Cari amici,
vi scrivo dopo aver letto le lettere dalla quarantena circolate di recente sul sito della rivista Ill Will Editions, che tentano di riflettere a partire dalla crisi attuale. Mi è sembrato che molte di queste lettere rivelassero una asimmetria, una frattura tra due linee di pensiero, che sono distinte ma finiscono per sovrapporsi: da un lato, c’è il comprensibile timore che le forme di controllo introdotte recentemente vengano mantenute al di là dell’emergenza sanitaria (com’è successo dopo l’11 settembre) – una preoccupazione che si concentra sul potere dello Stato; dall’altro, la forza dirompente del virus, come una potenza non-umana che si diffonde attraverso di noi, e agisce al di sotto e al di là delle misure economiche e sociali con cui le élite politiche si sforzano di mantenere un’autorità e un controllo sempre più sbiaditi. Orion, per esempio, descrive nella sua lettera il virus come una forza che ha “istituito la sua temporalità e che ha immobilizzato tutto”, una potenza “capace di andare al di là di quello che le insurrezioni sono state capaci di fare, e di bloccare realmente l’economia”. Due tipi di potere, due linee di forza asimmetriche. Noi che non siamo mai stati amici della loro normalità, come possiamo analizzare questa sovrapposizione?
Vi scrivo dal Cile. L’arrivo della pandemia nel bel mezzo di un’insurrezione che non è ancora finita offre l’occasione di riflettere sulle forme che prendono oggi il controllo sociale e le crisi politiche. La situazione qui potrebbe sembrare la stessa che altrove: il governo cileno ha seguito l’esempio dei governi di tutto il mondo e ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale. Questo stato di eccezione è il terzo che il governo ha decretato nell’ultimo decennio, dopo quello contro la rivolta di ottobre e quello decretato in seguito al terremoto del 2010. Per due volte quest’anno, il mantenimento dell’ordine pubblico è stato conferito all’esercito, che non ha esitato a imporre un coprifuoco notturno e a istituire alcuni posti di controllo per limitare e sorvegliare i movimenti.
Siamo forse passati da una forma di crisi a un’altra? Se questo è vero, la distinzione da fare non è tanto tra stati di normalità e di eccezione, o tra il ruolo della legge e quello delle misure d’urgenza. Quello che dobbiamo chiederci, alla luce di questa trasformazione, è chi controlla il territorio e come lo abitiamo. Quali sono le condizioni che rendono difficile dare una risposta a questa domanda? Possiamo vedere la continuità o le differenze, solo considerando l’esperienza dei territori che abitiamo insieme. Vorrei condividere con voi qualche ritratto della vita quotidiana, qualche esempio della miriade di risposte che le persone e le istituzioni hanno dato alla pandemia.
Applicazione modulata
Il 15 marzo 2019, durante una conferenza stampa trasmessa in diretta nazionale, il Collegio dei medici del Cile ha criticato il ministro della sanità cileno per aver applicato impropriamente le direttive del Collegio. I medici, di fronte al fallimento del governo nel tentativo di circoscrivere l’epidemia alla città di Santiago, hanno chiesto a tutti gli abitanti di cominciare una quarantena totale di 14 giorni: niente più lavoro, niente più scuola, niente più uscite. Molte persone hanno seguito le loro indicazioni – i proprietari dei bar e dei locali hanno interrotto le loro attività, in nome della responsabilità civile, e i lavoratori dei centri commerciali si sono messi in sciopero, hanno organizzato dei picchetti e hanno manifestato in città fino a che i centri commerciali non sono stati chiusi.
Soltanto a partire dal 20 marzo il governo cileno ha decretato una quarantena totale nelle zone della città più colpite dal virus, cioè i quartieri più ricchi e il centro città. Gli abitanti delle zone in quarantena devono compilare un formulario sul sito del commissariato e dichiarare la loro destinazione per poter uscire di casa.
Intorno alle zone in quarantena ci sono soltanto una dozzina di posti di controllo. Abbiamo capito molto presto che era facile evitare la manciata di carabinieros appostati agli incroci principali. Chi ha deciso di rimanere in casa, l’ha fatto per rispettare le raccomandazioni dei medici piuttosto che le misure ufficiali.
D’altro canto, le misure di quarantena non sono state estese alle combattive “poblaciones”, dalle quali provengono la maggior parte dei partecipanti alle giornate di ottobre. Questi quartieri alla periferia della città sono nati da un movimento di occupazione negli anni ‘50-’60. Gli occupanti hanno costruito insieme le loro case, si sono difesi dagli sgomberi, e hanno negoziato con il governo per ottenere infrastrutture, scuole, ospedali. Se vi è capitato di vedere un video degli scontri del 29 marzo, per il Dia del joven combatiente (Giorno del giovane combattente), sicuramente viene da uno di questi quartieri.
In ottobre le tradizioni ribelli delle poblaciones non erano rimaste confinate ai quartieri di periferia, ma si erano riversate in tutta la città. La gente aveva invaso il centro, la metro, i supermercati, le farmacie, i centri commerciali. Non erano stati presi di mira soltanto i simboli del potere statale – la polizia e la metro –, ma anche quelli dell’economia formale.
Quest’anno, nonostante il coprifuoco e la pandemia, gli abitanti delle poblaciones hanno celebrato il Giorno del giovane combattente scendendo per strada e scontrandosi con la polizia. Nelle poblaciones, diversamente che nel centro città, le persone invadono ancora lo spazio pubblico. Se la rivolta si affievolisce e la vita sociale si riduce al minimo, la pandemia non è però riuscita ad interrompere totalmente la vita in questi quartieri. All’inizio, i manifestanti che avevano l’abitudine di ritrovarsi a Plaza de la dignidad temevano che il governo utilizzasse le misure ufficiali di quarantena per riprendere il controllo della vita sociale, dopo mesi di rivolta. Per ora il governo non ha fatto molti sforzi per applicare le misure nei quartieri in cui la presenza della polizia non è ben accetta, come ai confini delle zone di quarantena e nei territori ribelli delle poblaciones.
Controllo dello spazio pubblico
Al contrario, nei quartieri intorno a Plaza de la Dignidad, dove io vivo, le nuove norme di quarantena e di distanziamento sociale hanno messo fine alle esperienze collettive, alla protesta nelle strade e agli incontri nelle piazze. La rivolta scandiva il nostro quotidiano, e aveva reso i nostri progetti di quartiere allo stesso tempo possibili e necessari. Avevamo dato vita a delle assemblee facendo eco alle proteste nella Plaza, con la speranza di incontrare i vicini di casa e di dare forza alle gente che manifestava per strada. Le assemblee organizzavano mercati rossi, spettacoli per i bambini, concerti per strada, pranzi collettivi. Le riunioni, che si tenevano nei parchi, erano costantemente interrotte dalla vita del quartiere: i cani si mettevano a giocare al centro del cerchio, i passanti chiedevano sigarette, si sedevano con noi e davano la loro opinione, e i vecchi militanti ci dicevano di smetterla di parlare e di andare a dare fuoco a una barricata.
La pandemia ha bruscamente messo fine a tutto questo. Ora le assemblee di quartiere non si riuniscono più. L’aiuto reciproco, le riunioni e i laboratori virtuali si coordinano e si annunciano nei gruppi Whatsapp. Chi non è stato espressamente invitato non può più imbattersi per caso nelle nostre assemblee.
Le interruzioni davano senso anche al mio lavoro di scrittura nei café intorno alla Plaza, che si trattasse di un vecchio amico che arrivava con una nuova persona da incontrare, o dei manifestanti che si rifugiavano nel bar per sfuggire al getto d’acqua del guanaco (l’idrante della polizia). Forse nessuna attività ha senso se non è svolta in mezzo alla gente e alle proteste. Ci sbagliavamo quando pensavamo che le interruzioni fossero solo un fastidio e una distrazione. Le nostre attività diventano più significative quando si mescolano alla vita di coloro che abitano il nostro mondo. La quarantena significa la fine di questa sensibilità collettiva.
Chi ha imposto le restrizioni di movimento?
E nonostante tutto, qualcosa sta ancora succedendo in Cile: in alcune regioni, gli abitanti continuano a bloccare le imprese che devastano i loro territori. In Patagonia, per esempio, molti villaggi sono implicati in un conflitto decennale contro l’industria del salmone. Riversando antibiotici e rifiuti nei fiumi, gli allevamenti di salmone hanno distrutto la fauna, e i bacini dai cui dipendono i pescatori del luogo, mentre i trasporti industriali rendevano inutilizzabili le strade di campagna che collegano un villaggio all’altro.
In ottobre, abbiamo percepito chiaramente la profondità e il respiro della rivolta quando abbiamo saputo che, mentre Santiago bruciava, le comunità rurali costruivano delle barricate sulle strade di campagna, bloccando l’accesso ai lavoratori delle industrie di salmone, e sabotavano le più grandi imprese del paese. In quei giorni, per farsi un’idea della situazione a Santiago, bastava scendere per strada, ma era molto più difficile avere delle notizie delle proteste nel resto del paese. Nonostante le difficoltà di comunicazione, le scritte “Free Chiloe” ricoprivano i muri di Santiago.
Quando l’epidemia ha oltrepassato i confini di Santiago, gli abitanti dell’isola di Chiloe, in Patagonia, hanno bloccato i traghetti che portavano sull’isola i lavoratori dell’industria del salmone. In seguito, il governo ha ridotto i collegamenti con l’isola per prevenire la diffusione del virus; ma quando ha attraccato sull’isola un traghetto che trasportava nuovi effettivi di polizia, per assicurare il rispetto della quarantena, gli abitanti hanno tentato allo stesso modo di rispedirlo indietro.
Una ambiguità determinata
Gerard Munoz, nel suo ultimo intervento sul modello cileno di stato di eccezione, ci suggerisce una possibile spiegazione del fallimento delle misure di emergenza prese per contrastare la rivolta di ottobre:
“Il dibattito cileno si trova nella posizione migliore per cercare di arrivare ad una comprensione matura e globale dello stato di eccezione, inteso non come una formula astratta, ma come un fenomeno latente alle democrazie. L’esercizio della politica occidentale in materia di sicurezza e di eccezione non è un orizzonte concettuale di quello che la politica potrebbe essere; è quello che l’ontologia del politico rappresenta, una volta che i limiti interni dei principi liberali sono collassati (la separazione tra consumatori e cittadini, tra Stato e mercato, giurisprudenza e sussunzione reale).”
Lo stato di emergenza riposa sulla distinzione liberale tra mercato e Stato, tra cittadini e criminali. Il successo della sua applicazione dipende dall’operatività di queste distinzioni. In ottobre, quando il governo ha fatto appello alla “sicurezza dello Stato”, la rivolta aveva già rifiutato i principi liberali della post-dittatura. Le vecchie distinzioni erano state spazzate via, a tal punto che un capovolgimento della situazione era impensabile.
Nei mesi della rivolta, nessuna violenza della polizia, nessuna assemblea costituzionale iper-publicizzata, nessuna crisi finanziaria avrebbe potuto persuaderci della necessità di un ritorno all’ordine. Non potevamo immaginarci una forza esterna capace di mettere un freno all’esplosione sociale.
Eppure eccoci qui: dalla prima settimana dell’epidemia, Plaza de la dignidad è silenziosa. Qualche commerciante comincia a togliere le lamiere che proteggevano le vetrine, perché non ci sono più stati saccheggi. Gli scontri con la polizia restano confinati alle poblaciones.
Chi detiene un tale potere? La pandemia ha sospeso la rivolta, perché è apparsa come una forza esterna. Se l’epidemia possiede una potenza con la quale nessun provvedimento del governo può rivaleggiare, è perché la sua presenza neutralizza le separazioni sulle quali si basa l’amministrazione di questo mondo: il virus non conosce differenza tra Stato e mercato, consumatori e cittadini, giurisprudenza e sussunzione. Il risultato è che non sappiamo più se ci stiamo prendendo cura di noi stessi resistendo allo stato, a prescindere dallo stato o obbedendo allo stato. La pandemia, attraversando questo mondo, ha fatto a pezzi le relazioni sulle quali il nostro mondo si basava. In assenza di questi contatti, siamo lasciati soli di fronte alle esigenze opposte di obbedienza e di contestazione, di resistenza e di auto-affermazione. Non è questo il luogo per ricordare quanto gli ideali della democrazia liberale dipendano da una frattura sempre più profonda tra il pubblico e il privato: ragione pubblica e obbedienza privata, fede e confessione, coscienza morale e diritti politici, etc. Là dove una volta c’era un mondo ricolmo di legami, eresie, alleanze, non resta che un soggetto – un cittadino padrone di sé e autonomo. Non era forse questo il progetto della gestione economica moderna?
L’esperienza dello spazio è stata re-liberalizzata, cosi come il modo in cui ci prendiamo cura degli altri. Una volta che l’insurrezione si è spenta, e con lei l’attenzione reciproca, che era un elemento fondamentale della rivolta, un’altra forma di solidarietà l’ha rimpiazzata; una forma che porta in sé l’impronta di un’assenza al mondo che è la definizione stessa del soggetto liberale moderno. Anche se la situazione ci spinge a preoccuparci dei più vulnerabili tra noi, non possiamo confondere la nozione di cura che il distanziamento sociale determina con le pratiche che avevamo inventato insieme prima della pandemia, e che diventano possibili solo quando abitiamo davvero un territorio condiviso. Ci hanno detto che questa crisi minacciava i più vulnerabili, i malati, i vecchi; e che prendendoci cura di noi stessi, ci saremmo presi cura degli altri; che il nostro ruolo, in quanto cittadini di un unico mondo, era quello di non confondere il distanziamento sociale con l’isolamento. Però la fine della vita sociale e dell’uso dello spazio pubblico ci priva delle esperienze che danno un senso ai concetti di cura, aiuto e azione collettiva. Facciamo l’esperienza di un mondo comune quando prendiamo parte a delle attività che lo rendono non solo possibile, ma reale; è solo grazie alle combinazioni e agli incontri che le nostre capacità singolari ci rivelano quello che va al di là di noi, che appartiene a ciascuno e a tutti. Rinchiusi nelle nostre case, rischiamo di lasciare che si cancellino le condizioni che rendono possibile la consapevolezza di abitare lo stesso mondo.
Emilio, Santiago de Chile, 24 aprile 2020
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