute sono rimaste uccise durante quelle rivolte. E sono proprio i rapporti fra carcerati e individui a piede libero ad essere chiamati in causa dalle ultime operazioni antiterrorismo: a compagne e compagni di Bologna veniva contestata la presenza solidale fuori dalla Dozza e dal carcere di Modena, presenza considerata sobillatrice; le compagne ed i compagni colpiti nell’operazione Bialystock vengono accusati per la solidarietà portata avanti in seguito all’operazione Panico, in particolare verso Paska, ora nuovamente inquisito, per via delle “proteste coordinate dentro e fuori” che avrebbero portato al suo trasferimento dal carcere di La Spezia, dopo i pestaggi là subìti.

Ci troviamo, evidentemente, in un momento storico in cui la solidarietà tra sfruttate, inquisiti, dannati, diseredate sembra essere più pericolosa che mai, perlomeno agli occhi del potere.

Sarà allora un’arma che raccoglieremo volentieri: dentro e fuori dal carcere, ma anche sui luoghi di lavoro, negli ospedali, nelle scuole, nelle rsa, nelle case in cui ci hanno rinchiuse, spesso intrise di abusi e violenza patriarcale, per le strade… tutto deve cambiare, e questo ci sembra un buon momento.

Solidarietà incondizionata alle compagne ed ai compagni colpiti dall’operazione Bialystock

Fra, Flavia, Nico, Robbi, Claudio, Dani, Paska liberi! Tutti e tutte libere!

Anarchiche e anarchici di Trento e Rovereto

Non se, ma quando

 

Adesso che avete paura

E’ sempre più chiaro ormai come il modello economico dominante, sacrifichi alla legge del profitto e della competizione esasperata qualsiasi espressione di libertà individuale, uguaglianza e solidarietà sociale.
Di fronte a tutto ciò, numerosi sono gli scenari di rivolta che esplodono e si ramificano in ogni parte del mondo.
Dal confederalismo democratico curdo, ai territori autonomi zapatisti, da Hong Kong al Chile.

In questi ultimi mesi, il modo in cui la pandemia da Covid è stata gestita ha ulteriormente amplificato e reso evidente la disuguaglianza tra chi il sistema lo subisce e chi pretende di controllarlo.
Questo ha reso più estrema la tensione sociale e il suo potenziale esplosivo.

La morte di George Floyd, di per sé un evento non eccezionale nel contesto della brutalità di un sistema che giornalmente uccide e devasta, vissuto nel momento del lock down globale a causa della pandemia, ha scatenato a livello internazionale un’esplosione di rabbia che si è manifestata in molteplici forme: dall’assedio dei distretti di polizia, ai saccheggi di quei beni a cui molt* non hanno più la possibilità di accedere, alle grandi manifestazioni di piazza.

E tra le urla di chi, stanco di subire e servire a testa bassa, pretende adesso e subito di essere ascoltat* recepiamo un chiaro messaggio: pur a fronte di un sistema che ha cercato con tutti i mezzi e le tecnologie a sua disposizione di controllare, organizzare, lobotomizzare e reprimere tutti gli aspetti delle nostre vite, il naturale senso di ribellione e dignità non è stato completamente annientato e riaffiora in tutta la sua potenza e molteplicità. A fronte della disgregazione sociale, molti hanno naturalmente deciso di non abbassare la testa e attivare forme di autorganizzazione della rabbia e del proprio esistente. Esperienze individuali e collettive che rivendicano la loro unicità e differenza, ma che si schierano unite contro un potere che le vuole uniformi per poterle facilmente controllare ed annientare quando non più conformi alle leggi del profitto economico.

Nell’attuale scenario internazionale, l’opposizione a questo sistema di sfruttamento non è rappresentata da un unico fronte di opposizione, bensì da una molteplicità di forme e di esistenze conflittuali, la maggior parte delle quali non mirano a sostituirsi sugli spalti del potere, ma vogliono difendere le proprie esperienze di autogestione.
Questo meraviglioso e caotico incendio cresce, si ramifica e si riproduce come biodiversità immanente, e le forme del potere si trovano impreparate e deboli a muoversi su un piano di realtà che si fa sempre più ampio e scivoloso.
Chi riesce a muoversi con agilità in questo spazio di resistenza multiforme, se non coloro che hanno costruito le loro vite e le loro pratiche di azione sull’abbattimento di ogni forma di autorità, sulla solidarietà, sulla complicità con le diverse lotte?
Anarchic*, combattenti dell’incerto e dell’imprevisto, che si muovono con disinvoltura tra le contraddizioni del reale, sapendo apprezzare il valore di ogni lotta nella sua unicità, diversità e forza nell’essere granello di sabbia tra i meccanismi del potere.

Ed è proprio in questo contesto che si inseriscono le ultime operazioni repressive condotte in italia contro gli anarchici.
Le varie procure di stato e organi polizieschi non fanno più mistero di aver spostato l’obiettivo dell’azione penale dal fatto in sé, alla criminalizzazione delle esistenze conflittuali. L’impianto accusatorio è sempre più focalizzato sull’attività politica e solidale, sull’elaborazione di testi e analisi, sull’indagine minuziosa dei comportamenti quotidiani che non sono conformi agli standard del cittadino silente e obbediente.
Da qui il passo è breve nel rivendicare, come è stato chiaramente fatto per l’Op. Ritrovo, la matrice preventiva dell’operazione repressiva.
Se al centro del processo di criminalizzazione non ci sono più i fatti, ma i comportamenti, le idee e i nostri modi libertari e antiautoritari di interpretare e attraversare la realtà, allora tutto ciò ci porta ad una semplice conclusione: c’avete paura.

Nonostante la potenza dei vostri mezzi repressivi, nonostante continuiate ad incarcerare e torturare nelle caserme e nelle galere, nonostante proviate a dividerci e separare, fiutiamo la vostra paura di poter perdere il controllo su una realtà che non si presenta più ai vostri occhi soggiogata e univoca, ma multiforme, incazzata e potenzialmente dirompente.
Una realtà che per noi anarchici è il contesto naturale in cui noi ci muoviamo, in cui costruiamo relazioni di solidarietà e complicità con la nostra capacità di intercettare relazioni tra le diverse forme di lotta che si esprimono o che potenzialmente potrebbero esplodere.

Se la questione non vi è chiara, proviamo a raccontarvi una semplice storia:
C’è un falò nel fitto bosco attorno al quale si riunisce una piccola comunità. Quel fuoco ne rappresenta i sogni, i desideri, la dignità di un percorso di riconoscimento, autodeterminazione, autogestione e muto appoggio. Il suo calore accomuna gli individui che si riconoscono uniti nella diversità.
Tra le sue fiamme brillanti si specchiano i sogni degli anarchici. Volti incerti e cangianti che si accompagnano sulle cime degli alberi del folto bosco per mostrare a chi da quel falò non si era ancora alzato, che tutt’attorno brillano migliaia di altri fuochi. E per ogni fuoco, una nuova comunità, altri sogni, altre resistenze e vite, altri individui uniti della diversità. E dall’orizzonte, nel lampo di uno sguardo, sale un grande incendio che illumina il nulla che avanza.

Ed è proprio la paura di veder divampare le fiamme di questo grande incendio che spinge, questa volta la procura di Roma, a muovere le solite accuse che ormai conosciamo bene, contro sette compagn*. La montatura di quest’ultima operazione repressiva denominata Op. Bialystok altro non è che l’ennesimo tentativo di spaventarci, dividerci, fermarci e toglierci i/le compagn* dalle strade, dai posti occupati e da tutti quei luoghi che di fatto possono essere terreno fertile per alimentare focolai di rivolta.

Contrariamente a voi, noi non abbiamo paura. Saremo sempre solidali e complici con chi si oppone con ogni mezzo a questo Stato infame e assassino.

Senza fare un passo indietro continueremo a percorrere le nostre strade verso la liberazione insieme a tutt* i/le compagn* rinchius* nelle patrie galere e limitat* della propria libertà, con la certezza che le strade di liberazione che stiamo percorrendo mirano dritte a colpire i meccanismi del potere, a scompigliare i piani dello stato in tutte le sue forme violente e autoritarie.

Non ci avrete mai vittime inermi, bensì inarrestabili ribell*!

Il nostro più sincero disprezzo verso le vostre forme di repressione è pari alla gioia nel sentirvi deboli e impauriti.

Non chiedete perdono all’incendio che vi spazzerà via,
lui non conosce pietà

Anarchich* da Berlino.

La nave dei folli – Episodio 11

Episodio 11

Fabbricare una macchina intelligente è stata fin dalle origini la più potente spinta promozionale della cibernetica. Riprendendo il vecchio sogno occidentale di creare artificialmente un essere simile all’uomo, la nuova scienza non ha mai nascosto il desiderio di vedere un giorno le macchine accedere allo statuto di alter ego razionale degli umani.

Il computer è presentato da subito come una riproduzione tecnica del cervello, il supporto biologico di un complesso processo informatico. A sua volta, il cervello è paragonato a un hardware e la mente, o spirito, a un sistema operativo. Come conseguenza, l’ibridazione umano-macchina, organico-meccanico può ora diventare realtà; e il rapporto tra interiorità ed esteriorità può essere completamente ribaltato.

Fino ad allora l’individualità moderna era basata sulla ragione, fondamento di libertà politica e autonomia individuale, tradizionalmente situata nei meandri più profondi dell’interiorità del soggetto. Ma, con la svalorizzazione dell’essere umano dopo la catena di crimini e disastri della Seconda Guerra mondiale, ora la ragione – per impedire che limiti biologici, errori o debolezze umane possano perturbarla – è portata fuori dal corpo, affidata agli ingranaggi della perfezione meccanica. E questo trasferimento sarà reso possibile da una struttura riproducibile di trattamento dell’informazione: la memoria.

 

Riferimenti episodio 11

• Crystal Distortion, Balooga (Jack Goes To Toyland, 2007)
• Refused, New Noise (The Shape Of Punk To Come, 1998)
• Orkestra Bailàm, laBBanda + Reprise (Le Grand Osim Orchestra per il Circo de la Sombra, 2007)
• Rober Clouse, I 3 dell’operazione drago (1973)
• Bruce Lee, tratto da Longstreet1972 (Libera la tua mente, sii informe, senza limiti come l’acqua./ Se metti l’acqua in una tazza, lei diventa una tazza./ Se la metti in una bottiglia, lei diventa una bottiglia./ Se la metti in una teiera, lei diventa la teiera./ L’acqua può fluire, o può distruggere./ Sii acqua, amico mio.)
• LETTURE A MEZZA VOCE – Divieto di socialità
• Rupert Sanders, Ghost in the Shell (2017)
• Dave the Drummer & Syber Symon, Hydraulix 014 (2002)
• Ghost in the shell soundtrack, main theme (1995)
• Yves Simoneau, L’ultimo pellerossa (2007)
• Ricky Gianco, Davanti al nastro che corre (Alla mia mam…, 1976) (testo)

https://lanavedeifolli.noblogs.org/

Smascherare il nemico – Note sull’operazione Bialystok

Mi dolgo di ogni crimine che nella mia vita non ho commesso.
Mi dolgo di ogni desiderio che nella mia vita non ho soddisfatto.
Dichiarazione di Senna Hoy, un anarchico di Bialystok

Il 12 giugno a Roma scatta l’operazione «Bialystok», condotta da quelle merde dei ROS, che porta in carcere 7 individualità sparse fra Italia, Francia e Spagna: 5 in carcere e 2 agli arresti domiciliari.

Se non fosse che in questo caso ha a che fare con la repressione, il nome di Bialystok per molte ha invece un che di poetico: rimanda all’esperienza breve ma intensa di alcuni anarchici ebrei-polacchi che diedero vita ad uno scontro senza mediazioni contro i rappresentanti del potere in tutte le sue forme (Stato, religione, famiglia, poteri economici). Con attacchi a suon di dinamite, propaganda col fatto, cospirazioni e azioni in piccoli gruppi di affinità, quegli anarchici del primo novecento, inebriati dall’idea della riproducibilità delle loro azioni, credevano di poter incendiare i cuori di chi sa individuare il nemico. Il loro sogno, come quello di tutte quelle persone che si definiscono anarchiche, era l’insurrezione: farla finita con il mondo dell’autorità per far nascere qualcosa di inedito, attraverso una rottura violenta con tutti i dogmi e i luoghi comuni.

Pur lontani nella storia, quei compagni parlano di idee che sono tutt’altro che lettera morta, come si è visto ultimamente in tutto il mondo: le rivolte in carcere scoppiate ovunque durante la pandemia, le sommosse negli Stati Uniti contro il razzismo e la brutalità della polizia, e ancora gli insorti di Cile, Libano e Hong Kong che non si piegano alla repressione sanguinaria di chi vuol difendere i privilegi dei soliti noti. Questi sono solo alcuni esempi di come le condizioni sociali imposte attraverso lo sfruttamento creino la possibilità di rivoltarsi contro di esso, perché ci sarà sempre chi troverà il modo di ribellarsi e di attaccare la propria condizione di schiavo.

Per entrare nel merito, di cosa sono accusate queste compagne anarchiche? Prima di tutto di avere delle idee pericolose per un sistema basato sul potere e sul dominio della merce, ben difeso da un sistema tecnico che non è neutrale e che persuade la maggioranza delle persone all’opinione che questo mondo sia ineluttabile. Il sacrilegio esiste quando c’è chi interpreta la vita sempre con un coltello fra i denti, soffiando sul fuoco ogni volta che si scorgono possibilità di rottura con l’esistente o quando si sopravvive in apparente pace sociale, ispirando anche altre ad agire contro il nemico. Considerando ciò che venne scritto a proposito di un anarchico di Bialystok, “conosceva solo le gioie di una lotta intensa e febbrile. M. riconosceva solo un nemico, la tranquillità, la monotonia, la banalità”, va da sé che lo sguardo di chi cospira contro l’esistente si muove senza sosta un po’ dappertutto. Se per il mondo in cui viviamo è giusto che Eni, come tante altre multinazionali, continuino a devastare il pianeta e ad alimentare guerre per l’oro nero; se gli stupri, le torture e i pestaggi che avvengono nelle caserme e nelle carceri hanno senso per mantenere questa mortifera tranquillità, allora noi stiamo dalla parte del torto con queste individualità anarchiche, accusate di aver colpito proprio questi tentacoli del dominio. Rifiutando la logica della colpevolezza e dell’innocenza, non c’interessa sapere se siano state loro o meno, ma siamo ben contenti di sapere che queste pratiche siano esistite in passato e continuino ad esistere ancora oggi.

Per le accuse che pendono sulla testa dei compagni incarcerati non ha senso separare la repressione che colpisce gli antiautoritari da quella che cerca di stroncare, spesso preventivamente (come nel caso dell’operazione Ritrovo ai danni delle anarchiche di Bologna), ogni critica all’ordine e qualunque sintomo di rivolta non recuperabile dai falsi critici dell’esistente. Fra una minaccia “terroristica” e un contagio del virus della servitù, fra “lotta alla criminalità” e gestione della guerra all’epoca dell’epidemia, il discorso repressivo sta usando il suo manganello concettuale per difendersi dagli assalti del presente. In un periodo in cui il mondo sta cambiando ad una diversa velocità, dove la militarizzazione degli spazi diventa sempre più asfissiante, le condizioni di sopravvivenza si fanno sempre più stringenti e il controllo totalitario della tecnologia fa i conti più con la persuasione dei suoi sudditi che con la critica di qualche individuo affascinato dall’autismo degli insorti, la questione essenziale è come e perché sconvolgere il mondo dell’identico con la passione dello straordinario. Per non darsi al banale, per difendere tutte le ribelli rinchiuse nelle galere e per guardarsi la mattina allo specchio e rendersi conto che la tetra realtà non può fermare i sogni di sovversione. Alla fine anche le più pessimiste l’avranno notato: se purtroppo alcuni anarchici scendono a compromessi con la fandonia della politica o con l’orrore della violenza gregaria, non prendendo una posizione chiara ed etica neanche quando accadono sopraffazioni inaccettabili, le idee sovversive invece, quando la rabbia esplode, sono linfa vitale per scardinare questo mondo. L’attacco degli insorti al mondo poliziesco partito dall’ennesimo omicidio ai danni di un afroamericano non ci parla proprio di questo? Vogliamo lasciarci assuefare dalla monotonia (anche quella militante) o viverci l’utopia?

[https://csakavarna.org/?p=5149]

«Inferno o utopia?»

È una delle tante scritte comparse nei pressi del commissariato del terzo distretto di Minneapolis, quello andato in fumo nella notte fra il 28 e il 29 maggio nel corso della rivolta provocata dall’omicidio di George Floyd. Non è uno slogan, né un appello, e neppure un grido di battaglia. A fomentare ed eccitare gli animi ci aveva già pensato — ci pensa quotidianamente — il braccio armato dell’autorità, con la sua brutale arroganza. No, quella scritta vergata solleva una questione. Non rivolge una domanda al nemico (come il sarcastico «ci ascoltate adesso?»), pone a chi è sceso in strada un interrogativo su cui riflettere: to hell, or utopia? Qual è il senso di tanta rabbia e tanto furore? Cosa si vuole ottenere? Andare all’inferno, quello della riproduzione sociale, oppure dare vita all’utopia, a qualcosa che sia tutt’altro rispetto a leggi a cui obbedire, merci da acquistare, ruoli cui sottostare, denaro da accumulare, governi da eleggere e a cui delegare?
C’è chi pensa si tratti di un quesito inutile che verrà risolto da sé, superato dalla forza stessa degli avvenimenti, e che indugiare a prenderlo in considerazione fa solo perdere del tempo prezioso che viceversa andrebbe usato per risolvere problemi organizzativi immediati. Comodo determinismo che alleggerisce l’azione, sgravandola dalla fatica del pensiero, e consente di seguire più velocemente («senza tante menate») la corrente trionfale della Storia — anziché sforzarsi ad inventare e realizzare la propria, di storia. 
Eppure, i fuochi accesi a Minneapolis nel corso di quelle notti sono illuminanti anche a tal proposito. Sembra infatti, giacché testimoniato da più parti (anche da non sospettabili di complottismo), che alcuni di quegli incendi siano stati appiccati da estremisti di destra. Se ciò fosse vero, il sospetto ricadrebbe sugli appartenenti a quello che negli Stati Uniti viene ormai definito «movimento boogaloo», sigla guazzabuglio che raccoglie genericamente chi ama comparire in pubblico armato fino ai denti e lanciare infuocati proclami contro la politica del governo. Sebbene al loro interno non manchino sfumature contrastanti, gli estremisti boogaloo sono per lo più suprematisti, miliziani, maniaci delle armi, «survivalisti»… Tutta gente che non nasconde l’intenzione di scatenare una Seconda Guerra Civile in grado di ripulire le strade dalla feccia ed instaurare un «vero governo americano». 
Si dirà che si tratta di puro folklorismo, truce spettacolo mediatico che talvolta può anche fuoriuscire dalla rappresentazione ed assumere forme materiali pericolose — uccidendo una manifestante a Charlottesville nel 2017, ad esempio — ma che in sé non costituisce una vera minaccia sociale. Può darsi, ma… non si potrebbe dire lo stesso di qualsiasi nera rivolta a noi cara? In fondo siamo proprio noi a sostenere che, in determinate circostanze, ciò che in tempi di normalità appare impossibile diventa a portata di mano. Pensiamo davvero di essere gli unici ad aver osservato come basti una piccola scintilla per provocare un grande incendio, o come la fine della pace sociale possa aprire innumerevoli possibilità per rimettere in discussione questo mondo? 
No, certo. E quindi che si fa, per evitare preoccupazioni che intralcerebbero le azioni, ci tranquillizziamo ripetendoci che la situazione per forza di cose evolverà in un senso a noi propizio? Non lo pensiamo. Peggio ancora, poiché i tanti bassi istinti sono molto più facili da provare, condividere ed esaudire rispetto ai rari alti ideali, è assai probabile che se nei periodi di sommovimento ci si limitasse a lasciarsi trasportare dal vento, si finirebbe dritti all’inferno — e non verso l’utopia.
Prendiamo ad esempio la rivolta scoppiata nelle ultime settimane negli Stati Uniti. Non è il frutto della convergenza strategica di più movimenti di lotta, ognuno con una lunga storia alle spalle e una ragionevole bandiera da sventolare sopra la testa, che hanno visto ingrossare le loro fila fino a decidersi di dare all’unisono una spallata al potere. È l’improvvisa deflagrazione provocata da una scintilla verificatasi in un ambiente sovraccarico di tensioni di ogni genere. Ha colto di sorpresa tutti e un po’ tutti hanno cercato di approfittarne (compresi inquilini, ex-inquilini ed aspiranti inquilini della Casa Bianca). Come un tornado, è diventata giorno dopo giorno sempre più potente mutando con una velocità impressionante. Per evitare che travolgesse ogni cosa, e in attesa che esaurisca le proprie forze, le autorità più attente a mantenere la pace sociale sono state costrette a correre ai ripari annunciando profonde riforme (a Minneapolis lo smantellamento del locale dipartimento di polizia, a New York la penalizzazione della stretta al collo). 
Manovra disperata vanificata dallo stillicidio di omicidi commessi in quel paese dagli agenti di polizia, l’ultimo dei quali avvenuto la notte del 12 giugno, due sere fa, quando un altro nero è stato ammazzato ad Atlanta nel corso di un controllo da parte di una pattuglia. Si chiamava Rayshard Brooks e la sua terribile colpa era di dormire nella propria auto all’interno del parcheggio di un ristorante fast-food, con gran disappunto del proprietario del locale che ha richiesto l’intervento della polizia. Ora quel proprietario non avrà più preoccupazioni simili: il suo spaccio di merda è stato incendiato ieri notte, nel corso di una protesta che ha fatto registrare oltre trenta arresti. All’inizio gli agenti si sono giustificati dichiarando che Brooks si era ribellato all’arresto, minacciandoli col loro stesso taser che aveva sottratto durante la colluttazione. Ma poi l’ennesimo video li ha clamorosamente smentiti, mostrando come uno di loro gli avesse sparato alle spalle a distanza mentre cercava di scappare. L’agente che ha fatto fuoco è stato immediatamente licenziato e il capo della polizia di Atlanta si è subito dimessa al fine di «ristabilire la fiducia nella comunità», ma è ovvio che quella fiducia è persa per sempre. Andata letteralmente in fumo.
Lo scrittore nero James Baldwin diceva che «l’impossibile è il minimo che si possa domandare». Dopo l’omicidio di George Floyd nel giro di pochi giorni in tutti gli Stati Uniti folle di persone sono passate da una richiesta comprensibile, come l’arresto dei poliziotti responsabili della sua morte, ad una rivendicazione iperbolica come l’abolizione della polizia. Si tratta di una rivendicazione radicale, ottima per procurar battaglia (come scoperto dal sindaco di Minneapolis, il quale è stato insultato ed allontanato da un incontro pubblico per essersi rifiutato di appoggiarla). Ma se a furia di essere ripetuta diventasse conseguente — non più una provocazione momentanea per aprire le ostilità, bensì un obiettivo da realizzare — dove porterebbe una simile rivendicazione? All’inferno di una sicurezza la cui garanzia sarà contesa fra gruppi di autodifesa (modello sinistro, gli Asayish curdi) e movimento delle milizie (modello destro, gli Oath Keepers statunitensi), o all’utopia di una libertà che non offre alcuna garanzia, alcuna sicurezza, e dove spetta ad ognuno il compito di badare a sé, a chi ama, a chi sente vicino? Per altro, a quale nuova autorità affidare il compito di decretare tale abolizione? Lo stesso autore di La prossima volta, il fuoco ricordava che «la libertà non è una cosa che si possa dare; la libertà uno se la prende, e ciascuno è libero quanto vuole esserlo». Per cui l’impossibile è sì il minimo che si possa chiedere, ma solo perché — essendo una richiesta inaccettabile — permette di smettere di chiedere ponendo fine ai negoziati.
Che dei politici tentino di cavalcare la rivolta, che in mezzo ad essa si possa trovare di tutto, ciò non può stupire nessuno. Ma questo non significa restare indifferenti. I politici vanno disarcionati, non importa quali riforme istituiscano, quante dimissioni pretendano, che regole di ingaggio modifichino. I militanti autoritari vanno neutralizzati, non importa quali siano le loro intenzioni. Nel vecchio continente la differenza fra autorità e libertà non scompare all’interno delle composizioni «anticapitaliste», così come nel nuovo mondo non scompare all’interno delle composizioni «antigovernative». 
Inferno o utopia — o l’uno o l’altra. Ignorarlo o confonderli significa ottenere al massimo la possibilità di venir arrestati un domani per aver cercato di smerciare una banconota di 20 dollari, ma con sopra l’immagine della schiava ribelle nera Harriet Tubman anziché del presidente schiavista bianco Andrew Jackson.
 
[14/6/20]
 
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