Virus e prove di tecno-mondo

Virus e prove di tecnomondo

Gli accadimenti di quest’ultimo periodo sono una sintesi di ciò che probabilmente vedremo in un futuro non troppo lontano; in poche parole, il cambiamento di queste settimane mette in luce una ristrutturazione ben più profonda e duratura di un’espansione virale.
Tre elementi sono intrecciati l’uno con l’altro come l’ossatura di questa nuova società che ci troviamo sotto i piedi.

LA DE-GLOBALIZZAZIONE

Quando la notizia del virus è iniziata a circolare e la Cina ha iniziato a prendere i primi provvedimenti di chiusura, qualcosa di assolutamente nuovo si stava realizzando: una delle principali potenze produttrici, soprattutto uno dei luoghi che assicura a multinazionali di mezzo mondo di poter produrre, si è fermata. Questa situazione ci ha dato la possibilità di vedere nel vivo una tendenza in atto negli ultimi tempi, in cui i rapporti tra le economie capitaliste stanno cambiando.
Fino a poco tempo fa il sistema capitalista si basava su quel processo che è stato definito globalizzazione, poiché globale era il sistema di sfruttamento con la possibilità di produrre in ogni parte del mondo e dove convenisse di più. La globalizzazione portava però con sé un problema, ossia l’interdipendenza tra potenze: la produzione di un determinato paese, anche potente come ad esempio gli Stati Uniti, iniziava a dipendere da un altro paese, ad esempio la Cina; i suoi approvvigionamenti in termini di materiali per la creazione di beni, piuttosto che di materie prime, erano legati da un rapporto con un altro Stato. La fragilità di questo rapporto è emersa quando dietro il commercio di servizi e beni tecnologici si è vista la mano lunga del controllo su dati e informazioni nel proprio paese. Ecco allora che negli ultimi anni un paese come gli Stati Uniti, che hanno fatto dell’imperialismo la loro bandiera identitaria, preme affinché tutti gli stati chiudano le porte alla Huawei per la creazione della rete 5G e dall’altra investe miliardi di euro nella ricerca di fonti di approvvigionamento di materie prime nel proprio suolo, oppure impone dazi sulle merci provenienti da un paese come la Cina. In altre parole, una delle potenze maggiori da un punto di vista economico e politico inizia a de-globalizzarsi, a riportare lo sfruttamento in casa propria perché forse il tempo della globalizzazione è avviato verso il suo declino.
In un’intervista del 2018 pubblicata su Il Sole 24 ore, l’ex premio Nobel per l’Economia M. Spence diceva:”La de globalizzazione è rischiosa, ma il mondo va riconfigurato”. Secondo l’economista negli ultimi anni c’è un’inversione di marcia, necessaria poiché “eravamo su un sentiero che per la gente non funzionava”. In poche parole, per le persone era ormai evidente che la globalizzazione non aveva portato i benefici promessi e soprattutto una distribuzione omogenea di questi. Cosa può fare allora il
Sistema se non offrire una soluzione ai suoi stessi problemi? E questo, continua l’economista, è possibile perché nel frattempo “abbiamo imparato un sacco di cose”, in modo particolare l’intelligenza artificiale e la centralità della tecnologia come strumento di modificazione radicale.

AUTOMAZIONE DEL LAVORO E MANODOPERA RICATTABILE

All’interno, dunque, di questo nuovo modello di de-globalizzazione come si ristrutturerà lo sfruttamento interno necessario per mandare avanti il modello produttivo-industriale?
La creazione di un mercato di manodopera a basso costo e sopratutto ricattabile, come ad esempio i migranti, è una prima risposta. Le ultime politiche internazionali basate sulla chiusura delle frontiere e le politiche apparentemente di respingimento hanno un grande effetto: allargare il mare dei “clandestini”, dei senza documenti, in poche parole di persone ancora più ricattabili. Tutti gli Stati sanno che i flussi di persone, soprattutto quando queste fuggono da una via senza ritorno, non possono fermarsi; ma sanno benissimo che più si applicano politiche repressive e di chiusura, più quelle persone che riusciranno ad entrare saranno senza legge e ancor più ricattabili. Queste persone saranno il bacino di manodopera a costo zero o quasi.
La seconda risposta è l’automazione del lavoro: le grandi aziende, pensiamo ad Amazon, stanno da tempo investendo nell’automazione del lavoro; in parte la macchina sostituisce il lavoratore (ad esempio un drone può sostituire un corriere) e dall’altra la macchina controlla e comanda l’uomo (ad esempio con i braccialetti dotati di sensore per misure il battito cardiaco e capire se e quando il lavoratore sta facendo il suo dovere nei tempi giusti). Non è più l’uomo a dire alla macchina cosa fare, ma la macchina, sostenuta da calcoli algoritmici per la valutazione dell’efficacia e rilevatori di prestazione, a dire e controllare l’uomo in ciò che fa.
In altre parole, la produzione del mercato, in parte rientrata nei confini nazionali, sarà economicamente sostenibile sia grazie alla robotizzazione-automazione del lavoro che ridurrà i posti di lavoro (poiché avrà bisogno di meno uomini) e renderà la produzione più efficiente sia grazie al bacino di manodopera da ricattare(1)
.
Questa riduzione dei posti di lavoro e la robotizzazione del lavoro non potrà forse portare con sé qualche disagio sociale, qualche malessere pronto a esplodere?

IL CONTROLLO SOCIALE

Quando il Governo cinese ha disposto la chiusura di intere zone e la limitazione di movimento ha usato un interessante sistema: le persone avevano un sistema a semaforo, un codice basato sui colori il quale ha permesso agli agenti dislocati nelle stazioni ferroviarie e altri posti di controllo di stabilire chi poteva passare e chi no. Quelle informazioni sulle persone venivano ricavate in modo particolare da due applicazioni (Alipay e Wechat) che negli ultimi anni hanno quasi sostituito il contate in Cina. In altre parole, le applicazioni tecnologiche già in possesso dalla maggior parte dei cittadini cinesi (soprattutto nelle aree urbane) e allo stesso tempo i sensori di controllo ugualmente presenti sul territorio hanno rappresentato la struttura su cui il Governo ha potuto controllare i movimenti delle persone e costruire un vasto sistema di controllo. Il semplice possesso di un’applicazione, scaricata in tempi non sospetti di coronavirus e soprattutto liberamente accettata e scelta dai cittadini, è stato uno strumento efficace per mappare, monitorare e controllare un enorme massa di persone.
La creazione in luoghi più vicini a noi come la rete 5G, le smart cities, l’internet delle cose sono tutte basate sull’installazione di sensori su tutto il territorio, gli oggetti stessi dovranno comunicare tra loro e con noi, attraverso i dispositivi di cui a breve potremmo difficilmente fare a meno, come lo smartphone o tutte le altre cose “intelligenti”. E’ questo lo scheletro su cui ogni Stato potrà garantirsi un capillare controllo del territorio, nel caso in cui la ristrutturazione di cui abbiamo accennato prima creasse qualche piccolo problema di ordine pubblico.
Il banco di prova in cui al momento siamo immersi, però, ci fa vedere anche qualcosa di più rispetto a questo controllo. La possibilità di intervenire nella modalità repressiva più classica è da intendersi per gli Stati come un’ultima soluzione nel caso non bastassero gli strumenti applicati quotidianamente.
Se pensiamo a questi giorni quali sono state le soluzioni adottate nei diversi ambiti? Lavoro da casa tramite internet, didattica online nelle scuole, restrizione nelle proprie case con possibilità illimitata di comunicare purché via etere, colloqui skype per le carceri in rivolta, chiusura di tutti i luoghi di aggregazione. In altre parole tutti i luoghi dove, volenti o nolenti, vi sono delle relazioni sono stati chiusi. In questo “la tecnologia ha avuto un grande compito: eliminare l’incontro dalla società”(2). Quei
luoghi che spesso attraversiamo e che per lo più sono luoghi di sfruttamento e asservimento, come il nostro posto di lavoro, la scuola o il circolo dove ci rintaniamo a bere, sono nonostante tutto luoghi di incontro, di relazione, di scambio. Possiamo scoprire che anche il nostro vicino di bancone vive il mio stesso disprezzo per i padrone, che il mio compagno di banco può essere mio alleato, che l’amico al bar è incazzato quanto me. Insomma, quei luoghi di annichilimento, la storia ci ha insegnato, sono stati e sono anche luoghi di possibile ribellione perché ancora vi è la possibilità di socializzare. Ma se un domani ci verrà proposto di lavorare da casa al PC, o di studiare da casa su una piattaforma online..non vorremmo forse che quel domani fosse già oggi? In poche parole lo Stato avrà già fatto un grande passo in avanti nel controllo delle genti, poiché avrà disgregato piano piano i luoghi di incontro e con essi di
possibili rivolte.
Quando tutto questo in parte finirà, potrebbe delinearsi un possibile scenario:
– la retorica unitaria nazional-statalista: ci diranno e ci diremo che stiamo stati bravi, che abbiamo sconfitto il virus, ma che ora più che mai dobbiamo stare uniti perché il baratro della crisi è sotto i nostri piedi. La manovra finanziaria di questi ultimi giorni e soprattutto le prossime manovre che si muoveranno a livello europeo e internazionale saranno fondamentali per capire i possibili scenari.
Eppure in tutto questo, un pensiero va alla Grecia e al meccanismo con cui BCE e FMI hanno reso completamente dipendente uno Stato dall’economia di mercato. La Grecia, si disse allora, rappresentava un esperimento, quello con cui si doveva mostrare come poter piegare gli interessi ritenuti ancora statali ad entità economiche superiori. Tutto il patrimonio statuale greco venne messo all’asta, il modello economico e le decisioni politiche vennero di fatto assunte da chi aveva elargito i prestiti. A quel tempo qualcuno disse che i prossimi esperimenti sarebbero stati Italia e Spagna, poiché rappresentavano condizioni economiche e sociali simili tali da consentire uno stesso processo di smantellamento sociale. Quando tutto ciò avvenne, la questione era ben al centro dell’ordine del giorno: scioperi, manifestazioni, azioni dirette ecc mostrarono la risposta dei greci. Ora che invece gli schermi nostrani parlano solo di virus, ora che la retorica dell’unità nazional-statale fa da padrona, non c’è nessuna discussione in atto sulle misure economiche attuate e soprattutto sulle sue conseguenze.
Ecco perché, soprattutto quando tutto ciò si sarà in parte ridimensionato, il discorso dell’unità nazionale farà da padrone, a meno che non salti qualche pulce all’orecchio..
– la salvezza della tecnologia: l’impiego massiccio di supporti tecnologici, soprattutto in ambito lavorativo e scolastico, ha mostrato che il Sistema può fare a meno dei luoghi di aggregazione e di relazione. Se la retorica che passerà sarà quella che in parte siamo potuti andare avanti grazie alla tecnologia, avremo aperto le porte a quel processo di automazione e controllo sociale di cui abbiamo parlato prima (3)
.
Ciò che è in atto, forse, non è semplicemente il controllo sociale o l’applicazione di un regime poliziesco. E’ la visione più chiara che possiamo avere di una ristrutturazione in atto, che travolge in modo trasversale tutti i continenti. I momenti di crisi, si dice, sono sempre dei momenti da sfruttare perché ci mostrano le lesioni di quel muro che ogni giorno ci sembra quasi imperturbabile.
Capire ciò che accade ora, ci deve forse far ragionare su cosa accadrà domani e non farci trovare del tutto impreparati.

Fischer-A

1 A livello mondiale, il 74% delle installazioni di robot industriali si concentra in 5 Paesi: Cina, Corea del Sud, Giappone, Stati Uniti e Germania.

2 Citazione da un interessante articolo pubblicato su I giorni e le notti.

3 Alcuni spunti interessanti su cambiamenti futuri del sistema si trovano nell’articolo Nazionalismo duepuntozero, Vetriolo

Udine – decesso di un prigioniero al carcere di via Spalato – Comunicato

Udine & Trieste – Sono i carcerati che rieducano la società!

Durante il black-out informativo generale, dovuto all’emergenza covid 19, e il conseguente blocco di ogni iniziativa di mobilitazione e solidarietà, trapela la notizia che a Udine il 15 marzo dentro il carcere di via Spalato è scoppiata una nuova battitura, perché si è venuti a sapere che UN PRIGIONIERO DI 21 ANNI È DECEDUTO, sembrerebbe per conseguenze dovute alla somministrazione di psicofarmaci e metadone.
Di chi muore dentro il carcere è responsabile lo Stato, indipendentemente dalle cause del decesso!
Purtroppo, per noi è stato quasi impossibile essere presenti fuori dalle mura per dare la solidarietà a queste persone che, dopo la protesta di lunedì 9 marzo, in simultanea con la distruzione completa del carcere di Modena, hanno dimostrato come invece di lamentarsi e supplicare i potenti, si possa essere individui attivi e coraggiosi, danneggiando parte delle strutture interne del carcere di Udine.

In questa fase di inedito autoritarismo emergenzialista, i prigionieri e le prigioniere di molti carceri in Italia ci stanno dando un’enorme lezione di dignità, rivoltandosi con determinazione contro gli ipocriti e odiosi diktat di uno Stato assassino, che se ne frega da sempre della loro condizione sanitaria e oggi arriva a negare loro persino le visite di familiari.
Hanno per questo pagato un enorme prezzo di sangue: 14 morti, passati nell’ultimo trafiletto dei telegiornali, causati ufficialmente da “overdose di farmaci”. Sono morti evidentemente scomodi, da nascondere e falsare, in un periodo nel quale altre morti, quelle da corona virus o con corona virus, vengono declamate ai quattro venti per spingere su un inedito esperimento autoritario, nascondendo anni di saccheggi e distruzione della sanità pubblica.

Queste pratiche di autodifesa reale vanno rivendicate come patrimonio di tutta quella società che non si riconosce in padroni, governanti, preti, burocrati, magistrati, banchieri, poliziotti, carcerieri ecc., cioè negli strumenti con cui lo Stato la opprime, ma che è in grado di padroneggiare autonomamente le proprie dinamiche.

Nessuna emergenza nasconda la contraddizione tra oppressi e oppressori!
Prendiamo esempio dalla pratica di autodifesa di prigionieri e prigioniere,
lottiamo in difesa delle nostre vite!
La nostra salute e sicurezza iniziano dove arretrano lo Stato e il capitale!
Distruggere le carceri è giusto!

ASSEMBLEA PERMANENTE CONTRO IL CARCERE E LA REPRESSIONE

Udine-Trieste, 18 marzo 2020

https://roundrobin.info/2020/03/udine-decesso-di-un-prigioniero-al-carcere-di-via-spalato-comunicato/

liberetutti@autistiche.org-

Cremona – Spaccate, notte di danni e razzie

Riceviamo e pubblichiamo un articolo di laprovinciacr.it

Il titolare del Kandoo: «Siamo in autoisolamento, questi delinquenti se ne approfittano»

Negli ultimi giorni, per la strade di Cremona si è registrato un drammatico boom dei furti con spaccata sulle auto in sosta. Nella cornice di una città spopolata a causa dell’epidemia di Covid-19, le vetture parcheggiate negli stalli all’aperto diventano obiettivi particolarmente facili – specialmente nelle ore notturne – per i saccheggiatori, che possono muoversi pressoché indisturbati. Tra le vittime dell’ultimo blitz c’è anche il titolare del ristorante Kandoo di piazza Cadorna – per tutti Gianni -, che ha postato su Facebook la sua denuncia pubblica: «Cari amici e clienti, questa notte mi sono ritrovato la vettura danneggiata» ha scritto il noto ristoratore a commento di due fotografie che parlano da sole. «Visto che siamo in autoisolamento, questi delinquenti si approfittano del fatto che c’è poca gente in giro. Vi suggerisco di prestare più attenzione su tutto. È un momento molto difficile, ma spero che presto torni presto per tutti la normale quotidianità». Inoltre il ristoratore cinese ha annuncia che la scorsa settimana è stata rubata l’auto ad uno dei suoi amici. Solo un altro dei numerosi reati commessi in quest’ultimo periodo.

https://www.laprovinciacr.it/news/cronaca/242919/spaccate-notte-di-danni-e-razzie.html

In corpore vili

In corpore vili

«Scopo del terrore e dei suoi atti è di estorcere totalmente l’adattamento degli uomini al proprio principio, affinché anch’essi riconoscano, in definitiva, ancora solo uno scopo: quello dell’autoconservazione. Quanto più gli uomini hanno in mente senza scrupoli la propria sopravvivenza, tanto più diventano marionette psicologiche di un sistema che non ha altro scopo che mantenere se stesso al potere»
Leo Löwenthal, 1945

Ecco, ci siamo. Da poche ore è stato dichiarato lo stato d’emergenza sanitaria su tutto il territorio nazionale. Serrata quasi totale. Strade e piazze semi-deserte. Proibito uscire di casa senza una ragione ritenuta valida (da chi? ma dalle autorità, naturalmente). Proibito incontrarsi e abbracciarsi. Proibito organizzare qualsivoglia iniziativa che preveda anche solo un minimo di presenza umana (dalle feste ai raduni). Proibito stare troppo vicini. Sospensione di ogni socialità. Ammonimento a stare chiusi in casa il più possibile, aggrappati ad un qualche dispositivo elettronico in attesa di notizie. Obbligo di seguire le direttive. Obbligo di portare sempre con sé una «autocertificazione» che giustifichi i propri spostamenti, anche se si esce a piedi. Per chi non dovesse sottomettersi a simili misure è prevista una sanzione che può prevedere l’arresto e la detenzione.
E tutto ciò per cosa? Per un virus che tuttora divide gli stessi esperti istituzionali a proposito della sua effettiva pericolosità, come dimostrano le stesse polemiche fra virologi di pareri opposti (per non parlare della sostanziale indifferenza che gli mostrano non pochi paesi europei)? E se anziché il coronavirus, con il suo tasso di mortalità del 2-3% ovunque nel mondo tranne che nel nord Italia (chissà se è l’acido nucleico ad incattivirsi a contatto con la polenta, oppure se è la schiatta padana ad essere gracilina), fosse arrivato in queste lande un Ebola capace di decimare la popolazione dell’80-90%, cosa sarebbe accaduto? Si passava direttamente a sterilizzare i focolai tramite bombardamenti?
Certo, tenuto conto dei legami tra le dinamiche delle società industriali e la moderna concezione occidentale della libertà, non sorprende che per arginare un contagio virale si applichi una politica che impone a tutti gli arresti domiciliari e il coprifuoco. Ciò che stupisce semmai è che tali misure vengano recepite così passivamente, non soltanto tollerate, ma introiettate e giustificate dalla quasi totalità delle persone. E non solo dai menestrelli di corte che invitano tutti a starsene a casa, non solo dai cittadini perbene che si incoraggiano (e si controllano) a vicenda sicuri che «andrà tutto bene», ma persino da chi oggi — davanti allo spauracchio infettivo — non è più disponibile a sentire i (fino a ieri osannati) ritornelli contro lo «stato di eccezione», preferendo schierarsi a favore di una fantomatica materialità dei fatti. Per quel che vale, giacché mai come nei momenti di panico (con l’eclissi della ragione che comporta) ogni parola risulta inutile, torniamo sullo psicodramma popolare in corso nel Belpaese, sui suoi effetti sociali più che sulle sue cause biologiche.
Che questo virus provenga dai pipistrelli o da qualche laboratorio militare segreto, cosa cambia nell’immediato? Nulla, una ipotesi vale l’altra. Al di là della mancanza di informazioni e di competenze più precise al riguardo, resta pur sempre valida una banale constatazione: virus simili possono essere effettivamente trasmessi da determinate specie animali, così come fra i tanti apprendisti stregoni delle «armi non convenzionali» ci può ben essere qualcuno di più cinico o sbadato. E allora?
Ciò detto, dovrebbe essere fin troppo scontato che nel mondo attuale è l’informazione a decretare ciò che esiste. Letteralmente, esiste solo ciò di cui parlano i media. E ciò che tacciono, non esiste. Da questo punto di vista, ha ragione chi sostiene che per fermare l’epidemia basterebbe spegnere la televisione. Senza l’allarmismo mediatico che attorno ad essa è stato sollevato, inizialmente solo qui in Italia, nessuno avrebbe prestato grande attenzione ad una imprevista forma influenzale, le cui vittime sarebbero state ricordate solo dai loro cari e da qualche statistica. Non sarebbe la prima volta. È ciò che è accaduto con le 20.000 vittime provocate qui in Italia a partire dall’autunno del 1969 dall’influenza di Hong Kong, la cosiddetta «influenza spaziale». All’epoca i mass-media ne parlarono parecchio, era dall’anno precedente che seminava morte in giro per il pianeta, eppure venne considerata semplicemente come una forma influenzale più virulenta del solito. Tutto qui. Del resto, ve lo immaginate cosa avrebbe provocato in Italia la proclamazione dello stato di emergenza nel dicembre del 1969? Alle autorità avrebbe senz’altro fatto comodo, ma sapevano di non poterselo permettere. Sarebbe stata l’insurrezione. Si dovettero accontentare della paura seminata dalle stragi di Stato.
Ora, è sensato ritenere che un virus estremo-orientale sia esploso nel mondo con tale virulenza solo qui in Italia? È assai più verosimile che solo qui in Italia gli organi d’informazione abbiano deciso di dare risalto alla notizia dell’arrivo dell’epidemia. Che si sia trattato di una precisa scelta o di un errore di comunicazione, questo potrà essere a lungo materia di dibattito. Ad essere fin troppo palese, in compenso, è il panico che hanno scatenato. E a chi e a cosa esso giovi.
Perché, bisogna ammetterlo: non c’è nulla in grado di seminare terrore più di un virus. È il nemico perfetto, invisibile e potenzialmente onnipresente. A differenza di quanto accade con gli jihadisti medio-orientali, la sua minaccia estende e legittima pressoché all’infinito la necessità di controllo. Non vanno sorvegliati di tanto in tanto i possibili carnefici (alcuni), ma sempre e comunque le possibili vittime (tutti quanti). Non è sospetto «l’arabo» che si aggira con fare losco in luoghi considerati sensibili, ma chi respira perché respira. Se si trasforma un problema sanitario in un problema di ordine pubblico, se si pensa che il modo migliore per curare sia quello di reprimere, allora diventa chiaro il motivo per cui uno dei candidati al ruolo di super-commissario della lotta contro il coronavirus fosse l’ex-capo della polizia ai tempi del G8 di Genova 2001 ed attuale presidente della principale industria bellica italiana (ma poiché gli affari sono affari, alla fine gli è stato preferito un manager dalla formazione militare, l’amministratore delegato dell’agenzia nazionale per gli investimenti e lo sviluppo dell’impresa). Si tratta forse di rispondere alle esigenze espresse in Senato da un noto politico, il quale ha dichiarato che «questa è la terza guerra mondiale che la nostra generazione è impegnata a vivere, destinata a cambiare le nostre abitudini più dell’11 settembre»? Dopo Al-Qaeda, ecco il Covid-19. Ed ecco anche i bollettini di questa guerra al tempo stesso virtuale e virale, i numeri di morti e feriti, le cronache dai fronti di battaglia, la narrazione degli atti di sacrificio e di eroismo. Ora, a cosa è mai servita nel corso della storia la retorica della propaganda bellica, se non a mettere da parte ogni divergenza e mobilitarsi per fare quadrato attorno alle istituzioni? Nel momento del pericolo, non ci devono essere né divisioni né tantomeno critiche, ma solo unanime adesione dietro alla bandiera della patria. Così, in queste ore all’interno dei palazzi si sta ventilando l’ipotesi di dare vita ad un governo di salute pubblica. Senza dimenticare un primo effetto collaterale niente affatto sgradito: chiunque esca fuori dal coro non può che essere un disfattista, meritevole di linciaggio per alto tradimento.
Come già detto, noi non sappiamo se questa emergenza sia il frutto di un premeditato progetto strategico o di una corsa ai ripari dopo un errore compiuto. Sappiamo però che — oltre a spianare ogni resistenza al dominio di Big Pharma sulle nostre esistenze — servirà a diffondere e consolidare la servitù volontaria, a far introiettare l’obbedienza, ad abituare ad accettare ciò che è inaccettabile. Cosa c’è di meglio per un governo che ha perduto da tempo ogni minima parvenza di credibilità, e per estensione per una civiltà palesemente in putrefazione? La scommessa lanciata dal governo italiano è enorme: istituire una zona rossa di 300.000 chilometri quadrati come risposta al nulla. Può una popolazione di 60 milioni di persone scattare sull’attenti e gettarsi ai piedi di chi le promette di salvarla da una minaccia inesistente, come un cane di Pavlov sbavava al semplice suono di una campanella? Si tratta di un esperimento sociale il cui interesse per i risultati travalica i confini italiani. La fine delle risorse naturali, gli effetti della degradazione ambientale ed il costante sovraffollamento annunciano lo scatenamento un po’ dovunque di conflitti la cui prevenzione e gestione da parte del potere richiederà misure draconiane. È ciò che alcuni hanno già battezzato «ecofascismo», le cui prime misure non saranno molto dissimili da quelle prese oggi dal governo italiano (che infatti farebbero la delizia di ogni Stato di polizia). Per testare su larga scala provvedimenti del genere, l’Italia è il paese catalettico giusto e un virus è il pretesto trasversale perfetto.
Finora i risultati per gli ingegneri di anime ci sembrano entusiasmanti. Con pochissime eccezioni, tutti sono disponibili a rinunciare ad ogni libertà e dignità in cambio dell’illusione della salvezza. Se poi il vento a favore dovesse cambiare direzione, per impedire l’effetto boomerang potranno sempre annunciare che il pericoloso virus è stato debellato. Per adesso a farne le spese sono stati i detenuti uccisi o massacrati nel corso delle rivolte scoppiate in una trentina di penitenziari dopo la sospensione dei colloqui. Ma ovviamente non si è trattato di imbarazzante «macelleria messicana», bensì di lodevole disinfestazione italiana. Che l’emergenza offra a chi esercita l’autorità la possibilità di adottare pubblicamente comportamenti fino a ieri tenuti segreti, lo si nota anche nei piccoli fatti di cronaca: a Monza una donna di 78 anni visitata al policlinico perché affetta da febbre, tosse e difficoltà respiratoria, è stata sottoposta a Tso dopo aver rifiutato di farsi ospedalizzare per sospetto coronavirus. Poiché il Tso, istituito nel 1978 con la famosa legge 180, può essere applicato solo a cosiddetti malati psichici, quel ricovero coatto è stato un «abuso di potere» (come amano dire le anime belle democratiche). Uno dei tanti commessi quotidianamente, solo che in questo caso non è stato necessario minimizzarlo od occultarlo, ed è stato reso pubblico senza che si sollevasse la minima critica. Allo stesso modo, a Roma sono stati arrestati sette stranieri rei di… giocare a carte in un parco. È il minimo che potesse capitare a possibili untori privi di ogni «senso di responsabilità».
Già, la responsabilità. Si tratta di una parola oggi sulla bocca di tutti. Bisogna essere responsabili, sollecitazione che viene martellata di continuo e che tradotta dalla neo-lingua del potere significa una cosa sola: bisogna obbedire alle direttive. Eppure non è difficile capire che è proprio obbedendo che si evita ogni responsabilità. La responsabilità ha a che fare con la coscienza, il felice incontro fra sensibilità ed intelligenza. Indossare una mascherina o stare tappati in casa solo perché l’ha dettato un funzionario del governo non denota responsabilità attiva, bensì obbedienza passiva. Non è frutto di intelligenza e sensibilità, ma di creduloneria e dabbenaggine condite con una buona dose di pavidità. Per essere un atto di responsabilità dovrebbe sorgere dal cuore e dalla testa di ogni individuo, non venire ordinato dall’alto ed imposto dietro minaccia di punizione. Ma, come è facile intuire, se c’è una cosa che il potere teme più di ogni altra è proprio la coscienza. Perché è dalla coscienza che nasce la contestazione e la rivolta. Ed è proprio per sterilizzare ogni coscienza che veniamo bombardati 24 ore su 24 dai più futili programmi televisivi, intrattenimenti telematici, chiacchiericci radiofonici, cinguettii telefonici… mastodontica impresa di formattazione sociale il cui scopo è la produzione dell’idiozia di massa.
Ora, se si considerassero le ragioni avanzate per dichiarare questa emergenza con un minimo di sensibilità e di intelligenza, cosa ne verrebbe fuori? Che uno stato di emergenza inaccettabile è stato dichiarato per motivi inverosimili da un governo inattendibile. Può infatti uno Stato che ignora le 83.000 vittime provocate ogni anno da un mercato di cui detiene il monopolio, e che gli frutta un ricavo netto di 7,5 miliardi di euro, essere credibile quando afferma di istituire in tutto il paese una zona rossa per arginare la diffusione di un virus che — a detta di molti fra gli stessi virologi — contribuirà a provocare la morte di alcune centinaia di persone già ammalate, ammazzandone magari qualcuna direttamente? Forse che per impedire che ogni anno 80.000 persone crepino per l’inquinamento atmosferico, lorsignori hanno mai pensato di bloccare su tutto il territorio nazionale le fabbriche, le centrali elettriche, le automobili? Ed è questo stesso Stato che negli ultimi dieci anni ha chiuso oltre 150 ospedali ad invocare oggi maggiore responsabilità?
Quanto alla materialità dei fatti, ci sia permesso di dubitare che si voglia affrontarla veramente. Di certo non lo vogliono i sinistri imbecilli che di fronte al massacro attuato in ogni ambito da questa società sono capaci solo di tifare per la rivincita dello Stato sociale buono (con la sua sanità pubblica e le sue grandi opere utili) sullo Stato liberale cattivo (taccagno con i poveri e generoso con i ricchi, del tutto impreparato ed approssimativo ad affrontare la “crisi”). E ancor meno lo vogliono i bravi cittadini pronti a rimanere a digiuno di libertà pur di avere briciole di sicurezza.
Perché affrontare la materialità dei fatti significa anche e soprattutto considerare cosa si voglia fare del proprio corpo e della propria vita. Significa anche accettare che la morte ponga fine alla vita, perfino a causa di una pandemia. Significa anche rispettare la morte, e non pensare di poterla evitare affidandosi alla medicina. Tutti moriremo, nessuno escluso. È la condizione umana: soffriamo, ci ammaliamo, moriamo. A volte con poco, a volte con tanto dolore. La medicalizzazione forsennata, con il suo delirante proposito di sconfiggere la morte, non fa altro che radicare l’idea secondo cui la vita va conservata, non vissuta. Non è la stessa cosa.
Se la salute — come l’OMS si vanta di sostenere fin dal 1948 — non è la semplice assenza di malattia, bensì il pieno benessere fisico, psichico e sociale, è evidente che l’umanità intera è una malata cronica, e non certo a causa di un virus. E questo benessere totale come dovrebbe essere ottenuto, con un vaccino ed un antibiotico da assumere in ambiente asettico, oppure con una vita vissuta all’insegna della libertà e dell’autonomia? Se negli ospedali spacciano così facilmente la «presenza dei parametri vitali» per «forma di vita», non è perché si è ormai dimenticata la differenza fra vita e sopravvivenza?
Il leone, il cosiddetto re degli animali, simbolo di forza e bellezza, vive mediamente 10-12 anni finché è libero nella savana. Quando si trova in uno zoo, al sicuro, la durata della sua vita può raddoppiare. Chiuso in una gabbia è meno bello, meno forte — è triste ed obeso. Gli hanno tolto il rischio della libertà per dargli la certezza della sicurezza. Ma in questa maniera non vive più, può al massimo sopravvivere. L’essere umano è il solo animale che preferisce trascorrere i suoi giorni in cattività piuttosto che in natura. Non ha bisogno di un cacciatore che gli punti contro un fucile, ci sta volontariamente dietro le sbarre. Circondato ed intontito da protesi tecnologiche, la natura non sa più nemmeno cosa sia. Ed è felice, persino orgoglioso della superiorità della sua intelligenza. Avendo imparato a fare di conto, sa che otto giorni da essere umano sono più di uno da leone. I suoi parametri vitali sono presenti, soprattutto quello considerato fondamentale dalla nostra società: il consumo di merci.

C’è un che di paradossale nel fatto che gli abitanti della nostra titanica civiltà, così appassionata di superlativi, si agitino in preda al nervosismo di fronte ad uno dei più minuscoli microrganismi viventi. Come osano poche decine di milionesimi di centimetro di materiale genetico mettere a repentaglio la nostra pacifica esistenza? È la natura. Detto brutalmente fra noi, considerato ciò che le abbiamo fatto sarebbe anche giusto che ci spazzasse via. E tutti i vaccini, le terapie intensive, gli ospedali del mondo, non potranno mai farci nulla. Anziché pretendere di domarla, dovremmo (re)imparare a convivere con la natura. In società selvagge, cioè senza rapporti di potere, non in Stati civili.
Ma questo comporterebbe un «cambio di comportamento» assai poco gradito a chi ci governa, a chi vorrebbe governarci, a chi vuole essere governato.

In corpore vili

Sarà un’influenza che vi seppellirà!

«Nonostante le apparenze, l’ecofascismo ha un futuro davanti a sé e sotto la pressione della necessità potrebbe essere il risultato di un regime totalitario sia di sinistra che di destra. In effetti i governi saranno sempre più costretti ad agire per gestire risorse e spazio via via più rarefatti… La preservazione del livello di ossigeno necessario per la vita potrà essere garantita solo sacrificando un altro fluido vitale: la libertà. Ma, come accade in tempo di guerra, la difesa del bene comune, della terra, varrà il sacrificio. L’azione degli ambientalisti ha già iniziato a tessere una rete di regolamenti fatta di ammende e di carcere al fine di proteggere la natura dal suo sfruttamento incontrollato. Cos’altro fare? Ciò che ci aspetta, come nell’ultima guerra totale, è probabilmente una miscela di organizzazione tecnocratica e ritorno all’età della pietra»
(Bernard Charbonneau)

Sono trascorsi quarant’anni da quando uno dei primi critici della civiltà tecno-industriale pubblicava tali osservazioni, impregnate di una certa mestizia dovuta all’indifferenza generalizzata nei confronti delle devastazioni attuate dal progresso. Ce le ha fatte venire in mente quanto sta accadendo in questi giorni qui in Italia, dove a cominciare da Lombardia e Veneto è in via di sperimentazione un test d’irreggimentazione di massa in nome del bene pubblico. Non essendoci alcun nemico visibile all’orizzonte in grado di giustificare uno stato di emergenza, è stato dato grande risalto alla minaccia costituita da un nemico invisibile. Così, per impedire la diffusione di una forma influenzale appena più virulenta di quelle con cui si ha a che fare ogni anno, si è giunti ad istituire zone rosse, posti di blocco, divieti di movimento, sospensione della vita pubblica. Misure eccezionali che potrebbero presto venire estese al resto del paese e che stanno già provocando una sorta di psicosi di massa, con tanto di assalti ai supermercati per accaparrarsi beni di prima necessità e non solo, esaurimento di dispositivi medici di protezione quali mascherine e disinfettanti, aggressioni agli untori con gli occhi a mandorla.
Di primo acchito verrebbe da chiedersi come mai l’Italia risulti essere il terzo paese al mondo (dopo Cina e Corea del Sud) per numero di contagiati dal cosiddetto coronavirus. Si tratta di efficienza del sistema sanitario nazionale, in grado di attuare fin da subito (a differenza degli altri paesi occidentali più negligenti) quei controlli a tappeto che hanno fatto scoprire l’epidemia in corso, o di deficienza della popolazione nazionale, giacché in nessun altro luogo avrebbe potuto attecchire un tale allarmismo? Interrogativo che potrebbe anche essere riformulato in altri termini: l’italica importazione di un timore asiatico è il frutto della dabbenaggine mediatica, a cui la notizia sensazionalistica è scappata dagli indici di ascolto, o è opera dell’arguzia istituzionale intenzionata a sondare la rinuncia volontaria alla minima libertà da parte dei suoi cittadini?
Che un’influenza possa uccidere, non è certo una novità. In un rapporto diffuso la scorsa estate dal Dipartimento Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, riportante i dati relativi all’influenza che ha colpito il paese nella stagione 2018-19, si ricorda che «le infezioni respiratorie acute causate dai virus influenzali possono essere lievi, gravi e possono persino causare la morte nei soggetti a rischio come anziani e bambini». Ciò non significa affatto che febbre e raffreddore siano sintomi letali, giacché «il ricovero e la morte si verificano principalmente tra i soggetti ad alto rischio, che includono donne in gravidanza e chiunque abbia patologie sottostanti come diabete, obesità, malattie dell’apparato respiratorio e cardiovascolari».
Si tratta di una vera e propria banalità: l’influenza in sé non è affatto pericolosa, ma potrebbe diventarlo qualora colpisse chi versa già in condizioni di salute compromesse. Secondo lo stesso rapporto, «nell’intera stagione influenzale, il 13,6% della popolazione italiana ha avuto una sindrome simil-influenzale, per un totale di circa 8.072.000 casi» ed «anche l’impatto di questa stagione, in termini di numero di forme gravi e complicate di influenza confermata, è stato elevato e paragonabile a quello della precedente stagione influenzale. In particolare, nella stagione 2018-19, sono stati segnalati 812 casi gravi di influenza confermata in soggetti con diagnosi di gravi infezioni respiratorie acute e/o sindromi da distress respiratorio acuto ricoverati in terapia intensiva, 205 dei quali sono deceduti. Il 63,2% dei casi gravi è di sesso maschile e l’età mediana è pari a 63 anni. Nell’83,4% dei casi gravi e nell’89,7% dei deceduti era presente almeno una condizione di rischio preesistente (diabete, tumori, malattie cardiovascolari, malattie respiratorie croniche, obesità, ecc.)».
Fino ad ora il coronavirus non si discosta affatto dalle suddette caratteristiche, mietendo le sue vittime fra anziani già malati o pazienti debilitati. Che senso ha allora tutto questo allarmismo? Soprattutto se aggiungiamo che le sole infezioni ospedaliere provocano ogni anno qui in Italia circa 8.000 morti (più di venti al giorno!), per non parlare delle 80.000 morti all’anno (più di duecento al giorno!) che le statistiche indicano causate dal tabagismo. Realtà ufficiali che non hanno mai portato a quarantene né a chiusure di strutture sanitarie o a serrate di tabaccai.
Ordunque, se in questo momento l’esercito si trova a pattugliare le strade del lodigiano non è certo per bloccare una pandemia di influenza, quanto per estendere la pandemia di servitù volontaria. Unità nazionale ed obbedienza alle leggi, davanti al pericolo! Fine del dissenso e delle critiche al governo, davanti al rischio! Largo ad esperti e specialisti, davanti alla minaccia! In effetti, al di fuori di paesi asiatici soggiogati da grandi e piccole tirannie, quale altra popolazione poteva andare nel panico per una semplice influenza non essendosi mai curata della quasi totale assenza di piacere nella vita? Quale, se non quella a cui in un passato recente era stato spiegato che un manifestante era stato ucciso da un proiettile (sparato da un agente dell’ordine, ma) deviato dal sasso scagliato da un altro manifestante; quella a cui era stato raccontato che il suo premier si preoccupava delle nipoti minorenni di capi di Stato esteri ora defunti; quella già sottoposta, in occasione di terremoti, a misure che limitano la libertà individuale; quella che da lunghi decenni non conosce più rivolte, ma solo pacifiche e civili proteste vogliose di legittimità istituzionale?
Nel frattempo, dalla Cina giunge anche la notizia che la sospensione di quasi ogni attività lavorativa ha avuto come conseguenza l’abbattimento delle emissioni di anidride carbonica. Nel giro di poche settimane, la rottura con la normalità quotidiana avrebbe ridotto l’inquinamento di circa un quarto. Grazie alla drastica diminuzione del consumo energetico, i cieli della Cina sono tornati ad essere azzurri.
Ora — al di là del fatto che un eventuale virus che alleggerisca davvero il pianeta da quella fauna parassitaria conosciuta come umanità sarebbe per certi versi una panacea — ciò significa forse che solo una pandemia ci salverà?

Sarà un’influenza che vi seppellirà!

Parigi – Il peggiore dei virus… l’autorità

Il macabro bilancio dei decessi aumenta di giorno in giorno, e nell’immaginario di ciascuno prende posto la sensazione, dapprima vaga e poi via via più forte, d’essere sempre più minacciati dal Triste Mietitore. Per centinaia di milioni di esseri umani, questo immaginario non è certamente nuovo, quello della morte che può colpire chiunque, in qualsiasi momento. Basti pensare ai dannati della terra sacrificati quotidianamente sull’altare del potere e del profitto: coloro che sopravvivono sotto le bombe degli Stati, in mezzo a infinite guerre per il petrolio o per le risorse minerarie, coloro che coabitano con la radioattività invisibile provocata da incidenti o da scorie nucleari, coloro che attraversano il Sahel o il Mediterraneo e che sono rinchiusi in campi di concentramento per immigrati, coloro che vengono ridotti a brani di carne e ossa dalla miseria e dalla devastazione generate dall’agroindustria e dall’estrazione di materie prime… E anche nelle terre in cui abitiamo, in epoche non molto lontane, abbiamo conosciuto il terrore delle macellerie su scala industriale, dei bombardamenti, dei campi di sterminio… creati sempre dalla sete di potere e di ricchezza degli Stati e dei padroni, sempre fedelmente istituiti da eserciti e polizia…

Ma no, oggi non stiamo parlando di quei volti di disperati che cerchiamo costantemente di tenere distanti dai nostri occhi e dalle nostre teste, né di una storia ormai passata. Il terrore comincia a diffondersi nella culla del regno della merce e della pace sociale ed è causato da un virus che può attaccare chiunque — anche se ovviamente non tutti avranno le stesse possibilità di curarsi. E in un mondo in cui si è abituati alla menzogna, in cui l’uso di cifre e statistiche è uno dei principali mezzi di manipolazione mediatica, in un mondo in cui la verità è continuamente nascosta, mutilata e trasformata dai media, possiamo solo tentare di mettere insieme i pezzi, di fare ipotesi, provare a resistere a questa mobilitazione delle menti e porsi la domanda: in quale direzione stiamo andando?

In Cina, poi in Italia, vengono imposte nuove misure repressive giorno dopo giorno, fino a raggiungere il limite che nessuno Stato aveva ancora osato varcare: il divieto di uscire di casa e di spostarsi sul territorio tranne che per motivi di lavoro o per stretta necessità. Nemmeno la guerra avrebbe potuto consentire l’accettazione di misure di tale portata da parte della popolazione. Ma questo nuovo totalitarismo ha il volto della Scienza e della Medicina, della neutralità e dell’interesse comune. Le aziende farmaceutiche, delle telecomunicazioni e delle nuove tecnologie troveranno la soluzione. In Cina, l’imposizione della geolocalizzazione per segnalare qualsiasi spostamento e ogni caso di infezione, il riconoscimento facciale e il commercio elettronico aiutano lo Stato a garantire la reclusione di ogni cittadino in casa propria. Oggi gli stessi Stati che hanno fondato la loro esistenza su detenzione, guerra e massacro, anche del loro stesso popolo, impongono la loro «protezione» attraverso divieti, confini e uomini armati. Quanto durerà questa situazione? Due settimane, un mese, un anno? È risaputo che lo stato di emergenza dichiarato dopo gli attentati è stato rinnovato più volte, fino all’integrazione definitiva delle misure di emergenza nella legislazione francese. Dove ci porterà questa nuova emergenza?

Un virus è un fenomeno biologico, ma il contesto in cui nasce, la sua propagazione e la sua gestione sono questioni sociali. In Amazzonia, in Africa o in Oceania, intere popolazioni sono state sterminate dai virus portati dai coloni, mentre questi imponevano il loro dominio e il loro modo di vivere. Nelle foreste tropicali, gli eserciti, i commercianti e i missionari hanno spinto le persone — che prima occupavano lil territorio in ordine sparso — a concentrarsi attorno a scuole, nei villaggi o nelle città. Ciò ha notevolmente facilitato la diffusione di epidemie devastanti. Oggi metà della popolazione mondiale abita in città, intorno ai templi del Capitale, e si nutre dei prodotti dell’agroindustria e dell’allevamento intensivo. Ogni possibilità di autonomia è stata sradicata dagli Stati e dall’economia di mercato. E finché la mega-macchina del dominio continuerà a funzionare, l’esistenza umana sarà sempre più soggetta a catastrofi che non hanno granché di «naturale», e ad una gestione da parte di coloro che ci privano di qualsiasi possibilità di determinare la nostra vita.

A meno che… in uno scenario sempre più oscuro e inquietante, gli esseri umani decidano di vivere da esseri liberi anche se solo per poche ore, pochi giorni o pochi anni prima della fine — piuttosto che rinchiudersi in un buco di paura e sottomissione. Come hanno fatto i prigionieri in 30 carceri italiane, di fronte al divieto di ricevere visite imposto a causa del Covid-19, ribellandosi ai propri sequestratori, devastando e bruciando le loro gabbie e, in alcuni casi, riuscendo a evadere.

Ora e sempre in lotta per la libertà!

[Volantino distribuito a Parigi il 14 marzo 2020, durante la manifestazione dei Gilet gialli]

Il peggiore dei virus… l’autorità

Contro la quarantena della passioni, l’epidemia sociale

In questi giorni un nuovo incubo si sta diffondendo: il contagio dal cosiddetto Coronavirus. Dieci paesi del lodigiano, considerati il focolaio del contagio, e un paese del Veneto, dove è stato accertato il primo morto del virus, sono stati messi in quarantena. Questo significa nessuna possibilità per le persone di muoversi e di spostarsi dalle proprie abitazioni. In tutta la Lombardia, il potere costringe le persone ad autolimitare la propria mobilità sociale. Dalla chiusura dei luoghi di aggregazione al coprifuoco, il passo è breve. Prigionieri di se stessi e di un qualcosa di impercettibile allo sguardo umano, il governo pastorale ha addirittura ordinato attraverso un decreto lampo di chiudere le strade e ha rinforzato il presidio di polizia ed esercito, intimando che se qualcuno non dovesse rispettare gli ordini statali potrebbe anche subire l’arresto. A epidemia sociale, il potere non può che rispondere con repressione e sorveglianza. La caccia all’untore è iniziata.

Uno nuovo spettro si aggira intorno a noi e la sua forza è la sua presunta veridicità medica e il potere di cancellare in un baleno altri spettri invisibili all’occhio umano. Bizzarro che quando si parla di morte veloce l’epidemia sociale diviene urgenza. Quando la morte si installa nella vita, tutto torna al mondo della catastrofe. L’emergenza non s’ha da fare quando i luoghi in cui abitiamo divengono irrespirabili per l’industrializzazione e per il mondo-macchina?

Niente emergenza quando le necrocolture OGM devastano l’aria che respiriamo e il cibo che ingurgitiamo? Niente emergenza anche quando stiamo ancora mangiando da una terra radioattiva e contaminata dal disastro nucleare di Chernobyl del 1986? E Fukushima, dove i tecnici nucleari di quella zona annunciano che l’unico modo di fermare la radioattività in atto è lo sversamento delle scorie nell’oceano?

Con questa epidemia sembra che le certezze dell’esperto di turno siano crollate in 24 ore. E quando cadono delle certezze, il caos è dietro l’angolo.

Aforismi sul disastro

Questa è la prima epidemia globalizzata. Non globale, attenzione, ma globalizzata. Ci sono sempre state epidemie che hanno attraversato i continenti, si sono allargate a macchia d’olio, hanno causato morti e dolori.

Questa tuttavia è la prima epidemia virale che attraversa un mondo in cui gli individui sono sempre più simili tra di loro, le condizioni di vita sempre più standardizzate, le abitudini di consumo omologate.

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Qual’è il ruolo ecologico della malattia? In questo periodo di esperti, dove il posto principe è riservato alla presunta scienza medica, poco si affronta questo tema. Dove ha fallito la Cop 21 potrebbe riuscirci il 2019n-CoV. La malattia, e la morte da essa derivante, vengono rifuggite solo in un mondo che della perpetuazione di sé stesso ha fatto mitologia. Non si può pensare che in luoghi dove milioni di persone vivono ammassate, abusando di antibiotici e cibo spazzatura, non si generino questi fenomeni. La questione ecologica trova soluzione anche nella diminuzione quantitativa degli esseri umani, oltre che sulla necessaria trasformazione qualitativa della loro vita.

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In fondo cosa abbiamo di diverso dalle Pinne nobilis? Questi amabili parenti delle cozze vivevano felicemente nelle immense praterie subacquee di Posidonia ocenanica. L’essere umano ha distrutto le praterie dove vivevano, li hanno pescati per farne souvenir ed aperto nuove vie di comunicazione attraverso i mari (Canale di Suez). Ora un batterio sta sterminando i pochi individui rimasti.

O siamo forse come le patate irlandesi, tutte uguali, coltivate in monocoltura intensiva. Ettari di patate, cloni di altre patate, con le stesse caratteristiche, gli stessi punti deboli. Basta un parassita perché vengano spazzate via.

Si chiede il genetista Lewontin nel suo libro “Biologia come ideologia”: a causare l’esplosione della tubercolosi nell’ottocento è stato un batterio o sono state le condizioni di vita nelle fabbriche?

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Ci dicono di non uscire di casa, di non abbracciare le persone che amiamo, oltre quali confini o strade non possiamo andare. Ci dicono che rischiamo la vita. Ma quale vita? Forse la non vita che anche in precedenza sopportavamo, in cui la quarantena era l’abitacolo della nostra monovolume ferma in tangenziale? O che fosse l’isolamento nell’appartamento, vera e propria cella di un immenso alveare di cemento?
E se il rifiuto delle prescrizioni, l’inabissamento nel caos delle possibilità di questo mondo incrostato portasse attraverso la malattia un rinnovamento talmente profondo da renderci necessario accarezzare la morte per stringere la vita?
Quando è possibile solo il telelavoro e la socialità passa tutta da internet, le antenne e ciò che le alimenta diventano condizione necessaria per mantenere l’ordine sociale di fronte al disordine dei sogni.

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Eduardo De Filippo, in Napoli Milionaria, scriveva che per risollevarsi dalla guerra occorreva sopravvivere al dopoguerra. Adda passà a nuttata, sospirava riferendosi alla figlia malata. Anche noi viviamo nel mezzo di una malattia, un’escrescenza tumorale che colpisce le relazioni tra esseri umani e con l’ambiente che li circonda. Stato, Capitale, Sistema Tecnico. La febbre è la reazione del corpo di fronte ad un invasione esterna. Dalla febbre può passare una possibilità di liberazione?

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Quando senti il lupo belare, se sei una pecora preoccupati. Al potere non interessa la nostra felicità, interessa che continuiamo a produrre, a vivere all’interno degli schemi di sfruttamento e sopravvivenza. Quando lo Stato chiede collaborazione che trovi meravigliosa diserzione.

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Molte civiltà sono state distrutte dalla malattia. Più una civiltà è complessa ed impone la disciplina per poter sopravvivere più è fragile. Mentre l’esercito e la polizia sorvegliano i malati, i nervi restano scoperti. Bloccare questa società, interromperne le linee di approvvigionamento è un gesto quanto mai comprensibile e desiderabile: di fronte all’abisso del disastro ecologico e dell’annichilimento quotidiano le possibilità restano desideri che finalmente possiamo trovare il modo di esprimere. E bloccare il nostro ruolo sociale del non poterci far niente.

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Cosa resta quando viene meno lo Stato? Cosa resta quando viene meno la fiducia nello Stato? Cosa resta quando lo Stato deve sparare ai suoi sudditi che non vogliono restare rinchiusi nelle zone di quarantena? Cosa accade quando lo Stato si dimostra incapace di governare e di proteggere? La possibilità.
Caracremada correva da solo sui Pirenei rincorrendo la possibilità dell’abbattimento della dittatura di Franco, noi potremmo un domani trovarci rinchiusi con altri individui a fronteggiare da un lato il morbo e dall’altro lo Stato.

Riappassionare la vita

Il linguaggio che non sa più esprimesi è ancora comprensibile. Esso interrompe l’oblio. Di fronte al più scoraggiante dei deserti, la foresta della conoscenza e della prospettiva. Ogni costruzione è un simulacro di detriti e la sua forma non è nulla di nuovo. Per questo le forme vanno distrutte.

Launtréamont diceva che la poesia poteva essere fatta da tutti, non da uno. La scienza, invece, può essere solo il baluardo degli esperti. Per questo la poesia è lo scarto assoluto con la scienza. E questa è una tappa fondamentale per andare alla ricerca dell’oro del tempo contro la mercificazione scientifica della sopravvivenza in quarantena, restituendo al pensiero la sua spontaneità. Oltrepassato l’orrore, tutto quanto è immaginabile.

Per dirla alla Breton:

Piuttosto la vita con i sui drappi di congiura Le sue cicatrici da evasione

Piuttosto la vita piuttosto la borchia sulla mia tomba La vita della presenza unicamente della presenza

Dove una voce chiede Sei qui dove un’altra risponde Sei qui Io purtroppo ci sono appena

E però se facessimo il gioco di quel che facciamo morire

Piuttosto la vita

dalle zone del virus e oltre, alcuni superstiti delle onde frante

https://roundrobin.info/2020/02/contro-la-quarantena-della-passioni-lepidemia-sociale/

Il Re di tutti i virus: la paura

“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra
persone, mediato da immagini.”

“Lo spettatore più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi
nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria
esistenza e il proprio desiderio.”

“Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso.”

(Guy Debord, “La società dello spettacolo”)

In questo tempo, in questo mondo, cercare parole per descrivere e analizzare il presente e’ sempre una sfida che mi da i singhiozzi. Non so se saro’ letto, compreso, strumentalizzato, gettato in pasto al tritacarne dei “post” e non so, cosa molto piu importante per me, se riusciro’ ad essere all’altezza delle mie necessita’ espressive.
Inoltre scrivere dal presente, sul presente, e’ come rincorrere i propri pattini stregati: ci sei sopra ma loro schizzano piu’ forte, piu’ avanti, sempre in movimento, sempre piu’ veloci di te.
Ma solleticatx da notti a rigirarmi nel letto con frasi che traboccavano dalla mente nel tentativo di mettere caos nell’ordine dei miei pensieri tento un salto, una boccata di ossigeno e parole…

Non possedendo uno smartphone e nemmeno avendo una connessione perpetua alla rete internet per me il Coronavirus non esiste.
Dico questo con la piena consapevolezza che questo virus, cosi’ come altri che l’hanno preceduto (ma questo pare essere piu’ imponente) e’ una pura costruzione spettacolare.
Ragionare di “dati reali” e di “proiezioni plausibili della realta’” mi porterebbe a dovermi inzaccherare di numeri e di cifre che nessunx, in buona fede, puo’ dire di possedere come specchio “reale” dell’esistente fuori dagli schermi.
Qualsiasi specialista ben pagatx sara’ dispostx a dire tutto il contrario di tutto non appena l’odore di promozione e/o di stipendio infoltito indorera’ le sue narici.
Questo virus e’ esploso nell’etere ben prima che nei mercati, nelle sale di ospedale, nelle strade.
E’ un virus di strisciate di dito su uno schermo, un virus di cinguettii cibernetici, una escrescenza virtuale virale (non e’ geniale che si dica esattamente cosi’ anche per i video di youtube che spopolano?!) che ha attaccato la mente e le percezioni surrogate di miliardi di persone in tutto il mondo, ben piu’ a fondo e piu’ rapidamente di quanto non abbia fatto il suo corrispettivo biologico sui corpi.
Potrei dire che per me esistono due virus: uno, quello vero (nel senso di vero Debordiano) che e’ quello che inonda le pagine di giornali online, di social, gli schermi e le tv di tutto il mondo e che i governi stanno trattando alla stregua di una catastrofe naturale con tutto il corollario di “emergenza” che ne consegue; e uno falso (idem) che e’ quello che ha ammazzato circa millesettecento persone in tutto il mondo pare (il 98% in Cina) e che a me si e’ palesato quando ho iniziato a vedere le prime facce con le mascherine appiccicate sopra…ma non piu di sei e su persone sane, che non avevano altri sintomi della malattia che lo smartphone.
A voler giocare al gioco del potere, delle sue statistiche, della sua retorica da padre-padrone che ti terrorizza del buio e poi ti porge la lampada (ma solo se fai x bravx) mi verrebbe da chiedermi: se la preoccupazione delle istituzioni e’ davvero la salvezza della popolazione, se i governanti sono dei filantropi cosi generosi da non voler vedere nemmeno una vita immolata sull’altare dell’incuria, allora dai, ditemi, quanti morti fanno all’anno le sigarette e l’alcol monopoli di Stato*?!
E se questi insigni filantropi inorridiscono alla vista dei cadaveri e dell’ingiustizia sociale che esprimono, cosa ne facciamo delle migliaia di morti all’anno (**) per casua delle frontiere che essi stessi hanno eretto a salvezza e glorificazione dei loro mercati?!
Perche’ non hanno messo fuori legge i sali-tabacchi, ostracizzato x tabaccax, quarantenato x tabagistx per slavarci tuttx dalla piaga del cancro ai polmoni e annessi e connessi?
Perche leggi su leggi che condannano individui a morire ammazzati, torturati, violentatx nei lager libici o affogati in mare?
O per contro, se non hanno trattato il tabagismo con pugno di ferro, come sta accadendo per il Corona, forse per spirito liberale, perchè non si sono allora limitatx ad affiggere, ora nel momento del contagio, dei cartelli nelle citta’, come quelli che stanno su tutti i pacchetti di tabacco/sigarette che avverte x sudditx dei rischi che, consapevolmente esercitando il nostro libero arbitrio, ci si assume girando in una piazza o in un teatro?
E non e’ sorprendente la svista che vuole che si debbano chiudere teatri e scuole e musei, ma non si faccia menzione dei centri commerciali? Che all’oggi sono forse i (non)luoghi, non direi più vissuti perchè la Vita la destino ad altro, ma quanto meno più attraversati di una citta’!?
Era la mia anima cittadinista che parlava, quella che ho sepolto anni or sono sotto mole di gas lacrimogeno e disillusione…non mi interessa porre il discorso in questi termini.
Ossia non voglio criticare questo o quell’operato del sistema di potere come a voler dire che il potere potrebbe agire in una maniera più giusta, più rispettosa, più equa.
I termini del discorso per me sono da porre altrove, contro: disertare la narrazione spettacolare del sistema e dei suoi falsi critici, ossia quegli specialisti (medici in questo caso) che gareggiano per sottrarre lo scettro della verita’ al potere e cosi’ facendo, glielo riconsegneranno più lucido e più pulito appena passata l’emergenza.
Non e questione dunque che lo Stato sia troppo allarmista o troppo poco, e’ questione di prendere atto della strategia che gli stati stanno mettendo in campo sfruttando questa spettacolare (in tutti i sensi) occasione.
Se infatti non ho la capacita’ e forse nemmeno la pretesa ne la voglia di capire cosa sia reale e cosa no, dove stia il vero e dove risieda il falso (relativo, contestuale, non assoluto! Non esageriamo) ho pero’ ancora la possibilità di fidarmi del mio corpo, delle mie viscere, dei miei occhi, dei miei sentimenti.
Posso ossia scorgere le “conseguenze” di questo virus.
Non posso stabilire se il virus Corona, quello biologico, venga un serpente o da una spia della CIA, ma, visto che non voglio salire sulla giostra del complottismo, mi basta (e mi avanza) rifarmi a cio’ che vivo, in conseguenza dell’evento oramai scatenato.
Questo per me non significa indulgere sux responsabilx, ma piuttosto aver ben chiaro che e’ il sistema tecno-industriale nella sua totalita’, attraverso tutte le sue emanazioni (umane e appendici tecnologiche) il responsabile di sofferenze e morti che negano il vivente e i suoi ignoti palpitanti.

Credo di poter dire sulla mia pelle e ricorrendo alla mia memoria (dal 2001 di torri gemelle e Genova, passando per strade sicure e terremoti…etc) che l’emergenzialita’ non ha nulla di emergenziale, ne di temporaneo; e’ invece un ben collaudato modo di governo politico-militare.
Questo momento storico, di assedio sociale da parte del virus virtuale/biologico, non fa eccezione, anzi, catalizza e amplifica e perfeziona tutti i dispositivi di dominio sperimentati fin’ora.
Gli onnipresenti militari (che se ax terroristx almeno potevano sparare, al virus che faranno?!), sbirri, guardie di ogni tipologia e divisa (protezione civile inclusa) mobilitati per primi, passando per quarantene e intere regioni blindate e trasformate in “terra di nessuno” del diritto, fino alle vaccinazioni di massa che tarderanno giusto il tempo perche’ la casa farmaceutica di turno sforni la strabiliante panacea (vaccinazioni di massa obbligatorie esattamente come quelle gia’ imposte ax bambini di età scolare in Italia dallo scorso anno: nulla di fantascientifico).
Come sempre, mi pare, x primi a essere vessatx da queste sevizie repressive sono x ultimx.
Migranti, gia’ odiatx e perseguitatx e oppressx piu di quanto ogni sopportazione possa immaginare, che anche prima del Corona erano, tra le altre cose, vistx come untorx e portatorx di contagi esotici (per esmepio la Legionella) ora sono definitivamente marchiatx come bombe virali deambulanti e che dicano quello che vogliono x specialistx
garantistx, tanto la verita’ e’ nello schermo di ogni mano e quello schermo parla la lingua del padrone.
Ora, grazie al Corona, grazie alla paranoia endemica, grazie cioe’ al vero virus in espansione, saranno legalmente sequestratx nelle navi che li traghettano dal mare aperto alle coste come misura di “quarantena”: e’ notizia del 26/02 che a una nave di un ONG diretta in Sicilia sia stato vietato lo sbarco e imposta la “quarantena a bordo” e questo pare sara’ il protocollo da seguirsi.
Esattamente quello che fece il testosteronico ministro dell’interno leghista, precorrendo i tempi, ora sotto processo (Ah! Ah! Ah!) per sequestro di persona, ma questa volta senza tante remore, senza nemmeno quelle flebili voci sinistrose o democratiche a lamentare l’ingiustizia e la disumanita’ del nazismo ministeriale e dei suoi sbirri esecutori.
Ultimx e dannatx che se possibile vedono ancora piu buia la prospettiva di ogni giorno che passa, come x prigionierx delle carceri delle “zone contaminate” che non potranno avere colloqui con nessun esternx al carcere (come accade per Nat, compagna anarchica rinchiusa nel carcere di Piacenza) non ci e’ dato di sapere per quanto.
L’emergenza avvolge tutto di un manto di impenetrabilita’: le domande sono sediziose e le risposte sono dominio di chi ha il sapere e gli strumenti per ottenerlo.

Col virus si e’ come in guerra, e la guerra, si sa, e’ sempre stata un collante sociale potentissimo o quanto meno uno spartiacque sociale: stai con la patria o coi nemici della patria. Punto.
E già si parla di “governo di unita’ nazionale” per fare uscire l’Italia dalla crisi del virus, con tute verdi e democratici e destra e sinistra e centro e bla bla bla a fare facce serie e responsabili nelle tv, a stringersi le mani come degli operosi Churchill nostrani.
La solita vomitevole farsa, che pero’ ha la pesantezza gretta delle catene che si stringono di piu’, il puzzo fetido dell’aria che comincia a mancare serratx dietro alla finestra che si ha sempre piu paura ad aprire, l’oleosa consistenza della democrazia poliziesca che giunge al suo apice (per ora): non aver nemmeno bisogno di un nemico in carne ed ossa come furono Comunistx, Talebani e Terroristx di piu vasta gamma.
Oggi basta la paura per la paura, l’invisibile, il virus che esiste perche si’, senza bisogno di tanti morti o di sintomi, basta la sensazione del contagio per esserne contagiatx.

DI “CHE FARE” O DI “DOVE STARE”.
Io credo che il sistema non soffra colpi quando si visibilizzano le sue contraddizioni, perche’ mi pare che il sistema sia divenuto abilissimo a gestire e recuperare le proprie contraddizioni.
Credo che il dominio possa soffrire quando c’e chi queste contraddizioni le affronta da una prospettiva che nega la sua appartenenza al gioco.
La negazione che non punta l’attenzione sull’utilità o meno di questo o quel voto, ma diserta e incendia l’urna; la negazione che non vuole scegliere tra “accoglienza” nazista nei campi o “diffusa” e democratica ma combatte l’esistenza stessa di societa’ privilegiate che “accolgono” persone oppresse che fuggono. Che combatte l’esistenza stessa, direi io, di qualsivoglia societa’.
La contraddizione e’ tale se c’e’ chi la coglie, perche’ credo sia una relazione sociale anch’essa tra differenti aspetti del tessuto economico-sociale-politico. Ma la contraddizione di questo virus non c’e’, e’ tutto perfettamente logico e funzionale: se c’e un virus mortale (e io credo che pur essendo evidente per me che NON c’e alcun
virus e altrettanto evidente che C’E’ un virus) ci vogliono misure straordinarie per assicurare la sopravvivenza al popolo.
E la guerra dei dati che potrebbe dar ragione allo schieramento meno allarmista e far emerge quelle discrepanze di trattamento a cui si accennava sopra e’ truccata in partenza: le carte, il tavolo da gioco, il pubblico pagante si chiamano mass media e sono struttura ossea della societa’ stessa.
L’intangibilità di questo virus, dei suoi effetti sui corpi e’ compensata dalla concretezza dell’azione repressiva introiettata in anni di politica-della-sicurezza.
Mi pare che pochissimi individui oggi nel paese chiamato Italia sfiderebbero la quarantene dei corpi e delle emozioni per desiderio di non vedersi annullare la liberta’.
La legge e’ pura astrazione, e’ un assunto teorico che introiettiamo e per obbedienza ad essa arriviamo a non sorpassare una staccionata non perche’ sia troppo alta per le nostre potenzialità di scalata, ma per la scritta rossa su sfondo bianco che impone“non oltrepassare”.
Come un virus la legge si installa nei corpi ed evolve, muta, si difende dagli attacchi degli antidoti, dagli slanci liberatori. La legge si concretizza con la forza del manganello e del chiavistello, il virus con la qurantena, col camice, l’isolamento, la siringa, ma il cuore del problema e’ identico.
Non sono x mortx ammazzatx dalle bombe che piovono dal cielo i cadaveri dai quali rifugge il popolo terrificato serrandosi in casa, sono numeri, cifre, ordini, dettami, ordinanze.
La paura e l’immediata ricerca di rassicurazione sono il moto perpetuo della repressione.
Mi pare che il potere stia ben dimostrando quale siano le priorita’ (quantomeno alcune) della sua azione repressiva: chiudere.
Chiudere il più possibile spazi, strade, luoghi, agibilita’, dissenso.
Nulla di nuovo ne di differente da quanto portato avanti dallo Stato italiano negli ultimi decenni, solo che adesso con una capacita’ tecnologica e una rapidita’ d’esecuzione (anche per mancanza di resistenza e ossequiosita’ sociale) davvero virali.
State chiusx in casa, chiusx nei comuni, nelle regioni.
Recinti che si sommano a recinti in una spirale di repressione senza fine potenziale.
Io credo che il potere sia multiforme cosi’ come l’attacco che scelgo di portare contro di esso.
Oggi e’ la reclusione e l’autoreclusione che sta applicando con forza sul territorio posto sotto il suo dominio (e in questo terreno metto anche le coscienze e i corpi degli individui) allora credo che sia li’ che voglio stare, all’aperto.
Aprire spazi di dialogo, di gioco, di discussione, disertare la narrazione dex “terrorizzatorx” e la contronarrazione dex piu “cautx”, aprire le strade, le braccia, gli spazi cementati.
L’immagine piu’ mirabolante che posso produrre nella mia testa pulsante sono individui selvaggi che si abbracciano e scambiano effusioni davanti al fuoco di farmacie in fiamme e servx (in divisa e non) inorriditx…ma anche solo il presentarsi nelle piazze laddove c’e divieto assoluto può essere un inizio.
Capire cosa (se) la legislazione d’emergenza prospetta per chi infrange la quarantena, camuffarsi (oggi le mascherine vanno di moda), disertare l’annichilimento, rifiutarlo, sputare in faccia al virus della paura il virus della rivolta.
I tempi del potere sono sempre piu’ rapidi e sempre piu’ sicure e forti e senza contrapposizione appaiono le azioni del dominio: chissà per quanto ancora si potra’ stare all’aperto senza doversi nascondere, per quanto potro’ scrivere testi come questo con la consapevolezza che qualcunx lo potra “liberamente” pubblicare; per quanto ancora avremo la possibilita’ di rifiutare protesi biotecnologiche sui nostri corpi per correggere la fallibilita’ della nostra finitezza.
Uscire all’aperto mi pare un esercizio anche per noi stessx (anarchicx, antiautoritarx, individui in rivolta…) per non appassire nell’insinuante paranoia che piu’ si delegano le percezioni alle macchine, piu’ si rafforza mentre appassiscono i nostri istinti e diveniamo incapaci di fidarci di noi stessx, di guidarci, di prenderci cura di noi.
E non credo che il popolo acclamera’ un pugno di piratx avvelenatx dal germe inestirpabile della sovversione, ma forse qualche individuo alla ricerca di un Altro/ve rispetto allo schermo che l’ha contagiato si unira’ alle danze o piu’ semplicemnte l’avro’ fatto per me stessx. Per stare la’ dove mi piace stare, dalla parte sbagliata, contraria, ignota.

Sara’ che la Corona l’ho sempre immaginata solo sulla testa di un Re e poco importa che questo abbia le fattezze di un ominide con pompose parrucche o di un virus circolare, il Re detiene il potere assoluto…l’importante, pero’, e’ che la testa del Re rotoli nella cesta.

– unx Appestatx-

(*) Giusto per sfizio numerologico:
Rapporto di ricerca, “Indagine sull’Alcolismo in Italia. Tre percorsi di
ricerca”, realizzato nell’ambito delle attività previste dall’Osservatorio permanente Eurispes-Enpam su “Salute, previdenza e legalità”. Dal 2008 al 2017 in Italia sono stati 435mila i morti per malattie alcol-correlate, incidenti, omicidi e suicidi ad esso dovuti.
Fumo di sigarette, dati maggio 2019: Solo in Italia muoiono ogni anno circa 70’000 persone. Globalmente inoltre, secondo le stime Oms, 165.000 bambinx muoiono prima dei 5 anni di infezioni respiratorie causate dal fumo passivo.

(**)Amnesty International parla di circa 15’000 morti nel solo Mediterraneo dal 2015-2019. Possiamo ben dirci, se la mente riesce a concepire numeri di cosi’ vasta e orrifica portata, che siano molti di piu’ quelli reali.

https://roundrobin.info/2020/02/il-re-di-tutti-i-virus-la-paura/

Fuori tempo

Come approcciarsi a questo insieme di eventi straordinari che sta colpendo l’Italia oggi ed il mondo domani? Della Cina poco si può sapere anche a causa del pesante filtro di notizie che sappiamo esserci su quel paese.

Oggi 9 marzo, 27 carceri bruciavano in rivolta

Oggi 9 marzo sono stati bruciati 51 miliardi di euro a Piazza Affari.

Oggi 9 marzo è andata in fumo la trattativa sul prezzo del petrolio e ne è crollato il prezzo.

Oggi 9 marzo tutta Italia si ritrova in un’esistenza equiparabile all’obbligo di dimora.

Come alimentare e diffondere il germe dell’insubordinazione? Come rendere la situazione irrecuperabile per lo Stato? Come dare corpo ad un’idea di mondo e di vita radicalmente differente?

Alcuni spunti potrebbero provenire dal modo in cui pensiamo la lotta contro il carcere. Il carcere non è un problema in quanto disorganizzato. Non critichiamo il carcere perché è un modo di controllare e pacificare gli individui. Non si può discutere se il carcere sia più o meno adeguato come punizione o modo di intenderla. O meglio, questi temi sono solo una parzialità del problema, parzialità che non ricrea la totalità per semplice addizione delle sue parti.

Allo stesso modo non si può porre la questione intorno alla gestione organizzata o meno da parte dello Stato dell’emergenza sanitaria, l’adeguatezza delle cure e del sistema diagnostico. Come non si può ridurre la questione n-COVID 19 ad una paranoia collettiva, fobia di massa, manipolazione mediatica. Altrettanto non si può scendere nel tecnicismo di definire la malattia, paragonarla all’influenza, guardare all’eziologia o all’incidenza statistica. Superficialità che porta poco lontano.

Il campo anarchico è quello di un mondo altro e conseguentemente di un modo altro di intendere la vita.

Critichiamo il carcere perché è parte di questa società, elemento risolutivo di problematiche generate da questo mondo. Come applicare lo stesso principio alla questione della salute?

Forse dovremmo guardare davvero a quelle che sono le cause, l’eziologia, ma per criticarla, per distruggere la mitologia del determinismo biologico e per evidenziare la molteplicità della causalità possibile.

Per questo abbiamo voluto rendere pubblico questo testo sulla filosofia della scienza, redatto molti anni fa e mai uscito per evidente specificità dell’oggetto del discorso.

Specificità che forse avremmo dovuto affrontare prima, per non farci trovare ora cognitivamente impreparati all’impensabile che ci troviamo a dover affrontare.

Se non troviamo un modo altro di guardare alla questione, allora meglio accettare la gestione dello Stato di questa epidemia. Meglio stare in casa. Se invece critichiamo queste misure è perché pensiamo che ad essere malata sia la società, e far morire la società possa dare la possibilità di far sopravvivere un’umanità diversa.

Le questioni sono molte, ed occorre trovare i modi per affrontarle. In primo luogo un senso dell’esistenza qualitativo e non quantitativo. Una visione globale del rapporto tra specie umana ed ambiente circostante, compreso il ruolo ecologico della malattia. L’accettazione della morte come scotto della libertà e l’ineluttabilità del ritorno inesorabile del mondo naturale all’interno del mondo antropizzato.

Occorre ragionare sul ruolo sociale all’interno dell’insorgenza e diffusione di questo virus, approfondendo ad esempio le relazioni tra sovraffollamento urbano, assuefazione agli antibiotici, flussi globalizzati di persone e merci, inquinamento atmosferico ed omologazione di abitudini e caratteristiche corporee.

Il senso della questione, come per la lotta contro il carcere è quello di rifiutare questo mondo perché genera gabbie e vogliamo assistere quindi al suo crollo, così dovrebbe essere quello di riuscire a comunicare che anche in questo caso è sempre questa organizzazione sociale a generare i disastri ed a volerne gestire le soluzioni. Distruggere questa organizzazione del mondo abbiamo sempre saputo sarebbe stato doloroso e terribile, frutto come siamo di questo esistente e come siamo profondamente legati ad esso ed al suo funzionamento.

Sappiamo tuttavia anche che il disastro avviene già ogni giorno.

Ogni giorno che non succede nulla.

Per raccogliere riflessioni, esperienze e contributi è possibile contattare la mail editricecirtide@autistici.org

Qui di seguito il link per scaricare il libro: Riflessioni epistemologiche sulla scienza ed i concetti di verità e causa

P.S. Il testo non viene proposto in una forma rielaborata ed impaginata per l’urgenza di proporre materiale di riflessione ed approfondimento, accettando il rischio della parzialità e delle lacune. Si consigliano, in particolare, i riferimenti al testo del genetista R. Lewontin.

Riflessioni epistemologiche sulla scienza ed i concetti di verità e causa

La scommessa del dominio: il contagio della servitù

In questi giorni tutta l’Italia è diventata, più che mai, un carcere a cielo aperto di sperimentazione sociale.

Negli occhi dei politici, dei giornalisti, degli scienziati e degli economisti non si può che notare la paura. Occhi terrorizzati da un luogo del mondo che potrebbe essere l’epicentro di un sogno di tutte le persone sensibili: il crollo della civiltà.

Carceri in fiamme dove chi è recluso tenta la cosa più bella che ci sia: evadere dalla gabbia. Pestilenze e possibili untori che vagano nelle città della rovina endemica. Gabbie di vetro che dividono sofferenti e santificatori, in un continuo susseguirsi giornaliero di impennate di numeri degli infetti, come le morti provocate da una brutale guerra. Le minacce di selezione sulla vita e la morte fanno il resto. Grida avulse e stanche degli oppressori e dei loro tirapiedi dello spettacolo passano dallo state a casa al dobbiamo cambiare il nostro stile di vita. E le domande che sorgono sono le seguenti: e chi una casa non ce l’ha? E per i fortunati, se quella casa è sempre stata una gabbia? Di quale stile di vita stiamo parlando? Da che pulpito viene la predica, da chi tuttora non si fa scrupoli a sfruttare, devastare e uccidere questo mondo.

Il dominio è la realtà. Essa sta fagocitando tutto. Se la cultura si plasma sulla continua informazione data in tempo reale, giocando sulla presunta evidenza e non sulla sensibilità, l’effetto è quello di azzerare la riflessione. Il falso si innesta nei sensi per occupare terreno nel nostro sempre più ristretto spazio immaginario. Una realtà dove l’informazione ha occultato la conoscenza, non permettendo più di cogliere i fatti, faticando a metterli in relazione con le idee. Quando niente si inventa, ci si accontenta di essere replicanti dell’approssimazione.

Disimparare a sentire è lo spirito del tempo. Ma, oggi più che mai, fuori dagli schermi è buio pesto. E non è detto che dalle macerie di questa putrida civiltà infettata dal virus del potere, e della suadente servitù che la regge, non possano sbocciare germogli di vita appassionata. E qui torna alla mente una congiunzione storica. Uno dei primi attacchi della Comune di Parigi al fuggi fuggi dei padroni parigini nel 1871 fu l’incendio dell’anagrafe della città: un buon modo di bruciare ogni riconoscimento. L’altro ieri, nel carcere di Foggia, prima dell’evasione di una settantina di prigionieri, i ribelli hanno distrutto tutti gli incartamenti e documenti che riguardavano le loro identità. Come dire, quando la vita brucia cercare di rendersi non identificabili è una questione di saggia sicurezza individuale.

Ecco l’ennesimo atto di come sia chiaro che la sedizione attizzi la creatività di chi insorge contro le proprie condizioni di oppressione. Per spezzare il proprio contagio della servitù e scatenare l’ammutinamento di chi ancora riesce a sentire.

https://roundrobin.info/2020/03/la-scommessa-del-dominio-il-contagio-della-servitu/