«L’obiettivo è percorrere 100 chilometri correndo sul balcone di casa, una sfida sportiva dopo il varo delle misure per contenere i contagi da coronavirus. E’ l’impresa che sta cercando di raggiungere Gianluca Di Meo, runner 45enne di Bologna che dopo avere superato il percorso di una maratona, iniziando alle 4.30 di questa mattina e ‘tagliando’ il traguardo dopo oltre 7 ore e 6mila giri, ha deciso di proseguire per altri 50 chilometri. A raccontare la storia dell’atleta, nel 2017 vincitore della 150 chilometri di Rovaniemi, è il ‘Corriere di Bologna’. La corsa terminerà alle 22 dopo 18 ore, Di Meo a disposizione ha un balcone, nella sua abitazione a Padova, di 8,8 metri di superficie. “Questo per me non è un balcone – ha raccontato il runner – lo affronto con lo stesso spirito delle altre avventure in natura. In qualunque condizione non bisogna perdersi d’animo. Mi piace quello che sto facendo”.»
Come nel film l’Odio, dove la voce narrante sembra rassicurars(c)i dicendo che “fino a qui tutto bene”, il problema dell’atterraggio comincia a balenare dietro ai nostri occhi. Gianluca, come una sottospecie di criceto, cerca di allontanare la realtà. Riesce anche ad autoconvincersi che ciò che sta facendo gli piaccia. È sicuro correre sul balcone, è contento di accettare tutto ciò, anzi, ci tiene a diventare testimonial della bontà delle scelte del governo. Correndo sul balcone Gianluca cerca di esorcizzare la paura, ma da questo problema non si può scappare, esso ci attende in fondo agli occhi, alla fine dei nostri incubi. O dei nostri sogni? Guardiamo al disastro, o forse alla catastrofe, con che aspettative?
«Una donna di Lodi sceglie di non far morire l’anziana madre in ospedale, tenendola a casa, dopo avere perso il fratello e col marito ricoverato in rianimazione. Tutti colpiti da coronavirus.
La storia raccontata da un operatore del 118, che ha fatto il giro del web in questi giorni, è stata diffusa ora anche da Agenzia regionale lombarda per l’emergenza (AREU), tra le 9mila mail pervenute nell’ambito dell’iniziativa che invitava a ringraziare i soccorritori e chi si prodiga per le cure.
Paolo Baldini, infermiere, spiega di avere ricevuto una chiamata da Lucia, 55 anni, che vive coi figli in una casa a due piani. A quello di sotto sta la madre. “Gianni suo marito è in rianimazione intubato, Stefano suo fratello è morto l’altro ieri in Rianimazione. Mi spiega che chiama per sua mamma, 88 anni, che ha febbre, astenia, tosse, dispnea. Mi dice che il medico ha appena visitato la mamma e consiglia il ricovero in ospedale perché non sa più come gestire la situazione”. L’infermiere le propone allora un mezzo di soccorso per portare l’anziana in ospedale. Prosegue il racconto: “Lei mi blocca. La sua voce è calma e decisa. Ho la sensazione di dovermi preparare a discutere. Sono stanco ed egoisticamente non ho più voglia di parlare con nessuno. Lucia invece mi da’ una lezione di vita e mi dice che non vuole portare la mamma in ospedale. Mi spiega che ha già perso un fratello senza poterlo salutare e senza poter andare al suo funerale e che non vede e non sente il marito da dieci giorni. Mi dice che non vuole che sua madre muoia in ospedale. Aggiunge: “So perfettamente che in ospedale riuscite a malapena a stare dietro ai pazienti giovani e so perfettamente che se mando mia madre in ospedale la lasciate morire da sola perché non avete tempo di curarla”. Il soccorritore scrive di essere rimasto “in silenzio perché so che ha perfettamente ragione”. Due ore dopo, la mamma di Lucia muore. “Magari un giorno riflette Paolo – andrà dalla signora Lucia per abbracciarla e per dirle che ha fatto la cosa giusta. Perché se fossi un padre vorrei una figlia come lei”.»
C’è un’oscillazione tra la rassegnazione e la coscienza, tra l’arrendersi alla deresponsabilizzazione e l’accettazione del peso delle proprie scelte. Tra la fuga dalla coscienza sul proprio balcone e l’affrontare la responsabilità della morte delle persone che amiamo.
Avrebbe potuto vivere alcune ore in più, la madre di Lucia. Grazie ad un respiratore o all’ossigeno. Lucia ha deciso di non farla ricoverare, ha distrutto ogni probabilità della madre di sopravvivere. Ha scelto che la morte certa, tra le braccia di chi l’amava, sarebbe stata preferibile alla morte probabile in un letto d’ospedale.
Forse le cure avrebbero potuto alleviarne le sofferenze, consegnare l’anziana donna a qualche ulteriore giorno di sopravvivenza. Eppure questa possibilità è stata stroncata.
L’amore delle ultime ore è stato preferito alla quiete degli ultimi giorni. La qualità della morte rispetto alla quantità dell’agonia.
Questa è l’oscillazione: rendersi conto che la sicurezza offerta dallo Stato è flebile. Un balcone è troppo stretto per poter correre. Che la morte non può essere rimandata, va piuttosto saputa affrontare, assumendosene la responsabilità.
Siamo tutti chiamati a fare la stessa scelta, in fondo, quotidianamente. Accettare la possibilità di ammalarci oppure cercare di salvarci ognuno nelle proprie case, soli. L’agonia della socialità telematica quando sarà rifiutata, in questa oscillazione latente, per il rischio del contatto umano?
Gli esseri umani non sono numeri. Non sono statistiche, non sono curve. Hanno delle vite e delle storie, che possono anche apparire assurde. Fanno delle scelte, che sono insindacabili. Come quella di porre fine alla propria vita, di morire come e quando uno desidera. Oppure si trovano a dover decidere per le persone che amano. Qual’è il limite etico per cui, pur di salvare una vita a tutti i costi, essa può essere ridotta al dato nudo, a simile tra le tante, semplice paziente in una corsia d’ospedale?
«I pazienti più anziani non vengono rianimati e muoiono in solitudine senza neanche il conforto di appropriate cure palliative. Le famiglie non possono avere alcun contatto coi malati terminali e sono avvisate del decesso dei loro cari per telefono, da medici benintenzionati ma esausti ed emotivamente distrutti. Nelle zone circostanti la situazione è anche peggiore. Gli ospedali sono sovraffollati e prossimi al collasso, e mancano le medicazioni, i ventilatori meccanici, l’ossigeno e le mascherine e le tute protettive per il personale sanitario. I pazienti giacciono su materassi appoggiati sul pavimento.»
Questo scrivono i medici di Bergamo. Lo stato della sanità in Italia non è un fallimento organizzativo, è un fallimento di un intero modo di vedere la salute e la cura. Il fatto che gli ospedali siano focolaio di infezione (e non solo per il coronavirus: le infezioni ospedaliere, solo in Italia, fanno circa 50.000 morti l’anno) e che inizialmente sembra che il contagio sia partito da un pronto soccorso, non fa che rafforzare queste tesi. Con buona pace di chi lamenta i tagli alla sanità invocando più fondi dallo Stato.
L’ospedale è stato infatti una delle prime forme di istituzione totale, ovvero uno di quei luoghi in cui l’individuo scompare tra regolamenti e medici che sanno «cosa è meglio per te». L’occuparsi della malattia e della morte viene strappato dalla comunità e dalla responsabilità degli individui e consegnato alla medicina ed all’ospedalizzazione. La centralizzazione della cura crea questo problema, ovvero che gli individui non possono più decidere per loro stessi e non hanno nemmeno più le conoscenze riguardo al loro corpo. La salute viene resa faccenda da specialisti.
Eppure la salute non è cosa da specialisti. La vita e la morte sono responsabilità degli individui. Lo sa bene la signora Lucia, che in tempi normali sarebbe stata denunciata sicuramente. Lo sanno tutti coloro che decidono che per loro la malattia ha un significato diverso e vogliono curarsi – e magari non “essere curati” – in maniera diversa. Lo sanno coloro che pensano che la salute sia un concetto più ampio di “assenza di malattia”: salute è prima di tutto vivere bene.
Salute, però, è anche sinonimo di salvezza. Ed è in questo secondo salto di significato che ci si presenta il secondo bivio esistenziale: questa presa di coscienza riguardo ad alcuni aspetti profondi dell’esistenza e della vita che conseguenze avrà sul “ritorno alla normalità”? Forse non ce ne sarà neppure uno, di ritorno, forse non dovremmo neppure volerlo.
Gianluca non ne è mai uscito, dalla normalità, impegnato com’è a correre in balcone, ripetendosi che in fondo va tutto bene. E Lucia? E tutte quelle persone che hanno visto fermarsi la società e si sono rese conto del gioco di spettri che essa rappresenta, cosa vorranno fare della loro esistenza? Tornare a sperare fissando il vuoto dai loro uffici o in un’astinenza di realtà, dopo averla assaporata nel suo doloroso essere, cominceranno a desiderare altro? Quanto meno per non vedersi scorrere la vita tra le dita.
Per rimettere in moto questo mondo serviranno sacrifici e rinunce, per anni. Ma a quale scopo farlo? Per quelle certezze illusorie che scompariranno al prossimo disastro? Come si può tornare ad affidare la propria sopravvivenza agli scaffali di un supermercato quando ci si rende conto che nessuno garantisce che resteranno pieni per sempre? Dopo aver assaporato il peso della responsabilità si può tornare nella cieca accettazione dello stato delle cose? Chi venne rinchiuso oltre la sentenza che il lavoro rende liberi, almeno sapeva che il mondo fuori ancora continuava ad esistere, oltre il filo spinato dell’ideologia al potere. Chi ha varcato la soglia dell’esistenza sotto il motto della Fine della Storia, perché non dovrebbe tornare ad immaginare un futuro diverso?
Chiunque sta vedendo che le certezze sono poche. Chi con orrore, chi con gioia. Questa società sta crollando e noi con essa.
Proprio perché la questione è profondamente esistenziale non si può trovare conforto nella politica o nelle parole dello Stato. Occorre piuttosto venire ai ferri corti con sé stessi, interrogandosi nudi davanti allo specchio dei propri bisogni. Cos’è la salute? Cosa serve all’essere umano per vivere – e non per sopravvivere? Lucia ha abbandonato in un gesto ogni certezza, ogni promessa di sicurezza, testimoniando con la propria scelta che la vita è altro. Che la salute non sta nell’ospedale anche se vi potrebbe essere la cura. Che la salute deve portare in sé la possibilità di vivere degnamente, in libertà, con la responsabilità di sé stessi e delle proprie scelte. Non con la responsabilità dell’obbedienza.
La salute passa dalla possibilità di vivere liberi, e questa possibilità risiede solo negli individui e nella loro volontà di liberarsi da ciò che si frappone alla vita, di ciò che sterilizza il pericolo per salvaguardarne la sopravvivenza. Perché la salute risiede anche nel senso che diamo alla nostra stessa vita, a ciò che vogliamo ricordare quando, sul punto di morte, sapremo di aver vissuto secondo i nostri desideri. Degnamente.
Salutiamoci reciprocamente ricordandoci perciò che “La salute è in noi”. Un concetto da tenere bene a mente, parole chiare in tempi difficili.
Sembra assurdo dire queste cose di fronte ai dati di questa pandemia. Eppure, non c’è momento migliore per porci di fronte al bivio della Vita che ricordarci che siamo noi a doverci assumere la responsabilità della nostra stessa esistenza. Gianluca e Lucia sono due modi opposti di reagire. Scappare sul balcone o affrontare l’impensabile. Ma a cosa serve ripetersi cantilenando che “andrà tutto bene?”
La catastrofe è dolorosa opportunità, non torniamo alla normalità. Ne và della nostra salute.
La salute è in noi.