Miguel Amorós
L’attuale crisi ha provocato un notevole inasprimento del controllo sociale statale. Gli elementi essenziali in questo ambito erano già in atto poiché le condizioni economiche e sociali oggi prevalenti lo esigevano. La crisi ha solo accelerato il processo. Veniamo obbligati a partecipare come massa di manovra ad una prova generale di difesa dell’ordine dominante da una minaccia globale. Il Covid-19 serve da pretesto per riarmare il dominio, ma una catastrofe nucleare, un vicolo cieco climatico, un movimento migratorio inarrestabile, una rivolta persistente o una bolla finanziaria senza controllo sarebbero servite allo stesso modo.
Tuttavia la vera causa più importante è la tendenza mondiale alla concentrazione del capitale, ciò che i dirigenti chiamano indifferentemente globalizzazione o progresso. Questa tendenza è correlata al processo di concentrazione del potere, quindi al rafforzamento degli apparati di mantenimento dell’ordine, di disinformazione e di repressione dello Stato. Se il capitale è la sostanza dell’uovo, lo Stato ne è il guscio. Una crisi che mette in pericolo l’economia globalizzata, una crisi sistemica come si dice adesso, provoca una reazione difensiva quasi automatica, e riattiva meccanismi disciplinari e punitivi già esistenti. Il capitale passa in secondo piano, ed è allora che lo Stato si palesa in tutta la sua pienezza. Le leggi eterne del mercato possono andare in vacanza senza che la loro validità ne sia inficiata.
Lo Stato pretende di presentarsi come l’ancora di salvezza a cui la popolazione deve aggrapparsi quando il mercato si addormenta nella tana della banca e della Borsa. Mentre lavora per tornare al vecchio ordine, vale a dire, come dicono gli informatici, mentre cerca di creare un punto di ripristino del sistema, lo Stato svolge il ruolo del protagonista protettore, sebbene in realtà sia più simile a un giullare magnaccia. Malgrado tutto, e checché ne possa dire, lo Stato non interviene a difesa della popolazione, tanto meno delle istituzioni politiche, ma per difendere l’economia capitalista, e quindi il lavoro dipendente e il consumo indotto che caratterizzano lo stile di vita determinato da quest’ultima. In certo qual modo, si protegge da una eventuale crisi sociale derivante da una crisi sanitaria, difendendosi cioè dalla popolazione. La sicurezza che conta davvero per lo Stato non è quella delle persone, ma quella del sistema economico, quella solitamente definita sicurezza «nazionale». Di conseguenza, il ritorno alla normalità non sarà altro che il ritorno al capitalismo: ai quartieri alveari e alle seconde case, al rumore del traffico, al cibo industriale, ai trasporti privati, al turismo di massa, al panem et circenses… Finiranno le forme estreme di controllo come il confinamento e il distanziamento tra gli individui, ma il controllo continuerà. Niente è transitorio: uno Stato non disarma volontariamente né rinuncia di buon grado alle prerogative che la crisi gli ha concesso. Si accontenterà di «congelare» quelle meno popolari, come ha sempre fatto. Teniamo a mente che la popolazione non è stata mobilitata, ma immobilizzata, quindi è logico pensare che lo Stato del capitale, in guerra più contro di essa che contro il coronavirus, tenti di curarne la salute imponendole condizioni di sopravvivenza sempre più innaturali.
Il nemico pubblico designato dal sistema è l’individuo disobbediente, l’indisciplinato che ignora gli ordini unilaterali impartiti dall’alto e rifiuta il confinamento, che non accetta di restare in ospedale e non mantiene le distanze. Colui che non è d’accordo con la versione ufficiale e che non crede alle sue cifre. È ovvio che nessuno rimprovererà ai responsabili di aver lasciato il personale sanitario e curante senza dispositivi di protezione e gli ospedali con un numero insufficiente di letti e di unità di terapia intensiva, né ai pezzi grossi di essere responsabili della mancanza di test diagnostici e di respiratori, né ai dirigenti amministrativi di aver trascurato gli anziani nelle case di riposo. Non verrà puntato il dito nemmeno contro gli esperti della disinformazione, o gli uomini d’affari che speculano sulle serrate, o gli assicuratori avvoltoi, o coloro che hanno beneficiato dello smantellamento della sanità pubblica o che commerciano con la salute e le multinazionali farmaceutiche… L’attenzione sarà sempre deviata, o meglio telecomandata verso altri aspetti: l’interpretazione ottimistica delle statistiche, l’occultamento delle contraddizioni, i messaggi governativi paternalistici, l’istigazione sorridente alla docilità da parte dei personaggi dei media, i commenti umoristici delle banalità che circolano sui social network, la carta igienica, ecc. L’obiettivo è che la crisi sanitaria sia compensata da un livello più elevato di addomesticamento. Che il lavoro dei dirigenti non venga messo in discussione per un nonnulla. Che si sopporti il male e che s’ignorino coloro che l’hanno scatenato.
La pandemia non ha nulla di naturale; è un fenomeno tipico dello stile di vita malsano imposto dal turbocapitalismo. Non è il primo e non sarà l’ultimo. Le vittime non sono dovute tanto al virus quanto alla privatizzazione dell’assistenza sanitaria, alla deregolamentazione del lavoro, allo spreco delle risorse, all’aumento dell’inquinamento, all’urbanizzazione galoppante, alla ipermobilità, al sovraffollamento metropolitano e al cibo industriale, in particolare quello proveniente dai macro-sfruttamenti, luoghi in cui i virus trovano il miglior focolaio di riproduzione. Tutte condizioni ideali per le pandemie. La vita che deriva da un modello di industrializzazione in cui comandano i mercati è di per sé isolata: polverizzata, limitata, tecno-dipendente e soggetta a nevrosi, tutte qualità che favoriscono la rassegnazione, la sottomissione e il cittadinismo «responsabile». Sebbene siamo guidati da inutili, incompetenti e incapaci, l’albero della stupidità governativa non deve impedirci di vedere la foresta della servitù cittadina, la massa impotente disposta a sottomettersi incondizionatamente e a rinchiudersi per perseguire l’apparente sicurezza promessa dall’autorità statale. La quale non usa premiare la fedeltà, ma diffida degli infedeli. E per essa, siamo tutti potenzialmente infedeli.
In un certo senso, la pandemia è una conseguenza della spinta del capitalismo di Stato cinese nel mercato mondiale. Il contributo orientale alla politica consiste principalmente nella sua capacità di rafforzare l’autorità dello Stato fino a livelli inimmaginabili grazie al controllo assoluto delle persone tramite la totale digitalizzazione. A questo genere di abilità burocratico-poliziesca si può aggiungere la capacità della burocrazia cinese di mettere la stessa pandemia al servizio dell’economia.
Il regime cinese è un esempio di capitalismo tutelato, autoritario e ultra-produttivista generato dalla militarizzazione della società. È in Cina che il dominio avrà la sua futura età d’oro. Ci saranno sempre ritardatari pusillanimi a lamentarsi del declino della «democrazia» che comporta il modello cinese, come se ciò che definiscono così fosse la forma politica di un periodo obsoleto, che corrispondeva alla compiacente partitocrazia a cui partecipavano volentieri fino a ieri. Ebbene, se il parlamentarismo comincia ad essere impopolare e maleodorante per la maggioranza dei governati, e se di conseguenza diventa sempre meno efficace come strumento di addomesticamento politico, ciò è in gran parte dovuto alla preponderanza che in questi nuovi tempi il controllo poliziesco e la censura hanno acquisito sugli intrighi dei partiti. I governi tendono ad usare lo stato d’allarme come abituale mezzo per governare, poiché le relative misure sono le sole che funzionano correttamente per il dominio nei momenti critici. Tuttavia esse mascherano la vera debolezza dello Stato, la vitalità della società civile e il fatto che non è la forza a sostenere il sistema, ma l’atomizzazione dei suoi sudditi scontenti. In una fase politica in cui la paura, il ricatto emotivo e i big data sono indispensabili per governare, i partiti politici sono assai meno utili di tecnici, comunicatori, giudici e gendarmi.
Ciò che ora dovrebbe preoccuparci di più è che la pandemia non solo è il culmine di alcuni processi che arrivano da lontano, come quello della produzione alimentare industriale standardizzata, della medicalizzazione sociale e della irreggimentazione della vita quotidiana, ma avanza anche notevolmente nel processo di informatizzazione sociale. Se il cibo-spazzatura come dieta alimentare mondiale, l’uso generalizzato di rimedi farmaceutici e la coercizione istituzionale costituiscono gli ingredienti di base della torta della vita quotidiana postmoderna, la sorveglianza digitale (coordinamento tecnico delle videocamere, riconoscimento facciale e tracciamento dei cellulari) ne è la ciliegina. Si raccoglie quel che si semina.
Quando la crisi sarà passata, quasi tutto sarà come prima, ma il sentimento di fragilità e d’inquietudine durerà più a lungo di quanto vorrebbe la classe dominante. Questo disagio della coscienza minerà la credibilità della vittoria di ministri e portavoce, ma resta da vedere se ciò potrà buttarli giù dalla poltrona in cui si sono installati. Qualora conservassero il proprio posto, il futuro del genere umano rimarrebbe nelle mani di impostori, perché una società capace di prendere in mano il proprio destino non potrà mai formarsi all’interno del capitalismo e in uno Stato. La vita delle persone non potrà percorrere il cammino della giustizia, dell’autonomia e della libertà, senza staccarsi dal feticismo della merce, senza rinnegare la religione statalista, senza disertare gli ipermercati e le chiese.