Questo testo è stato redatto nell’arco di qualche giorno; pertanto alcune considerazioni, attuali al momento della loro stesura, potrebbero nel frattempo aver perso pregnanza. Ce ne scusiamo e ci auguriamo che possa comunque offrire spunti utili.
Sono già numerosi gli scritti che offrono un’analisi di ciò che sta accadendo con e intorno la “pandemia” da corona virus e siamo convinti che, seppure con difficoltà, il confronto sull’abisso di domande sollevate dalla gestione dell’emergenza, ci debba impegnare proprio per la radicalità che esso richiede, in termini di pensiero e proposte pratiche.
Mai come ora, o forse, come sempre quando i piani si confondono e si moltiplicano con spaventosa voracità, mettendoci sull’orlo dell’abisso di cui sopra, si vacilla, si sospende il passo. Ma, il dubbio, se opportunamente coltivato, ci suggerisce di diffidare persino (soprattutto?) delle nostre emozioni (partecipi dell’angoscia collettiva che una epidemia, straordinariamente amplificata dai media, provoca, senza per questo dissimulare o ridurre ad accidente il dolore e la paura che ci riguardano o circondano) e affidare, invece, allo spirito critico la nostra bussola.
Le rivolte che hanno incendiato le galere di tutta Italia (i cui echi risuonano, adesso, in quelle di mezzo mondo) ci auguriamo abbiano avuto anche l’effetto secondario di fare a brandelli la retorica che, spesso, indossiamo con tanta solerzia, tradendo pochissima persuasione. Quella parte di umanità rinchiusa che, con l’istinto di chi sa ancora prima che le cose accadano, si è rivoltata, facendo della rivolta l’unica possibilità d’affermazione della vita, ci ha parlato e continua a farlo, a noi che in questo fuori sempre più ristretto, abbiamo comunque il privilegio della scelta. La veggenza degli oppressi non passa dal linguaggio, non costruisce discorsi, ma è richiamo ininterrotto e senza misura. Dedichiamo questo scritto ai rivoltosi e ai quindici morti nelle rivolte di Modena, Alessandria e Rieti, sapendo che di quella stessa ferocia sarà armata la mano del potere nel ridisegnare una nuova geografia di “sommersi” e “salvati”: dove ci troveremo, da quale parte del confine e se in lotta per sovvertirlo, dipenderà da come avremo armato la nostra volontà e dai complici che saremo riusciti a incontrare.
Dunque, tentiamo di essere all’altezza.
Ci sembra di fondamentale importanza dare alcune indicazioni circa la costruzione del nostro sguardo: il punto di vista che informa lo scritto è situato a sud, in Sicilia, e comprende alcune considerazioni sul contesto sociale ed economico che pensiamo essere premessa dell’evolversi del processo di reazione a questo “stato d’eccezione” (in che direzione dipenderà anche da noi). Lo scenario è, quindi, per ragioni d’ordine materiale anzitutto, altro rispetto a quello osservabile in nord Italia. Inoltre, a dispetto di misure fortemente restrittive, non siamo coinvolti, qui, dalla quantità di contagi e di morti cui si assiste in nord Italia -più precisamente, c’è ad oggi, un solo caso accertato di COVID-19 nel territorio che abitiamo; cambiano quindi le domande da porci e le risposte da cercare. Se a nord, soprattutto nelle aree più colpite, è il rischio del contagio il maggiore deterrente a rifiutare misure che in assenza di “pandemia” non avremmo difficoltà alcuna a definire inaccettabili, qui, è, di pari passo a quello, il controllo di polizia (più o meno reale).
La disomogeneità nella diffusione dell’epidemia, corrisponde ad una omogeneità delle misure. Questo punto ci pare essere un ottimo trampolino per fare un salto al di fuori del cerchio.
I materiali ai quali abbiamo attinto sono molteplici (tanti ci sono stati suggeriti in queste settimane di quotidiana corrispondenza con alcuni compagni e compagne a nord e da conoscenti della nostra cerchia di relazioni locale) e vanno da interviste al giurista e allo scienziato “non allineati”, piuttosto che articoli di intellettuali contemporanei, fino a scritti d’area che ci vengono in aiuto dal passato, a sottolineare quanto l’impasse creata dal portato emotivo della possibilità del contagio si sia insediata nel vuoto lasciato da una riflessione radicale sulla salute e più in generale da una ecologia di pensiero che ci permettesse un’organicità dei discorsi e delle pratiche, tutti più o meno coscienti, che altrimenti “avendo perso il senso del ciclo, avendo sovrapposto alla prima natura la seconda (il Capitale), è al Capitale stesso che si richiedono delle ipotetiche soluzioni”1. Per riallacciare il filo del discorso, dobbiamo fare un salto indietro di trent’anni, fino agli scritti della Critica Radicale appunto, che, nella loro attualità, ci suggeriscono l’urgenza di riaprire la questione, nonostante il peso degli eventi ci costringa a un passo claudicante e la loro velocità lasci quasi senza fiato.
Col senno di poi, e il conseguente sapore che lascia in testa, la modificazione del decreto legge in materia di vaccinazioni obbligatorie del 2017, oltre a rappresentare un’occasione d’intervento mancata e sottolineare una presenza mancante (la “nostra”?) rivela, adesso, il suo carattere di antefatto.
Un’ultima osservazione andrebbe fatta sulla percezione, sempre più plausibile, della fine di un mondo: che questi giorni non siano più fatti di una materia che conosciamo, che il tempo, fondamento di un accordo tra esseri mortali, cessa d’essere nel momento in cui non è più fisicamente condiviso. La conversione di un tempo insieme, che passa dai corpi, a un tempo virtuale in assenza di corporeità ma con la morte onnipresente, a fare da sfondo, stride con la sua rimozione, con ciò che fino a “ieri”, è stato presupposto filosofico basilare di questa società. Quanto succederà d’ora in avanti, non si reggerà più sulle premesse che conoscevamo: decade, una volta per tutte, il tabù della divisione tra pubblico e privato, si illumina ciò che dovrebbe stare in ombra, le intimità dei corpi, la loro morte, lo stesso sentimento del lutto, impossibile da declinare nelle forme culturali cui eravamo abituati e delle quali siamo espropriati nel momento in cui la morte non ci appartiene, né come individui né come comunità, ma ci riguarda come riflesso di uno sguardo dall’alto.
sulla responsabilità
“La responsabilità pare essere più del semplice peso del rapporto causa-effetto,
quasi una scelta di vita, una presa di consapevolezza
di ogni situazione particolare cui segue (..) limpida, sicura, una risposta d’azione accorta
– risposta che sola è il vero potere dell’uomo”.
Sappiamo quanto la responsabilità abbia a che fare con la libertà. Ma è forse necessario ri-frequentare il concetto dopo averlo emancipato dal significato che in queste settimane gli si è sovrapposto.
Il panico morale si è diffuso a partire da una riduzione del concetto di responsabilità a quello di ubbidienza, che in questo caso è coinciso con l’auto-reclusione, accompagnata dal ricorso massiccio alla delazione. Ma sappiamo anche quanto nessun agire responsabile sia possibile in assenza di confronto, nessuna libertà è agibile nell’isolamento. Perciò, è nostro dovere decostruire, per poi rifiutarlo, un concetto di responsabilità che non solo provenga da un’autorità (e come tale diviene legge) ma che sposti il fuoco dell’attenzione da una reale presa in carico della situazione nella sua complessità.
E lo sposti fuori da noi. In un fuori che è in alto. Sopra di noi.
Come mantenere intatte le nostre relazioni, curarle, nonostante l’epidemia, e per farvi fronte? Com’è pensabile la lotta senza i corpi? Ci siamo posti queste domande all’avanzare dei decreti. Abbiamo letto e riletto dati, statistiche sulla diffusione del virus, la sua origine e l’eziologia. Ma perché il virus non prevalga come “reductio ad unum”, oscurando i molti altri livelli e le contraddizioni che la gestione dell’epidemia inevitabilmente lascia emergere, ci siamo sforzati di allargare lo spettro della ricerca e dotarci di quanti più strumenti d’analisi possibile. Nel tentativo di dare fin da subito una risposta pratica di rifiuto all’imposta reclusione, ci è sembrato che insistere sul concetto di responsabilità potesse riportarci da un piano che alla sua origine è (e deve rimanere) individuale, ad uno collettivo, e da lì a una risposta quotidiana all’emergenza; esistono delle misure di sicurezza, preventive del contagio, che implicano una certa distanza e nessun contatto con l’altro. Il principio di cautela, suggerisce di rispettarle perché siano rispettate in ognuno, la paura, piuttosto che la fragilità fisica. Sarà nostra cura interrogare chi abbiamo davanti e trovare o meno un accordo di compresenza e condivisione di uno spazio in comune.
Che la costruzione della pandemia globale possa d’ora in poi affermarsi come precedente, e quindi riproporsi ogni volta con simili conseguenze, ci pone comunque di fronte alla domanda: “possiamo rinunciare al contatto al variare di curve di mortalità o addirittura, rinunciarvi indefinitamente?”
Consapevoli che non può esistere un’unica soluzione che rimane invariata al cambiare dei contesti, dei momenti e dell’evolversi degli eventi, abbiamo continuato a incontrarci insieme a chi, con noi, ha scelto di non rispettare le misure restrittive, cercando di immaginare e concretizzare pratiche che aprano nuovi percorsi di resistenza.
Il punto di vista del nemico: della coercizione come risorsa immediata e di prospettiva
La coercizione generalizzata in atto è chiaramente per lo Stato già un bene in sé, un momento altamente produttivo da diversi punti di vista: sebbene si sospenda eccezionalmente il criterio del profitto2 come l’unico da perseguire nel governo della vita sociale, sembrano centrali altri elementi che l’apparato di potere sta mobilitando: due movimenti convergenti, se vogliamo di teoria e prassi statuale e di governo economico: l’esperimento sociale e la ristrutturazione.
Il primo, riscontrabile soprattutto durante i primi giorni di restrizione generalizzata, durante i quali il comportamento di forze dell’ordine e Protezione Civile è apparso come più orientato all’osservazione e alla raccolta di informazioni sui profili sociali di chi era per strada, molti i giovani, senza interventi repressivi degni di nota3. Informazioni, si può intuire, incrociate ed arricchite con quelle raccolte via internet attraverso il download delle imprescindibili autocertificazioni, con tutto il portato di cookies e dati che ogni nostra connessione trasmette, ma in questo caso quasi esclusivamente verso siti di Stato. Aumentare la pressione sociale quasi al limite della sopportabilità è per lor signori certamente un rischio, e per noi una possibilità, ma vedere come a fronte della contraddittorietà delle misure la maggior parte delle persone si stia accodando sarà una conferma che la ricetta usata è quella giusta.
Ma quali sono gli ingredienti di questa ricetta?
Non sono certamente nuovi, ma, questa volta, utilizzati con un grado di intensità inaudito. Così, sebbene la critica anti-tecnologica dei social network abbia saputo cogliere negli anni passati, tra le altre cose, la loro natura repressiva dietro la facciata friendly, mai come in questi momenti facebook et similia stanno agendo come complementi dei corpi di Polizia. Chi continua, nonostante tutto, ad uscire può toccare con mano la dissociazione di sguardo tra la realtà on-line e quella off-line: mentre i rimasti fuori, ancora numerosi nei primi giorni, notano come non ci siano truppe in numero tale da dare consistenza agli ordini del governo, gli auto-reclusi non fanno altro che ripetere come fuori sia tutto un posto di blocco continuo.
Fonte? Facebook… perché la psico- polizia non sostituisce la Polizia reale ma la integra, ne diventa alias virtuale. Sul piano micro-sociale, una nuova divisione si introduce potentemente, solcando le cerchie di amici/che e avendo conseguenze sulle possibilità della solidarietà presente e futura: la linea di divisione della Paura. Se ogni salto in avanti della storia, sia in senso rivoluzionario che reazionario, è il risultato dell’accumulo precedente di (non) esperienze, è chiaro che la paura anche solo di incontrare gli sbirri è il rovescio della mancanza di lotte degli ultimi anni: decomposizione vitale che crea ulteriore decomposizione.
“l’efficacia miserabile e fine a sé stessa di tutte le macchine,
da cui è stata espunta la presenza umana,
realizza col minimo sforzo e ai minimi prezzi di costo l’abolizione dell’uomo”
Giorgio Cesarano – note ’71-‘74
In atto è però anche un processo che trascende quello più prettamente sperimentale ma che pure è immanente ad esso, lo direziona e lo informa: la ristrutturazione capitalistica. Immanente, perché il processo sopra descritto ci dice di una società ampiamente cibernetizzata, in cui per molti la sostituzione tra dato sensibile e algoritmo è già avvenuta nell’approccio conoscitivo anche della realtà immediatamente circostante e perché, in direzione contraria, la raccolta di informazioni di natura psico-sociale serve ad orientare ed ordinare ex ante i futuri sviluppi del controllo totale.
Lo trascende perché, anche se su una linea di sviluppo già data, ossia il tempo automatizzato e invariabilmente in divenire della mega-macchina, il balzo in avanti tecnologicamente equipaggiato verso una vita comunemente imprigionata non si lega più ad una traiettoria storica e ideologica di “progresso”, quanto, piuttosto, ad una prospettiva di contrazione economica pilotata dall’alto. Questa discontinuità ci sembra centrale e ci porta già nell’ “al di là” di un contesto sociale ridisegnato, che influirà sul nostro affacciarci nella tempesta sociale a venire con proposte di liberazione radicale tutte da costruire. Dopo decenni di lavoro ideologico del sistema politico e sindacale volto a far accettare agli sfruttati d’occidente i sacrifici richiesti in vista di una fantasmagorica ripresa e dunque di benefici futuri, oggi nessuno fa più questa promessa. Tutti gli idioti che abboccano all’amo dell’“andrà tutto bene” contribuiscono, in questa cieca fiducia verso l’alto, a preparare il terreno per il peggio. Nessuno dal campo politico promette nulla in cambio della passività di oggi, perché con i movimenti sono scomparse anche le domande della trasformazione (sia riformista che radicale): di nuovo, l’evaporazione (a colpi di repressione e bastonate) di qualsiasi significativa autonomia proletaria o di qualsivoglia raggruppamento di resistenza o di lotta, sono stati i presupposti di questa evoluzione. Si potrebbe sintetizzare così: mentre la maggior parte del campo degli sfruttati dorme ancora sogni indotti di social-democrazia, il campo delle classi dominanti è già, con la testa, in uno scenario di amministrazione del dopo massacro. Sta a noi, ai pochi che restano con gli occhi saldi sulla catastrofe, trasformare la transizione in un campo di battaglia che diventi un incubo per gli ultimi e un’estasi vissuta insieme per i primi. O per chi ci sta.
In altri scritti è stata colta la posta in gioco che il potere vuole conquistare grazie all’emergenza: il 5G, l’ulteriore digitalizzazione della produzione e della distruzione (vedi il suo uso militare/civile). Ci sono validissime ragioni per pensare che il passaggio allo smart working e alla scuola digitale verrà confermato anche dopo la fine dell’emergenza.
Quindi concordiamo anche noi, come sul punto che ci siano mille ragioni che ci spingono a lottare contro questo ennesimo progresso verso l’abisso.
Eppure non possiamo non notare come ci siano già le premesse perché la maggior parte dei lavoratori protetti di oggi e domani accetti di buon grado. È probabile che dopo aver accolto come tecniche e neutrali le misure del governo sull’emergenza, tra cui reclusione, smart working per le élite del lavoro e scuola digitale, ampliare la banda sarà solo lo sbocco normale per moltissime di queste persone. Il tutto condito da una idea di vita bella come un ospedale, che profumi di amuchina.
Quello che rimane in ombra, nei discorsi dei politici come nelle sensibilità assopite, è che già la cosiddetta crisi è un ottimo pretesto per fare sentire agli umani in eccedenza, ai marginali, e ai non valorizzabili- ad es. i disabili che nella scuola digitale si ritrovano già senza sostegno- che sono sacrificabili.
Eppure non tutti i sacrificabili saranno ben lieti di salire sul patibolo della storia di Stato e Capitale, questo ci ricorda che abbiamo delle possibilità da giocarci.
Da qui, è ora?
Abbiamo già scritto che, a nostro parere, il momento richiede un impegno forse inedito per degli spiriti che rifiutano le forzose e arbitrarie barriere imposte dagli Stati: fare mente locale. A fronte della complessità, tanto nella gestione autonoma dei rischi legati all’epidemia quanto nell’affrontare le possibili nostre prospettive di attacco, le limitate capacità di visione e di azione ci spingono a ridurre la misura del nostro orizzonte verso unità geografiche e sociali più elementari. Ovviamente continuando a comunicare e ad arricchire il bagaglio di esperienze del campo di cui siamo parte, quello degli oppressi, nella consapevolezza che il nemico è lo stesso ovunque, contemporaneamente compatto e modulare.
Pensiamo la nostra analisi possa essere applicata, per ragioni di storia comune e simili contesti sociali, culturali ed economici, al sud Italia. Da Sud quindi, le misure draconiane applicate dal Governo, pur nella loro eccezionale novità, possono essere lette con la lente storica di una continuità strutturale: quella della colonizzazione. In situazioni di “normalità” essa si traduce nel predisporre, da parte di Stato e consorterie mafiose e massoniche, questi territori per qualsiasi scorribanda di speculatori legali e illegali che si aggiunge allo sfruttamento militare, alle mille terre dei fuochi e alle altre schifezze su qui questa società si basa; e, inoltre, utilizzo delle popolazioni come bacino di lavoratori da fare emigrare e di sbirri e soldati da reclutare. Quello che rimane per chi resta è l’inquinamento delle discariche, delle divise che presidiano tutto e della mentalità che questo produce: la fatale accettazione delle condizioni date, non incompatibile con una collera individuale buttata giù che raramente diventa rivolta sociale esplicita e diffusa. Nei decenni passati questo modello ha tenuto per dei meccanismi tipici dell’economia extralegale che permettevano alle “borghesie mafiose” di tenere sotto controllo, in cambio della distribuzione delle briciole e infimi lavoretti, quello che è stato definito proletariato fluttuante: un settore sociale molto ampio a cavallo tra proletariato e sottoproletariato, che si barcamena tra lavori extralegali e lavori precari ugualmente squalificanti. Questa struttura sociale che assorbiva in maniera intelligente e versatile diverse funzioni di potere- repressione delle spinte ribelli, accaparramento di voti clientelari per tutti i partiti istituzionali, messa a valore dei territori e ipersfruttamento dei lavoratori- ci sembra, per ragioni che non possiamo qui approfondire, si sia negli ultimi anni sfaldato. Non si è però disgregata la legislazione penale di emergenza contro la mafia, vero fiore all’occhiello dello Stato Italiano, né l’ideologia sociale che la sostiene. Risultato: gruppi, spesso di giovanissimi, che provengono dai quartieri popolari e che rimasti orfani della struttura economica di protezione precedente, tentano effimeri esperimenti di auto-organizzazione criminale, finendo però facilmente arrestati con accuse di associazione mafiosa. Con l’immancabile contributo della mostrificazione mediatica che alimenta, dall’alto verso il basso, meccanismi di razzistizzazione delle classi subalterne e oscuramento delle cause sociali strutturali del c.d. crimine.
Processi che sono alla base del dato su chi abita le carceri: la metà vengono da Sicilia, Campania, Puglia e Calabria4. E che spiegano, fuori dalle mura delle patrie galere, a quale domanda politica e sociale risponda l’erogazione del Reddito di Cittadinanza: il controllo delle masse del proletariato fluttuante meridionale, eterna classe pericolosa. Repressione penale, prevenzione e controllo da parte dello stato sociale (di polizia), due lati della stessa medaglia: lo Stato Italiano, lo stesso dalla legge Pica, passando per Dalla Chiesa, fino a Bonafede.
Ma torniamo alla cosiddetta emergenza. Già ad uno sguardo “laico” appaiono delle stranezze sul contenuto e l’effetto dei decreti: non bisogna infatti essere anti-statalisti per cogliere l’incongruenza di misure restrittive omogenee a livello nazionale per contrastare una situazione drasticamente eterogenea sul piano della diffusione del contagio. Se però abbandoniamo uno sguardo nudo per sceglierne un altro, il nostro, meglio preparato agli eventi in corso, ci si accorge subito di come la situazione attuale corrisponda a quella prefigurata dal rapporto Nato Urban Operation 2020, su cui da circa 15 anni è presente nelle distribuzioni di movimento un ottimo scritto di analisi5. Sebbene i think tank dell’apparato militare americani dessero la conflittualità sociale degli spossessati come antefatto e il loro intervento militare come risposta posteriore- forse, nel 1999, neanche loro potevano immaginare simili risultati di rincoglionimento di massa da parte di internet e social media- i problemi emergenti dello sviluppo di capitale in questi due decenni avranno convinto eserciti, stati e classi dominanti, a indirizzare verso nuovi obiettivi l’esperienza e gli armamentari accumulati: siamo troppi, il pianeta non ce la può fare, qualcuno (molti) devono morire fin dentro la fortezza Europa. Questo abominio indicibile è in realtà detto, anche con una certa onestà, pure da esponenti della morente e impotente intellettualità, sarebbe imperdonabile che rivoluzionari, o come vogliamo chiamare le nostre sensibilità ucroniche e utopiche, sorvolassero sulla cosa6. Leggendo i contributi di movimento scritti da che si è spaccata la storia sotto i nostri piedi, ci siamo imbattuti molte volte nella descrizione dei possibili scenari, del dopo- ristrutturazione, e dei margini di conflitto e attacco “una volta che tutto questo sarà finito”; o ancora nella generosa (ma anche un po’ retorica, no?) autocertificazione di un’etica inscalfibile di ostilità presente e futura verso questo mondo. La storia e la tradizione degli oppressi ci insegnano però che i momenti concitati della stessa ristrutturazione capitalistica sono terreni fertili di conflitto e di semina di ideali rivoluzionari e utopici, nell’ambito dell’auto-organizzazione e della solidarietà tra ribelli. Si tratta di tentare di capire con un apprezzabile anticipo sugli eventi, quando, come e dove questi avranno luogo, che ruolo potremo avervi, per non lasciare al nemico, tutto intero, quello spazio che si approssima che chiamiamo futuro. È quindi più interessante, perché necessario e utile, analizzare le specifiche condizioni, materiali e morali, dello scontro futuribile.
“Il potere gettò la maschera, gli oppressi dettero di muso in sciabole fucili e gas
il mondo si spaccò visibilmente in due non crederò mai abbastanza in quello che si vede
la fame reale o metaforica che sia può restare fame mille anni covare fame e figliare fame
ma la collera la rabbia è un virus di fuoco che può in ogni momento
non si deve dimenticare che può in ogni momento rovesciare l’asse del mondo”
G. Cesarano – Le notti delle barricate
La storia dello sviluppo di capitale è costellata da crisi, ristrutturazioni e conflitti; quella i cui effetti si stanno mostrando visibili è, per capacità di trasformazione, paragonabile alla prima ristrutturazione capitalistica su vasta scala della storia, quella dell’enclosures. Nel passaggio da un assetto sociale di produzione e riproduzione ad un altro, come nel caso dei commons privatizzati, Stato e classi dominanti hanno dovuto governare contraddizioni di ordine demografico e sociale che sorgevano nel processo. Il primo macchinismo industriale nell’Inghilterra del ‘700 rendeva infatti superflui, ai fini della produzione, gran parte dei salariati disponibili, il clima di malcontento e generale ribellione li rendeva pericolosi. È probabile che anche oggi le classi dominanti si trovino ad un tale bivio. L’automazione ulteriore, la robotizzazione, le tecnologie convergenti, i mezzi senza pilota, di cui il 5G è presupposto infrastrutturale, disegnano un (tecno)mondo basato su una espulsione di buona parte degli umani attualmente al lavoro con conseguenti problemi di gestione demografica e di ordine pubblico. È probabile che i nostri nemici lo sappiano bene e stiano cercando di prevenire questo problema, utilizzando la gestione dell’epidemia in quest’ottica: è solo una coincidenza che il governo abbia approvato il decreto di reclusione per tutta la popolazione proprio il giorno dopo le rivolte nelle carceri di tutta Italia?
L’Inghilterra di inizio ‘700 aveva optato per una deportazione di massa degli indesiderati inglesi e irlandesi verso le colonie di oltre mare, un continente che la mentalità razzista della corona inglese vedeva come vuoto. Ma oggi non c’è un altrove verso cui deportare gli umani indesiderati, né è pensabile che il dominio reale e totalitario del capitale tolleri delle “isole” in cui sperimentare forme di vita altra. È per questo che lo scenario più probabile ci sembra quello di uno scontro diretto e senza mediazioni. Da questo punto di vista, la situazione attuale è tatticamente e strategicamente ideale per sgherri ed esercito che cominciano a far volare i droni su tutte le città, anche quelle con un basso impatto del virus7.
D’altronde è probabile che l’esplosione arrivi prima dal lato sociale. L’abbiamo già detto, le carceri disseminate per lo stivale sono le succursali degli slums d’Italia, soprattutto del Sud. Il fatto che queste siano esplose una decina di giorni fa è già un segno che anche da questa parte delle mura, tra i dannati dell’italico suolo, la rabbia stia covando e l’innesco di nuove esplosioni potrebbe essere il prolungamento delle misure di limitazione della libertà. In questo caso, con il peggioramento delle condizioni materiali, con i soldi che finiscono per cibo e beni di prima necessità, la paura del contagio e dei controlli di polizia potrebbero non bastare a trattenere in casa molte persone.
Sarà allora che dovremo esserci, col nostro bagaglio di esperienze e di contatti maturati nel frattempo. Non dobbiamo però fare l’errore di pensare che ci sarà una “ora X” in cui tutte le contraddizioni del mega-dispositivo emergenziale saltino in sincrono, è più probabile, semmai, il presentarsi puntuale di momenti di tensione. In realtà, a ben guardare, quello che stiamo qui descrivendo è già iniziato8.
Per queste ragioni, chi fin dall’inizio di questa emergenza si è mosso, tentando di coagulare un gruppo di affinità o di resistenza, e mantenendo gli occhi aperti e ben direzionati sugli eventi, sarà sicuramente avvantaggiato dal punto di vista della raccolta di informazioni, capacità di circolare nei territori ecc. Col passare dei giorni anche altre persone potranno rendersi disponibili all’incontro e ad una prospettiva nuova di confronto e azione insieme. Sapere quello che succede in giro, specie in città, è veramente difficile se si è in casa o anche se gli incontri avvengono sempre al chiuso, arriverà quindi il momento in cui si dovrà decidere se, quando e in quale modalità violare le imposizioni in maniera pubblica. Questo avrà il risultato di far sapere a chi è in casa, con sempre più frustrazione, che fuori torna la vita, che la diserzione è possibile, che non si è soli. Mettersi insieme contro lo Stato, prendersi cura gli uni degli altri, farà rinascere reti di vicinato e solidarietà impensate solo fino all’altro ieri, ma è bene che fin da subito si cominci a pensare progettualmente ai luoghi e ai tempi della lotta e della vita nuova. Ampliare la rete fino a coprire il più ampio spettro possibile delle fasce sociali di oppressi, dev’essere la stella polare di questi raggruppamenti. La sfida del momento è molto ambiziosa, richiede capacità di lettura della realtà che negli ultimi anni, è inutile negarlo, si sono perse nelle routine anarchiche da circolo o occupazione e nelle polemiche, non sempre interessanti, di area.
Le prigioni in fiamme delle settimane scorse ci dicono anche dell’intelligenza istintuale, di una capacità di leggere la propria situazione che sono tutt’uno con una condizione corporea e sociale che produce rabbia. Una capacità che fuori quasi tutti abbiamo perso, forse anche tra le nostre fila. Siamo però sicuri che le scosse di quella stessa collera, una simile intelligenza istintuale, martelli i cuori e le teste di chi per condizione sociale di nascita vive in quartieri che sembrano collegati da porte girevoli alle carceri delle città. Una connessione, non via cavo, che fa sentire sulla propria pelle l’ingiustizia per i morti delle carceri, i propri morti.
Dovremmo coltivare anche noi una simile condizione.
Non è un caso che, in un momento in cui la civiltà capitalistica sembra coronare un sogno millenario di abolizione del corpo (e dei corpi oppressi), sia proprio questo una possibile fonte di conoscenza altra, come se fosse lo scrigno di tutte le esperienze negate della Storia; come se un’altra memoria vi fosse iscritta, quella dei tormenti di un’umanità altrimenti giocosa. È la rivolta forse- tra le altre cose- la chiave per aprire questo scrigno?
Le possibilità sono, fino a un certo punto, indipendenti da noi, la volontà è la forza che dà consistenza e vita a quel “noi”. Senza di essa saremmo dei contenitori di bisogni corporei, già cose, quindi, amministrabili. Prima delle battaglie da combattere alla luce, con i nostri simili, c’è questa, singolare, che ognuno deve combattere con le ombre interiorizzate del Capitale.
Solo dopo, potremo davvero e finalmente uscire.