DIETRO L’ANGOLO PT.10 – UN’ALTRA VITA

Accanto a un generale e indiscutibile impoverimento legato all’emergenza pandemica, di cui ancora non si vedono chiaramente le conseguenze, con ogni probabilità l’affaire Covid 19 avrà acuito riflessioni critiche anche in chi, pur non essendo tra i maggiormente colpiti a livello economico, avverte come sempre più soffocante e insopportabile l’organizzazione della vita e dell’ambiente ad opera del capitalismo. In toto o perlomeno alcuni dei suoi tratti.

Brusche interruzioni del tran tran quotidiano del resto possono lasciar più spazio di quanto non vi sia di solito nelle vite di tutti alla messa in discussione, anche profonda, anche di ampio respiro, delle condizioni di esistenza, soprattutto quando se ne percepisce l’insensatezza e l’iniquità. E le caratteristiche stesse di questa pandemia, e della sua gestione, non hanno certo lesinato input a chi abbia avuto la capacità e volontà di coglierli. I segnali di quanto lo sviluppo capitalistico imponga all’ambiente e agli esseri viventi, un grado di sottomissione sempre più profondo e rigido ai dettami che regolano l’attuale organizzazione sociale, affioravano già da tempo. Il merito, se così si può dire, dell’attuale epidemia è quello di averli portati a galla con maggior abbondanza e velocità. E sarà interessante vedere quali forme di proteste e conflitti e quali discorsi sapranno emergere al di fuori della stretta inesorabile della logica capitalista, e in quali ambiti. Ad esempio immaginiamo che, nelle scuole, la teledidattica dovrebbe comunque continuare anche nel prossimo anno scolastico, anche se non se ne conosce ancora l’intensità ed ampiezza. Come reagiranno genitori, studenti e personale docente a un modello d’istruzione che nell’acuire ulteriormente le differenze sociali favorisce un’atomizzazione sociale 4.0? Una scuola a misura di pandemia potrebbe avere chissà tutte le carte in regola per diventare uno dei rivoli in grado di dar più precisione e sostanza ad un’opposizione contro l’installazione della rete 5G. Non solo per le ineludibili ragioni sanitarie ma anche contro il mondo cui quest’infrastruttura contribuirà a dar forma con la polarizzazione sempre più feroce tra inclusi ed esclusi e in cui le vite di tutti saranno sempre più mediate e controllate nel loro relazionarsi con l’ambiente e con gli altri, da artifizi tecnologici che rischiano di stravolgerne profondamente il senso e significato.

E in ambito sanitario cosa avrà lasciato in chi vi lavora l’emergenza delle settimane passate? Il decorso della pandemia ha mostrato chiaramente non solo l’evidente inadeguatezza della sanità pubblica ma anche i limiti strutturali di un certo modello centralizzato che è stato tra i principali fattori di moltiplicazione dei contagi. Un modello che, come hanno rilevato molti medici e infermieri a caldo, in piena emergenza epidemica, ha dimostrato con una certa sfacciataggine di esser pronto a sacrificare una parte di popolazione, non solo nelle carceri e nelle Rsa, ma anche tra chi lavora negli ospedali, mandandoli allo sbaraglio con regole e strumenti di protezione ugualmente raffazzonate rispetto alle esigenze che la situazione richiedeva.

Quale spazio troveranno questo tipo di critiche all’interno delle prevedibili agitazioni su rivendicazioni strettamente lavorative – aumento di stipendi e del personale – e fin dove riusciranno a spingersi nella messa in discussione, tanto teorica quanto pratica, di un certo modello sanitario, del rapporto lavoratori/utenti e, a salire, della funzione che la medicina svolge all’interno dell’attuale società? Questioni particolarmente importanti specie se si riusciranno a trovare punti di incontro tra esigenze dei lavoratori e dei cosiddetti utenti della sanità. E ancora quali ragionamenti si saranno sgretolati e quali invece si staranno sedimentando nei tanti, soprattutto giovani, che negli scorsi mesi avevano riempito le piazze un po’ in ogni dove contro le conseguenze del riscaldamento climatico? Uno dei dati più inconfutabili emersi durante l’emergenza Covid è che per fermare o perlomeno ostacolare la devastazione ambientale è necessario, né più né meno, fermare la produzione capitalista. A dircelo chiaramente erano tanto le immagini satellitari sui livelli d’emissione di Co2, abbassatisi come non mai durante il lockdown, sopra la Cina come un po’ in tutto il globo, quanto l’aria fattasi improvvisamente più respirabile lungo le strade delle città in cui viviamo; per non parlare delle tante immagini di animali e vegetazione che riconquistavano pian piano terreno man mano che la macchina capitalista rallentava i suoi giri. Dati di cristallina evidenza: vedremo se e come stravolgeranno i discorsi e le pratiche alquanto generiche e aleatorie che hanno finora contraddistinto buona parte del movimento contro i cambiamenti climatici. Tanto più che altrettanto evidenti sono i segnali di ciò che accadrà con l’intensificarsi di determinati problemi ambientali: le misure di lockdown, la crescente militarizzazione e l’acuirsi delle disuguaglianze sociali di cui abbiamo avuto un breve ma significativo assaggio ci illustrano chiaramente quale futuro ci attende sotto la cappa di una ragion di Stato d’emergenza.

Quale sarà infine la spinta che quest’emergenza saprà dare alla messa in discussione dell’agricoltura come dell’allevamento intensivi, delle principali fonti attraverso cui gran parte dell’umanità si riproduce attualmente? E quali progetti di autorganizzazione e autogestione della produzione alimentare sapranno trarre nuova linfa dai segnali allarmanti, ultimi di una lunga serie, lanciatici da quest’epidemia? Non limitandosi magari, non certo per sminuirne l’importanza, ad una risposta principalmente sanitaria ed ecologica alla produzione industriale ma riconfigurando ipotesi in grado di rimettere in discussione le strutture fondanti ­– tra tutte proprietà e lavoro salariato – di quest’organizzazione sociale e trarre così forza e al contempo darne ai conflitti che si svilupperanno nelle città. In un rapporto città/campagna – se così quest’ultima si può ancora definire – da sempre alla base delle ipotesi rivoluzionarie che meriterebbe di essere ripensato in un mondo come quello in cui ci troviamo.

Non siamo così ingenui, o abbastanza ottimisti, per pensare che il carattere extraordinario dell’emergenza in cui siamo stati catapultati produca di per sé il risveglio di un certo spirito critico e di una certa conflittualità. La forza di una certa ragion di Stato, in grado di presentarsi come l’unica entità in grado di fornire soluzioni di un qualche tipo, per quanto parziali e limitate, è innegabile, tanto più in una fase in cui lo Stato è tornato a mostrare il carattere su cui fonda la propria sovranità: quello di poter interrompere e sospendere la normalità. Di certo la capacità attrattiva di questa forza, che emerga in esplicito consenso o anche solo in senso di impotenza, sarà inversamente proporzionale allo svilupparsi di esperienze e conseguenti riflessioni critiche in grado di aprire qualche breccia e fornire suggerimenti e suggestioni altre. Altre modalità per far fronte ai problemi materiali, altre logiche su cui regolare le nostre vite e le relazioni tra esseri umani.

Un’alterità che con ogni probabilità tenderà a manifestarsi con un ventaglio di pratiche molto differenti tra loro che potranno andare – per limitarsi ad alcune tra quelle condivisibili – da scelte di rifiuto, a pratiche di nonviolenza attiva, a pratiche di solidarietà materiale basilare, al sabotaggio, allo scontro con la polizia e al saccheggio. E tenderà ad esplicitarsi con riflessioni anch’esse molto differenti, confuse e a volte tra loro contraddittorie, portatrici come saranno sia a livello discorsivo che pratico di interessi e visioni del mondo specifici e parziali. Riguardo a questa contradditorietà sarà necessario non farsi stupire dalle parole d’ordine e dall’habitus informe con cui certi conflitti si presenteranno: come è probabile che non poche rivendicazioni saranno all’apparenza prive di mordente sovversivo e avranno obiettivi per lo più riformisti, è altrettanto plausibile il moltiplicarsi di frizioni sociali di larga scala che saranno il frutto della differenziazione sociale che la governance della competizione sfrenata ha imposto negli ultimi decenni. Da una parte i dispositivi come la razza, l’etica produttivista, la morale legalitaria, il decoro e la paura di perdere anche i beni primari, dall’altra la mancanza di uno status formale (dai documenti identificativi ai contratti d’affitto e di lavoro), di punti di riferimento relazionali e di un radicamento ritenuto appagante sono elementi che tra gli sfruttati assumono spesso questa polarizzazione ma che si combinano nelle crisi in formazioni inedite e di difficile decifrazione per ricavarne una lotta puntuale contro i responsabili della miseria. Val la pena dunque ribadire che ridursi a sottolineare questi limiti e contraddittorietà non sembra sia il modo migliore per approcciarvisi e capire cosa bolle in pentola. Ben più interessante tentar di coglierne gli aspetti di rottura non solo rispetto a quel senso di inesorabilità di cui è ammantato il capitalismo ma anche alla conseguente idea che sia possibile, quando non l’unica via praticabile, apportarvi dei cambiamenti sostanziali soltanto collaborando con autorità politiche e padronato. Una logica di collaborazione che potrebbe avere una certa diffusione, sempre che la controparte sia interessata e disponibile a promuoverla, laddove tenderanno ad acuirsi i problemi legati alla sopravvivenza materiale. La vecchia ricetta dell’assistenza, insomma, che possiede fondamenta e appeal tenuti ben fermi dalla sua decennale storia all’interno delle democrazie avanzate alla luce della sua sostanziale inoffensività; di più, che sembra fondare la propria ineludibilità di fronte a tutte quelle privazioni, anche estreme, e a quelle necessità materiali generate dallorganizzazione sociale all’interno di cui nasce.

Del resto come attendersi qualcosa di differente? I decenni di relativa pace sociale, ameno a queste latitudini, hanno scavato profonde e paludose trincee da cui non è certo facile uscire materialmente o anche solo spingersi con lo sguardo un po’ più in là di quanto lasci intravedere il capitalismo con il suo inesorabile procedere. Molto angusti sono i passaggi per chi prova a dare corpo ad un radicale sovvertimento delle attuali condizioni di vita, crinali stretti da una parte dalla logica dellagire per non star a guardare, dall’altra dalla logica di una distruzione col respiro corto. Da una parte quindi un attivismo che pur di arginare l’apocalisse in atto non va per il sottile, che alla bisogna collabora con agenti interni al sistema sociale che vorrebbe emendare, secondo logiche allineate e funzionali al mantenimento dello status quo. E trascina, più o meno volontariamente, in dinamiche di recupero o totale affossamento tutte quelle spinte di rottura da cui prende abbrivio. Dall’altra invece quella risposta alle difficoltà teoriche e pratiche proprie del conflitto sociale che, al netto dalla loro sacrosanta necessità, misura gli interventi rivoluzionari solo sulla base del volume offensivo; su tutti, il cosiddetto nichilismo anarchico, sviluppato ad esempio in Grecia nell’immediato indomani dei cicli di rivolte tra il 2008 e il 2012.

Ecco perché anche conflitti di combattività bassa non sono contesti da guardare storcendo il naso. Le teorie anarchiche classiche evocano il momento dell’insurrezione come un momento di rottura che rende insensato il tempo canonico e impone in tal modo una nuova vita; non diversamente, nell’incommensurabile piccola lotta che potrebbe prendere piede in un reparto di ospedale o in un magazzino della logistica potrebbe aprirsi la piccola breccia dell’interruzione, della possibilità. Non si va certo scrivendo che ogni situazione simile apre orizzonti di portata epica, ma in questi decenni di realismo fatalista e rassegnato, il mettersi di traverso al lavoro o per pretendere un servizio, fare ciò organizzandosi con chi condivide quell’oppressione o quel problema, può scalfire il moloch che abitiamoI momenti di autonomia dalla governamentalità del capitalismo contemporaneo non nascono certo sotto ai cavoli insieme ai bambini né principalmente dalle astrazioni teoriche di alcuni rivoluzionari, ma sono il frutto di esperienze conflittuali di chi si mette faccia a faccia e ragiona su come ostacolare i suoi sfruttatori e migliorare le proprie condizioni di vita e di libertà. Guardare con attenzione a certe situazioni conflittuali, laddove si evince un certo spontaneismo lontano dalle proposte logore dei politicanti, non significa credere che gradualmente possano espandersi fino alla rivoluzione, ma è per la necessità di riprendere in mano anche i più piccoli spazi di vita e libertà per organizzarsi, dando per ormai assodato che la vita dell’umano sia ormai così dipendente dall’organizzazione capitalistica e dalla sua risoluzione interna dei conflitti, che non ci si può permettere di non dare una giusta occhiata ai rapporti sociali che entrano sul terreno dello scontro.

Non è certo un caso che la forza dell’Idea emancipatrice, che nei secoli o anche solo alcuni decenni fa, ha spinto tanti rivoluzionari e sfruttati a battersi per la loro libertà e per quella delle generazioni che sarebbero venute dopo, da tempo risulta quantomeno vaga e affievolita. Ormai da tempo chi si ostina ad avere come obiettivo un mondo di liberi e uguali non ha più ha che fare soltanto con un problema di espropriazione e distribuzione – la terra ai contadini e le fabbriche agli operai e poi a ciascuno secondo i propri desideri e da ciascuno secondo le sue possibilità, una formula quanto mai difficile da realizzare ieri come oggigiorno, dato che ci son pur sempre padroni e governanti di mezzo, ma perlomeno semplice da immaginare e verso cui dunque tendere, –. Ormai da lunghi anni la complessità dell’organizzazione sociale, l’opera di devastazione ambientale e di colonizzazione della vita quotidiana da parte del capitalismo ha posto problemi che non lasciano molto spazio a utopie così semplici e lineari, almeno da ipotizzare.

La vita altra cui accennavamo irrompe nel migliore dei casi come un’ombra, riuscendo con le sue chiare linee di confine a tracciare nette demarcazioni tra l’attuale organizzazione sociale, che appare nitida e immediatamente visibile, e ciò che invece sta al di là, e appare oscuro e indistinto. Un’ombra che si distingue quindi soprattutto in relazione al resto, un’alterità che si connota prevalentemente in negativo, rispetto a ciò che non è e non vuole essere. Non potrà quindi essere la mancanza di una visione complessiva, lineare e ordinata di come dovrà andare il mondo il criterio principale attraverso cui valutare la radicalità delle pratiche e, soprattutto dei discorsi, che riusciranno eventualmente a diffondersi a livello sociale. Come detto nessuno, compresi i rivoluzionari, ci sembrano in grado di elaborare utopie positive e lineari come quelle che hanno rischiarato altre epoche di oppressione e ingiustizie.

Se i contorni di un mondo di liberi e uguali sapranno delinearsi oggigiorno, sarà con ogni probabilità per l’intrecciarsi di una profonda e dolorosa opera di distruzione, tanto materiale quanto culturale, di ciò che il capitalismo ha con tanta cura e ferocia costruito nel tempo, e per i tanti tentativi, più o meno significativi, di vivere e abitare negli spazi che quest’attività insurrezionale permetterà di sottrarre al controllo dello Stato. Opera di distruzione a attività creativa che saranno tanto più precise e possibili quanto più nasceranno conflitti all’interno della società, nei quartieri, nel mondo del lavoro, della sanità etc. che, pur senza mettere in discussione il capitalismo nel suo complesso, saranno però in grado di rompere l’isolamento feroce e il senso di impotenza che attanaglia un po’ tutti e di rendere più precise le conoscenze e le riflessioni di come funzionano determinati pezzi di mondo e di come e se è possibile farli funzionare altrimenti. Ben difficilmente riflessioni e percorsi critici che nascono da problemi specifici potranno intrecciarsi tra loro a priori, a tavolino, vista la debolezza del collante ideologico che visioni del mondo altre hanno rispetto al passato. Se e quando percorsi di lotta differenti riusciranno realmente a intrecciarsi o coordinarsi sarà molto probabilmente perché il livello del conflitto che saranno stati in grado di raggiungere potrà stimolarli, o costringerli tout court, a perseguire delle ipotesi e avere una visione critica più complessiva. Altre ipotesi di coordinamento, o ricomposizione che dir si voglia, è facile diano vita invece a pachidermici e formali carrozzoni, come abbiamo avuto modo di vedere in questi anni, frutto del tentativo operato dalle componenti più militanti di mettere assieme, a tavolino, lotte differenti riuscendo a intrecciare per lo più qualche parola d’ordine e slogan da scrivere sugli striscioni di apertura di qualche manifestazione.

Pare necessario quanto mai prima dare una qualche forma a quel concetto di autonomia che affinché sia tale deve riuscire a tenere intrecciate la sfera della libertà e quella della necessità, come dolorosamente ci avverte l’epidemia attuale. A meno di non sposare o accettare di buon grado ipotesi apocalittiche in cui saranno solo in pochi a sopravvivere.

Per dire altrimenti occorre trovare il modo di riaffermare, in un’epoca che sta cancellando questo termine da ogni vocabolario, a parte quello peloso di alcuni politicanti, la centralità del concetto di universalità, contro ogni logica di selezione ed esclusione. E per farlo ci sarà bisogno di una spinta sovversiva talmente forte da far incontrare realtà e utopia.

Torino aprile-giugno 2020

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Nord sud ovest est

Taglio netto

Il mondo inabitabile

Macchine, sensi e realtà

Lockdown, quarantene e zone rosse

Un lato oscuro. Ancora su guerra civile e insurrezione.

Movimento disordinato

 

https://macerie.org/index.php/2020/06/24/dietro-langolo-pt-10-unaltra-vita/

Morte allo stato – Morte al patriarcato

La mattina del 12 giugno 2020 i Ros inscenano l’ennesima operazione
repressiva anti-anarchica, stavolta firmata dalla Procura di Roma. Due
compagni finiscono agli arresti domiciliari e altre/i cinque vengono
arrestate/i sul territorio italiano, francese e spagnolo. Tra le accuse,
come ormai prassi, quella di associazione sovversiva per finalità di
terrorismo e istigazione a delinquere. Ancora una volta lo scopo è
quello di colpire chi si rivendica la solidarietà come pratica offensiva
e supporta attivamente i compagni e le compagne anarchiche nelle maglie
della repressione. Come a Bologna il mese scorso, con l’operazione
Ritrovo, le modalità si ripetono: sbirri in passamontagna, in alcuni
casi pistole spianate e porte sfondate, telefoni requisiti, perquise e
sequestri di materiale informatico e cartaceo.

Lo stato attraverso queste dimostrazioni muscolari tenta di impaurirci e
farci sentire isolate, in linea con questa società patriarcale che ci
vorrebbe docili, rinchiuse nei nostri predefiniti ruoli di genere. Non
ci sorprende quando, come in questo caso, i media sottolineano la
presenza di donne all’interno delle inchieste, mostrando stupore nel non
trovarci relegate in seconda fila. Rifiutiamo queste logiche impregnate
di paternalismo, non cerchiamo protezione ma complicità nell’attaccare.
Al tentativo di sottrarci l’uso della violenza come risposta a ciò che
ci opprime ci si è sempre ribellate e sempre ci si ribellerà.

Non vogliamo avere in concessione un posto in questa società
patriarcale, che si mantiene e si riproduce anche attraverso la
distribuzione del potere al genere socializzato come femminile, ma solo
danzare sulle sue macerie.

Non ci interessano i tecnicismi legali e i concetti dicotomici di
colpevolezza e innocenza. Come femministe e anarchiche possiamo solo
rivendicare la solidarietà con chi colpisce il sistema patriarcale in
tutte le forme con cui questo si esprime.

Trasformiamo la paura in rabbia e la rabbia in forza. E questo ci rende
pericolose.

Morte allo stato
Morte al patriarcato
Per l’Anarchia
Complici e solidali con le arrestate/i dell’operazione Bialystock
TUTTI E TUTTE LIBERE

Alcune anarchiche femministe

Op. Prometeo – Aggiornamenti sull’udienza preliminare

Il 22 giugno si è tenuta l’udienza preliminare per l’operazione Prometeo presso il tribunale di Milano. Gli avvocati hanno chiesto e ottenuto dal gip il cambio di sede processuale a Genova per incompetenza territoriale della procura di Milano. I nuovi pm e GIP avranno perciò 20 giorni per chiedere la proroga delle misure cautelari per Beppe e Natascia, e si attende la fissazione della nuova udienza preliminare a Genova.

Seguiranno aggiornamenti.

PER CONTRIBUIRE ALLE SPESE LEGALI E DETENTIVE:

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PER SCRIVERE A NATASCIA E BEPPE:

NATASCIA SAVIO
C/O C.C. SAN LAZZARO
STRADA DELLE NOVATE 65
29122 PIACENZA

GIUSEPPE BRUNA
C/O C.C. DI PAVIA
VIA VIGENTINA 85
27100 PAVIA

Small is beautiful?

«Ho studiato il fenomeno della dedizione, spesso cieca, dei tecnici per il proprio compito.
Considerando la tecnologia moralmente neutra, costoro erano privi del minimo scrupolo
nello svolgere le loro attività. Più tecnico era il mondo che ci imponeva la guerra,
più pericolosa era l’indifferenza dei tecnici davanti alle conseguenze delle loro attività anonime».

Albert Speer, architetto membro del partito nazista 
e Ministro per gli armamenti e la produzione bellica dal 1942 al 1945
 
Nel 1959, un fisico che aveva partecipato al programma di ricerca che ha portato alla costruzione della bomba atomica, fece una curiosa presentazione in una università californiana. Concluse pronunciando parole che volevano essere profetiche, come si addice ai grandi visionari della scienza: «C’è molto spazio in fondo alla scala». Per decenni la sua profezia generò più speculazioni che accurate ricerche. Fino al giorno in cui i primi laboratori di ricerca cominciarono, negli anni 80, a dedicarsi allo studio dell’«infinitamente piccolo». Battezzate «nanotecnologie», queste ricerche comprendono tutti i procedimenti di fabbricazione o di manipolazione di strutture su scala nanometrica (1 nanometro corrisponde ad 1 miliardesimo di metro; un filamento di DNA umano ha una larghezza di 2 nanometri). Il «grande balzo in avanti» è stato fatto nel 2001, quando gli Stati Uniti riconobbero le nanotecnologie come un settore strategico per la ricerca scientifica, irrorando i laboratori col più grande piano di investimenti della loro storia.
Ma le tenebre durarono ancora per un po’ in fondo alla scala. Passò diverso tempo e molti laboratori faticavano a produrre qualcosa di «concreto», nel senso di applicazioni industrializzabili. Diventarono un po’ più discreti, non solo a causa della feroce concorrenza tra differenti potenze, ma forse anche per timore di una contestazione «irrazionale» e «tecnofobica» come quella incontrata dall’introduzione degli OGM in alcune parti del mondo (oggi in gran parte sconfitta, anche se alcuni paesi come la Francia continuano a vietare la loro commercializzazione per l’alimentazione umana nel proprio territorio — il che non impedisce che la quasi totalità delle coltivazioni di mais negli Stati Uniti sia transgenica, così come il riso in India, il grano e la colza in Argentina, ecc.). Assisteremo dunque all’ennesimo inutile annuncio da parte di scienziati che giurano di «rivoluzionare il mondo»? Dappertutto sono stati creati nuovi laboratori, unità di ricerca, cluster che raggruppano istituzioni e aziende, tutti dediti a ricerche sulle nanotecnologie. In Francia, si contano almeno 240 laboratori di nanoscienze. I «poli di competitività» collegati alle nanotecnologie si trovano a Lione (Lyonbiopôle), Grenoble (Minalogic), Besançon (Microtechniques), Provence Alpes-Côtes d’Azur (Optitec e Solutions Communicantes Sécurisées) e Centre-Limousin (Sciences et systèmes de l’énergie électrique). Invece i più importanti istituti di ricerca sono a Grenoble (Institut des Neurosciences), Saclay (Triangle de la Physique), Strasburgo (Centre International de Recherche aux Frontières de la Chimie) e Aix-Marseille (Institut Carnot). Si noti comunque che la maggior parte delle università dispongono ognuna di almeno un laboratorio specifico per le nanotecnologie e che molte regioni si sono dotate di un «centro di competenze» che raggruppa gli attori della ricerca e della produzione nanotecnologica.
Qualche anno fa, lo Stato francese ha istituito un meccanismo di dichiarazione obbligatoria per le imprese che usano nanomateriali nei propri prodotti. Senza ovviamente riportarne i nomi esatti (non esiste alcuna regolamentazione relativa alla segnalazione di presenza di nanoparticelle prodotte, come avviene ad esempio nel caso di additivi negli alimenti), ma l’ultimo rapporto annuale (relativo al 2019) rileva almeno 900 prodotti alimentari contenenti nanoparticelle. Tra questi c’è il latte per bambini, dolciumi, cereali per la colazione, barrette di cereali o dolci e dessert surgelati. Inoltre l’utilizzo di nanomateriali in altri settori conosce da qualche anno un aumento significativo: nanocomponenti in elettronica, nanoparticelle nei prodotti cosmetici, nanopolveri utilizzate per trattare e migliorare le superfici metalliche, ecc., senza dimenticare — e questo con un po’ meno «trasparenza» — le loro numerose applicazioni in campo militare. E siccome ogni produzione genera la sua parte di rifiuti, i residui dei processi produttivi di nanomateriali si accumulano. Sembra che per il momento questi scarti vengano semplicemente bruciati oppure spediti altrove, preferibilmente verso i campi della morte in Africa (come in Ghana, dove si trova una delle più grandi discariche a cielo aperto per i rifiuti informatici del mondo intero).
 

E allora? In cosa i nanomateriali differiscono da qualsiasi altro prodotto industriale? Da qualsiasi tossicità prodotta dall’economia? Oseremmo dire, a rischio di dare forse troppo credito all’entusiasmo dei ricercatori, che un’altra soglia qualitativa può essere superata coi nanomateriali, e che non si tratta di una mera estensione quantitativa di ciò che già esiste. Per fare il parallelo con gli OGM: questi costituiscono, sì o no, una soglia-limite in rapporto alla devastazione già provocata dall’agricoltura industriale? Sono semplicemente «un po’ più della stessa cosa» o stanno aggiungendo «qualcosa d’altro» alla somma delle schifezze esistenti? Per gli OGM, non v’è dubbio che la risposta sarebbe generalmente affermativa, trattandosi di manipolazioni che influenzano la struttura stessa del vivente e della sua diffusione nell’ambiente. Ebbene, noi saremmo piuttosto propensi a dare la stessa risposta in materia di nanotecnologie.

La sintetizzazione di composti chimici non è certo nuova. Durante la Seconda guerra mondiale, i complessi chimici del Terzo Reich producevano già un «petrolio sintetico» per rispondere ai bisogni della Wehrmacht. La novità con le nanotecnologie è la scala su cui è possibile lavorare, e soprattutto il fatto che su scala nanometrica le proprietà della materia cambiano. Non si comporta più secondo le medesime leggi fisiche. Il carbonio ad esempio può diventare più resistente dell’acciaio. Il rame può diventare trasparente e l’alluminio esplosivo. Basta e avanza per suscitare l’entusiasmo degli apprendisti stregoni in questo mondo in cui l’artificiale prevale sempre più sul «naturale». Modificare le proprietà della materia potrebbe semplicemente trasformare nel tempo l’insieme della produzione attuale e generare nuovi «insormontabili problemi» (rifiuti, tossicità, limiti fisici…). Basti pensare a come potrebbe essere sconvolto il panorama del trasporto di elettricità, considerata l’attuale perdita di quasi il 5% sulla linea, se alcuni nanomateriali superconduttori venissero usati per sostituire i cavi odierni, costituiti per lo più da una lega di alluminio. O se i microchip diventassero così microscopici (oggi, la loro miniaturizzazione è limitata dalle proprietà dei materiali usati, di solito il silicio) da non essere quasi più rilevabili. 
Parlando di irrilevabile, istituzioni di controllo come l’Anses (Agenzia nazionale di sicurezza sanitaria) ammettono da parte loro che è molto difficile e per il momento abbastanza aleatorio rilevare le nanoparticelle nei prodotti o nell’ambiente. Inoltre le nanoparticelle sono «indistruttibili», non scompaiono mai, viaggiano di corpo in corpo, dai laboratori ai prodotti, dai prodotti alla terra, dalla terra al cibo, ecc. Queste particelle, le cui proprietà sono state modificate, trapassano per di più tutte le membrane e i «filtri» protettivi di cui sono dotati la maggior parte degli organismi viventi. Pertanto, una nanoparticella può passare dallo stomaco o dal polmone al sangue, quindi dal sangue al cervello e così via, e sono disponibili pochissimi dati sulla loro tossicità. A titolo di esempio, lo Stato francese ha vietato nel 2019 in base al «principio di precauzione» l’additivo E171, il biossido di titanio, in tutti i prodotti alimentari ma non nei 4000 farmaci che lo contengono. Secondo cifre ufficiali, lo stesso biossido di titanio utilizzato dall’industria può contenere fino al 2,3% di nanoparticelle. Come per gli altri veleni industriali, la tossicità nanometrica è legata principalmente a una questione di gestione, con soglie modificabili all’infinito in funzione delle necessità del momento.
 
Per il momento, i «limiti» contro cui si scontra l’attuale produzione capitalistica sono parecchi, ma non costituiscono ostacoli insormontabili tali da annunciare la fine della loro preziosa crescita. Al contrario, costituiscono altrettante «sfide» per un’economia in perpetua ristrutturazione. Ad esempio, le previsioni di penuria di petrolio (tra l’altro abbastanza discutibili) incitano da decenni alla ricerca, alla commercializzazione e alla produzione di idrocarburi alternativi, e oggi possiamo vedere dovunque i disastri causati dal superamento di tale «limite»: monocolture di mais e colza per produrre idrocarburi, esplosione del fracking, sostituzione dei tradizionali motori a combustione con motori elettrici (e domani forse a idrogeno) e così via. Le nanotecnologie svolgeranno sicuramente un ruolo fondamentale nell’ulteriore artificializzazione del mondo. In questo senso, ogni attesa non fa che contribuire al progresso del dominio e delle sue opprimenti prospettive. Perdersi in interminabili discussioni sui gradi di pericolosità delle nanoparticelle rischia allo stesso modo di far perdere di vista che si tratta anzitutto di una via importante per l’economia allo scopo di superare determinate soglie e perpetuare così, ipotecando permanentemente il mondo, la sua mortifera esistenza.
In fondo, come davanti alle altre promettenti tecnologie del dominio, la sola questione di qualche interesse da porre, qui e ora, resta quella dell’attacco distruttivo.
 
[Avis de tempêtes, n. 30, 15 giugno 2020]
https://finimondo.org/node/2493
 

O mundo em Chamas! Atividade na Biblioteca Mumia Abu Jamal. Okupa Viuva Negra. Novo Hamburgo.

A nova realidade, imposta a força pela mídia e autoridades estatais.
Instalando um policial na mente de seus cidadãos, um policial que
observa, julga, pune e reprova encontros e afetos, pronto para denunciar
e excluir, aumentando a desconfiança e isolamento já há muito
estabelecidos na sociedade. A nova realidade de controle, de organização
do capitalismo onde entre o vácuo do isolamento as tecnologias prometem
ser a salvação e a felicidade confiando em seu mais íntimo amigo, o
smartphone, entregam seus costumes e hábitos, preferências e desejos
para bancos de dados que o conhecem melhor que qualquer amigx real. Em
nome da segurança, do bem social e do progresso.

 A crise atual era prevista, alguns estudos de diferentes universidades
alertavam sobre está possibilidade que vem sendo cada vez mais cíclica.

 O isolamento social vêm sendo usado para o controle das camadas sociais
que vêm a sofrer uma intensificação da violência institucional e não
pela saúde de seus súditos.

Acreditamos na necessidade de expressar o desacordo a narrativa
dominante que se aproveita para intensificar o controle sobre as vidas.

Não queremos sair para trabalhar e sim para retomar nossas vidas e tomar
de assalto este mundo de misérias.

Que estas palavras junto com ação sejam um sopro de energia a todxs
rebeldes em luta.

A todxs que sentem a liberdade gritar através de seus instintos.
Estamos em guerra!

Contra o estado, o capital e toda autoridade!

Biblioteca Múmia Abu-Jamal

Okupa Viúva Negra

Aggiornamenti su Mauro Busa

Mauro, trasferito ad Agrigento, ha richiesto i domiciliari per la sua condizione di salute a rischio COVID. Il magistrato di garanzia della città l’ha respinta motivando la scelta con l’affermazione che lui è un prigioniero
che i NIC (nucleo Investigativo Centrale: la DIGOS dell’amministrazione penitenziaria) di Torino hanno classificato “detenuto pericoloso”.
Il suo concellino, una volta saputo della sua malattia, ha iniziato a creare problemi sostenendo che – a cuasa della sua condizione – Mauro era più a rischio di ammalarsi di Coronavirus e poi di infettare gli altri.
Dopo che la voce era girata in sezione, per evitare problemi Mauro ha chiesto di essere messo in cella da solo: hanno accolto la sua richiesta.
Da un po’ di tempo Mauro ha smesso di mangiare animali; inoltre dice di non mettere francobolli dentro alle buste perchè non li fanno passare.
Non gli stanno facendo arrivare l’opuscolo “Olga” perchè ritenuto sedizioso.
Chiede che gli si spediscano cose da leggere perchè non ha nulla.
Dice di aver spedito lettere “a mezza italia” ma non ha praticamente ricevuto risposte.

per scrivergli:
Rossetti Busa Mauro
cc. piazza di Lorenzo, 1
Contrada Petrusa
92100, Agrigento

https://roundrobin.info/2020/06/aggiornamenti-su-mauro-busa/