Alcune riflessioni, urgenti e necessarie, riguardo la solidarietà, la condotta e i processi

Provo a scrivere di fretta e furia, perché d’altronde pensarci troppo intorno alle idee quando vengon fuori è deleterio e controproducente… E poi, se si erra qualcosa nella stesura, si può sempre accendere un dibattito che è la motivazione per la quale mi accingo a scrivere queste righe.

È di pochi giorni fa la notizia che un compagno è stato condannato a 12 anni e mezzo per delle azioni contro i fascisti di Casapound ed i capitalisti di ENI, sfruttatori di terre e popolazioni.

Un’azione diretta, chiara, coincisa, senza troppi fronzoli: parla da sola. Il compagno ha voluto anche rivendicare in aula la propria posizione ed il perché ha compiuto l’atto. Bene: la risposta dello Stato è stata una condanna esemplare…

Ma siamo sicuri che la condanna sia derivante solo dalle sue prese di posizione? Siamo sicuri che se ci fosse stata molta solidarietà, un presidio, un corteo, un qualsiasi tipo di approccio che sdogani in modo visibile, collettivo e numeroso quelle pratiche di rivendicazione dell’azione durante tutto l’arco del processo, da parte di tutte quelle compagne e tutti quei compagni che sinceramente si definiscono antifasciste ed antifascisti, sarebbe stato condannato a così tanto? Perché non c’è stata solidarietà attorno a lui? Quali sono i motivi? Perché si conosce poco, non si definisce anarchico ma militante di estrema sinistra, non fa parte dei nostri gruppetti di amichette ed amichetti?

Logicamente è una provocazione portata all’estremo…

Ma continuando con la provocazione… i compagni che sono in carcere, per esempio in Cile, li conosciamo di persona? No, eppure ci sono benefit, iniziative, sostegno, discussioni. Ed è giustissimo, perché è la cosa da fare… Ma quando ci si spinge verso la stessa direzione dell’azione diretta senza compromessi in Italia, perché non avviene questo tipo di solidarietà? C’è per caso l’effetto nimby, a casa degli altri sì a casa mia neanche per sogno? Oppure solo chi conosciamo è degno di solidarietà e vicinanza..? Ma la solidarietà si dà per la conoscenza e per la simpatia, oppure per le pratiche? Perché altrimenti qui si rischia, e si rischia grosso, di finire come quelle e quelli che vorremmo provare a combattere quotidianamente, creando la logica dell’essere accettate ed accettati in un gruppo sociale, dove ci divertiamo e siamo tutte amiche e tutti amici… Fingendo che alla fin fine e sotto sotto tutto va bene nonostante la gente marcisca in carcere o ai domiciliari, rimanendo cristallizzate e cristallizzati in realtà di formalità esistenziali che dovremmo essere le prime ed i primi a contrastare e distruggere.

Oppure non ci piace il fatto in generale di dover rivendicare in aula le nostre idee? Questo può essere, ma avrebbe senso dibatterne in modo ampio.

Ha senso affrontare i processi sperando in un’assoluzione, quando poi la batosta semmai arriva uguale? Non vale la pena di andare fieri e a testa alta davanti a tutto e tutti e dire: sì, sono anarchica, sono anarchico, sono militante di estrema sinistra, sono quella che vi pare o quello che vi pare, ho attaccato per queste ragioni, non me ne pento, me ne assumo tutte le responsabilità. Questo sarà opinabile quanto volete, ma è pur sempre uno spunto di riflessione. Tanto, a conti fatti, quando si lotta per la libertà, che ne diano 8, 10, o 15 di anni, cosa può cambiare? Quando usciremo di prigione saremo in un mondo libero? No. Dovremo continuare a lottare? Sì. E dal carcere non si può lottare? Deve essere un momento di pausa dalla lotta? Sono domande, solo domande…

Dal momento che mi tolgono la quotidianità, dovrò costruirmene un’altra, e l’essere umano è l’animale più adattabile all’habitat che lo circonda nel minor tempo possibile, quindi sarà dura sì, ma ce la si fa… Perché sperare quando si può comunque, in un modo o nell’altro, lottare?

Ad una certa nella vita si può anche provare a fare una scelta: la fierezza con se stessi e se stessi, anche se ci costerà cara, o il far passare l’acqua sotto i ponti per sbrigarcela il prima possibile. Sia ben chiaro, sono condivisibili entrambe, ma poi in soldoni, quale ci rende più felici di noi stessi?

E chiudo, con una constatazione: finora, gli ultimi processi alle anarchiche ed agli anarchici che sono stati seguiti negli ultimi anni, hanno avuto esiti sempre più o meno positivi… Mi spiego meglio: dove c’è una grossa partecipazione sia in aula che fuori, sempre, a tutte le udienze, ricordando a lorsignori che non si lascia nessuno indietro e che ci siamo, esistiamo, e ci opponiamo sempre a loro, anche in aula di tribunale perché è lì l’unico posto dove poter interagire pur solo con lo sguardo con le compagne ed i compagni reclusi… bene, le condanne sono sempre più lievi, rispetto a processi che si lasciano andare a se stessi o dove si lascia fare una difesa tecnica agli avvocati o che si seguono sporadicamente o solo i giorni delle sentenze. Allora, non vale forse la pena di rivedere le modalità di solidarietà e di supporto ai processi nei confronti delle nostre compagne e dei nostri compagni? Magari la pena comminata sarà la stessa, ma se non si tenta, chi ce lo dice che è già scritta la sentenza, perché dargliela già vinta, perché dire “non serve a niente io faccio altro” se poi magari non si fa neanche altro? D’altronde, oggi siamo noi a poter andare a portare un po’ di solidarietà alle recluse ed ai reclusi anche in tribunale, ma domani potremmo essere noi a dover stare dietro le sbarre e dover subire traduzioni ammanettati scortati da secondini, solo per sapere a quanti anni una toga deciderà di relegare le nostre vite in 4 mura di cemento… Riflettiamoci su!

SOLIDARIETÀ A MAURO ROSSETTI BUSA

SOLIDARIETÀ ALLE COMPAGNE ED AI COMPAGNI COLPITI DALLE VARIE OPERAZIONI SCRIPTA MANENT, PANICO, PROMETEO, RENATA, SCINTILLA!

SOLIDARIETÀ AI COMPAGNI COLPITI DALLA SORVEGLIANZA SPECIALE!

E PIÙ IN GENERALE SOLIDARIETÀ A TUTTE LE RIVOLTOSE ED I RIVOLTOSI DEL MONDO, IN LOTTA CONTRO STATO E CAPITALE, COLPITE E COLPITI DALLA REPRESSIONE

Un/a Individua/o

https://roundrobin.info/2020/05/alcune-riflessioni-urgenti-e-necessarie-riguardo-la-solidarieta-la-condotta-e-i-processi/

“Non avrai altro dio all’infuori di me”

Pubblichiamo un articolo tratto dal pamphlet KRINO, la pubblicazione completa si può scaricare a questo LINK

NON AVRAI ALTRO DIO ALL’INFUORI DI ME”

Mercoledì 11 Marzo 2020 l’ OMS dichiara covid-19, il cui primo caso si ebbe a Wuhan e diffusosi in tutta l’Asia e successivamente in tutto l’occidente, pandemia: un’epidemia con tendenza a diffondersi ovunque, cioè a invadere rapidamente vastissimi territori e continenti. Nonostante la dimensione globale del fatto, in Italia, come risposta a questa crisi, stiamo assistendo a un’amplificazione esponenziale della già onnipresente e pervasiva retorica nazionalista fatta di tricolori, inni e richiami ad un’ipotetica unità.

Vorremmo cercare di analizzare i motivi e le convenienze che hanno spinto a far uso di questa retorica e il perchè questa abbia fatto breccia nel sentire comune.

Crediamo che per iniziare ad analizzare questo fenomeno sia utile partire dalla riflessione di Rudolf Rocker secondo la quale religione e autorità sono due gemelli siamesi che nascono contemporaneamente e sono strettamente legati l’un l’altro, in quanto ogni forma di potere nella storia ha sempre fondato la propria legittimità su miti e scritture sacre che avevano come oggetto una divinità. Si potrebbe dire che questa riflessione perda la sua pregnanza se si cerca di applicarla al regime liberale contemporaneo nato dalla secolarizzazione e che ha come suo fondamento la laicità dello Stato: come può essere considerato legato alla religione un regime che vede la sua sovranità derivare non da Dio ma dal popolo e dalla nazione?

A un primo sguardo questa osservazione sembra cogliere nel segno, ma solo perchè lo Stato-nazione è il regime politico-istituzionale in cui siamo nati e cresciuti e quindi non riusciamo ad analizzarlo con il dovuto distacco, ma se si riesce a problematizzarlo si può notare che anche il regime politico in cui siamo immersi si fonda sul culto di una particolare divinità: la Nazione.

Sin dalla sua nascita nel XVIII secolo lo Stato-nazione moderno si poneva come il portatore e l’esecutore della volontà nazionale: qualcosa che non deriva dalla somma e il dialogo delle varie volontà personali, ma un ente trascendente di cui queste ultime non sono altro che una derivazione e una espressione. Questa visione crede sia possibile una volontà unitaria di tutti gli individui che vivono in una determinata regione geografica, non prendendo in considerazione un fatto centrale e cioè che la società è divisa in classi con interessi che non solo sono diversi, ma sono necessariamente in contrasto fra loro: chi può dire infatti che un senzatetto e un palazzinaro abbiano gli stessi interessi solo perchè nati nello stesso luogo o perchè parlano la stessa lingua?

Non potendo derivare dalle volontà e dagli interessi dei singoli individui che la compongono, la volontà nazionale non è altro che un ente astratto e trascendente che sovrasta la comunità concreta formata dall’unione dei singoli individui particolari di cui essa non è che la copia farsesca e idealizzata; insomma è la divinità su cui lo Stato cerca di fondare la propria legittimità ponendosi come il realizzatore dell’ “interesse nazionale” checché ne dicano gli apostoli della laicità dello stato. L ‘interesse nazionale non è altro che l’interesse particolare di coloro che hanno le risorse culturali, simboliche ed economiche per presentare i propri interessi particolari come generali anche se vanno a discapito della maggioranza della popolazione coprendo così lo sfruttamento e l’imposizione onnipresenti.

Se l’unità nazionale è la nuova forma religiosa necessaria alla legittimazione del regime liberale-capitalistico, allora non ci stupiscono i rituali delle 18:00 fatti di inni e tricolori che ripropongono nel mondo “civile” le danze intorno ai totem dei cosiddetti “selvaggi”, o il gran numero di bandiere esposte come crocifissi.

In questi giorni stiamo assistendo a un aumento dei rituali della religione nazionale perchè questa, come ogni altra religione, ha il fine di religare, legare insieme la popolazione cercando di far dimenticare quelle spaccature che in un momento di crisi (sanitaria o economica che sia) potrebbero far saltare le fondamenta di potere e sfruttamento dei pochi sui molti che tengono in piedi il nostro mondo. La tattica è sfacciata e si sta facendo ricorso soprattutto a due elementi da sempre centrali nella simbologia nazionalista: la comunità nazionale come famiglia e il cameratismo.

L’11 marzo 2019 a conclusione della presentazione del dpcm, il presidente del consiglio Conte ha affermato: “Siamo parte di una medesima comunità. Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore e correre più veloci domani”, insomma i “fratelli d’ Italia” sono una grande famiglia che farà molta fatica a non potersi abbracciare, ma che finita questa crisi tornerà alle solite dimostrazioni di affetto tipiche del datore di lavoro che sfrutta l’operaio, del poliziotto che elargisce DASPO a senzatetto e poveri o del politico che taglia decine di miliardi alla sanità pubblica: un cantautore molto ascoltato (ma anche molto frainteso) avrebbe detto: “Onora il padre, onora la madre/e onora anche il loro bastone,/bacia la mano che ruppe il tuo naso/ perché le chiedevi un boccone”.

L’ideale del cameratismo è portato avanti da tutta quella simbologia bellica che trasuda da tutti i discorsi istituzionali e dalla narrazione dei media mainstream: l’Italia è in guerra contro un nemico comune e quindi è necessario serrare le fila della comunità nazionale tenendo da parte tutte le differenze sociali, politiche e culturali. Dal punto di vista simbolico e dell’estetizzazione del discorso pubblico questo è riscontrabile per esempio nelle immagini delle file di mezzi militari mimetici che portano via le salme da Bergamo: ci chiediamo a cosa servano questi mezzi; da cosa devono nascondersi? Quest’uso è simbolicamente strumentale a creare una sensazione generalizzata di guerra con tutto il cameratismo che avere un nemico comune produce.

Il notare la sovrapposizione di nazionalismo e religione è utile anche per comprendere perchè questa retorica faccia breccia nelle menti e nei cuori della popolazione in un momento come questo: la religione è sempre stata la risposta che l’individuo ha dato alla sua condizione di finitudine e precarietà. In un momento pandemico in cui l’uomo è messo crudamente di fronte alla sua nullità e al pericolo della morte, questo non può che affidarsi alla religione contemporanea per eccellenza cercando di esorcizzare la morte con l’idea di una resurrezione all’interno di una comunità nazionale che gli preesiste e che continuerà a vivere anche dopo la sua eventuale morte.

Come ogni chiesa, lo Stato-nazione ha i suoi infedeli e i suoi eretici, i suoi nemici esterni e i suoi nemici interni contrapponendosi ai quali riesce a rafforzare l’idea di ingroup. Il nemico esterno, oggi come sempre, è l’immigrato proveniente dal continente africano: l’8 Aprile lo Stato italiano ha deciso di non far attraccare le navi di migranti nei propri porti fino al 31 Luglio. Sarebbe interessante cercare di comprendere perchè vengano chiusi i porti a navi provenienti da paesi in cui il tasso di positivi al corona virus è inferiore all’Italia e al mondo occidentale, ma si tratterebbe di uno sforzo vano: nelle religioni vige il credo quia absurdum (credo in quanto assurdo). Il nemico interno è il povero che osando avere fame rappresenta la cattiva coscienza che la società cerca di esorcizzare e rimuovere tramite la criminalizzazione e definendo questo come una degenerazione dal corpo sano della comunità nazionale. Questo processo è facilmente riscontrabile nella reazione spropositata ai casi di tentativo di furto in un supermercato palermitano (ma anche in altre città italiane) e ad alcuni video postati sui social in cui alcune persone dei quartieri popolari del capoluogo siciliano invitavano chi non aveva soldi e non poteva ricevere i sussidi statali in quanto lavoratore in nero a prendere dai supermercati ciò di cui aveva bisogno per sfamare sé e la propria famiglia. Subito è arrivata la risposta indignata di tutta la cittadinanza che si è autoproclamata “vera Palermo” e col passare del tempo di tutta la nazione. Il sindaco Orlando ha addirittura sostenuto che queste persone fossero degli “sciacalli del sottobosco mafioso” per via di alcuni “mi piace” a pagine Facebook che sicuramente sono più che esecrabili ma che nella realtà non hanno nulla a che vedere con la mafia, ma sono solo il prodotto di trenta anni di retorica di antimafia legalitaria che si fonda sulla visione “ o con la mafia o con lo stato” e che porta chi è dimenticato dalle istituzioni (o meglio chi non è dimenticato dalle istituzioni che continuano a tartassarlo e costringerlo nella miseria e nel degrado) ad appoggiare (A PAROLE) la mafia. Bisognerebbe ricordare al sindaco ciò che aveva già capito Sciascia: se tutto è mafia niente è mafia

Se la nazione è la divinità del nostro tempo bisogna fare i conti con un’altra questione: “la religione è il singhiozzo della creatura oppressa” e dunque bisogna cercare di comprendere quali oppressioni e quale miseria terrena ha portato alla creazione e alla fuga in questa entità divina. Crediamo che la creazione della divinità nazionale sia una reazione al disagio provocato da un mondo fondato sulla concorrenza e su un individualismo atomizzante che frustra ogni bisogno di solidarietà e comunità. Tuttavia, proprio perchè non vengono toccate le basi materiali che portano a questa frustrazione, la risposta nazionalistico-religiosa non può che portare con sé gli stessi problemi da cui scaturisce: la comunità nazionale non è inclusiva, ma si fonda sull’esclusione dello straniero e del nemico interno considerato come degenerazione dalla comunità nazionale.

Il bisogno di solidarietà e di partecipazione sociale non può essere realizzato postulando un’entità fittizia nel cielo religioso che domina i singoli individui: bisogna realizzare in terra una vera comunità in cui non ci siano gruppi con risorse simboliche, culturali, economiche e di potere per far passare il loro interesse particolare per interesse generale; bisogna creare una società orizzontale senza disuguaglianze economiche e di potere in cui ogni individuo possa partecipare alla definizione dell’interesse generale e che nei momenti di difficoltà non lasci nessuno indietro.

Un’ultima riflessione ci preme farla sull’effetto che l’adesione a questa religione ha sul grado di autonomia spirituale e etica degli individui. Creare una divinità significa rinunciare a tutte le qualità spirituali positive che appartengono all’uomo in quanto uomo delegandole all’ente fittizio che si è creato: paradossalmente la religione (sia essa quella tradizionale o quella della nazione) non è altro che l’abbrutimento della spiritualità. Spesso chi aderisce a questa religione aspetta che sia la “chiesa della dea Nazione”, lo Stato, a decidere cosa sia morale e cosa no, scadendo in quel becero legalitarismo tipico della nostra epoca e che in questo periodo di pandemia si esprime nella criminalizzazione di chi passeggia da solo o va nei parchi e in spiaggia con le dovute distanze mentre non ci si indigna per le fabbriche che, approfittando di cavilli legali a loro favorevoli, riescono a rimanere aperte mettendo a repentaglio la salute dei lavoratori e di tutti coloro che possono entrare in contatto con questi.

Delegare la propria autonomia morale-spirituale allo Stato non è una scelta saggia. Innanzitutto ci fa perdere la nostra umanità e singolarità; inoltre lo Stato non è altro che il detentore del monopolio dell’uso della violenza legittima e in quanto tale è in primis militarismo e controllo sociale: non è un caso che allo scoppio dell’emergenza non ci fossero le risorse e i dispositivi medici necessari per affrontarla, ma non ci fosse scarsità di militari da mettere nelle strade non si sa bene a fare cosa (a tal proposito si potrebbe anche ragionare del fatto che negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a tagli alla sanità per 25 miliardi e a un aumento di 37 miliardi nelle spese militari)1.

Lo Stato è riuscito ad approfittare di una situazione non creata da lui e che lo ha colto colpevolmente impreparato per estendere il proprio dominio definendo necessarie quelle attività volte al profitto (su quali tipi di aziende che sono rimaste aperte abbiamo già parlato) e inessenziali le suddette attività o la lotta per il miglioramento della condizione propria o dei propri cari come la repressione di scioperi di lavoratori o degli assembramenti dei parenti e solidali dei carcerati ci stanno a dimostrare.

Sta a noi non cadere in questa trappola e iniziare a costruire una società in cui questa retorica non possa nascere né fare breccia.

1 https://altreconomia.it/tagli-alla-sanita-spesa-militare/

https://roundrobin.info/2020/05/non-avrai-altro-dio-allinfuori-di-me/

Alcuni spunti di riflessione

Si potrebbe dire che l’esplosione della pandemia legata al Covid-19 abbia reso più evidenti le contraddizioni di un modo di vita che, lo diciamo da anni, non è più praticabile. La situazione che si è venuta a creare in Italia e nel Mondo negli ultimi due mesi ha infatti mostrato degli aspetti coerenti con tante analisi e critiche prodotte nel tempo. Si potrebbe dire, senza il rischio di sbagliare, che il problema è il sistema che abbiamo di fronte, che il problema è il capitalismo.
Ma limitandoci a questo assunto non avanzeremmo di un centimetro né nell’analisi né nella proposta di lotta.
Quanto avvenuto infatti, seppure in teoria prevedibile, ci ha colto tutti materialmente impreparati.
La pandemia si è diffusa durante una delle crisi più profonde che i movimenti rivoluzionari (in Occidente) si siano mai trovati ad attraversare. La pioggia sul bagnato insomma.
In questo contesto sembra proprio che sviluppare delle strategie, ma anche solamente capire quali siano i margini di agibilità, sia una faccenda complicata.

Tra le varie possibilità prese in considerazione finora, quello della solidarietà e del mutuo appoggio è un ambito d’azione che ha convinto e coinvolto molte realtà di lotta, ma non solo. Concretamente, in molti luoghi, questo ha determinato la nascita di gruppi e organizzazioni che si sono adoperati nella consegna e/o raccolta e distribuzione gratuita di cibo e generi di prima necessità per rispondere ai bisogni venutisi a creare data la crisi economica, oltre che sanitaria.
Al di fuori del mondo dei compagni nessuno si sognerebbe di mettere in discussione la giustezza di una distribuzione gratuita di cibo. Tanto che, con molta sagacia, anche governo e istituzioni varie non si sono risparmiati nel lodare, senza fare troppe distinzioni, le molteplici attività di questo tipo. Al massimo si può essere indifferenti, ma chi mai obietterebbe su un’iniziativa di tal genere?
Tra compagni e compagne è giusto invece che la questione venga affrontata e che non si dia niente per scontato…
Ma un dibattito, ragionato solo in teoria, sui pro e i contro produrrebbe di sicuro due lunghi elenchi, probabilmente anche poco interessanti.
Questo perché il dibattito teorico, seppur utile e necessario, per come spesso viene impostato non è in grado di cogliere i molteplici aspetti di un contesto.
Quando ciò non accade per divergenza di vedute, spesso accade per un abituale vizio interpretativo molto comune negli ambienti militanti, ovvero quello di porre, oltre l’azione “criticata”, anche la critica stessa fuori dal tempo e dallo spazio, rinunciando quindi a cogliere non solo l’ambito specifico, ma anche le prospettive a cui una singola iniziativa guarda, ponendola spesso impropriamente in antagonismo o in competizione con metodi e proposte differenti.
Per cui con superficialità vengono trascurati gli aspetti centrali che rendono una distribuzione alimentare fatta da compagni/e, diversa da quella organizzata da un ente caritatevole.
Questa forma mentis rende complicato studiare e tracciare una rotta quando si naviga in acque sconosciute ed agitate, come questi tempi ci costringono a fare.
Ci sembra necessario dunque entrare un po’ nel merito di uno specifico contesto, il nostro, per tentare di aggiungere pezzi utili al dibattito e fare un po’ di luce su alcuni passaggi che spesso sembrano oscuri e confusi.
Un contesto, in questo caso, vissuto e costruito, pezzo dopo pezzo, a partire dall’idea che in una metropoli la prossimità territoriale sia un perno centrale attorno al quale tentare di delineare una comunità solidale, disposta a supportarsi e a lottare.
La vicinanza fisica come parte della soluzione al problema della dispersione data dalle enormi distanze.
La condivisione e il confronto, in uno stesso quartiere, delle esigenze, i problemi e i desideri di chi si incontra.
È necessario qui fare una puntualizzazione, dato che non tutti i quartieri sono uguali. Quelli a cui ci si riferisce sono territori identificati, anche se sommariamente, come quartieri popolari o comunque dove sopravvive e si
percepisce (anche di questi tempi) l’esistenza di una certa forma di socialità e di vita reali. Elementi marginali e residuali in una metropoli, ma pur sempre condizioni necessarie perché dei compagni suppongano utile e possibile lo sviluppo di un intervento e una presenza costanti nel tempo.
È alla luce di tutto ciò che auto-organizzarsi per far fronte a un problema collettivo, riconoscendo e riconoscendosi in una comunità che condivide una simile condizione sociale mostra aspetti, seppur complessi, interessanti in termini di prospettiva.
Abituati ad interrogarci severamente sul nostro agire spesso disordinato, dipendente dall’onda emotiva, al limite dell’assistenzialismo, capita che attraverso un’attività del genere ci si chiariscano, nel corso dell’esperienza pratica, i motivi per cui queste sono occasioni in cui cogliere i frutti di lotte passate e piantare nuovi semi per l’auto-organizzazione di quelle future.
Questo non avviene in modo lineare e progressivo, ma neanche per caso. Ciò avviene grazie al patrimonio accumulato in anni in cui si è agito, seppur in maniera inorganica, cercando di tenere insieme – cioè evidenziandone le strette relazioni (attraverso l’agitazione, la costruzione di reti solidali, l’attacco, la propaganda e la denuncia), il piano locale del quartiere con quello cittadino, con quello nazionale, con quello globale delle guerre e dello sfruttamento. Il piano della rivolta, con quello dell’autogestione e della creazione di comunità resistenti. Relazioni che oggi più che mai producono effetti e irrompono nella vita di tutti/e noi. Oggi come sempre la questione si incentra sul tentativo di creare un moto che ci porti gli uni verso gli altri, piuttosto che viaggiare paralleli nell’indifferenza di una situazione che colpisce, prima o dopo, tutti allo stesso modo. Piuttosto che vittime passive, tutte e tutti consapevoli attori nello scenario di guerra sociale.
Il campo si sgombera allora da ogni dubbio. Non c’è ambiguità in una iniziativa di questo tipo. E difficilmente si viene scambiati per Caritas, o ciò che identifichiamo come associazionismo della sinistra borghese. Se così non sarà, la responsabilità sarà anche nostra.
Altra questione: siamo ben consapevoli che il cibo dovremmo andare a prendercelo. Ma affermarlo in maniera retorica ci avvicina forse di un centimetro al farlo praticamente? Sbandierare questa affermazione in modo
assertivo ci aiuta ad organizzarci in numero per tutelarci da clienti zelanti, vigilantes eroi o da una polizia molto, troppo, rapida negli interventi? Crediamo di no.
Al di fuori di un bell’immaginario, la realtà che ci circonda ci sembra purtroppo distante da quella nella quale si producono gli assalti ai forni. Il capitalismo ha lavorato fin troppo bene in termini di controllo tecnologico, repressione, propaganda legalista e disgregazione sociale.
Allora, sempre rimanendo nell’ambito della progettualità e non in quello del fatalismo, questa cosa va creata. Non perché sia bello. Ma, banalmente, perché è giusto, in quanto una redistribuzione della ricchezza e dei beni è l’unico modo per far sì che non siano i poveri a pagare le crisi dei ricchi. Sanitarie, economiche o sociali che siano.
Certo, arriva il momento in cui c’è bisogno di uno strappo necessario, della volontà, del coraggio, anche al costo di rischiare di sbagliarsi e prendere cantonate. Ma se non vogliamo proporre il lancio della monetina come
strumento decisionale, dobbiamo provare a ragionare in prospettiva, partendo dallo stato attuale.
Ci sembra corretto ribadire, riprendendo le parole che dei compagni greci hanno usato recentemente, che: “l’uscita senza ostacoli del capitalismo dalla sua crisi sanitario-economica, lascerà dietro di sé le condizioni per un cimitero sociale. Silenzio, paura e miseria”. E che “La scelta, quindi, sorge nuovamente con enfasi: O NOI O LORO.” Ma se questi tempi e i prossimi che verranno mostreranno come LORO siano in grado di difendere i propri interessi con sempre più efficacia e violenza, NOI, nei luoghi dove abitiamo, siamo disgregati, sconosciuti, disillusi. Noi oggi abbiamo bisogno di ricostruire e organizzare forza e fiducia.
La volontà che ha motivato questo contributo trascende dal desiderio di raccontare e condividere un’esperienza che, nonostante sia appena abbozzata, crediamo possa aprire possibilità interessanti.
Ma dietro ogni esperienza ci sono un’analisi specifica ed un metodo.
È nella cura, nello sviluppo e nel legame di questi due elementi che, a parer nostro, si sviluppa un agire rivoluzionario puntuale.
Aprire interrogativi attraverso esperienze reali ci sembra una modalità efficace e coerente per arricchire quel dibattito che in questa fase un movimento rivoluzionario deve affrontare con rinnovata e crescente vitalità.

Maggio 2020, Roma.
NED-PSM

https://roundrobin.info/2020/05/alcuni-spunti-di-riflessione/

Considerazioni sulle Applicazioni di tracciamento dei contatti

Voilà, il piatto è servito.

Nella gestione poliziesca di questa dichiarata pandemia Covid-19, arriva l’app per il tracciamento dei contatti. Se avevamo dubbi sulla distopia che ci aspetta, questo piccolo parassita che da qualche tempo monopolizza l’attenzione mediatica e ha saputo fermare per qualche settimana interi continenti, lancia un bagliore di luce sul futuro che ci attende.

La retorica messa in campo da subito dalle autorità e dai mass-media è stata quella di guerra, con tutto l’armamentario che porta con sé di richiamo ai valori patriottici, all’unità, al sacrificio e, grande classico, all’individuazione di eroi e di martiri. Ma un virus non può chiaramente essere il vero nemico nella dichiarazione di guerra di uno Stato. Un virus è un virus, ovvero, insieme a tutti i microrganismi, è quanto di più diffuso e di intimo, ma allo stesso tempo di intangibile, ci si possa immaginare nella nostra coabitazione con tutte le altre specie su questo pianeta. Non è materia di Stato. Lo Stato si occupa della gestione delle città e de* cittadin*. E se il nemico non è un altro Stato o un’entità politica rivale, ma un’entità biologica che si annida nei corpi, ben si può intuire chi allora sia il vero nemico non detto: la cittadinanza, le persone, i corpi stessi. Tutt* diventiamo i/le sospettat* in questa guerra a un nemico che non c’è. Ma la retorica da guerra messa in campo è piuttosto un’ottima via per lo Stato per cercare un compattamento dei ranghi, deresponsabilizzarsi e inculcare nelle persone il ruolo che si aspetta da ogni buon* cittadin*: non di capire ma di concentrarsi sui comandi pervenuti, di spiare e diventare delatori gli/le un* contro gli/le altr*, quegli “altri” che con il semplice non rispettare gli ordini porrebbero in pericolo le vite di tutt*.

Tendenza abbastanza comune in tutti i paesi in cui c’è stato un boom di contagi è la risposta statale, fatta di confinamento, sorveglianza e repressione, con varie sfumature. Non solo militari e polizia a pattugliare le strade, droni ed elicotteri a scovare qualche pericoloso assembramento o una qualche grigliata dall’alto dei cieli, ma anche strumenti prêt-à-porter grazie alla pervasività che stiamo accettando/subendo delle tecnologie informatiche nel nostro quotidiano. Ispirandosi alle scelte dei governi dei paesi orientali (Cina, Corea del Sud, Singapore,..) piano piano anche nella maggior parte dei paesi occidentali si sta facendo largo l’idea di introdurre un controllo più stringente sugli spostamenti delle persone attraverso l’uso degli smartphone.

In questa logica non è un caso che molte compagnie informatiche che sviluppano software ad uso militare e d’intelligence hanno saputo presentare, in questo periodo, a molti paesi soluzioni tecnologiche: aziende come la Palantir Technologies (azienda specializzata nell’analisi di Big Data e che offre i suoi servizi al ministero della difesa statunitense oltre che a CIA, NSA e FBI), NSO Group (azienda che sviluppa e vende a governi di tutto il mondo sistemi di spionaggio e Trojan), o l’italiana CY4GATE (azienda romana che opera nella Cyber Electronic Warfare, Cyber Intelligence e Cyber Security) che avrebbe proposto al governo l’utilizzo, a titolo gratuito, (dopo il green e il pink washing, stiamo già vedendo svilupparsi una corsa frenetica a un “Covid-washing”) di una sua “piattaforma software capace di raccogliere, elaborare e aggregare dati di geolocalizzaizone provenienti da molteplici dispositivi mobili”. Così come in Italia, Germania e Austria diverse compagnie telefoniche hanno volontariamente passato i dati raccolti dalle varie celle mobili per permettere allo Stato di controllare l’osservanza del coprifuoco e fare analisi sui flussi di movimento all’interno delle città e delle regioni. Anche se in questi casi i dati forniti non sono individuali ma dati aggregati, ovvero medie statistiche, bene chiariscono l’immediatezza con cui è possibile trasformare le tecnologie di comunicazione in tecnologie per la profilatura di massa.

In generale, a livello europeo, ogni paese si sta muovendo in maniera autonoma, chi accettando offerte di gruppi privati, chi incaricando università di sviluppare applicazioni e chi temporeggia aspettando di vedere cosa fanno gli altri. La direzione complessiva, oltre ad applicazioni di “telemedicina”, ovvero di assistenza sanitaria tramite cellulare, sembra essere quella definita di “tracciamento dei contatti”: tramite l’aggancio dei cellulari alle celle telefoniche e ai punti WI-FI, piuttosto che la geolocalizzazione mediante GPS o ancora, l’utilizzo dello standard bluetooth per fare comunicare tra loro automaticamente i telefoni che si incontrano nel rispettivo raggio di propagazione di questo segnale (generalmente pochi metri) e sembra quest’ultimo caso quello prevalente. In questo modo i singoli cellulari si ricorderanno quali altri cellulari avranno incrociato nell’ultimo periodo e potranno trasmettere queste informazioni ad un centro dati.

Nel tentativo di dare un quadro comune alle iniziative dei singoli Stati, la Commissione Europea ha emanato delle direttive affinché le singole app sviluppate o adottate dai singoli Stati possano comunicare a loro volta tra loro a un livello europeo, permettendo quindi potenzialmente di arrivare ad un tracciamento continentale, e richiamando l’attenzione su alcuni requisiti quali la garanzia di una privacy e la volontarietà ad accettare l’installazione dell’app sul proprio apparecchio. Per realizzare questo ha promosso nel giro di pochissime settimane la creazione di standard informatici comuni in cui due principali scuole di pensiero si stanno contendendo la gara: PEPP-PT , basato su un’archiviazione dei dati centralizzati e promosso dall’Università di Fraunhofer (Germania), contro DP-3T, creato dai politecnici di Losanna e Zurigo (Svizzera) e basato su un’archiviazione decentralizzata. In questo scontro tra tech-nerds a fare la differenza sembra sarà la scelta fatta da Google e Apple di unire le forze e accettare un’interoperabilità delle app sui rispettivi diversi sistemi operativi (che insieme costituiscono il 99,29% dei sistemi operativi usati a livello mondiale) ponendo come condizione non negoziabile l’archiviazione decentralizzata. DP-3T sembra dunque in pole-position e uno dopo l’altro i vari Stati stanno andando in questa direzione.

In Italia, nonostante alcune regioni abbiano già autonomamente incentivato lo sviluppo di proprie applicazioni (come Lazio, Umbria e Lombardia), a livello nazionale il ministero dell’Innovazione, in collaborazione con quello della Salute e con l’Istituto Superiore di Sanità, ha proposto un concorso per selezionare una app che possa fornire sia soluzioni tecniche per la teleassistenza sanitaria, sia per patologie legate al Covid-19, sia per altre patologie, come anche “tecnologie e soluzioni per il tracciamento continuo, l’alerting e il controllo tempestivo del livello di esposizione al rischio delle persone e conseguentemente dell’evoluzione dell’epidemia sul territorio”. A questa “fast call” hanno risposto in due giorni 823 fra aziende, centri di ricerca e università e la scelta, come abbiamo potuto apprendere in questi giorni, è caduta sull’applicazione “Immuni”, sviluppata da un’azienda milanese con sede in Corso Como 15 e che risponde alle richieste del ministero attraverso una sorta di diario in cui la persona puo’ aggiornare il suo stato di salute e annotare eventuali sintomi (parte di telemedicina) e un sistema di tracciamento dei contatti decentralizzato1.

L’azienda in questione si chiama Bending Spoon ed è stata fondata nel 2013 da cinque giovani presi bene, moderni yuppies dell’era delle startups, ex-cervelli in fuga rientrati, con ricavi per 31,9 milioni di euro nel 2018 e premio “Best workplace in Italy” nella categoria delle imprese tra i 50 e i 149 dipendenti assegnatoli dalla organizzazione internazionale Great Place To Work nel 2019….che dire, un’azienda che non può che far commuovere giornalisti e politici dell’”eccellenza italiana”.

Bending Spoon negli ultimi tre anni ha scalato le vette come sviluppatrice di tutte quelle app che concorrono alla nostra alienazione quotidiana da smartphone: “30 Days Fitness”, “Berry Calorie Counter”, conciliatore del sonno “Sleep”, contapassi, modificatore per foto e video e ovviamente giochi basic per continuare a rintronarsi anche quando non si ha nulla da fare.

E, sostanzialmente, l’applicazione “Immuni” va esattamente in questa direzione, ovvero nel recidere sempre più la capacità di immaginarci un qualsiasi momento, attività o aspetto delle nostre vite senza il supporto di un’applicazione digitale “che ci aiuti e ci stimoli”. Dal canto loro gli sviluppatori sorridono e rassicurano i giornalisti che l’azienda non farà nessun tipo di profitto su questa applicazione, deresponsabilizzandosi a loro volta all’insegna del “facciamo solo quello che sappiamo fare, sviluppare applicazioni. Se saranno utili per combattere il Covid-19 ne saremo orgogliosi”.

L’affidarsi ad un’applicazione per smartphone nel prevenire futuri focolai di contagi è un modo al passo coi tempi per dire alle persone che non c’è bisogno di usare la testa quando c’è l’intelligenza artificiale che può decidere per noi, ed è perfettamente in linea con l’approccio da guerra attuato dal governo, ora in cerca di un sistema che gli permetta di avere un radar sul campo, capace di trasmettere in tempo reale i movimenti del nemico (le persone che contraggono l’influenza) e poter intervenire con dispositivi repressivi (quarantena “volontaria”) in cui la voce in capitolo della singola persona semplicemente sparisce.

Allo stesso tempo rientra incantevolmente bene anche nella direzione tanta agognata da governi e pubbliche amministrazioni di ogni paese di rendere i/le propr* cittadin* trasparenti ai loro occhi, collezionando dati e statistiche sempre più accurate e precise, anche oltre al dato aggregato, abbindolando le persone con la favola del “più comodo, più efficiente, più sicuro”. In questo senso, la richiesta esplicita di un governo alla propria popolazione di installare sui propri dispositivi telefonici un’applicazione per il tracciamento è in qualche modo un salto di qualità nella realizzazione dei rispettivi piani nazionali di industria 4.0 e smartificazione urbana.

Una direzione, quella della gestione smart delle città così come dei posti di lavoro, che si basa – e può realizzarsi solo – attraverso la raccolta e l’elaborazione di quanti più dati possibili, e per ottenere questo è necessario una massa critica sufficiente di smartphone e di altri sensori, connessi ad una rete ad alta velocità (la centralità del 5G!) e delle specifiche applicazioni capaci di trasformare i dati grezzi in analisi che guidino le decisioni. Ma, sopprattutto, che la gente smetta di avere timori o remore sulla privacy e decida di usarle, dimodoché possano davvero essere efficaci. Servono dunque argomenti convincenti – e la salute solitamente lo è – perché l’attuale ecosistema digitale è già perfettamente compatibile con un controllo esteso della popolazione, in quanto è stato plasmato dalle stesse aziende che sfruttano tali forme di controllo a fini di profitto, e i governi semplicemente scalpitano per avere la loro fetta di Big Data.

Chi semmai sembra non essere tecnologicamente ancora pronto è lo Stato italiano, con la sua mastodontica e flemmatica pubblica amministrazione e il suo evidente ritardo digitale, così come anche l’argomento privacy è ancora un forte deterrente per molte persone. Questa applicazione potrebbe pure facilmente rivelarsi un flop totale che velocemente passerà nel dimenticatoio della storia, e tanto meglio! Allo stesso tempo, però, rimane il fatto che abbiamo raggiunto il momento in cui governi “democratici”, e l’Unione Europea stessa, mettono apertamente sul piatto la possibilità di un contact tracing digitale di massa, e se non sarà questa l’occasione per riuscirci davvero, lo sarà la prossima emergenza. Perché una volta implementata una tecnologia difficilmente si cancella.

Il punto che sento sarebbe importante si riuscisse a cogliere non è tanto la questione della “privacy lesa”, come sembra sia invece ciò che più accende i toni della critica, soprattutto nel momento in cui tantissim* di noi hanno già volontariamente abdicato accettando l’uso di WhatsApp, Facebook, Instagram e quante altre applicazioni abbiamo sui nostri telefoni Android o iOS. Piuttosto come il “corona virus” – la nuova scusa per l’eterna emergienzialità – ci ha messo di fronte al poter tastare con mano il significato più denso e intrinseco di Stato e di potere, quindi, la volatilità dei cosiddetti diritti acquisiti assunti come inalienabili. Da un giorno all’altro un intero paese si è ritrovato semplicemente confinato ai domiciliari senza spazio alcuno per esprimere una contrarietà (l’importanza del non precludersi l’agire illegale!) e con unicamente la fede nel progresso tecnologico e scientifico come sola speranza presentata per riacquisire la odiosa “normalità”.

La tecnologia, una volta di più, appare come strumento tutto tranne che neutrale ma, anzi, come uno strumento storico – dalle macchine a vapore alla costruzione delle vie ferrate – che concorre al rafforzamento del potere costituito.

In atto è una tecnologizzazione della questione sociale, in questo caso specificamente sanitaria, che rivela tutta la sua incompatibilità con la tensione di coloro che immaginano un mondo diametralmente diverso, lontano dallo sfruttamento e dall’oppressione capitalista che si aggiorna e si riafferma nel paradigma tecno-scientifico. Ovvero cogliere piuttosto come, per il potere, lo sviluppo tecnologico abbia assunto un ruolo centrale attraverso il quale tramutare la questione sociale in una questione meramente tecnica. La povertà, per fare un esempio, non è più una questione che ha che fare con la proprietà privata, il neocolonialismo e le discriminazioni, ma con una gestione “intelligente” delle risorse e con una regolamentazione maggiormente inclusiva. O, similmente, la devastazione ambientale non porta più con sé una critica agli Stati, alle multinazionali e, più precisamente, al capitale, al progresso e agli interessi che dietro vi si celano e hanno determinato il saccheggio e la distruzione degli ecosistemi, ma ad un banale piano di soluzione tecnica “ecosostenibile” da ricercare, che nulla davvero risolve e che unicamente e ulteriormente radica un’idea di pianeta e di biosfera da spremere, solo con maggiori attenzioni. E, nello specifico di questa emergenza sanitaria, come una dichiarata pandemia non ha relazione con la perversa condizione di accalcamento urbano globale, piuttosto che la segregazione sistematica di persone anziane in strutture fondamentalmente di confinamento – le case per anziani – come risultato delle esigenze produttive imposte, ma bensì dal non disporre ancora di una profilazione di massa per tenere la situazione sistematicamente sotto controllo, oppure di non avere ancora una produzione di vaccini realmente on demand, per contenere le inevitabili nuove crisi che ci aspettano.

Nell’attuale ristrutturazione del sistema capitalista e statale esperti, colossi informatici, software, hardware ed algoritmi assumono un ruolo immenso in quanto agenti di potere. Lo sviluppo tecnologico, ancora una volta, assume quindi la funzione di ottimizzazione e stabilizzazione dei rapporti di dominio, e i piani nazionali di industria 4.0 e smartificazione urbana e delle nostre vite vanno esattamente in questa direzione, attraverso l’implementazione di un’intima digitalizzazione del nostro quotidiano.

Toglierci per un attimo dalla testa l’ossessione civica della privacy lesa e rimettere piuttosto il focus nel SENSO che la realtà in cui ci troviamo a vivere sta assumendo. Se sono percorsi di autodeterminazione quelli che vogliamo costruire, lo Stato, la neutralità della tecnologia e lo sviluppo tecno-scientifico sono i capisaldi da dinamitare.

b.

1 ovvero i dati rimangono sul cellulare invece che essere inviati automaticamente ad un server centrale, cosa questa cambiata in un secondo momento probabilmente considerata la summenzionata decisione di Google e Apple.

Spagna – Ribellione, repressione e lotta collettiva nella sezione di isolamento del carcere di Villena

Ribellione, repressione e lotta collettiva nella sezione di isolamento del carcere di Villena (Alicante, Spagna)

Fin dall’inizio dello “stato di emergenza”, i detenuti rinchiusi nel reparto di primo grado (NdT: regime d’isolamento) del carcere di Villena si sono autolesionati, tagliandosi con delle lamette – uno, per esempio, si è sfregiato tutto il corpo, le braccia e il viso – ed hanno ingoiato lame ed altri oggetti, come batterie, accendini e pezzi di metallo. Hanno dato fuoco ai materassi, distruggendo le celle, spaccando vetri e tutto ciò che potesse essere rotto. Molti sono stati brutalmente picchiati e sono stati sottoposti a “contenimento meccanico” e almeno due sono stati portati via in trasferimenti speciali. Sembra che la tensione sia aumentata a causa della mancanza di comunicazione con l’esterno e poiché quasi nessuno ha i soldi per telefonare ai propri parenti. Circa dodici compagni presenti nella sezione erano disposti a partecipare allo sciopero della fame collettivo iniziato il 1° maggio, ma sono stati trasferiti, alcuni in altre carceri e altri in diverse sezioni del carcere di Villena, e sono stati sottoposti a continui controlli e pressioni. Il compagno Peque si è autolesionato, ed è stato portato in ospedale per aver ingoiato oggetti, inoltre è stato minacciato dai funzionari. È stato messo in isolamento in una sezione del carcere assieme ad un compagno rumeno di nome Cristian, e sono stati privati di tutti gli oggetti personali. Cristian è finito in isolamento per aver affrontato più volte le guardie carcerarie — che gli hanno spaccato la testa, lo hanno picchiato brutalmente quindici contro uno, e lo hanno legato al letto per ore — . Abbiamo ricevuto diverse lettere lo stesso giorno, la maggior parte delle quali molto in ritardo, in cui Peque ci informa riguardo alla sua partecipazione allo sciopero della fame collettivo e ci racconta la situazione nell’isolamento di Villena. Riportiamo qui la lettera più recente. Al termine abbiamo inserito un frammento di una lettera di Alfonso Martí Aracil, dove parla della sua partecipazione allo sciopero della fame. Tutti e due i compagni hanno inviato delle comunicazioni ufficiali in cui fanno presente la loro posizione alle autorità carcerarie.

Sezione di isolamento del carcere di Villena, 30 aprile 2020.

Ciao, compagni! Sono Peque e vi dò le ultime notizie da questo bunker di Villena dove sono sequestrato secondo l’articolo 91.3 RP1, prima fase del regime più restrittivo per i detenuti catalogati come estremamente pericolosi e applicato al regime FIES con l’intervento di ogni tipo di comunicazione.

I mezzi di disinformazione non menzionano gli episodi che si verificano nelle prigioni e nelle sue sezioni di isolamento (carceri dentro le carceri) e i detenuti che si lamentano vengono presi come capri espiatori, isolati e sottoposti al trattamento di primo grado. In quest’isolamento, nell’ultimo mese, diverse celle sono state bruciate, quattro detenuti hanno rotto i vetri e le strutture delle finestre. Gli stessi quattro compagni hanno ingoiato accendini, batterie, molle e altri oggetti come conseguenza dell’isolamento stesso e poiché non avevano i soldi per chiamare i propri cari. Noi, un altro compagno in lotta ed io, abbiamo già inviato la comunicazione e inizieremo domani, 1° maggio, lo sciopero della fame, io fino al 14 maggio, e il compagno i giorni 1, 3, 5, 7, 9, 11, 13 e 15, cioè otto giorni senza mangiare. Abbiamo inviato le lettere al garante di nessuno2 e al Ministro dell’Interno Grande-Marlaska informandolo di quanto sta accadendo nelle carceri. A seguito di queste lettere ci hanno aumentato il numero di telefonate da 8 a 13: pura facciata, chi può fare 13 o 15 telefonate a settimana, al costo di due euro e mezzo a chiamata? Sarebbero 40 euro a settimana o 160 euro al mese. Abbiamo, quelli che possiamo permettercelo, giusto il necessario per comprarci il tè e il tabacco, e molti nemmeno quello, non abbiamo i soldi mensili per le chiamate. I primi due mesi ci hanno dato una carta telefonica da 10 euro, quanto basta per fare quattro chiamate al mese, ma, siccome sono stati messi a disposizione dei telefoni di merda, ci hanno permesso alla fine di fare solo una videochiamata settimanale – registrata, se hai le comunicazioni sotto controllo – di 10 minuti, nemmeno 40 minuti, che è ciò che corrisponderebbe ad una normale comunicazione settimanale attraverso le finestre.

Hanno vietato i trasferimenti, ma i due compagni che una settimana fa hanno cercato di evadere da Fontcalent sono stati portati attraverso un viaggio speciale, già in primo grado di trattamento. In questa fottuta prigione ci sono solo due sezioni di dieci celle per il primo grado, otto per la seconda fase e due per la prima, più la terza sezione per la “zona di progressione”, dove nessuno si lamenta di nulla, e la quarta sezione con sei celle, una per la contenzione meccanica e altre cinque per i detenuti che hanno appena fatto casino e stanno aspettando che inizino le procedure per farli uscire da questa prigione. Quasi nessuno dei detenuti aveva un televisore, quindi il modo per farli stare tutti zitti è stato darne uno nuovo (con la sua scatola) a ciascuno di loro. Il 1° maggio, stavamo per iniziare lo sciopero della fame collettivo di 15 giorni, con la partecipazione di circa una dozzina di compagni, ma qualcuno ha fatto uscire l’informazione e li hanno portati tutti ad altre sezioni o fuori. Diversi detenuti hanno preso i miei scritti come modello e li stanno inviando per 15 giorni consecutivi al garante di nessuno2 e al ministro dell’Interno.

Intanto, nelle sezioni di secondo grado, da quanto mi è stato detto, i funzionari continuano con gli affari della droga, in modo che i ragazzi non abbiano crisi di astinenza. Molti detenuti non si preoccupano di nient’altro, tranne che della droga, non si preoccupano di vedere i loro cari. Mi vergogno persino di dover raccontare la realtà di quelle che chiamano prigioni e presto “centri di riabilitazione”. Altri, per non alienarci o seguire il gregge, passiamo anni e anni rinchiusi 21 ore al giorno in cella, perdendo la salute, in una guerra continua per non farci togliere la nostra dignità, perché, come ho detto oggi al direttore: “ci avete già tolto, e continuate a farlo giorno dopo giorno, la vita. Ci rimane solo la nostra dignità”. Il giorno in cui finiranno di ucciderci, quel giorno, finalmente, saremo liberi.

Voglio ricordare una persona, una compagna di Madrid, che ha appena compiuto un atto, lei sa quale, per il quale le sono estremamente grato, e anche per avermi scritto a Picassent. Compagna, ti ho scritto a Madrid, ma mi hanno restituito la lettera… tu ne conosci le ragioni. Salute e grazie, compagna. Voglio anche ringraziare tutti i gruppi di supporto che con le vostre lettere e i vostri movimenti rendete visibili i nostri atti e ci fatte sentire un po’ vivi. Senza tutti voi, le nostre lotte non avrebbero quasi nessuna luce o significato. Voi fate si che, dalla solitudine e il buio, possiamo vedere un po’ di luce alla fine del tunnel. Forse voi pensate di poter fare di più, ma anch’io penso lo stesso di noi: “potremmo fare di più”. Sarebbe però ingiusto chiedere ai compagni di fare lo stesso che farei io, perché ognuno ha i suoi limiti e non tutti abbiamo le stesse condanne.

Senza ulteriori dilunghi, compagni, vi saluto per oggi con un bacio fraterno e un grande abbraccio libertario da questo vostro compagno e, per alcuni di voi, un amico, un fratello, uno della famiglia.

José Ángel Martins Mendoza, del gruppo COLAPSO

Villena, 20 de abril de 2020

[…] Parteciperò al digiuno, il mio sarà un po’ più debole, per i problemi allo stomaco che ho ancora, a seguito di altri scioperi della fame, come sapete, quello a Puerto III e quello a Villena.

La ragione dello sciopero è tutto quello che sta succedendo qui: non possiamo vedere la famiglia e gli amici e, come sapete, veniamo torturati e i maltrattati.

Qui nella mia sezione una cella è già stata distrutta, le finestre ed altre cose sono state rotte ed il ragazzo è stato legato al letto e lo hanno bucato. Hanno anche bruciato una cella nella sezione di Peke e diverse persone hanno ingoiato batterie, ecc. per andare in ospedale.

Il mio digiuno sarà i giorni 1, 3, 5, 5, 7, 9, 11, 13 e 15 e vedremo se, essendo tanti di noi che lo facciamo, riusciremo a fare pressione su tutti e vincere di avere di nuovo le comunicazioni di nuovo e tutto il resto che c’è nell’elenco di richieste. […]

Alfonso Martí Aracil

1 NdT: “Reglamento Penitenciario”. Il regolamento specifico delle prigioni in Spagna.

2 NdT: Si riferisce al garante dei detenuti, che viene solitamente chiamato così dai detenuti in lotta.

 

Spagna: Ribellione, repressione e lotta collettiva nella sezione di isolamento del carcere di Villena

Bonafede e i PM antimafia per calpestare la vita di migliaia di persone detenute

Tratto da https://www.ondarossa.info/

A due mesi dalle rivolte nelle carceri italiane, mentre migliaia di persone detenute continuano a vivere in condizioni inaccettabili, cambiano i vertici del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), prendendo un piega autoritaria e sviando l’attenzione dai veri problemi della popolazione detenuta. Ne parliamo con un compagno in collegamento telefonico.

Bonafede e i PM antimafia per calpestare la vita di migliaia di persone detenute

Cronache dallo stato d’emergenza (Numero8)

Sulla china

È proprio lì che ci troviamo. Persino economisti tutt’altro che radicali cominciano a ipotizzare quattro vie d’uscita dalla situazione attuale: uno scivolamento verso la barbarie; il capitalismo di Stato; il socialismo di Stato; una diversa società basata sull’aiuto reciproco. Il quotidiano on line «Milano Finanza» titolava, il 6 maggio: Perché il sistema capitalistico è praticamente morto. La tesi – sbagliata, ma indicativa – sostenuta dal capo di un importante fondo di investimento è che un sistema in cui le imprese non possono realizzare profitti senza l’intervento dello Stato non è più un sistema capitalistico. Ma il pezzo forte era la conclusione: se certi cambiamenti non saranno diretti dall’alto, ben altri saranno imposti dal basso. Chi lo avrebbe detto, anche solo qualche mese fa? Il problema è che per il momento l’iniziativa è quasi interamente nelle mani degli Stati e dei tecnocrati, il che ci avvicina a una delle prime tre soluzioni e ci allontana dall’ultima, l’unica che può salvare allo stesso tempo la sopravvivenza dell’ecosistema e la libertà degli individui.

A conferma

Il 6 maggio, Vito Crimi, viceministro dell’Interno e capo politico dei 5 Stelle, propone di “consentire” (troppa grazia!) a chi percepisce reddito di cittadinanza o Naspi di andare a lavorare in agricoltura per sopperire alla carenza di manodopera straniera “senza perdere il diritto a quel reddito”. Come se niente fosse, il pentastellato (ma era stato preceduto in questo dal presidente PD dell’Emilia Romagna Bonaccini: «Chi prende il reddito di cittadinanza può andare a lavorare lì così restituisce un po’ di quello che prende») dice le cose come stanno. È ora di fare piazza pulita dell’arcaica idea ottocentesca che il padrone debba pagare, e che ad un certo lavoro corrisponda un relativo salario, determinato dai rapporti di forza tra padrone e lavoratori. D’ora in poi il lavoro sarà una concessione (una concessione obbligatoria, cioè un’imposizione), così come lo sarà il reddito (sempre più misero), che potrà essere tolto su decisione del governo – abbiamo avuto un assaggio, di questi tempi, di cosa possono fare con un semplice decreto – e soprattutto che non sarà in alcun modo commisurato al lavoro svolto, né potrà essere oggetto di contrattazione e conflitto. 600 euro al mese per lavorare 12 ore sotto il sole ti sembrano pochi? Perdi il sussidio. Vorresti contrattare una paga adeguata? Avanti il prossimo. Vorresti un contratto con paga oraria, straordinari, malattia, ferie, permessi, giorno libero, contributi, possibilità di scioperare? Crimi e Bonaccini non ne parlano, altri politici nemmeno, probabilmente per loro è roba da museo. Una svolta non da poco per affrontare la “crisi che verrà” (o che è già qui?): i percettori di sussidi sarebbero una riserva di manodopera letteralmente a costo zero per i padroni, e senza alcun costo aggiuntivo per lo Stato, visto che si tratta di fondi (ma sarebbe meglio dire briciole) già stanziati e la cui erogazione è già prevista dalla legge. Una proposta simmetrica al rifiuto di regolarizzare i lavoratori immigrati senza documenti, una manodopera a costi ridottissimi per le aziende, a costo zero per lo Stato. Un motivo in più per lottare insieme, italiani e stranieri, contro un nuovo schiavismo, che non ha nulla di emergenziale: visti i profitti che garantiscono, non c’è alcun dubbio che queste condizioni, una volta imposte, diventeranno permanenti e sempre più estese.

Coscientemente, o per forza

Il nodo del degrado delle condizioni di vita e di lavoro e quello di una società sempre più artificiale stanno venendo al pettine contemporaneamente. Ben difficilmente riusciremo a fermare questa economia della sciagura, senza creare degli spazi collettivi in cui organizzarci contro la crescente miseria e in cui formulare, allo stesso tempo, un giudizio complessivo su un sistema apertamente in guerra con il Pianeta e tutti i suoi abitanti. La resistenza contro l’introduzione del 5G sarà probabilmente una di queste occasioni. Un altro terreno di incontro potrebbe diventare quello relativo alla salute. Perché possa trovare sostegno nel resto della popolazione per le proprie battaglie, il personale sanitario critico dovrà cominciare a esprimersi non solo contro tagli e privatizzazioni, ma anche contro le cause strutturali (inquinamento e adulterazione del cibo, ad esempio) che assicurano sempre più pazienti all’industria per cui lavora. È proprio un simile giudizio che manca – in quel settore come in tutti gli altri –, schiacciato sotto il peso della sopravvivenza. Solo degli spazi di comunicazione diretta e delle lotte comuni possono allentare quel peso. D’altronde, se non avverrà attraverso il blocco cosciente di una produzione sempre più demente, sarà «sotto il giogo di disastri ecologici ripetuti che gli uomini dovranno imparare a separarsi da un mondo di illusioni».

Linee di principio

In attesa – o in sostituzione – dell’applicazione per il tracciamento dei contatti, l’Istituto Italiano di Tecnologia (il cui direttore Roberto Cingolani fa parte della task force istituita dal governo per programmare il “ritorno alla normalità” dopo la quarantena) ha già elaborato e messo in commercio un braccialetto digitale che suona se non si rispetta la “distanza di sicurezza” e che incamera i dati sui contatti con eventuali contagiati. Il governatore della Liguria vuole renderlo obbligatorio a partire da quest’autunno. Intanto, il ministero dell’Istruzione progetta di mantenere la “didattica on line” anche per settembre (metà degli studenti “in presenza”, metà collegati a internet). «Non ci sono mai ostacoli per coloro che non hanno princìpi», è stato scritto di recente. E quali sono questi princìpi? Che idea di libertà, di “natura umana” e di relazioni sociali contrapporre alla macchinizzazione di noi stessi e del mondo? L’affermazione di certi valori è forse la necessità etica e pratica più imperiosa di questa fase storica. Attorno agli insegnanti recalcitranti, ai genitori che si rifiuteranno di mandare i figli a scuola, agli studenti che non forniranno l’“email istituzionale” necessaria per la “didattica a distanza”, è fondamentale che si crei una rete di appoggio, di riflessione e di resistenza. Probabilmente gli elementi di rifiuto sono più diffusi di quanto non si creda, benché dispersi e timorosi.

Un inizio

Una prima discussione su tutti questi temi è avvenuta domenica 10 maggio al terreno no tav di Acquaviva e Resistente. Per diverse ore, una cinquantina di persone provenienti da varie località del Trentino si sono raccontate come hanno vissuto questi due mesi di confinamento, abbozzando, in vista di altri incontri, idee e proposte per far sì che non si torni alla normalità.

Versione pdf: Cronache8

Cronache dallo stato d’emergenza (Numero8)

La Nave dei Folli – Episodio 6

Episodio 6

Hiroshima e Aushwitz – la conquista dell’energia atomica e delle sue potenzialità distruttrici e la possibilità di trasformare in genocidio il programma progressista dell’eugenismo – sono solamente due tra le molte ferite che nel dopoguerra stanno lacerando le carni e gli spiriti di così tante persone nel mondo, anche quelle non coinvolte.

La funzione della cibernetica, pensata come farmaco, è anestetica e cicatrizzante. Con false o quantomeno ipocrite rassicurazioni umanistiche il suo compito è indirizzare il grande pubblico e gli addetti ai lavori verso un’accettazione entusiasta e acritica delle sue scoperte e innovazioni. Considerandosi un Secondo Rinascimento, vuole riunire tutte le discipline separate al fine di migliorare l’Uomo, sotto l’occhio vigile e il governo bonario della macchina pensante, il calcolatore.

Intanto l’esercito statunitense, in seguito al primo esperimento nucleare russo del ’49, avvia il progetto SAGE, un sistema di radar collegati ai computer che scruta lo spazio aereo per organizzare e attivare la risposta automatica. È il primo sistema non umano adoperato per analizzare le informazioni e orientare le decisioni in tempo reale, embrione del pianeta intelligente che IBM e i suoi alleati stanno impiantando al posto del pianeta vivente.

Riferimenti Episodio 6

• Neil Young, Guitar Solo n° 4 (dal film Dead Man di Jim Jarmush, 1996)
• Lina Wertmüller, Io speriamo che me la cavo (1992)
• Yann Tiersen, La Valse D’Amelie, Comptine D’Un Autre Ete – L’Apres Midi, La Noyee, Le Moulin, Soir De Fete (Le Fabuleux Destin D’Amelie Poulain Soundtrack, 2001)
• Hayao Miyazaki, Conan, il ragazzo del futuro (episodio 23, La Torre Del Sole. Vers. Ita. 1981)
• Michel Houellebecq, intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 5/5/2020
• Parpaing, Valse au Parquet Raballand (Poule d’oeuf, 2009)
• Amestoy Trio, Espina (Le fil, 2003)
• La nuova chiesa universale (Survivre… et vivre n° 9, 1971)
• Tony Allen, Progress (1977)
• Wally Pfister, Transcendence (2014)
• Utopia ou pas?, L’un et le multiple (2002)

 

la nave dei folli

La bell’arte del sabotaggio

Tra gli idioti della rete che vedono il capitalismo e lo Stato unicamente sotto forma di grandi figure mediatiche o di oscuri interessi che governerebbero il mondo, e gli sciocchi felici del movimento rrrivoluzionario incapaci di comprendere che una relazione sociale s’incarna anche negli uomini e nelle strutture del dominio all’angolo della strada, stiamo assistendo a una vera e propria gara a chi la spara più grossa. Alcuni s’inventano dei cattivoni capri espiatori, distanti e caricaturali il più possibile, mentre altri fanno acquisire coscienza dei bisogni primari o documentano i minimi recessi intricati della miseria e dell’oppressione del momento.
Non sorprende quindi che molti di loro non sappiano offrire altro che un imbarazzato silenzio di fronte alla moltiplicazione di attacchi che stanno colpendo alcune strutture del potere, soprattutto di telecomunicazione, in pieno confinamento. Gli uni perché questi attacchi colpiscono necessariamente accanto al club di burattinai che esiste solo nella loro testa, gli altri perché non distruggono collettivamente delle astrazioni. Dato che gli autori di questi attacchi sono spesso abbastanza furbi da non lasciare alcuna indicazione a nessuno, ciò diventa subito il colmo dell’incomprensione per ogni griglia di lettura troppo limitante. Come, individui che si permettono di sabotare le strutture dello Stato e del capitale fuori da un movimento sociale e per ragioni proprie, senza rendere conto a nessuno né trasmettere altri segnali al di là di mucchi di cavi bruciati o tagliati! Come, individui che osano pensare ed agire da soli in ogni angolo del territorio senza rispettare il confinamento del potere né spandere il loro morboso pathos davanti all’orrore del mondo? Sarebbe dunque questo l’autismo degli insorti, l’assenza di rivendicazioni rivolte a chicchessia (allo Stato come al movimento), ma le cui azioni parlano direttamente a tutti coloro che vi si riconoscono, le condividono e possono riprodurle a proprio piacimento? Come si fa ad inserirle nelle nostre piccole caselle, trattandosi di azioni individuali, anonime e diffuse, perfino coordinate, e avendo di fronte lo Stato che ci martella col suo ritornello contro-insurrezionale («cospirazionisti», «ultra-sinistra», ecc…)? È meglio fare i pappagalli poliziotteschi alla «chi è?» o gli struzzi innocentisti alla «guardate altrove»? Rifarsi alle griglie interpretative del potere o riflettere da sé difendendo ciascuno a proprio modo gli atti che ci ispirano?
Ad esempio, traendo la constatazione che il dominio ha più che mai bisogno di cavi in fibra ottica o di antenne-ripetitori per spingere una digitalizzazione applicata a tutti i campi dell’economia e della vita sociale. Non solo in materia di controllo e di sorveglianza (dai droni ai tablet Neo, dal coordinamento di polizia alle telecamere, dai processi in videoconferenza al tracciamento dei potenziali appestati), ma anche per accelerare il telelavoro, la scuola a distanza, la tele-medicina o da un po’ di tempo la circolazione di denaro e di affari. Per non parlare degli aspetti più miserabili della derealizzazione tecnologica in termini di relazioni o di passatempi virtuali, o tutto ciò che questo periodo di ristrutturazione ci assicura ancora come piacere. In questa prigione sociale a cielo aperto, diventa ogni giorno sempre più evidente che il «deconfinamento» è solo un’estensione del «confinamento» accompagnato da condizioni differenziate, così come la nuova normalità non è che un’intensificazione di quella precedente.
Ciò lascerà magari allibito qualche imbrattacarte di prefettura o di redazione, ma tagliare o incendiare cavi di ogni tipo attraverso cui transitano energia e dati, che per di più hanno il vantaggio di trovarsi un po’ dappertutto, ci sembra non solo una proposta di fatto all’altezza della posta in gioco, ma anche un mezzo sicuro di disturbo di questa mortifera normalità. Di quella prima del confinamento (la proliferazione di questo genere di attacchi risale almeno al periodo del movimento dei gilet gialli), come di quella che si profila oggi. E far tacere le poche voci sovversive che difendono apertamente la bell’arte di sabotare gli ingranaggi del dominio, in particolare le sue infrastrutture critiche, non cambierà la situazione: queste azioni diffuse e varie sono ormai promesse di un bell’avvenire distruttivo in questo migliore dei mondi tecnologizzati. Un mondo di autorità in cui la miseria e l’avvelenamento del pianeta nel nome del denaro ci ricordano costantemente che il capitalismo è un sistema mortifero e che lo Stato è un nemico.
[trad. da demesure]

U.S.A. – Dalle galere per migranti

[Georgia] Proteste nel centro di detenzione
9 e il 20 aprile
I detenuti immigrati hanno protestato contro la mancanza di precauzioni in materia di coronavirus – e le guardie carcerarie private di tipo SWAT li hanno spruzzati con il pepe.
Molti stavano male. La tensione cresceva all’interno di Stewart, una delle più grandi carceri per l’immigrazione del Paese, con una capienza di quasi 2.000 detenuti maschi.
I solidali affermano che gli incidenti fanno parte di due problemi più grandi che si verificano contemporaneamente: la minaccia del coronavirus per i detenuti in alloggi angusti e la frequente violenza delle azioni disciplinari nelle strutture di detenzione per immigrati.
(..)
Lo Stewart Detention Center è un carcere per immigrati continuamente sotto esame per i presunti maltrattamenti subiti dai reclusi.
(….)
“La gente chiedeva assistenza medica per alcuni dei malati lì dentro”, ha detto Daniel. “Ma siccome loro” – il personale – “non hanno prestato attenzione, hanno iniziato a protestare. Hanno messo lenzuola alle finestre e alle porte”.
Daniel ha detto che il personale penitenziario ha rilasciato il gas, gettando i detenuti a terra e portandoli in manette in isolamento, o come lo chiamava lui, “il buco”.
Durante un periodo di due settimane in mezzo alla pandemia di Covid-19, gli ufficiali del SORT a Stewart hanno usato la forza sui detenuti immigrati due volte, il 9 aprile e di nuovo il 20 aprile.
(…)
Stewart si trova nel sud-ovest della Georgia, in una zona rurale con un’economia depressa e uno dei punti caldi dello stato per il coronavirus. Per alcuni residenti della zona, Stewart è un’ancora di salvezza. Diventare una guardia è un lavoro fisso in una regione dove la disoccupazione era alta anche prima della crisi del coronavirus. 
Né le guardie di Stewart né i detenuti sono stati risparmiati dal coronavirus. Il primo membro del personale CoreCivic di Stewart è risultato positivo al Covid-19 il 31 marzo; in un mese, il numero di personale CoreCivic infetto è salito a 44, secondo una recente denuncia in tribunale. L’ICE dice che ci sono 12 detenuti di Stewart che attualmente hanno confermato di avere il Covid-19.
Nel mese di aprile, ci sono state cinque chiamate di emergenza al 911 dalla struttura. Sebbene non sia confermato se le chiamate fossero correlate al coronavirus, quattro di queste chiamate erano per problemi respiratori, un sintomo comune di Covid-19.
Con il progressivo aumento dei casi e circa 1.900 persone rinchiuse a Stewart, le tensioni nella struttura avevano cominciato a crescere, ha detto Pedro Ramirez-Briceño, che è stato rilasciato all’inizio di aprile. (…)
Dopo aver sentito che il coronavirus si è diffuso in altre strutture di detenzione per immigrati, lui e altri detenuti hanno partecipato a uno sciopero della fame e del lavoro all’inizio di marzo, chiedendo condizioni migliori e maggiori risorse per prevenire la diffusione del virus. Ma l’azione dello sciopero è svanita nel tempo, ha detto Ramirez-Briceño.
Ci sono circa 30.000 persone attualmente in custodia dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement – Immigrazione e controllo doganale) negli Stati Uniti e, dall’inizio della pandemia, anche i detenuti di altre strutture dell’ICE hanno denunciato l’uso della forza in risposta alle proteste per il coronavirus. Al 4 maggio, l’agenzia dice che 606 detenuti hanno confermato casi di Covid-19 negli Stati Uniti. I test nelle strutture sono stati scarsi e l’ICE non rilascia numeri in tempo reale, quindi il numero potrebbe essere molto più alto. 
Lo Stewart ha un passato abominevole di pratiche di isolamento: Due uomini “con malattie mentali” si sono suicidati nell’arco di 14 mesi nel 2017 e nel 2018.
Con la pandemia in atto, i familiari e gli avvocati hanno avuto difficoltà a contattare le persone in isolamento. 
La struttura funziona normalmente con il lavoro dei detenuti, ma con le unità in quarantena, il personale penitenziario è stato incaricato di preparare i pasti. Secondo Argueta, questo ha fatto sì che i detenuti fossero nutriti con pochissimo cibo in orari irregolari, scatenando la protesta del 20 aprile. I detenuti si sono rifiutati di mangiare il cibo fornito e hanno chiesto provviste migliori. Mentre la protesta continuava, gli ufficiali del SORT hanno risposto con spray al pepe e armi al pepe.
Più tardi quella sera, l’ufficiale SORT Tyriq Key ha scherzato sui social media dicendo che i detenuti erano così affamati che “mangiavano quello spray”.
Sempre dai profili social delle guardie si evince che quando la protesta per il cibo si è intensificata, i detenuti hanno iniziato a lanciare acqua del bagno e cibo alle guardie. Mentre gli agenti cercavano di porre fine alla protesta, uno è scivolato sull’acqua ed è caduto. Lo sbirro  ha poi detto che si è alzato e “è andato a sparare a qualsiasi cosa fosse sulla sua strada” con il fucile a palle di pepe – poi ha fatto il riferimento a “Call of Duty”.
Una recente denuncia presentata dal tribunale nella causa del Southern Poverty Law Center dice che un uomo in sedia a rotelle ha continuato a urinare sangue 10 giorni i pestaggi di quei giorni.
COSA SONO LE SQUADRE SORT:
Gli agenti del SORT alla Stewart sono il personale correzionale CoreCivic, che poi si cambiano in uniformi nere con spessi indumenti protettivi. Le loro uniformi tipo SWAT includono spray al pepe e pistole a pallini al pepe che penzolano dalle loro cinture. I video promozionali, prodotti quando il CoreCivic era ancora conosciuto con il suo precedente nome, Corrections Corporation of America, o CCA, mostrano ufficiali SORT addestrati all’uso di grandi scudi e manganelli.
“Il CoreCivic gestisce le sue strutture di detenzione per l’immigrazione proprio come gestisce le sue prigioni; non c’è davvero alcuna differenza. E molte carceri hanno squadre tattiche, squadre di tipo SWAT all’interno delle loro strutture”, ha detto Dolovich, il professore di diritto dell’UCLA. “In ogni prigione, quando si percepisce un’emergenza che richiede un intervento rapido, c’è un certo numero di funzionari penitenziari addestrati a partecipare a queste squadre SWAT”.
Secondo un manuale del CCA del 2008, questi tipi di unità sono stati creati dopo i disordini nelle prigioni dell’Attica del 1971, “sul modello delle squadre SWAT della polizia e delle unità di commando militari, come le Forze Speciali dei Berretti Verdi dell’Esercito e le Seal Teams della Marina”.
Prima della pandemia, l’unità SORT di Stewart era stata attivata nel 2019. L’11 settembre 2019, un gruppo di circa 60 richiedenti asilo cubani ha organizzato una protesta pacifica nel cortile di Stewart, rifiutandosi di entrare nella struttura fino a quando non hanno ricevuto notizie dall’ICE sulle loro richieste di libertà vigilata.
Alla protesta ha partecipato Reinier Rodriguez Bombino. Ha detto 
“Erano vestiti di nero, con giubbotti, ginocchiere, caschi, armi, con tutto – come se fossero preparati a tutto”, ha detto Rodriguez, “anche se eravamo sempre chiari – sempre chiari – che tutto era tranquillo e non avremmo fatto resistenza”.
Gli ufficiali del SORT hanno iniziato a lanciare gas lacrimogeni e hanno sparato proiettili di gomma o palle di pepe contro i richiedenti asilo. Rodriguez ha detto di essere stato colpito da un proiettile nella parte posteriore della coscia. Giorni dopo la protesta, è stato messo in isolamento, poi trasferito in un’altra struttura in Georgia.
 
[California] Sciopero della fame nel centro di detenzione per migranti Otay Mesa, San Diego
Decine di migranti reclusx nel centro di detenzione privato Otay Mesa, nei pressi della città di San Diego, hanno iniziato uno sciopero della fame a metà aprile a causa della crescente preoccupazione per la propria sicurezza durante la pandemia. Otay Mesa registra il più grande focolaio di virus di qualsiasi carcere per migranti negli Stati Uniti. La settimana precedente era giunta voce che le guardie avessero usato spray al peperoncino su un gruppo di donne di una delle unità del centro per essersi negate a firmare un documento con una clausola per esentare CoreCivic, la compagnia privata che amministra il centro di detenzione, dalle conseguenze legali nel caso in cui le recluse si fossero ammalate. Le recluse dovevano firmare per ricevere le mascherine. Questo è uscito da una chiamata tra un attivista del gruppo Pueblos Sin Fronteras e una donna reclusa a Otay Mesa, detenuta in questa unità.
Donna: “Ci stanno spruzzando spray al peperoncino! non ci rispettano. Siamo umane, non animali. Aiuto! Vogliono obbligarci a firmare per darci le marcherine. Ci vogliono far pagare per le magliette con cui abbiamo fatto le mascherine”.
 Il 7 maggio Carlos detenuto affetto da covid 19 trasferito in ospedale è morto.
 Lo stesso giorno la maggiorparte delle donne in sciopero della fame hanno ottenuto la liberta. Tutte tranndue due donne onduregne a cui viene negato il rilascio.
Il 9 maggio un presidio sotto le mura del centro ricorda Carlos e chiede la libertà di tuttx.
 
[California] Sciopero della fame nel centro di detenzione per migranti Adelanto S. Diego
Il centro rinchide 1300 persone di cui la maggior parte sono richiedenti asilo. Recentemente molti dei reclusi si sono uniti allo sciopero della fame.Per alcuni lo sciopero è comiciato il 23 di Aprile. Le dichiarazioni raccolte degli scioperanti parlano della crudele scelta della compagnia Geo che gestisce quel centro di non distribuire ne alle guardiie ne ai detenuti guanti e mascherine o gel antibattericoe la politica di non rispettare le distanze di sicurezza neppure nelle file per il cibo. Le richieste sono: che vengano adottate le misure minime contro la propagazione del contagio e che vengano fatte uscire le persone in crisi e con patologie pregresse.Oltre alla possibilità di essere visitati da un medico (cosa procedurale per gli scioperi della fame), che gli è stata negato. 
Raccontano che un prigioniero con la febbre è  sparito, e che tutto il reparto è stato posto in quarantena senza spiegazioni.
Le persone in sciopero della fame sono state minacciate dai responsabili di Geo di essere denunciate; sono state forzate a firmare un documento che mente sul giorno di inizio dello sciopero. Difronte alla loro resistenza si è presentato un ufficiale del ICE che ha tento di intimidirli dicendo che nessuno sarebbe stato fatto uscire e che si sarebbe ricorsi all’alimentazione forzata. Questo a sommarsi al bulling degli ufficiali del centro.
Vari degli scioperanti sono affetti da patologie pregresse.
 
[Illinois] Centro per minori migranti Chicago
1’maggio
Decine di persone hanno realizzato un protesta davanti e sul tetto di un carcere per migranti minori a Chicago per esigere la liberazione dex detenutx. Le installazioni, di proprietà del Heartland Alliance, ospitano circa 70 minori separati dai loro genitori nella frontiera tra Stati Uniti e Messico. Nei giorni precedenti era uscita la notizia che circa 37 dei minori li reclusi erano risultati positivi al virus e sono uscite delle immagini che mostrano dei ragazzi li dentro esponendo dalle finestre dei cartelli con scritto “AIUTO”.
secondo altre fonti
l 1 ° maggio un gruppo di vicini oltraggiati, abolizionisti e altri furfanti si sono riuniti per prendere d’assalto le porte e occupare un centro di detenzione per bambini gestito da Heartland Alliance nel quartiere di Rogers Park a Chicago. Il carcere minorile è attualmente in fase di ristrutturazione ed è temporaneamente non occupato. 
 
[Massachusetts] Protesta nel Bristol County Jail
01.05.2020
Una protesta ha procurato più di 25,000$ di danni secondo le guardie.
Tre dei detenuti del  U.S. Immigration and Customs Enforcement nel Bristol County House of Correction sono stati trasferiti in ospedale per le botte delle guardie. In molti stavano resistendo ad un trasferimento fra aree che secondo i reclusi li avrebbe ulteriormente esposti al contagio, dato che nel centro ci sono già molti casi di positività al covid e varie persone che ne mostrano sintomi.