Grecia – Trasferimento di Pola Roupa nel carcere di Eleonas a Tebe e aggiornamento sulla situazione nelle carceri greche

Pola Roupa è stata trasferita perché ha partecipato, dal carcere di Korydallos (ad Atene), a una mobilitazione contro il sovraffollamento nelle carceri e per l’adozione di misure contro la diffusione dell’epidemia nelle carceri in Grecia. Esiste la possibilità che anche Nikos Maziotis possa essere trasferito nel carcere di alta sicurezza di Domokos, dove è già stato recluso in passato. Infatti venne trasferito a Korydallos nel 2015 per poter essere presente alle numerose udienze dei processi contro Lotta Rivoluzionaria (Επαναστατικού Αγώνα, “Epanastatikòs Agonas”), udienze che si sono susseguite per cinque anni. La sua detenzione a Korydallos si concluderà con la fine del quarto processo contro Lotta Rivoluzionaria. Il verdetto di questo processo (relativo ad alcune rapine in banca che sono state attribuite al gruppo) sarà emesso il 28 aprile 2020, sempre se non verrà rinviato a causa dell’epidemia in corso. Quando la sentenza sarà pronunciata, Nikos sarà probabilmente trasferito a Domokos. Presumibilmente potrebbe tornare nel carcere ateniese nel 2021, in occasione della corte d’appello del quinto processo contro Lotta Rivoluzionaria (riguardante il tentativo di evasione in elicottero da Korydallos, organizzato nel 2015 da Pola Roupa in clandestinità, e altre due rapine in banca). Dopo la sentenza di aprile, i 155 anni di condanne accumulate da Nikos saranno fusi in 20 anni secondo le disposizioni del nuovo codice penale greco.

Gli indirizzi sono i seguenti:

Pola Roupa (Πόλα Ρούπα)
Dikastiki Fylaki Eleonas – Gynaikeies Fylakes
T. K. 32200, Thebes, Greece

Nikos Maziotis
Dikastiki Fylaki Korydallou – Eidiki Pteryga
T. K. 18110, Korydallos, Athens, Greece

Seguono due brevi testi di Pola Roupa e Nikos Maziotis sul traferimento e sulla mobilitazione in corso nelle carceri.

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Messaggio di Pola Roupa:

23 marzo 2020

Venerdì 20 marzo, poco dopo la chiusura del carcere, membri delle forze speciali della polizia hanno fatto irruzione nella mia sezione per condurmi fuori da Korydallos. Il ministero aveva impartito un ordine per il mio trasferimento in modo da bloccare la mobilitazione nel carcere femminile di Korydallos, al fine di ridurre le sezioni dove lo stesso giorno si erano iniziate a tenere aperte le porte delle celle a mezzogiorno. È la prima volta che un simile ordine viene dato per spezzare una mobilitazione, e ciò mostra l’estremo autoritarismo del governo, la percezione che quest’ultimo ha dei detenuti e come intende affrontare la minaccia di un virus letale. Hanno portato con me un prigioniero di 65 anni, detenuto per problemi finanziari, disabile al 67%, che è in attesa di scarcerazione. Il suo trasferimento è stato una decisione di vendetta da parte del servizio penitenziario. Nel carcere di Eleonas, a Tebe, siamo tenuti in quarantena per il coronavirus, e vi resteremo per diversi giorni.

Con i nostri testi e la nostra mobilitazione, le detenute nelle sezioni femminili di Korydallos hanno voluto lanciare un avvertimento per evitare una propagazione devastante e mortale del virus nelle carceri del paese. Il loro decongestionamento generalizzato è l’unica soluzione per salvare vite umane. Tuttavia, il governo ritiene meno importante occuparsi della vita dei detenuti, rispetto al salvare il proprio prestigio e non minare la disciplina nelle carceri del paese. La sua «sincera» preoccupazione per la vita degli abitanti di questo paese si manifesta anche nel rifiuto di prendere sotto tutela gli ospedali privati, dimostrando così che non voler entrare in conflitto con il grandi imprese nel mezzo della maggiore crisi sociale e umanitaria in atto. Il governo non smette di decimare medici e infermieri negli ospedali pubblici infettati dal coronavirus, costretti a battersi privi di fondi, personale, forniture. In tutto il paese le prigioniere e i prigionieri sono in balia dell’indifferenza criminale. Il mio brutale trasferimento dall’inizio della mobilitazione conferma che la strategia dell’ordine pubblico ha la precedenza sulla sicurezza sociale e sulla stessa vita umana.

Pola Roupa, membro di Lotta Rivoluzionaria

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Messaggio di Nikos Maziotis:

21 marzo 2020

Questa mattina le forze speciali della polizia sono entrate nel carcere femminile di Korydallos e hanno prelevato Pola Roupa per trasferirla nel carcere femminile di Eleonas, a Tebe. Ovviamente, questo trasferimento avviene a seguito della mobilitazione e della richiesta di ridurre le pene detentive a causa del rischio di diffusione del coronavirus nelle carceri. Ieri le detenute hanno iniziato a mobilitarsi tenendo aperte le celle all’ora di pranzo.

Il trasferimento della compagna Roupa nel carcere di Eleonas è apparentemente la risposta del Ministero per la protezione dei cittadini [che si occupa della gestione dell’ordine pubblico ed è responsabile delle forze di polizia dello Stato greco] alle richieste e alle mobilitazioni dei detenuti. Non c’è stata risposta alla richiesta di ridurre il sovraffollamento delle carceri in modo legale, come indicato nelle richieste dei detenuti, che è il modo più elementare per prevenire una massiccia diffusione del virus nelle carceri stesse. È certo che dopo la cessazione delle visite di parenti e avvocati, il prossimo passo del ministero sarà quello di incarcerare i prigionieri nelle loro celle per 24 ore al giorno con il pretesto di «proteggerli», dato che il virus sarà entrato nelle carceri, se non lo ha già fatto. La misura delle 24 ore di reclusione in cella è completamente fascista, né risolve il problema. È illegale e non è prevista da nessuna legge o codice penale ed è in linea con l’approccio più generale per un divieto di circolazione già in vigore in tutta Europa. Fascismo nella società, fascismo nelle carceri!

Pola Roupa è sempre stata in prima linea nelle mobilitazioni e nelle proteste nel carcere femminile di Korydallos. E naturalmente la reazione del ministero e del governo è «comprensibile». Facciamo sapere loro che questo non ci spezzerà e che non ci piegheremo a nessun governo, né di destra né di sinistra.

Nikos Maziotis, membro di Lotta Rivoluzionaria

Nota: Nel testo scritto da P. Roupa viene indicato che il trasferimento è avvenuto il 20 marzo.

Bolzano – Un contributo

“TUTTI SULLA STESSA BARCA” UN CAZZO!

La retorica patriottica, il “siamo tutti sulla stessa barca” e gli “andrà tutto bene” servono solo a far dimenticare che le condizioni materiali di vita sono tutt’altro che uguali per tutti, a maggior ragione in questa situazione. Per molti, a casa senza stipendio e in parecchi casi senza prospettive di accesso alle elemosine istituzionali, pagare l’affitto e fare la spesa è già un problema.

C’è chi una casa dove restare semplicemente non ce l’ha. Chi è recluso in galere sovraffollate, praticamente senza assistenza sanitaria, e ora senza colloqui, mentre il virus viene portato dentro dai secondini. Per molte donne la prospettiva di stare in casa è tutt’altro che rassicurante. E anche, banalmente, i metri quadri a disposizione non sono certo gli stessi per tutti.

“FURBETTI” E ASSASSINI

Mentre si riempiono le città di sbirri e militari e si incoraggia una massa di delatori a denunciare i “furbetti” che fanno una passeggiata come se fossero loro la causa del diffondersi del virus – e si sperimentano nuovi strumenti tecnologici di controllo sociale –, i padroni con l’avallo dei sindacati costringono a lavorare ammassati senza alcuna sicurezza anche in attività tutt’altro che indispensabili. All’Iveco di Bolzano – dove ora c’è la notizia di una positività al virus – si è continuato a lavorare per produrre blindati per i marines USA e per l’esercito brasiliano…

QUALE NORMALITÀ?

Nessuno può dire quanto questa situazione durerà e se avrà una fine, o se la prospettiva sarà quella di uno stato d’emergenza a tempo indeterminato. In ogni caso, siamo sicuri di voler tornare alla normalità di una società che ha sempre anteposto il profitto anche alla salute e che farà pagare sempre ai più poveri, con nuovi sacrifici imposti con le minacce, anche la crisi economica che si profila?
Sapranno deviare la rabbia di chi si trova senza un soldo nella solita guerra tra poveri, solo più feroce che in passato, o sapremo individuare il nemico?
Autorganizzarsi per far fronte ai propri bisogni senza aspettare le elemosine dello stato e il controllo che comportano, tutelare la propria salute estendendo gli scioperi che ci sono già stati nei giorni scorsi a tutte le attività non veramente necessarie, organizzarsi per non pagare affitto, bollette, spesa – come qualcuno ha già provato a fare, tanto che in alcune zone reparti antisommossa sono stati schierati preventivamente davanti ai supermercati…

Il coprifuoco porta all’estremo la tendenza all’isolamento. Se vuoi condividere – ovviamente anche in forma anonima – la tua rabbia nei confronti di padroni, sbirri e spie, carcere e altre istituzioni, episodi che ti sono accaduti o dei quali sei stato/a testimone o semplicemente la tua sofferenza in questa situazione, puoi scrivere all’indirizzo e-mail bolzanocontro@canaglie.org o alla pagina facebook Bolzano Contro. Nessuno può promettere nulla, ma rompere l’isolamento è l’inizio di una riscossa possibile.

Assassini all’estero, assassini in Italia, produttori di morte come mestiere

Pubblichiamo qui di seguito alcuni articoli usciti negli ultimi giorni riguardo alla situazione negli stabilimenti industriali a Cameri (NO) della Leonardo, riguardo alla continuazione della produzione degli inutili, per noi, F-35 e sul pericolo per gli operai. Proprio pochi giorni fa, il 31 marzo, dopo un breve blocco la Leonardo ha fatto ripartire la produzione con la scusa delle commesse e della possibile perdita dei posti lavoro.
Non occorrono ulteriori nostri commenti rispetto alla decisione presa dai dirigenti. Assassini all’estero, assassini in Italia, produttori di morte come mestiere.


F-35, una produzione “essenziale”?

da Il Cuneo rosso, Gcr, Pagine marxiste, Tendenza internazionalista rivoluzionaria
22 marzo 2020

Mentre si spargono lacrime ipocrite sui morti da covid-19, a Cameri (NO) si mette a repentaglio la vita dei lavoratori e si continuano a sprecare soldi per produrre i caccia F-35, strumenti di morte.

E’ notizia di queste ore che a Cameri (NO) la Leonardo, industria che assembla la parte finale degli aerei da guerra F-35, nonostante il contagio Covid-19 sia arrivato a colpire i lavoratori della fabbrica, continuerà a produrre come se niente fosse !!!
E questo in barba alle ripetute e ipocrite apparizioni televisive del governo centrale e di quelli locali: i quali da un lato danno la caccia agli “untori” che corrono nei parchi pubblici; dall’altro, da oltre un mese, lasciano tranquillamente in funzione fabbriche ed imprese, veicoli primari di trasmissione del virus e quindi di morte.
Il profitto prima di tutto! A partire da settori che hanno un mercato che non va mai in crisi com’è appunto quello degli armamenti. Cameri è anche “polo europeo” per la manutenzione degli F-35, e l’”immagine”, oltre che il portafoglio, dei “nostri” capitalisti non deve essere intaccata! Nonostante il contagio -o forse anche grazie a quello- l’imperialismo italiano non rinuncia a fare affari in giro per il mondo producendo-vendendo-impiegando strumenti di morte contro lavoratori e masse oppresse, dalla Libia all’Afghanistan.
Ed i nostri governanti, così preoccupati per la “salute pubblica” di fronte al Covid-19, si guardano bene dal dirci quanto costa un solo F-35! Nel novembre scorso il Ministro della Difesa Lorenzo Guerini (PD) ha annunciato l’acquisto per il triennio 2020-2022 di ben ventisette aerei F-35. Tutti i partiti di governo e di “opposizione” hanno votato a favore! Ora che anche nelle case e negli ospedali si muore per mancanza di apparecchi di respirazione, è doveroso sapere che il costo di ventisette F-35 corrisponde all’acquisto (mancato) di 189.000 apparecchi! Quante vite potevano essere salvate?
Lo stesso Guerini e gli ambienti governativi ritengono “strategica”, dunque essenziale, la fabbrica di Cameri. Ma da quando in qua’ si combatte un virus con gli aerei da guerra? Quale futuro ci stanno preparando? Un futuro di distruzione continua? In cui morte si aggiunge alla morte? La distruzione alla distruzione? Lo sfuttamento allo sfruttamento?
Lavoratori: non siamo carne da macello!
Contro le spese militari, il militarismo, la militarizzazione di tutta la società che la crisi del capitalismo ci impone, riprendiamoci le nostre vite! Via gli arsenali militari! No alle spese di guerra!
Per l’annullamento totale dell’acquisto dei caccia F-35.
Per l’uso degli ospedali, spazi e posti letto ad uso militare e di tutti i medici militari al servizio e alla cura dei pazienti ammalati.

 

Lettera di Ezio Locatelli, segreteria regionale PRC

da Novaratoday, 27 marzo 2020

Non prendeteci per i fondelli” – dichiara Ezio Locatelli della direzione nazionale e segretario provinciale Prc di Torino – “a proposito della decisione del governo di dare continuità alle attività
di produzioni di sistemi di guerra che nulla hanno a che vedere con le attività essenziali legate alla sussistenza delle persone e alla lotta contro il coronavirus. È inammissibile – dice ancora Locatelli – che a Cameri, in provincia di Novara, si continui a lavorare per la produzione dei caccia F35. Vien detto che le produzioni andranno avanti a ranghi ridotti, impiegando 80 tecnici e lavoratori su un
organico di mille, impegnandosi al tempo stesso a garantire l’applicazione del protocollo di sicurezza per il personale. Di fatto nei giorni scorsi, nello stabilimento di Cameri, due lavoratori sono stati contagiati. Lasciare aperto qui e altrove attività per la produzioni di armi e costosissimi sistemi di guerra – attività che nulla hanno a che vedere con le attività produttive indispensabili –
nel momento in cui c’è da combattere una battaglia per la salute pubblica è una cosa vergognosa. Si sono chiuse le scuole, le università, i parchi e tante altre attività ma non l’industria bellica.
Inammissibile. Tanto più a fronte della necessità di dotarsi di mezzi e risorse adeguate per il servizio sanitario nazionale. Meno spese militari, più spese per la sanità pubblica. Riconvertiamo l’industria
bellica in industria di pace per la produzione di beni di pubblica utilità”.

Aggiornamenti del 31 marzo 2020:

https://www.globalist.it/news/2020/03/31/la-vergogna-f-35-ai-tempi-del-coronavirus-una-storia-italiana-2055323.html

Riparte la produzione degli F-35: decisione inaccettabile sulla pelle dei lavoratori di Cameri

Amiens – A morte la giustizia, a morte la galera, a morte lo Stato, a morte!

[Qui in francese, qui dal blog Attaque (testo con foto)]

Secondo France Bleu (in data 1 aprile 2020):

È la prima volta che gli uffici del SPIP, service pénitentiaire d’insertion et de probation, [ndt: servizio penitenziario d’inserimento e di probazione] della Somme sono bersaglio di un attacco simile. Nella notte fra martedì e mercoledì, verso le 3.30 del mattino, uno o più individui hanno dato fuoco a diversi veicoli.

I veicoli erano posteggiati in un parcheggio privato, nel retro degli uffici. Due furgoni che permettevano di portare i detenuti al palazzo di giustizia sono bruciati. Cinque macchine che permettevano agli agenti di raggiungere i detenuti sottoposti a misure alternative, ad esempio in libertà condizionale, sono state anch’esse distrutte. […]

“A morte la giustizia, a morte la galera, a morte lo Stato, a morte” sono le tag in vernice nera lasciate sui muri del parcheggio. Delle scritte firmate con una A, simbolo del movimento anarchico. Ma il procuratore di Amiens si mostra prudente. Niente per il momento sembra confermare questa pista. Alexandre de Bosschère, secondo cui questo attacco è prima di tutto simbolico: “non è il SPIP in sé ad essere preso di mira, bensì la giustizia, lo Stato”.

È stata aperta un’inchiesta e vengono usate le immagini delle telecamere di videosorveglianza. Ma per il sindacato Force Ouvrière [ndt: Forza Operaia], l’individuo o gli individui sarebbero passati dal retro degli edifici. Una semplice barriera protegge l’entrata del parcheggio mentre davanti, di fronte alla prigione, la pesante porta bianca è posta sotto videosorveglianza.

E secondo France Info:

[…] Nella notte fra martedì e mercoledì, verso le 3.20, verosimilmente più individui si introducono nel parcheggio del service pénitentiaire d’insertion et de probation (SPIP), prima di tutto vengono incendiate tre macchine. Poi viene dato fuoco a due furgoni cellulari, dei veicoli che servono alle trasferte dei detenuti. In seguito viene preso di mira l’edificio, viene rotta una finestra, si riscontra un principio di incendio, che molto fortunatamente, non s’è propagato a tutto l’edificio. In quel momento scatta un’allarme di emergenza, che provoca la fuga del o degli autori, e l’arrivo sul posto del guardino che non potrà che constatare i danni. […]

Bram (Aude) – Interruzione della fibra ottica

[Qui in francese, dal blog Attaque, a sua volta da La Dépêche]

Dallo scorso week-end [ndt: si riferisce al 21/22 marzo], diversi abitanti del centro cittadino sono rimasti senza telefono e senza internet.

E sostanzialmente tutti quelli che avevano appena concluso o cambiato il loro abbonamento, optando per la fibra ottica. È soprattutto la zona di viale de Gaulle, via de la Concorde e corso du Razès ad essere stata la più colpita. La rete della fibra era in corso d’opera, il SYADEN (Syndicat Audois d’Energies et du Numérique) [ndt: sindacato dell’energia e del digitale di Aude] ne è proprietario e ha richiesto ad un prestatore di intervenire per la riparazione. Arrivati sul posto, i tecnici hanno constatato che l’interruzione di corrente era stata causata, infatti, da più atti vandalici sui cavi, posati qualche settimana prima, che erano stati tagliati o strappati. L’intervento fu più lungo del previsto con danni relativamente importanti.

Sull’immunità di gregge

Non si può negare che quanto sta accadendo in tutto il mondo non abbia perlomeno avuto il merito di far capire cosa si intenda quando si parla di immunità di gregge. Ci sembra un concetto rivelatore, in grado di far cogliere perfettamente la sua ambivalenza di significato. Non ci stiamo riferendo alla sua accezione medica, ovviamente, ma a quella sociale. In campo sanitario è quasi patetico il suo utilizzo, una vera e propria mistificazione che alimenta la confusione promettendo un’immunità che non può esserci. L’immunità, quella vera, è infatti una condizione accertata e perenne che può essere acquisita soltanto in maniera naturale, passando attraverso la malattia (non qualsiasi malattia, però). Con la vaccinazione si ottiene l’esatto opposto. Nella migliore delle ipotesi si cerca di evitare la malattia costituendo in maniera artificiale una difesa biologica, insuperabile solo fino a prova contraria, e che per di più è spesso e volentieri momentanea. È al tempo stesso un amuleto contro la malattia e un rimedio alla pigrizia, una scorciatoia industriale al lungo sforzo di alzare le proprie difese immunitarie. Avete presente quelli che per «tenersi in salute» inghiottono pillole su pillole, piuttosto che fare la fatica di conoscersi e prendersi cura di sé? Mangiano male e prendono farmaci, dormono male e prendono farmaci, vivono male e prendono farmaci. I muscoli del culturista imbottito di steroidi sono paragonabili ai muscoli del ginnasta che fa esercizi quotidiani? Con la vaccinazione accade la stessa cosa. Ecco perché, proprio come accade con l’assunzione di farmaci e steroidi, la vaccinazione fa più male che bene, avvelenando e indebolendo ulteriormente l’organismo. Ciò detto, a quale medico illuminato da un notevole senso dell’umorismo è venuto in mente di identificare l’umanità con un gregge?
No, lasciamo perdere, è solo lasciando l’ambito medico che il concetto di immunità di gregge appare in tutta la sua ineccepibile precisione. Dicesi immunità di gregge l’immunità acquisita da chi esercita il potere (compiendo innumerevoli soprusi e disastri) dopo aver trasformato in gregge chi il potere lo subisce. Basti osservare la situazione odierna. Chi è reso immune dal gregge popolare belante sicurezza, quello che canta in coro l’inno nazionale ed applaude le forze dell’ordine? Non ci vuole molto per capire che chi denuncia gli irresponsabili che osano respirare aria fresca e sgranchirsi le gambe non fa altro che salvaguardare i responsabili che inquinano, avvelenano, contaminano. Come se l’untore su cui scaricare la rabbia fosse chi cammina per strada, e non chi espone l’esistenza umana a mille pericoli seguendo ragioni di Stato o azioni di mercato.
Ma c’è un altra sfumatura di significato presente in questo concetto, ovvero che solo un gregge di pavide pecore può pretendere l’immunità. Si tratta di una pretesa trasversale, che non conosce differenze di classe. Infatti, se i ricchi la pretendono perché lavorano-producono-pagano, da parte loro i poveri la pretendono perché obbediscono-si rassegnano-consumano. Nel cosiddetto migliore dei mondi possibili, quello presente della Scienza, del Progresso e dello Sviluppo, tutti rivendicano il loro inalienabile diritto all’immunità, rimanendo oggi sconvolti e terrorizzati dall’idea che il loro conto in banca o la loro servitù volontaria non possano impedir loro di finire come un Marco Aurelio, o un Tiziano, o un Apollinaire — stecchiti da una pandemia. Che sciocco timore! Nel caso odierno, i ricchi potranno facilmente procurarsi un respiratore artificiale in grado di ridurre al minimo tale rischio. Quanto ai poveri, non hanno possibilità di passare alla storia in quanto vittime di un contagio. Gli uni come gli altri diventeranno solo numeri di statistiche.
Quando cesseremo di considerarci vivi solo perché siamo nati?
[1/4/20]

La vita al bivio

«L’obiettivo è percorrere 100 chilometri correndo sul balcone di casa, una sfida sportiva dopo il varo delle misure per contenere i contagi da coronavirus. E’ l’impresa che sta cercando di raggiungere Gianluca Di Meo, runner 45enne di Bologna che dopo avere superato il percorso di una maratona, iniziando alle 4.30 di questa mattina e ‘tagliando’ il traguardo dopo oltre 7 ore e 6mila giri, ha deciso di proseguire per altri 50 chilometri. A raccontare la storia dell’atleta, nel 2017 vincitore della 150 chilometri di Rovaniemi, è il ‘Corriere di Bologna’. La corsa terminerà alle 22 dopo 18 ore, Di Meo a disposizione ha un balcone, nella sua abitazione a Padova, di 8,8 metri di superficie. “Questo per me non è un balcone – ha raccontato il runner – lo affronto con lo stesso spirito delle altre avventure in natura. In qualunque condizione non bisogna perdersi d’animo. Mi piace quello che sto facendo”.»

Come nel film l’Odio, dove la voce narrante sembra rassicurars(c)i dicendo che “fino a qui tutto bene”, il problema dell’atterraggio comincia a balenare dietro ai nostri occhi. Gianluca, come una sottospecie di criceto, cerca di allontanare la realtà. Riesce anche ad autoconvincersi che ciò che sta facendo gli piaccia. È sicuro correre sul balcone, è contento di accettare tutto ciò, anzi, ci tiene a diventare testimonial della bontà delle scelte del governo. Correndo sul balcone Gianluca cerca di esorcizzare la paura, ma da questo problema non si può scappare, esso ci attende in fondo agli occhi, alla fine dei nostri incubi. O dei nostri sogni? Guardiamo al disastro, o forse alla catastrofe, con che aspettative?

«Una donna di Lodi sceglie di non far morire l’anziana madre in ospedale, tenendola a casa, dopo avere perso il fratello e col marito ricoverato in rianimazione. Tutti colpiti da coronavirus.
La storia raccontata da un operatore del 118, che ha fatto il giro del web in questi giorni, è stata diffusa ora anche da Agenzia regionale lombarda per l’emergenza (AREU), tra le 9mila mail pervenute nell’ambito dell’iniziativa che invitava a ringraziare i soccorritori e chi si prodiga per le cure.
Paolo Baldini, infermiere, spiega di avere ricevuto una chiamata da Lucia, 55 anni, che vive coi figli in una casa a due piani. A quello di sotto sta la madre. “Gianni suo marito è in rianimazione intubato, Stefano suo fratello è morto l’altro ieri in Rianimazione. Mi spiega che chiama per sua mamma, 88 anni, che ha febbre, astenia, tosse, dispnea. Mi dice che il medico ha appena visitato la mamma e consiglia il ricovero in ospedale perché non sa più come gestire la situazione”. L’infermiere le propone allora un mezzo di soccorso per portare l’anziana in ospedale. Prosegue il racconto: “Lei mi blocca. La sua voce è calma e decisa. Ho la sensazione di dovermi preparare a discutere. Sono stanco ed egoisticamente non ho più voglia di parlare con nessuno. Lucia invece mi da’ una lezione di vita e mi dice che non vuole portare la mamma in ospedale. Mi spiega che ha già perso un fratello senza poterlo salutare e senza poter andare al suo funerale e che non vede e non sente il marito da dieci giorni. Mi dice che non vuole che sua madre muoia in ospedale. Aggiunge: “So perfettamente che in ospedale riuscite a malapena a stare dietro ai pazienti giovani e so perfettamente che se mando mia madre in ospedale la lasciate morire da sola perché non avete tempo di curarla”. Il soccorritore scrive di essere rimasto “in silenzio perché so che ha perfettamente ragione”. Due ore dopo, la mamma di Lucia muore. “Magari un giorno riflette Paolo – andrà dalla signora Lucia per abbracciarla e per dirle che ha fatto la cosa giusta. Perché se fossi un padre vorrei una figlia come lei”.»

C’è un’oscillazione tra la rassegnazione e la coscienza, tra l’arrendersi alla deresponsabilizzazione e l’accettazione del peso delle proprie scelte. Tra la fuga dalla coscienza sul proprio balcone e l’affrontare la responsabilità della morte delle persone che amiamo.

Avrebbe potuto vivere alcune ore in più, la madre di Lucia. Grazie ad un respiratore o all’ossigeno. Lucia ha deciso di non farla ricoverare, ha distrutto ogni probabilità della madre di sopravvivere. Ha scelto che la morte certa, tra le braccia di chi l’amava, sarebbe stata preferibile alla morte probabile in un letto d’ospedale.

Forse le cure avrebbero potuto alleviarne le sofferenze, consegnare l’anziana donna a qualche ulteriore giorno di sopravvivenza. Eppure questa possibilità è stata stroncata.

L’amore delle ultime ore è stato preferito alla quiete degli ultimi giorni. La qualità della morte rispetto alla quantità dell’agonia.

Questa è l’oscillazione: rendersi conto che la sicurezza offerta dallo Stato è flebile. Un balcone è troppo stretto per poter correre. Che la morte non può essere rimandata, va piuttosto saputa affrontare, assumendosene la responsabilità.

Siamo tutti chiamati a fare la stessa scelta, in fondo, quotidianamente. Accettare la possibilità di ammalarci oppure cercare di salvarci ognuno nelle proprie case, soli. L’agonia della socialità telematica quando sarà rifiutata, in questa oscillazione latente, per il rischio del contatto umano?

Gli esseri umani non sono numeri. Non sono statistiche, non sono curve. Hanno delle vite e delle storie, che possono anche apparire assurde. Fanno delle scelte, che sono insindacabili. Come quella di porre fine alla propria vita, di morire come e quando uno desidera. Oppure si trovano a dover decidere per le persone che amano. Qual’è il limite etico per cui, pur di salvare una vita a tutti i costi, essa può essere ridotta al dato nudo, a simile tra le tante, semplice paziente in una corsia d’ospedale?

«I pazienti più anziani non vengono rianimati e muoiono in solitudine senza neanche il conforto di appropriate cure palliative. Le famiglie non possono avere alcun contatto coi malati terminali e sono avvisate del decesso dei loro cari per telefono, da medici benintenzionati ma esausti ed emotivamente distrutti.  Nelle zone circostanti la situazione è anche peggiore. Gli ospedali sono sovraffollati e prossimi al collasso, e mancano le medicazioni, i ventilatori meccanici, l’ossigeno e le mascherine e le tute protettive per il personale sanitario. I pazienti giacciono su materassi appoggiati sul pavimento.»

Questo scrivono i medici di Bergamo. Lo stato della sanità in Italia non è un fallimento organizzativo, è un fallimento di un intero modo di vedere la salute e la cura. Il fatto che gli ospedali siano focolaio di infezione (e non solo per il coronavirus: le infezioni ospedaliere, solo in Italia, fanno circa 50.000 morti l’anno) e che inizialmente sembra che il contagio sia partito da un pronto soccorso, non fa che rafforzare queste tesi. Con buona pace di chi lamenta i tagli alla sanità invocando più fondi dallo Stato.

L’ospedale è stato infatti una delle prime forme di istituzione totale, ovvero uno di quei luoghi in cui l’individuo scompare tra regolamenti e medici che sanno «cosa è meglio per te». L’occuparsi della malattia e della morte viene strappato dalla comunità e dalla responsabilità degli individui e consegnato alla medicina ed all’ospedalizzazione. La centralizzazione della cura crea questo problema, ovvero che gli individui non possono più decidere per loro stessi e non hanno nemmeno più le conoscenze riguardo al loro corpo. La salute viene resa faccenda da specialisti.

Eppure la salute non è cosa da specialisti. La vita e la morte sono responsabilità degli individui. Lo sa bene la signora Lucia, che in tempi normali sarebbe stata denunciata sicuramente. Lo sanno tutti coloro che decidono che per loro la malattia ha un significato diverso e vogliono curarsi – e magari non “essere curati” – in maniera diversa. Lo sanno coloro che pensano che la salute sia un concetto più ampio di “assenza di malattia”: salute è prima di tutto vivere bene.

Salute, però, è anche sinonimo di salvezza. Ed è in questo secondo salto di significato che ci si presenta il secondo bivio esistenziale: questa presa di coscienza riguardo ad alcuni aspetti profondi dell’esistenza e della vita che conseguenze avrà sul “ritorno alla normalità”? Forse non ce ne sarà neppure uno, di ritorno, forse non dovremmo neppure volerlo.

Gianluca non ne è mai uscito, dalla normalità, impegnato com’è a correre in balcone, ripetendosi che in fondo va tutto bene. E Lucia? E tutte quelle persone che hanno visto fermarsi la società e si sono rese conto del gioco di spettri che essa rappresenta, cosa vorranno fare della loro esistenza? Tornare a sperare fissando il vuoto dai loro uffici o in un’astinenza di realtà, dopo averla assaporata nel suo doloroso essere, cominceranno a desiderare altro? Quanto meno per non vedersi scorrere la vita tra le dita.

Per rimettere in moto questo mondo serviranno sacrifici e rinunce, per anni. Ma a quale scopo farlo? Per quelle certezze illusorie che scompariranno al prossimo disastro? Come si può tornare ad affidare la propria sopravvivenza agli scaffali di un supermercato quando ci si rende conto che nessuno garantisce che resteranno pieni per sempre? Dopo aver assaporato il peso della responsabilità si può tornare nella cieca accettazione dello stato delle cose? Chi venne rinchiuso oltre la sentenza che il lavoro rende liberi, almeno sapeva che il mondo fuori ancora continuava ad esistere, oltre il filo spinato dell’ideologia al potere. Chi ha varcato la soglia dell’esistenza sotto il motto della Fine della Storia, perché non dovrebbe tornare ad immaginare un futuro diverso?

Chiunque sta vedendo che le certezze sono poche. Chi con orrore, chi con gioia. Questa società sta crollando e noi con essa.

Proprio perché la questione è profondamente esistenziale non si può trovare conforto nella politica o nelle parole dello Stato. Occorre piuttosto venire ai ferri corti con sé stessi, interrogandosi nudi davanti allo specchio dei propri bisogni. Cos’è la salute? Cosa serve all’essere umano per vivere – e non per sopravvivere? Lucia ha abbandonato in un gesto ogni certezza, ogni promessa di sicurezza, testimoniando con la propria scelta che la vita è altro. Che la salute non sta nell’ospedale anche se vi potrebbe essere la cura. Che la salute deve portare in sé la possibilità di vivere degnamente, in libertà, con la responsabilità di sé stessi e delle proprie scelte. Non con la responsabilità dell’obbedienza.

La salute passa dalla possibilità di vivere liberi, e questa possibilità risiede solo negli individui e nella loro volontà di liberarsi da ciò che si frappone alla vita, di ciò che sterilizza il pericolo per salvaguardarne la sopravvivenza. Perché la salute risiede anche nel senso che diamo alla nostra stessa vita, a ciò che vogliamo ricordare quando, sul punto di morte, sapremo di aver vissuto secondo i nostri desideri. Degnamente.

Salutiamoci reciprocamente ricordandoci perciò che “La salute è in noi”. Un concetto da tenere bene a mente, parole chiare in tempi difficili.

Sembra assurdo dire queste cose di fronte ai dati di questa pandemia. Eppure, non c’è momento migliore per porci di fronte al bivio della Vita che ricordarci che siamo noi a doverci assumere la responsabilità della nostra stessa esistenza. Gianluca e Lucia sono due modi opposti di reagire. Scappare sul balcone o affrontare l’impensabile. Ma a cosa serve ripetersi cantilenando che “andrà tutto bene?

La catastrofe è dolorosa opportunità, non torniamo alla normalità. Ne và della nostra salute.

La salute è in noi.

Genova – Solidarietà ai detenuti del carcere di Marassi

Si dice che lo stato di salute di una democrazia sia riscontrabile dallo stato di salute delle proprie carceri.
Possiamo quindi dire che la paziente Italia è in coma profondo.
Nel solo 2019 sono morte 143 persone di cui 53 suicidi e dall’inizio 2020 siamo già a 41 morti di cui 13 suicidi.
Alla faccia del recupero del detenuto!
Lungi da noi pensare che le carceri siano luoghi di recupero e riabilitazione, per quanto ci riguarda tali strutture andrebbero distrutte.
Una morte in carcere, qualsiasi fosse la natura, è una morte da attribuire allo stato detentivo, a chi istituisce e gestisce tali inferni di cemento: lo Stato!
Le proteste dei detenuti di questo inizio Marzo ci hanno dato coraggio e forza, abbiamo così ritenuto giusto far sapere che fuori c’è chi li sostiene con piccoli gesti di solidarietà.
In diverse occasioni all’inizio del mese siamo andati  sotto le infami mura del carcere di Marassi  facendo sentire la nostra complicità con petardi, fumogeni e srotolando striscioni.
Durante l’ora d’aria abbiamo lanciato dentro le mura palline da tennis contenenti un testo di informazione e solidarietà ai detenuti in lotta e gli aggiornamenti su quello che sta accadendo nelle altre carceri italiane.
Ai primi tentativi fatti la risposta è stata sempre immediata e focosa, col passare dei giorni la risposta si è affievolita, complice probabilmente la pressione interna da parte del sistema carcerario.
Abbiamo ritenuto che le responsabilità penali non fossero un deterrente abbastanza forte da spegnere il nostro desiderio di essere vicini ai prigionieri in lotta in questo momento.

IL NOSTRO AMORE PER LA LIBERTA’ E’ PIÙ FORTE DI OGNI AUTORITA’!
FUOCO ALLE CARCERI!
LIBERTÀ PER TUTTI!

Venansault (Vandea) – Isolamento? Coprifuoco? No, vandalismo!

[Qui in francese dal blog Attaque, qui l’articolo di giornale citato come fonte]

Ndt: Mentre il morbo repressivo dilaga sempre più in ogni parte del mondo, costringendo migliaia di individui all’isolamento e a coprifuochi più o meno annunciati, c’è chi non accetta questo stato di cose. C’è chi vede nelle città, ora prigioni a cielo aperto, delle gabbie da distruggere e perciò, armat* di una certa dose di rabbia e di gioia, si dà alla distruzione di tutto ciò che fisicamente contribuisce all’oppressione.

[…] Dopo aver imbrattato la telecamera di videosorveglianza della residenza dei giovani Color’Ado, i vandali hanno ridotto in frantumi le vetrate dell’edificio. Dei tavoli da picnic, dei tombini e dei cartelloni sul percorso mountain-bike sono stati imbrattati.                                                                                                                              […] Il municipio ha fatto denuncia e la stima dei danni è in corso. “La gendarmeria ha degli indizi e sta effettuando dei controlli incrociati per dare un’identità ai volti visti nei video.” Secondo primi elementi, si potrebbe trattare di due giovani, probabilmente originari del comune.                                                                                                                                […] Inoltre, l’edile [ndt: si riferisce al sindaco] non ha esitato, a partire da lunedì 23 marzo, a mettere un coprifuoco sul suo comune, fra le 20 e le 6 del mattino, fino al 31 marzo. Una misura forte, come a La Roche-sur-Yon, che mirava a far rispettare l’isolamento ai più recalcitranti.                                                                                                                           Se non fosse che il prefetto ha messo il suo veto, dal 24 marzo, ed ha annullato il fermo totale. “La prefettura non è favorevole al fatto che degli enti territoriali prendano questo tipo di iniziative. Trovo che sia un peccato, ma ubbidisco alle decisioni prefettizie”, si è piegato il sindaco […].