Una riflessione sul COVID dal Portogallo

Questo testo nasce da un’esigenza di comunicazione e discussione fra compagni. Nasce da un tentativo di combattere la distanza fisica e la mancanza di dibattiti faccia a faccia, cercando di mettere su carta alcuni argomenti di discussione e analisi, senza alcuna pretesa di verità assoluta. Si tratta di una sintesi di alcune discussioni avvenute all’interno di certi gruppi ristretti e che ci sembrano importanti da condividere con un collettivo più ampio di compagni.

Il processo innescato dalla comparsa del coronavirus ha lasciato il mondo e principalmente l’emisfero settentrionale letteralmente attaccato alle macchine. Attaccato alle macchine negli ospedali e attaccato alle macchine in casa. Persino lo stesso capitale ha trovato il suo modo di riproduzione e sostentamento anche attraverso le macchine. Quello che ci proponiamo con questo testo è il tentativo di aprire una discussione, partendo da un’analisi sintetica, e forse anche meccanicista, di come è stata prodotta e come viene gestita politicamente la ridefinizione della vita, attraverso l’introduzione di un agente perturbatore nel corpo sociale e le sue conseguenze, già evidenti nel quotidiano. Vorremmo discutere su come la dichiarazione di pandemia ha permesso di mettere in atto una serie di meccanismi di privazione della libertà e di condizionamento degli individui e quali strumenti abbiano consentito l’efficacia di questo programma politico. Pensiamo che sia nel passaggio dal momento biologico (l’apparizione di un virus) al momento della risposta politica data a questo fenomeno che verrà costruita un’intera architettura della paura. Paura che, se in passato, era stata basata sulla costruzione di un nemico esterno ma palpabile (il terrorista), oggi si basa su un nemico invisibile e imprevedibile che, grazie al suo carattere biologico, consente una gestione basata sulla prigionia dei corpi.

Senza voler qui analizzare l’esistenza o meno del virus e la sua pericolosità maggiore o minore (non siamo scienziati e non pensiamo che sia questo il fulcro della questione), ci sembra che sia estremamente necessario discutere gli effetti politici della risposta da parte dello Stato e della società e le sue conseguenze sia nell’immediato quotidiano sia nei cambiamenti che causerà nella percezione della vita e nel modo di abitare lo spazio sociale nel futuro. Proprio all’inizio della cosiddetta crisi covid-19, le autorità hanno iniziato ad applicare una dialettica bellicistica, e per dichiarare questa guerra sono stati sufficienti i discorsi allarmistici. Questa bellicosità del discorso ci sembra avere diverse funzioni, più o meno ovvie, oltre a quella di inculcare la paura nella società. In primo luogo, giustifica l’adozione di misure eccezionali che nelle cosiddette situazioni normali difficilmente sarebbero accettate. L’intera pratica del confinamento e della restrizione della vita si basa su questo eccezionale momento della guerra al virus. D’altra parte, la percezione che siamo in guerra porta al raccoglimento della società attorno allo Stato e ai governi, in quanto unici garanti della vita terrena e della protezione dell’individuo. E questo pare verificarsi anche quando i sistemi sanitari nazionali collassano, come è avvenuto in Italia o in Spagna. Nonostante la gestione catastrofica della situazione, lo Stato rimane l’unico fulcro attorno al quale la società gira.

Infine, la socializzazione del discorso bellicistico, collettivizzata nella frase “SIAMO in guerra contro il virus”, consente anche la trasformazione della percezione di colui che si ribella allo stato di emergenza, che non appare quindi come nemico dello Stato (per aver infranto le sue leggi) ma come nemico della società e potenziale agente infettivo. Da qui la creazione di un nuovo nemico interno, potenzialmente nemico della stessa vita.

Per quanto riguarda le misure di confinamento e il cosiddetto “obbligo morale di stare a casa”, sembra ovvio che ciò è possibile a livello massivo solo grazie a tutto l’apparato tecnologico che ci circonda. Internet e i gadget elettronici rendono la casa più sopportabile grazie alla loro funzione ludica e consentono all’individuo di rimanere in contatto con i propri cari e quindi di astrarsi in un certo modo dalla propria situazione di isolamento, ma, e qui ci sembra risiedere la loro funzione principale, questi gadget sono serviti principalmente per l’ampliamento esponenziale di un sentimento collettivo di panico. È attraverso i social network e internet che la politica della paura raggiunge il suo maggior sviluppo dopo essere stata diffusa dai media tradizionali. Tutti i discorsi di “restate a casa” e di “poliziamento” dell’altro trovano in questi dispositivi gli strumenti per eccellenza della propria propagazione, permettendo a un discorso prodotto dalle istituzioni di essere sentito come qualcosa proveniente dalla popolazione e di essere difeso con le unghie e con i denti da coloro che ne sono “colpiti”. La quarantena e il proclamato stato di emergenza provocano una doppia conseguenza: da un lato, l’isolamento attraverso la riduzione della vita dell’individuo al suo spazio più ristretto (la casa) e, dall’altro, una massiccia socializzazione del panico attraverso l’amplificazione della paura via mass media e social network. Ci sembra che il progetto di paura politica messo in circolazione dalle autorità si giochi di fatto in questi due movimenti. La vita reale basata sul confinamento dell’individuo e l’esperienza sociale gestita e vissuta attraverso gadget tecnologici conducono, allo stesso tempo, ad essere schizofrenici e paranoici. Crediamo che sia su questa dualismo che la vita si baserà nel prossimo futuro, anche dopo la fine “ipotetica” delle misure restrittive che ci vengono imposte. La trasformazione dello spazio pubblico come focus della malattia e la distruzione della vita quotidiana non si basa più sull’atomismo capitalista classico, ma su un nuovo modo di percepire l’altro e lo spazio come potenziali pericoli per la vita dell’individuo.

In questo momento non ci interessa molto entrare nella discussione sull’ipervigilanza tecnologica che seguirà la fine della crisi del Covid-19, perché ci sembra che questa sorveglianza e i mezzi per metterla in pratica già esistano. E ci sembra che queste discussioni si siano basate più sul pessimismo distopico piuttosto che sulla volontà di analizzare le cause e i meccanismi che vengono “iniettati” nel corpo sociale e che inducono gli stessi individui stessi a richiedere la suddetta vigilanza (o almeno ad essere compiacenti con essa). Sorveglianza e controllo ci sono da molto tempo e non è stato il virus a portarli. È ovvio che si assisterà ad un aumento della robotizzazione della vita e all’espansione dei meccanismi di sorveglianza, ma probabilmente questi fenomeni si sarebbero verificati con o senza una crisi pandemica, al massimo sono stati accelerati da essa. Ciò di cui vorremmo discutere è il modo in cui gli anarchici hanno percepito la crisi e le possibilità di azione all’interno della paralisi sociale che ci è toccato vivere. Ovviamente, il panico e la paura colpiscono anche noi, in un modo o nell’altro, alcuni più di altri, e forse era inevitabile che fosse diverso. Per quanto ci costi ammetterlo, gli anarchici non sono una categoria al di fuori della società e impermeabili a ciò che accade al di fuori dei nostri ambienti.

Sono momenti eccezionali come questo che meglio di altri mostrano i nostri fallimenti come movimento e la mancanza di meccanismi per contrastare le situazioni che ci vengono imposte. La prova sta nel fatto che, più o meno ovunque, le risposte della maggioranza dei diversi gruppi anarchici non si siano di molto discostate dalla beneficenza. Questa critica è valida sia per i gruppi che hanno istituito strutture per la raccolta e la distribuzione di cibo, il cui risultato altro non è che una sostituzione del ruolo benefico dello Stato, come per tutti gli altri gruppi, nei quali ci includiamo, che, per inerzia, non sono stati in grado di delineare e nemmeno discutere le strategie di azione per affrontare il confinamento. L’incapacità di combattere il discorso che è poi diventato dominante e di diffondere un’altra versione delle cose, un’altra visione del processo, ha rivelato ancora una volta la nostra mancanza di coordinamento, e come l’assenza di dibattito e pratiche continuative tra compagni in questi momenti diventino fallimenti che eventualmente pagheremo caro. Approfittiamo quindi di questa situazione eccezionale, che ci porti a ripensare le nostre pratiche e ci consenta di trovare forme più efficaci di comunicazione e azione politica in modo che quando il conto dei mesi di confinamento ci verrà presentato, gli anarchici possano dare una risposta, che indichi percorsi e pratiche diversi. Il garantire i nostri spazi che saranno di estrema importanza nel futuro prossimo, la creazione di reti di produzione e consumo che puntino a una maggiore indipendenza rispetto ai circuiti tradizionali di consumo e una produzione e azione collettiva che ci permettano di intravedere una scintilla di rivolta creando strutture politiche che consentano un attacco a un nuovo mondo che è già qui. Sono proposte che, a nostro avviso, dovrebbero già essere elaborate collettivamente e questo testo è un appello a metterci a lavoro. Perché in un mondo pandemico, l’unico virus possibile è l’insurrezione!

Alcuni anarchici di Oporto
20 aprile 2020

https://roundrobin.info/2020/05/una-riflessione-sul-covid-dal-portogallo/

Nessuna normalità

«Mai visto in vent’anni», ha dichiarato lo scorso mercoledì 6 maggio un alto dirigente di una delle principali compagnie telefoniche francesi. A cosa si riferiva? Al panico nazionale scatenato in questo periodo di pandemia, al profitto che la propria azienda ricaverà grazie al confinamento che da settimane costringe milioni di utenti a stare incollati ai dispositivi elettronici, al crollo del livello di inquinamento dell’aria dovuto alla quarantena…? No, si riferiva a tutt’altro: al sabotaggio avvenuto il giorno precedente nell’Île-de-France, la regione in cui si trova la capitale del paese con i suoi ministeri politici e le sue sedi centrali finanziarie ed economiche. Un sabotaggio definito «intenzionale e su larga scala», avvenuto per di più solo 48 ore dopo che un giornale parigino aveva lanciato il pubblico allarme sulla «ripresa dell’azione diretta» in tutto l’esagono contro le (infra)strutture del dominio.
La misura del confinamento, proclamata lo scorso 17 marzo dal governo francese per arginare la pandemia, non è infatti servita a fermare l’offensiva — di logoramento, si potrebbe dire — che da anni è in corso su tutto il territorio contro il potere. Da nord a sud, da est ad ovest, sono centinaia e centinaia gli attacchi avvenuti nel recente passato non solo contro caserme, banche ed imprese, ma anche e soprattutto contro i mezzi tecnici che permettono il normale funzionamento di questo mondo: tralicci, ripetitori, parchi eolici, antenne, centrali elettriche e centraline di ogni tipo… Azioni semplici, alla portata di tutti gli arrabbiati, realizzate con i mezzi più disparati, e proprio per questo tenute lontano dalla ribalta nazionale al fine di neutralizzarne il cattivo esempio, relegandole a fatti di irrilevante cronaca locale. Così, mentre chiunque udiva (tremante o festoso) il tonfo delle vetrine infrante che cadevano nei centri cittadini nel corso delle grandi manifestazioni periodiche, quasi nessuno sentiva crescere giorno dopo giorno la selva oscura della rivolta anonima. Snobbate dagli aspiranti strateghi di movimenti sociali bisognosi di consenso, le azioni dirette sono state sostenute ed amplificate solo da chi non fa investimenti sulla rabbia.
Ebbene, se l’emergenza sanitaria è riuscita a svuotare rondò e piazze di Francia dai contestatori in giallo che settimanalmente le affollavano, nulla ha potuto contro la determinazione e la fantasia dei singoli sabotatori — con enorme fastidio di funzionari di Stato e dirigenti di impresa (nonché di qualche teorico rrrivoluzionario). Secondo i dati ufficiali, nel mese di aprile è stato compiuto quasi un sabotaggio al giorno, il cui fruscio è paradossalmente rimbombato nel silenzio dei cori di protesta. Talmente fragoroso da attirare l’attenzione generale? La scorsa domenica, 3 maggio, il quotidiano Le Parisien ha dato risalto all’ondata di sabotaggi avvenuti un po’ dovunque, sul cui conto sarebbero in corso una decina di indagini giudiziarie. Mai rivendicati da nessuno, questi sabotaggi vengono «attribuiti all’ultrasinistra», qui intesa come sinonimo di mouvance sovversiva (laddove nell’ambito specifico che potrebbe riconoscersi in quella definizione c’è chi li rimanda invece a «eco-nichilisti» o a «nostalgici dello Stato Islamico», senza dimenticare che alcuni «“anarchici” possono essere, teoricamente e socialmente, più vicini a Julius Evola che a Errico Malatesta» [sic!]). I lettori del Parisien vengono inoltre informati dell’esistenza di un paio di siti anarchici che esultano nel riportare la notizia di queste azioni dirette, che per altro si stanno diffondendo anche altrove in Europa (vengono nominati Italia e Paesi Bassi).
Sarà il caso, sarà una coincidenza, sarà un’irresistibile ispirazione, fatto sta che due giorni dopo quel grido d’allarme l’epidemia di sabotaggio arriva alle porte di Parigi. Durante la giornata di martedì 5 maggio le fibre ottiche di alcuni gestori telefonici vengono tagliate in più punti della periferia a sud-est (a Valenton, Fontenay, Créteil, Ivry, Vitry), provocando un gigantesco black-out telematico sia nella Val-de-Marne sia in alcune zone della capitale stessa. All’inizio si sospetta che sia stato un solo individuo, armato di smerigliatrice, ad aver agito in un paio di tombini di una zona industriale. Ma poi, col passare delle ore e l’arrivo di ulteriori segnalazioni di guasti, si comincia a pensare che si sia trattato di un attacco coordinato e perfettamente organizzato, i cui danni pare ammontino ad un milione di euro. Chi si è introdotto nelle cabine sotterranee delle compagnie telefoniche non ha rubato nulla, si è limitato a tranciare di netto i cavi di fibra ottica colpendo così «la rete nevralgica della rete internet francese, dove si trovano anche nodi di comunicazione internazionale». Ci vorranno ancora parecchi giorni per ripristinare del tutto il servizio, con gran disagio per decine e decine di migliaia di utenti. Niente chiamate ad amici e parenti? Già, ma soprattutto niente scambi commerciali, niente telelavoro, niente segnalazioni ai gendarmi, niente commissariati connessi, niente videosorveglianza, niente alienazione tecnologica.
«Sabotaggi a ripetizione» tuoneranno il giorno dopo gli organi d’informazione transalpini, sorpresi della facilità con cui possano essere disturbati gli affari pubblici. E nel lanciarsi tutti dietro alla pista sovversiva anticipata dai loro colleghi del Parisien, ieri (giovedì 7 maggio) c’è stato persino chi ha tenuto a precisare che sono tre, non due, i siti anarchici che festeggiano i sabotaggi; oltre a quelli già indicati (Sans Attendre Demain e Attaque), ce n’è un altro di cui non si riporta il nome ma che ha il cattivo gusto di pubblicare la traduzione di un testo italiano (ampiamente citato nell’articolo in questione) che saluta il pensiero stupendo avuto da chi in piena pandemia continua ad attaccare, invece di iniziare a tremare. Evidentemente fra i professionisti della propaganda poliziesca c’è chi ambisce ad infittire la trama a dismisura, spingendosi al di là delle Alpi…
Ancora uno sforzo, sbirri e giornalisti, se volete fermare l’epidemia di sabotaggi! Indicare i pochi che sostengono ad alta voce queste azioni, per poi eventualmente metterli a tacere, potrà forse soddisfare la brama di facile rappresaglia, ma di certo non fermerà la rabbia che trova sempre più motivazioni per dilagare, in Francia come altrove. Se già nella notte fra il 5 e il 6 maggio un ripetitore è stato incendiato a Oriol-en-Royans, ad oltre 600 km a sud-est di Parigi, mentre la sera successiva la stessa sorte è toccata ad un ripetitore a Languenan, a 400 km ad ovest della capitale, non è certo per permettere a tre siti anarchici di aggiornare le loro pagine. Se antenne e impianti elettrici si infiammano ovunque nel mondo, dall’Italia (l’ultima volta il 29 aprile a Roma, o forse il 6 maggio a Pozzuoli, dove è esploso un trasformatore in una centrale elettrica) al Canada (nell’area di Montréal, l’ultima volta il 4 maggio), dai Paesi Bassi (una ventina i sabotaggi realizzati a partire dai primi di aprile, l’ultimo dei quali a L’Aja, il 4 maggio, contro una antenna usata da polizia ed esercito) agli Stati Uniti (l’ultima volta a Philadelphia, all’inizio di maggio), senza dimenticare la Gran Bretagna o la Germania, non è perché esista un complotto internazionale anarchico contro le compagnie energetiche e telefoniche, ma perché ovunque si sta diffondendo una medesima consapevolezza: la normalità è la catastrofe che produce tutte le catastrofi. Non si tratta di invocare il suo urgente ritorno o la sua educata revisione a chi sta in alto. Si tratta, per chi sta in basso, di ostacolarne il ritorno sia teoricamente che praticamente.
[8/5/20]

Pozzuoli – Parte della città in black out elettrico

Apprendiamo dai giornali che la notte tra il 6 e il 7 maggio un incendio si è sviluppato poco dopo la mezzanotte in una centrale elettrica di E-distribuzione (società del gruppo Enel)  in via Fascione a Pozzuoli.

E’ risultato difficile domare le fiamme che hanno avvolto l’intera struttura per diverse ore…

https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/20_maggio_07/pozzuoli-incendio-centrale-elettrica-paura-residenti-8f701ab0-905e-11ea-9f72-d97830869ab7.shtml

 

Tolosa (Francia) – Alcuni pneumatici fanno pssssiiiiiit

In questi ultimi giorni, a Tolosa, una leggera epidemia di pssssiiiiiit ha contaminato alcuni pneumatici.

Questo mondo ci disgusta. Era già orribile prima ed è evidente che peggiora. Le imprese e le istituzioni che lo fanno funzionare e ne traggono dei benefici sono ovunque. Ci sono talmente tante ragioni di attaccarle! Visto che mettono i propri nomi sui loro veicoli, per farsi della pubblicità, e dato che può essere un metodo discreto e non troppo complesso, abbiamo approfittato dell’occasione offertaci per mandare qualche piccola punzecchiatura appuntita (a diversi dei loro pneumatici, per complicarne l’assistenza). Un modo di partecipare alle diverse rabbie che scoppiano e che ci piacciono.

Queste macchine/furgoni appartengono
– allo Stato
– alla provincia
– a Vinci [una grande impresa francese specializzata nelle costruzioni, nei lavori pubblici e nei servizi collegati]
– alla SCS (un’impresa di videosorveglianza)
– a Enedis [filiale di Eléctricité de France che si occupa della distribuzione dell’elettricità]
– a EDF [il corrispettivo francese dell’Enel italiana]
– a un fornitore di gas
– a un’impresa che installa fibra ottica, a un’altra di telecomunicazioni
– a un’impresa di «Soluzioni smart per industriali»
– a un’ agenzia immobiliare

Per noi, i legami fra tutto questo sono abbastanza chiari da non necessitare spiegazioni, per questa volta ????

Morte allo Stato e al capitalismo (tanto «ecologico» quano «tecnologico»)!

https://insuscettibilediravvedimento.noblogs.org/post/2020/05/07/it-en-fr-tolosa-francia-alcuni-pneumatici-fanno-pssssiiiiiit-maggio-2020/

Tolosa (Francia) – Macronavirus, decontaminazione

Nella notte fra il 4 e il 5 maggio [2020], le vetrine della banca Crédit Agricol dell’avenue des Minimes sono state spaccate o riempite di colpi, mentre una scritta indicava: «macronavirus, crisi, STOP?».

A Tolosa, fioriscono da qualche settimana delle banderuole che denunciano il macronavirus, suscitando una repressione disinibita.

Eppure il macronavirus, ben reale, non è che una delle mutazioni di un ceppo virale ben più predatore, che si estende su tutto il pianeta: il capitalismo.

Questo approfitta della crisi sanitaria del nuovo coronavirus, delle misure liberticide del confinamento e della crisi economica che esso provoca, per operare una profonda ristrutturazione.

I miliardi di euro dati dallo Stato alle banche e alle grandi imprese ci condannano a sempre più sfruttamento, sempre più miseria e controllo, se possibile digitalizzato.

In Libano, le rivoltose non si sono sbagliate. Hanno chiaramente identificato le banche tra i responsabili della degradazione delle proprie condizioni d’esistenza, prendendole di mira ed incendiandole, danneggiandole, facendone vilipendio coi loro slogan.

È davvero il momento d’agire, sbarazziamoci di quello che infetta le nostre vite!

decontaminazione

https://insuscettibilediravvedimento.noblogs.org/post/2020/05/07/it-en-fr-tolosa-francia-macronavirus-decontaminazione-05-05-2020/

Dietro l’angolo pt.5 – Il mondo inabitabile

Le epidemie convivono da sempre con la storia dell’umanità, sono legate indissolubilmente alle attività umane e sono apparse più volte come sintomo dei profondi cambiamenti sociali della specie umana.

Se dovessimo individuare in questo fenomeno una certa sintomatologia del nostro presente, che in qualche modo segna la discontinuità e la continuità con il nostro passato prossimo, e con un incerto futuro, potrebbe essere quella dell’impossibilità di un altrove.

Ciò che accadeva più frequentemente durante le epidemie storiche era la fuga repentina, di chi se lo poteva permettere, dai focolai di contagio. In questo caso, invece, la diffusione globale dell’infezione si è prodotta in un tempo brevissimo, al punto che anche gli Stati che ostentavano sicumera, e si pensavano in qualche modo al riparo, si sono dovuti nella quasi interezza sottomettere alle necessità proprie di una malattia che intasa gli ospedali, si appiccica ai luoghi chiusi ed affollati e di cui si conosce ancora troppo poco.

Al netto delle caratteristiche proprie di un virus piuttosto che di un altro, la velocità e l’ubiquità della diffusione è sicuramente un segno dei nostri tempi. Una velocità figlia delle infrastrutture dei trasporti mondiali, della gestione centripeta dei servizi, della concentrazione urbana, dell’industria turistica e della colonizzazione delle campagne.

Continuità e discontinuità, dicevamo, certamente gli aspetti sopra descritti del capitalismo attuale erano tra quelli più studiati e analizzati e, d’altra parte, l’aria soffocante di un mondo ultraconnesso, in cui il concetto di responsabilità diventava troppo vago – a causa dell’impossibilità di prevedere l’esito delle proprie azioni in questa catena inconoscibile di relazioni – s’era già fatta stantia in parecchie parti del mondo.

Insomma era un po’ sulla bocca di tutti l’idea che in questa interconnessione frenetica di relazioni prima o poi si sarebbe prodotto un patatrac.

All’inizio di questo processo, che in molti chiamano globalizzazione, vi era un preciso pensiero della classe dominante da loro definito come esternalizzazione, un mantra che pare oramai antico, l’idea cioè di scaricare altrove i costi sociali, sanitari e ambientali della produzione e degli imperativi produttivi del capitalismo avanzato.

Esternalizzazione che per molto tempo ha funzionato proprio come una forma di distanziamento sociale rispetto alle conseguenze del progresso tecnologico e industriale, un progresso che via via impoveriva di risorse i luoghi in cui si insediava, costringeva gli abitanti a migrare e rendeva man mano l’ambiente inabitabile.

La convinzione ultima dei dominanti su questo aspetto era, e per certi aspetti è, quella che non sarebbero mai stati loro a pagarne il prezzo.

L’irreversibilità di parecchi processi, dalla produzione nucleare al cambiamento climatico, stavano già facendo arrivare alcuni nodi al pettine.

Esternalizzare non basta più, il mondo pervaso, oramai, dal modello capitalista di sviluppo porta ovunque le sue nocività.

II

Per quel poco che si conosce di questo virus, una delle descrizioni che abbiamo trovato più pertinenti è quella rilasciata da 13 medici dell’ospedale Papa giovanni XXIII di Bergamo, il Covid-19 è :“L’Ebola dei ricchi”(…)“richiede uno sforzo coordinato e transnazionale. Non è particolarmente letale, ma è molto contagioso. Più la società è medicalizzata e centralizzata, più si diffonde il virus. La catastrofe che sta travolgendo la ricca Lombardia potrebbe verificarsi ovunque”

Già da tempo parecchi ecologisti e nemici del progresso ci avevano avvisato che l’urbanizzazione estrema, l’estrazione predatoria delle risorse e la produttività ad ogni costo stavano compromettendo fortemente le capacità riproduttive di determinati ambienti e popolazioni, una compromissione che spesso si autoalimentava generando processi a catena.

Era almeno da un decennio che in Cina la minaccia di una pandemia era percepito come un problema verosimile: ciò in virtù del repentino cambio di vita di milioni di persone, dell’intensificarsi a dismisura dell’allevamento intensivo e della mancanza di spazi intermedi tra la profonda campagna e la città che rendono sempre più fragili le barriere immunitarie tra la popolazione umana e l’ambiente in cui vivono.

I capitalisti già sapevano di dover fare i conti con questi problemi in un futuro non troppo remoto, e probabilmente pensavano di poter circoscriverne i danni.

Ma l’intelligenza biologica di ogni nuova forma di vita, compresi i virus, cerca costantemente la via più veloce e sicura per riprodursi.

La geografia della diffusione ha così seguito le vie principali degli scambi mondiali e nazionali andando a insediarsi nei poli produttivi più fortemente legati alla complessa catena di messa a valore planetaria.

L’”Ebola dei ricchi”, definizione calzante di una consapevolezza che si è imposta gradualmente nei principali Stati come minaccia alla riproduzione dei rapporti capitalistici.

E’ questo sicuramente un altro aspetto, se non proprio inedito, almeno degno di nota.

Il blocco della vita sociale e di parte delle attività produttive è stata una decisione presa certamente a malincuore dai governanti, i cui costi e le cui conseguenze sono ancora tutti da quantificare, una decisione che, per quanto abbiano cercato di posticipare, si è resa indifferibile davanti alla possibilità che il sistema sanitario collassasse, scalfendo inoltre quel poco di fiducia che i governati hanno ancora nelle istituzioni.

Da un po’ di tempo a questa parte, la vita delle popolazioni urbane stava iniziando a subire limitazioni; le mascherine in molti centri urbani asiatici erano già un armamentario necessario per uscire di casa a causa dello smog; l’anno scorso, per esempio, Nuova Delhi ha subito un lockdown del traffico aereo e di quello automobilistico, le autorità invitavano la popolazione a non uscire di casa perché l’aria era velenosa.

Il produttivismo capitalista dava segni di cedimento ben prima di questa epidemia e oramai non solo gli ecologisti sapevano che il livello dei ritmi di produzione e di scambi avevano raggiunto il limite rischiando di far collassare il sistema.

Un problema sicuramente pieno di sfaccettature e complesso quello di un sistema giunto ad un livello di saturazione tale che necessita, per sopravvivere, di essere bloccato.

In prima battuta si può affermare che un problema sistemico non sia per forza un problema avvertito da tutti gli attori, per esempio a riguardo delle emissioni di gas serra, la precaria soluzione è quella di una competizione molto feroce tra gli stati e le grandi multinazionali sulle quote di emissione.

Da questa piccola considerazione si possono intravedere alcuni scenari per il nostro presente pandemico rispetto a improbabili parametri comuni sui futuri blocchi della produzione e alla corsa forsennata per accaparrarsi soluzioni mediche all’avanguardia per competere nei mercati internazionali.La salvaguardia della salute della popolazione produttiva pare ora diventare un parametro necessario alla conservazione del proprio ruolo all’interno del sistema, cessando di essere solo un’istanza di magnati illuminati e green.

A scanso di equivoci, non si vuole qui affermare che si andrà imponendo una versione paternalistica del capitalismo attuale, dove i padroni si prodigheranno a far crescere il benessere nella popolazione oppure che gli Stati riformeranno su parametri universalistici i sistemi sanitari nazionali. Piuttosto si vuole rimarcare l’idea che la salute e l’ambiente necessariamente diventeranno centrali nel decidere le sorti della concorrenza intercapitalistica e, quindi, si imporranno come parole d’ordine a cui a tutti verrà ordinato di sottostare.

III

Se la velocità e l’ubiquità sono ciò che hanno reso questo fenomeno una brutta gatta da pelare per gli Stati, d’altra parte ciò che affligge soprattutto gli sfruttati che occupano il mondo è il suo carattere di massa. Milioni di persone hanno esperito, e stanno facendo esperienza, di cosa significhi vivere in un ambiente antropico ostile alla vita umana, un tipo di esperienza che fino a poco tempo fa era circoscritta ad ambiti di realtà gravemente compromessi.

La possibilità di questa esperienza comune potrebbe dare una materialità a tutta una serie di discorsi prima citati.

Una materialità che è prima di tutto biologica ma che potrebbe sostanziarsi in un atteggiamento di classe.

Non c’è nessun automatismo che lo garantisca, come gli esempi che ci arrivano dai tanti luoghi contaminati di questo mondo ci insegnano. Di certo per molti sfruttati l’obiettivo di riempirsi la pancia oggi potrebbe rendere un po’ più dolce la consapevolezza di produrre la propria morte dopodomani. Ma davanti a un’esperienza di massa potrebbero saltare tutti quegli escamotage individuali per indorarsi la pillola: e l’imporsi dell’idea che non c’è una via d’uscita.

Perchè, in fin dei conti, l’esposizione al rischio sta già svelando l’arcano del cosiddetto distanziamento sociale che non è altro che una rimodulazione della separazione tra le classi.

Se ne sono accorti bene i detenuti di tutto il mondo e i lavoratori costretti a continuare produrre, se ne accorgeranno a breve anche tutti gli altri che saranno costretti a tornare a lavorare e quelli che dovranno affrontare le conseguenze della nuova normalità.

E se la situazione non muta in poco tempo, i ricchi troveranno sicuramente un modo per allontanarsi dalle conseguenze del mondo nocivo su cui basano i loro privilegi.

E’ necessario comprendere come a livello ideologico sia veramente pericoloso l’imporsi di discorsi dall’impronta biologista sull’esposizione e l’allocazione del rischio infettivo. Quei discorsi che tracciano delle linee su parametri biologici, come l’età, per dare o togliere libertà o restrizioni, oppure tutti quelli che lamentano l’eccessivo sovraffollamento o la carenza di norme igieniche come un dato naturale.

Questi discorsi ci spogliano di qualsiasi capacità etica di fronte al problema, poiché riconoscono come sacrificabili alcuni individui. In questo modo tracciano delle separazioni tra coloro che potrebbero almeno desiderare, se non provare, a rovesciare questa società.

Inoltre, in questo modo, scompare la sola e gracile idea emancipatrice di questa malattia: il fatto che l’essere umano riconosca di condividere il medesimo ambiente e che se qualcuno potrà permettersi di salvarsi, per tutti gli altri, ogni giorno di più, anche quando l’epidemia sarà finita, non resterà che respirare la medesima aria.

Anche in questo caso si tratta di intravedere un ambito di intervento, un possibile orizzonte comune e non certo di una formula magica. Difatti potrebbero essere numerosissimi gli esempi di come questa situazione produca anche processi opposti di isolamento, diffidenza reciproca oppure di come in molti permanga l’illusione che questi sacrifici servano a riottenere una vita nuovamente all’altezza dei propri standard di comfort e consumi.

D’altra parte, però, non si tratta di una semplice alternativa tra libertà e paura quanto piuttosto tra libertà di esporsi o meno a un rischio e trovarsi costretti a doverlo fare per sopravvivere.

Non crediamo che svilire le altrui fobie serva a molto in questa situazione quanto piuttosto sarebbe più utile smontare la percezione del rischio che ci viene propinata, totalmente schiacciata sulle responsabilità individuali e sulla paura del corpo dell’altro. Anche perché i tempi che verranno, ci insegneranno che ci sono cose più terribili di cui avere paura.

IV

La versione ufficiale di come affrontare queste problematiche è farcita da una buona dose d’ottimismo.

Un ottimismo di certo propagandato, ma anche condiviso in buona fede da una ampia parte degli sfruttati.

Pare ci sia ancora tempo, tempo per convertire la produzione, per mitigare le conseguenze dell’inquinamento, per trovare cure a chi ne è vittima.

E insomma, proprio perché c’è tempo, l’innovazione tecnologica spinta nella giusta direzione risolverà i problemi mantenendo gli adeguati livelli di produzione, consumo e profitto.

Del resto anche ora in questa pandemia ci somministrano le stesse ricette: attraverso la quarantena cercano di guadagnare il tempo necessario a sviluppare le tecnologie adeguate, non certo per mettere in sicurezza la popolazione, ma per far ripartire il sistema.

Nel grande palcoscenico attuale le posizioni sul cambiamento climatico e sulla pandemia sono quasi simmetriche: da una parte ci sono i negazionisti – ultimamente un po’ in difficoltà poiché si trovano ad affrontare, nello stesso tempo, il crollo del prezzo del petrolio e a dover, a malincuore, bloccare la produzione industriale a causa dell’emergenza sanitaria – dall’altra i cosiddetti sostenitori del Green New Deal che a tutt’oggi sbandierano la possibilità alquanto fantasiosa secondo cui il salvataggio del pianeta e dell’umanità potrebbero convivere benissimo con la ripresa economica capitalista.

Sono effettivamente questi ultimi che da anni cercano di convincerci dell’alto valore dei buoni comportamenti individuali, spacciandoci l’apertura di nuove fette di mercato (dalle borracce, alle auto elettriche passando per le mascherine e il tracciamento dei contatti), come l’unica soluzione a dei problemi sistemici che loro stessi hanno generato.

Il problema non è soltanto quello del recupero delle istanze radicali.

Da scalfire, davanti a questa pandemia, è la speranza che il peggio possa essere posticipato, perché è una speranza che ci toglie il tempo di agire.

Non si daranno soluzioni morbide davanti alle emergenze e, come si vede bene di questi tempi, non c’è, davanti alla paura di morire, nessuna rimostranza che tenga.

La cosiddetta transizione ecologica non sarà di certo un passaggio felice e si manifesterà sempre più come un passaggio necessario alla conservazione stessa dell’apparato produttivo.

Da una parte c’è la portentosa capacità di convincimento di misure che vengono adottate per la sopravvivenza, aventi quindi carattere di necessità, che investono gli Stati di un enorme potere materiale e simbolico – di cui questa crisi sanitaria ci ha dato un buon esempio -; dall’altra ci sono le istanze degli ultimi su cui verranno sempre di più scaricate le conseguenze di questo mondo marcio, ultimi che si troveranno sempre di più a scegliere tra la mera sopravvivenza dettata da un ambiente antropico ostile e le condizioni possibili per vivere una vita che valga la pena di essere vissuta.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Dietro l’angolo pt.5 – Il mondo inabitabile

Salonicco (Grecia) – Rivendicazione di un attacco incendiario dell’Unione Costantemente Fluida

Nota: traduzione dall’inglese (fonte: https://plagueandfire.noblogs.org/thessaloniki-greece-responsibility-claim-for-incendiary-attacks-by-constantly-fluid-union/); originale disponibile qui: https://athens.indymedia.org/post/1604738/

Dichiariamo responsabilmente di essere irresponsabili

Ci aggiriamo insubordinati

Non rimanderemo la lotta

Dunque, giochiamo

La notte cala sulle metropoli.

Con la la congiuntura della quarantena si è creata una nuova routine ed essendo trascorso un bel po’ di tempo, i ruoli si sono consolidati

Una routine sottoposta a controllo che, al tempo stesso, controlla noi.

I cittadini sono segregati nelle proprie case, accendono la TV per il programma della sera; c’è da chiedersi se la spengano mai durante la giornata. Alcuni di questi, rievocando i giorni gloriosi della “libertà”, assumono una posizione di battaglia sul proprio balcone; sono i protettori dell’iniziativa [ndt della quarantena], coloro che controllano chi si muove e chi sta fermo. Non si limitano ad osservare, bensì alimentano la propria sete di controllo e ispezione poliziesca dei propri vicinati. Spie, cittadini responsabili, bravi custodi, sostenitori della giunta militare, maschi alfa; emettono un odore disgustoso che si propaga per tutta la città, che è svuotata delle persone e piena di sbirri.

E ovviamente, l’esperienza dello sbirro una volta ancora ha un ruolo di primo piano. Sparsi nelle strade, vagando come figure imponenti, dominano i quartieri, fermano e controllano orgogliosamente le persone. Qualche volta non hanno neppure bisogno di fermarle tutte perché traggono piacere anche solo dagli sguardi e dai movimenti carichi d’ansia dei passanti.

La quotidianità imposta dal confinamento che viviamo da più di un mese, ha generato in noi sentimenti inediti. Cose che fino ad ora abbiamo considerato come distopiche (segnalazioni degli spostamenti, controllo militaresco del campo sociale, sbirri nelle strade, droni) sono ora semplice realtà ed altre (come manifestazioni, attacchinaggi, assemblee) vengono criminalizzate.

Il nostro odio per l’autorità e per il complesso di potere in cui sopravviviamo non si è interrotto. Abbiamo bisogno di inventare nuove pratiche, sia per riconquistare ciò che era scontato prima della quarantena, sia per continuare ad aprire ferite e crepe nell’esistente. Noi ci proviamo, restando vicini l’uno all’altra, senza lasciarci sopraffare dalla paura, da qualsiasi punto provenga. Troviamo obiettivi da attaccare, così da non morire di tedio o davanti a uno schermo, e al tempo stesso per strappare sorrisi complici e clandestini ai nostri compagni.

E quando finirà tutto questo?

Probabilmente quando lo diranno coloro che dettano le leggi.

E quando crollerà tutto questo?

Quando qualcuno sceglierà di avere con sé qualcosa di infiammabile durante una passeggiata non motivata da necessità inderogabili.

Un fuoco può disturbare le regole, disturbare coloro che le hanno stabilite, perché apparentemente, qualche individuo non ha intenzione di obbedire né di sottomettersi. E forse questo fuoco è l’elemento guaritore che può essere riversato per le vie della città-fantasma e negli occhi spenti e quasi senza vita delle persone che la compongono.

Venerdì 10 aprile abbiamo dato fuoco a due veicoli di ELTA [servizio postale greco], in via Papanatasiou, di fronte all’ospedale Ippocrate.

Mercoledì 15 aprile abbiamo piazzato un dispositivo incendiario in un veicolo di un’azienda che si occupa di sicurezza nella zona di Sikies.

Mandiamo un segnale di solidarietà a tutti coloro che, anche se incarcerati o direttamente afflitti dallo stato di eccezione, continuano nonostante tutto a mantenere una posizione combattiva e onesta.
I nostri saluti incendiari vanno a tutti i migranti che si sono ribellati dentro i centri di detenzione, a tutti i prigionieri rinchiusi nei buchi infernali della Grecia, a chi ha subito trasferimenti vendicativi o ispezioni nelle proprie celle dalla feccia della polizia greca.

Col piacere e la felicità che ci traboccano dagli occhi, dichiariamo che nessuna azione resterà senza risposta, torneremo armati di una rabbia sempre maggiore, saremo sempre più infuriati e pericolosi.

Da Corinto a Malandrino, Tebe, Domokos, da Paranesti a Corfù, Chania e Grevena: FUOCO E FIAMME AD OGNI CELLA/GABBIA.

RABBIA E CONSAPEVOLEZZA, NEGAZIONE E VIOLENZA, DIFFONDIAMO CAOS E ANARCHIA

Unione Costantemente Fluida

Roma – A fuoco antenna Wind

Riceviamo e diffondiamo:

NELLA NOTTE DEL 29 APRILE SONO STATI INCENDIATI I CAVI DI UN’ANTENNA WIND NEI PRESSI DELLA STAZIONE TIBURTINA A ROMA

SOLIDARIETA’ CON X PRIGIONIERX IN LOTTA
VICINANZA AL PRIGIONIERO ANARCHICO DAVIDE DELOGU IN SCIOPERO DELLA FAME

CONTRO LO STATO E LE SUE MISURE
CONTRO LE TECNOLOGIE DEL CONTROLLO
AGIRE E’ SEMPRE POSSIBILE