Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ieri sono scoppiate delle proteste in seguito alla positività al coronavirus di un prigioniero.
Una cinquantina di prigionieri pare si siano impossessati della sezione Nilo senza scontrarsi con le guardie.
Oggi la protesta è ripresa con battiture e richieste di amnistia e indulto.
Il carcere è sovraffollato e si spera venga distrutto a breve..
Author Archives: roverello
Napoli – Proteste al carcere di Secondigliano
I prigionieri del carcere di Secondigliano stanno protestando in seguito al probabile contagio da coronavirus di quattro di loro. Sono state fatte delle battiture e stese delle lenzuola con delle scritte fuori da alcune celle.
I contagiati, come riporta questo quotidiano, forse sono stati ‘addirittura’ portati in ospedale.. ma come? Sono prigionieri, gli scarti, gli esclusi della società, possono morire..
Nuovo sito Podcast “La nave dei folli”
Episodio 1
La nave dei folli è la società cibernetica globalizzata che procede verso l’inevitabile naufragio.
Ora che è scoppiata una pandemia, a bordo c’è un gran trambusto.
Riusciranno il capitano e i suoi secondi a mantenere la rotta pur nelle enormi difficoltà e veleggiare verso un futuro post umano?
Riusciranno i passeggeri a far valere i loro diritti nello stato di emergenza che si è creato?
Intanto sottocoperta un gruppo di mozzi non è d’accordo e cerca di cambiare rotta.
La civiltà del Contagio o… il contagio della Civiltà.
Quello che stiamo vivendo in queste settimane è qualcosa che non ha precedenti per la nostra generazione e forse neanche per quella precedente. Ma persino il confronto con i periodi delle guerre mondiali potrebbe portarci fuori strada. Nonostante gli sproloqui nazionalisti, gli inni nazionali, e i militari nelle strade, non siamo in guerra. La minaccia qui non è il bombardamento, la paura durante un’epidemia è qualcosa di più introspettivo, e al contrario della guerra dove l’attesa e l’incubo che il tuo soffitto cada in mille pezzi ci porta a stare vicini e avvinghiati in un caldo abbraccio con le persone a noi care, la risposta emotiva al contagio è una sana e responsabile distanza da chi ci sta accanto. Un aperitivo analcolico di quello che potrebbe essere il collasso della civiltà moderna, servito con tutte le precauzioni del caso: nonostante la scarsità delle bevande gli stuzzichini sono comunque garantiti. Ma lo scenario è davanti ai nostri occhi e ciò che più dovrebbe preoccupare non è tanto la risposta repressiva dello Stato e i suoi dettami, a quello forse dovremmo esserci almeno un po’ abituati, ma alla sconcertante risposta della massa addomesticata, ormai incapace di rispondere per conto proprio ad alcun che se non al proprio smartphone. E come in tutte le epoche passate, quando il panico si diffondenelle masse queste si apprestano alla caccia: all’untore, alle streghe e ai non allineati ai dettami del “bene comune”.
È ormai evidente cosa lega oggigiorno in maniera quasi totalizzante le masse, l’opinione pubblica, la politica, i mass media. Qualcosa trasversale ad ogni colore politico, dai destri ai sinistri, dagli intellettuali ai cafoni di quartiere, qualcosa che in una società sempre più divisa tiene tutti insieme appassionatamente: la salute, o la non salute, o per essere più precisi la Scienza medica. Chi si è opposto alla recente campagna di obbligatorietà dei vaccini è stato distrutto, deriso, represso, attaccato da ogni punto di vista grazie a un vittimismo becero che ha reso i genitori che hanno fatto resistenza assassini di poveri bambini con gravi patologie usando come veicolo la propria prole a mo’ di untori. E quest’attacco è arrivato persino da alcuni così detti fautori dell’anarchia, come la FAI e riviste affini, mentre anche tutto il resto di un movimento radicale più ampio (resto degli anarchici compresi) non ha preso neanche in considerazione la questione.
Non c’e da sorprendersi quindi che la diffusione del Covid19 abbia travolto e avvolto nel terrore la quasi totalità delle persone civilizzate di quasi tutto il mondo. Ma non tutti ovviamente credono alla favola istituzionale, voci fuori dal coro e pensieri in controtendenza ce ne sono. Nella psicosi del confinamento domestico, nel mondo dentro la rete di internet girano video, testi, messaggi. Teorie cospirazioniste, confutazione dei dati, visioni alternative della salute e quant’altro. Inutile entrare nei dettagli, se state leggendo questo testo avrete letto e visto già molto altro.
Ogni epidemia della storia si diffonde all’interno di società che hanno in diverse maniere degradato il loro modo di vivere, partendo da luoghi spesso sovraffollati, inquinati, dove la maggioranza delle persone vive con distacco e degrado il loro stato di salute generale e abituale. Dove l’approvvigionamento dei bisogni primari, cibo e tecnologie atte alla sopravvivenza, non è più nelle mani di piccole comunità con modalità più o meno diffuse all’interno della popolazione ma sono sempre più accentrate nelle mani dei pochi gruppi elitari dei vari settori. Più ci si allontana dalla produzione diretta del cibo che si mangia o al peggio dalla consapevolezza di sapere almeno da dove questo arrivi, più si perde la capacità di gestire in modo autonomo la propria salute e più quest’ultima diventa precaria. Illuminante da questo punto di vista, ma in generale dal punto di vista dell’alimentazione, è il lavoro di Weston A. Price che negli anni ‘30 del novecento girò il mondo e incontrò numerose popolazioni “primitive” (definite tali perché ancora si producevano o si procacciavano la maggior parte del cibo) con l’intento di scoprire cosa mangiassero e qual’era il loro stato di salute. Era un periodo storico dove molte di queste popolazioni stavano man mano venendo in contatto con il progresso e il cibo industriale. Notò che quando queste popolazioni mangiavano il “loro cibo” il loro stato di salute era ottimale, i denti perfettamente posizionati e senza carie (lui era un dentista) e malattie ed epidemie che dilagavano nel resto delle società che andavano via via globalizzandosi non si presentavano invece fra queste. Quando invece le stesse etnie di persone venivano in contatto con il progresso, la ferrovia o la strada, e iniziavano ad avere a disposizione i cibi moderni come zucchero, farina bianca, marmellate, cioccolata, e cibi in scatola, la loro salute fisica e mentale precipitava. Le malattie che oggi consideriamo “normali” come quelle di origine cardio-vascolare, diabete, cancro, carie, non erano affatto normali tra gli individui di queste popolazioni. Interessante anche il fatto che in queste comunità “primitive” la consapevolezza sulle proprietà dei cibi era molto alta e quelli più nutrienti venivano destinati alle donne durante la gravidanza o ai bambini in fase di sviluppo. Il dottor Price notò come la dieta di questi popoli fosse molto più ricca di vitamine (o attivatori) liposolubili, in particolare la vitamina A, D e K2 che troviamo abbondantemente nel pesce, negli organi interni e nel grasso di animali che sono cresciuti pascolando all’aperto. La lezione che possiamo trarre da questi popoli del passato e da molte altre comunità indigene che ancora popolano angoli di questo pianeta è enorme, in termini di autoproduzione del cibo, di autogestione della salute e di indipendenza dal sistema ipertecnologico globalizzato.
Nel corso di meno di un secolo questo residuo di consapevolezza e di pratiche di vita è quasi del tutto scomparso nel mondo civilizzato e globalizzato e le conseguenze sono sempre più devastanti. Ma persa questa consapevolezza si perde anche la capacità di porsi le giuste domande. Ci si chiede quindi se il virus è mutato e in che cosa piuttosto di capire come noi e lo stato di salute del nostro sistema immunitario siamo mutati. La maggior parte della gente accetta di essere relegata in casa, ad abbuffarsi probabilmente di cibo, collegati tutto il giorno a internet in mezzo alle radiazioni elettromagnetiche sempre più invadenti del WI-FI, senza prendere il sole e stare all’aria aperta, in uno stato sempre maggiore di stress e psicosi, tutte cose che aggravano lo stato del sistema immunitario. La criticità dei contagiati quindi aumenta, ma la colpa viene data al virus che è più cattivo e comincia a prendersela con i più giovani.
Più che metterci una mascherina sul viso dovremo toglierci le bende dagl’occhi. Ma forse non è il momento giusto, bisogna prenderne atto. Inutile dire a chi si è tagliato e sta sanguinando che dovrebbe imparare ad usare meglio il coltello.
Non c’è da stupirsi, come già detto prima, che gli epicentri della pandemia siano spesso aree altamente inquinate e con un’alta densità di popolazione. In una parola nelle città. Ed è sempre stato così. La civiltà è la società degli abitanti delle città, sinonimo di progresso e innovazione tecnologica. Nondimeno dovrebbe essere ormai chiaro che è anche il luogo dove lo stato di salute dei suoi abitanti diviene sempre più debilitante. Ma nonostante queste evidenze ormai eloquenti, e questa pandemia è soltanto l’ultimo di una lunghissima serie di eventi che hanno portato alla luce questa innegabile verità, la maggior parte delle persone civilizzate, e la maggior parte anche dei movimenti radicali continua a pensare che è questa la casa dell’uomo moderno e che sia impensabile ripensare un modo di vivere differente. Sarà quindi la tecnologia a salvare dal disastro questo mondo globalizzato al collasso.
E su questo non c’è alcun dubbio. La risposta a tutti i nostri problemi attuali sarà sempre più tecnologia. Lo stiamo vedendo ora durante l’epidemia, nuove tecnologie mediche (farmaci e vaccini), nuove tecnologie per l’educazione scolastica a distanza, nuove tecnologie di controllo (apps, droni, ecc…). E questo è solo l’inizio. Dopo questa esperienza chi non vorrà la diffusione del 5G per migliorare la connettività globale, chi non vorrà obbligare tutte le persone di questo mondo a vaccinarsi con ogni sorta di vaccino per salvaguardare le fasce più deboli della società (fasce in continua espansione visto la degenerazione psico-fisica attuale).
La via per il transumanesimo, la fusione dell’uomo con la macchina, è ormai aperta da molto tempo, e da un certo punto di vista è l’unica via per salvare la società industriale e tecnocentrica moderna e l’essere umano che le dà vita.
L’altra via, l’unica altra rimasta, è rinnegare tutto questo sistema ipertecnologico, la città, la vita moderna, la scienza medica, e prendersene tutte le responsabilità e conseguenze del caso. La civiltà moderna è insostenibile, c’è chi lo dice e lo sostiene ormai da decenni. Ma non ci si può certo aspettare un tale approccio dalle masse addomesticate che non vedono l’ora di tornare ai loro happy hours. Questo appello è rivolto principalmente ai movimenti radicali che nelle loro differenze cercano un cambiamento concreto della vita di tutti i giorni. Per quanto ancora bisognerà credere nella tecnologia, nell’assistenza sanitaria, nella scuola, nella società dei diritti. Il lavoro necessario per intraprendere questo cammino è immenso, faticoso e intergenerazionale. Ma l’alternativa sarà sempre e soltanto più asservimento alla tecnologia e alle élite che la governano. Riprendersi in mano la nostra salute e quindi l’approvvigionamento di cibo salutare è un passo decisivo.
La nostra dipendenza dal sistema di produzione e distribuzione è uno dei nostri più grandi limiti. E sono molti i miti che dovremo sfatare, oltre a quello tecnologico e del progresso, per imbarcarci in questa impresa. E soprattutto disintossicarci dalle politiche identitarie di ogni tipo. Ma questo non è esattamente un appello per creare un nuovo movimento globale anti-civ. È un invito a creare comunità stabili che puntino a riprendersi in mano le proprie capacità, a partire dalla nutrizione e dalla salute, orizzontali ed egualitarie, in grado di generare solidarietà e mutuo aiuto sia all’interno che verso altre comunità con caratteristiche simili. Non è per niente un’idea nuova, è l’idea anarchica nella sua essenza, ciò che molte comunità umane indigene ancora presenti su questo pianeta fanno da millenni.
Avremo un compito molto urgente appena questa emergenza sarà finita e si avrà la possibilità di tornare liberamente nelle strade in gran numero. Fare manifestazioni e azioni dirette di ogni tipo per mettere le mani avanti su tante cose che vorranno imporci da qui a breve: 5G, vaccinazioni obbligatorie e implemento tecnologico securitario. Sarà un primo passo per far comprendere che la nostra salute non dipende dall’OMS e dai nuovi inquisitori del PTS (Patto trasversale per la scienza, quelli che hanno il compito di definire e denunciare come fake news tutto quello che si oppone al sistema sanitario istituzionalizzato). Qualcuno sta cercando di farlo già ora in “clandestinità”, ma sarà dopo che non potremo più permetterci il lusso di stare in silenzio.
La nave dei folli si schianterà contro l’iceberg, per allora dovremo aver imparato a nuotare.
Hirundo, Marzo 2020
La civiltà del Contagio… o il contagio della Civiltà
Apre il sito ilrovescio.info
Quello che non appare, la zona d’ombra di ciò che viene detto, la
violenza dietro lo sviluppo, il controllo dietro la sicurezza, il
disciplinamento dietro l’educazione, la schiavitù dietro lo smartphone,
la solitudine dietro la connessione, la cantina insanguinata sotto il
salotto democratico, il gesto di ribellione non raccontato,
l’insoddisfazione dietro i falsi sorrisi, il bisogno d’amore che preme
dietro la rabbia, le classi dietro la comunità, lo Stato dietro il bene
pubblico.
Ma anche il temporale della rivolta, l’esperienza storica e l’utopia
della rivoluzione sociale, lo sconquasso che fa saltare il mondo
dell’autorità e della merce, la libertà e l’uguaglianza sognate,
intravviste, vissute.
Di tutto ciò vorremmo parlare in questo sito, partendo dall’attuale
stato di emergenza per andare anche altrove nel tempo e nello spazio.
Sentiamo l’esigenza di affiancare alla carta – che continuiamo e
continueremo testardamente a imbrattare e a diffondere – un altro
strumento di comunicazione.
Per dire la nostra anche su fatti ed episodi apparentemente più minuti,
la cosiddetta cronaca, che possono tuttavia aprire qualche lampo di
riflessione sui tempi in cui viviamo, e, come loro rovescio, sulla vita
per cui ci battiamo. Compresi quei fatti ed episodi a cui difficilmente
dedicheremmo un volantino.
Per smascherare questo o quel progetto del potere economico e politico,
dando all’ingiustizia nome, cognome e indirizzo.
Per provare a leggere i conflitti latenti e far conoscere le pratiche,
anche piccole, di solidarietà e di autorganizzazione.
Per lanciare appuntamenti di dibattito e di lotta, e per raccontarli a
modo nostro, contro il “monopolio del discorso” che la classe dominante
esercita attraverso i suoi giornali e le sue televisioni.
Per dare spazio alle azioni che infrangono l’ordine del denaro e della
gerarchia.
Per mettere in corrispondenza le lotte di oggi con le controstorie
dell’utopia.
Non siamo né vogliamo essere dei “professionisti” né ci vogliamo far
condizionare dalla “comunicazione in tempo reale”. Per comunicare
davvero qualcosa, bisogna viverlo.
La crisis sanitaria como herramienta de domesticación
Este texto pretende ser una aportación al debate sobre lo que está pasando. Es un intento de entender un poco mejor lo que la narrativa oficial de la epidemia nos cuenta, y lo que nos oculta, y como la están llevando a la práctica las instituciones. Se trata de contribuir a crear una perspectiva crítica, que sirva para afrontar lo que se nos viene encima.Lo que nos están contando los medios de comunicación sobre la epidemia suena a historia de terror, lo que pasa en el vecindario, y en los hospitales parece confirmar su autenticidad. La historia oficial de esta epidemia dirige nuestra atención hacia algunos aspectos de la realidad, en cambio otros, quedan ocultos. Esta historia suena familiar, y parece que simplifica demasiado las cosas: una amenaza, unos buenos, unos malos y la promesa de un final tranquilizador. Si se siguen las indicaciones, claro. Las medidas que están tomando las instituciones estatales van en la misma línea que este relato, y están provocando situaciones graves en lo sanitario y en lo social.
En medio de la confusión, el relato oficial pone cara a los agentes que intervienen en la crisis, así aporta un sentido concreto a los acontecimientos. En él se señalan las vías para la gestión sanitaria, social y punitiva de la crisis. Conviene prestar atención a lo que dicen, lo que hacen y lo que ocultan las instituciones para comprender mejor lo que pasa. La forma literaria permite a las autoridades mezclar lo sanitario con lo policial, al enfermo con las instituciones y al virus con la indisciplina. La narrativa admite el préstamo de palabras y metáforas entre ámbitos diferentes, lo que facilita la gobernanza.
Un virus salvaje
La epidemia viene de Oriente, según los medios de comunicación, concretamente de una zona en que lo civilizado, lo avanzado, conviven con lo primitivo. Es curioso que la mayoría de relatos sobre epidemias sitúan su origen lejos de Europa y EE.UU. En ellos se presenta al virus como una manifestación de la naturaleza salvaje. Se dice de él que es feroz, astuto, egoísta, destructivo…rasgos a medio camino entre lo animal y lo humano. Curiosamente éstas son las mismas cualidades con que los romanos describían a los bárbaros. Para el Imperio romano, eran bárbaros quienes amenazaban la estabilidad de Roma desde el exterior (los pueblos vecinos) o desde el interior (plebeyos rebeldes y esclavos).
El relato oficial vincula el grado de civilización de un sitio a la fortaleza de las instituciones encargadas de la seguridad y la sanidad; un Estado fuerte sería sinónimo de civilización. Cuando los medios de comunicación señalan a un territorio como origen de la epidemia, lo que están anunciando es la imposición en esa zona de nuevas medidas de control sanitario y policial, sea a nivel estatal o internacional. La coartada más frecuente para justificar la colonización ha sido siempre el deseo de civilizar al otro.
Lo que no se cuenta, es que muchas de estas enfermedades aparecen en territorios recientemente urbanizados e industrializados. Los procesos bruscos de urbanización y hacinamiento de la población favorecen la trasmisión de patógenos. La urbanización intensiva de ecosistemas naturales arrincona a la fauna en espacios reducidos. La agro-industria hacina animales e introduce productos químicos, antivirales, antibióticos, etc. En general, la transformación brusca del hábitat humano y animal favorece la aparición de enfermedades. Buenos ejemplos de esto son la gripe porcina, la aviar, la de las vacas locas, etc. El Capitalismo necesita expandirse y colonizar territorios siempre, pero no aparecerá como responsable de ninguna epidemia, s más fácil culpar a algún pueblo con costumbres poco civilizadas.
El virus encarnado
La narrativa oficial nos sugiere que al pasar a los humanos, el virus nos transforma, pero no a todos igual. A quienes se someten a la disciplina sanitaria y al control social, estén o no enfermos, se les adjudica el papel de víctimas. A las personas indisciplinadas se las señala como cómplices del virus, por egoísmo o por irresponsabilidad, y se las convierte en chivos expiatorios. La latencia del virus facilita la aparición de la figura del portador sano, que no es consciente de su infección. La narrativa oficial centra mucha atención en la figura del portador sano, culpabilizándolo, y esto genera un ambiente de desconfianza generalizada cercana a la paranoia.
La curación, según la versión oficial, requiere del sometimiento total a las normas sanitarias, y la realización de algún tipo de sacrificio. Los sacrificios del enfermo son el aislamiento y el tratamiento médico (si tiene suerte), el sacrificio de los demás es el confinamiento. En la Biblia, cuando Jesús cura a un leproso, le recomienda que para terminar de sanarse debe expiar sus pecados con sacrificios. La relación entre enfermedad y pecado viene de lejos, hoy no se habla de redención, pero sí de un sometimiento acrítico como forma de responsabilidad social.
Esta forma moralista de presentar la epidemia culpabiliza a las personas, dejando libre de responsabilidad al negocio empresarial y la gestión estatal. Pero las enfermedades no se convierten en epidemias por culpa de una o varias personas, hace falta un entorno favorable en lo ambiental, lo social, lo económico, las infraestructuras, etc. Afrontar esto implicaría chocar con los negocios capitalistas, y eso no es lo que quieren las autoridades. Cualquier persona puede ser potencial portadora del virus, y por eso se ha decretado nuestro confinamiento en casa, en el barrio o pueblo y en el país. Las autoridades nos aseguran que es para evitar contagios, pero al sancionar a gente por salir a la calle sola, o con algún familiar con quien conviven, la explicación médica parece que deja paso al del orden público. Se nos informa mal y se nos dice, con acento patriarcal y lenguaje de colegio, que debemos quedarnos en casa por nuestro bien y el de los demás. La emergencia obliga a no cuestionar las decisiones de los técnicos, y menos aun plantearse la posibilidad de otra forma de gestión de la crisis, no hay nada que debatir. El problema es que la emergencia es, cada vez más, la norma. Además nuestra dependencia total con respecto a la sanidad estatal, la ausencia de alternativas de base, hace difícil incluso plantearse otras formas de afrontar la epidemia.
El confinamiento fomenta la sobre-exposición a los medios de comunicación y las redes sociales. La combinación de aislamiento y comunicación telemática está generando una cultura del confinamiento, cuyo principal ingrediente es el Síndrome de Estocolmo. Además se está normalizando lo virtual como sustituto higienizado de lo real y del trato cercano. Esta cultura está naturalizando el control social, empieza a percibir la calle como un espacio de riesgo, y la casa como un refugio seguro. En este contexto, el aislamiento se anuncia como una forma de higiene social, que debe completarse con la disciplina y el mantenimiento del orden. La cultura del confinamiento reproduce algunos rasgos de la cultura, los valores y los hábitos de la clase dominante. La propaganda oficial nos dice que debemos ser solidarios y quedarnos en casa, pero en cambio fomenta a todas horas una cultura del individualismo, de la indiferencia por el otro, del cálculo sin emociones, de las emociones sin reflexión, que se filtra en las casas por los medios de comunicación y las redes cibernéticas. La mayoría de la población, depende, en su día a día, de redes informales de cuidados y de ayuda mutua, asumir la cultura de la élite es no solo frustrante, sino suicida. El relato oficial de la epidemia es el principal promotor de esta cultura del confinamiento, de momento el único que se oye.
Las calles están siendo reducidas a lugar de paso para trabajadores y consumidores, la ciudad esta pacificada. Este parece el sueño hecho realidad de los primeros urbanistas del siglo XIX. El término control social se empezó a usar entonces para describir la tarea de los urbanistas, que incorporaban la lógica sanitaria a sus proyectos. La planificación urbana debía ordenar el espacio, la movilidad y la interacción entre personas para prevenir la emergencia de patologías médicas (enfermedades) o sociales (revueltas, motines, etc.). Algunas de estas transformaciones tuvieron efectos positivos para la salud del vecindario, pero a cambio aumentaron el control social. Entonces como hoy, el sometimiento y el control social son el pago a cambio de la promesa de salud. Cuando se traslada el relato oficial de la epidemia al territorio, se convierte en un mecanismo de gobernanza, que está muy relacionado con los procesos de gentrificación. Lo que oculta la versión oficial es que aislados somos más vulnerables a los efectos de cualquier crisis y del Capitalismo en general. Además, evita decir, que la verborrea médica está sirviendo de maquillaje para la domesticación sanitaria de la población.
La casa es, según la narrativa oficial, un espacio seguro que sirve de refugio contra la amenaza externa. Esa lógica se desliza pronto hacia lo institucional, y así el cierre de fronteras busca inmunizar al país ante la amenaza externa, aunque éstas ya estaban cerradas para la mayoría. Este traslado de lo personal a lo estatal pretende, entre otras cosas, estimular la identidad nacional entendida como colectividad inmune. Las crisis son momentos delicados y las instituciones necesitan conservar su legitimidad. Los fenómenos biológicos no respetan límites fronterizos ni controles aduaneros, y por eso hacen visible su carácter arbitrario, artificial. Además, la falta de medios y la falta de previsión ante la probabilidad de la aparición de epidemias, muestran que el Estado no esta cumpliendo con su promesa de proteger la salud de la población. Para evitar que la legitimidad de las instituciones quede dañada se envuelve todo con la bandera nacional.
La guerra sanitaria
En estos días, la mayoría de las decisiones gubernamentales han seguido una lógica a medio camino entre lo médico y lo militar. En principio, puede parecer raro ver a médicos y militares juntos en las ruedas de prensa, pero esto tampoco es nuevo. Durante la I Guerra Mundial las epidemias solían provocar muchas bajas, eran una amenaza tan importante como los ejércitos enemigos. Los médicos militares decidieron que la patria era un cuerpo social, amenazado por enemigos humanos y microbianos. El estilo bélico en la lucha contra epidemia, tanto en el relato como en su puesta en práctica, sigue esta lógica. Lo que no se dice, es que la salud de las instituciones y la de la población son cosas diferentes. Tampoco se explica por qué la mayoría de las medidas institucionales durante y después de estas crisis, tienden a empeorar las condiciones de vida de los sectores más oprimidos y explotados.
El ambiente bélico ha convertido a los medios de comunicación y las redes sociales, en una especie de aspiradoras de atención. Cada día las aspas (médica, política, militar y policial) de la máquina se ponen a dar vueltas, y generan una corriente de estadísticas, datos y emociones que nos arrastra hacia la lógica institucional. Esta corriente estado-céntrica pretende fortalecer el vínculo entre los individuos y las instituciones, presentándose éstas como únicas mediadoras entre la población y la epidemia (o el incendio, terremoto, inundación, etc.). La guerra sanitaria tiene dos frentes principales, según sus portavoces, el microbiano de los sanitarios y científicos, y el territorial de la policía. Probablemente, la sobreactuación en el ámbito represivo, trate de disimular la debilidad de un sistema sanitario que ya estaba colapsado antes de la epidemia, y antes de los recortes. La arenga militar tampoco confiesa que son las transformaciones políticas, económicas y sociales del Capitalismo, las que propulsan las epidemias. El discurso oficial esconde que la lógica militar solo contribuye a agravar los problemas provocados por la enfermedad.
La corriente estado-céntrica tiende a debilitar los vínculos que no tienen a las instituciones como eje. Estos vínculos son necesarios para el sostenimiento de la vida, y cuanto más vulnerable es la situación de alguien, más depende de ellos. La lógica inmunitaria es un lujo que no todo el mundo puede permitirse. La sanidad estatal y la privada monopolizan la gestión de nuestra salud, y las decisiones se toman entre expertos y gestores. Teniendo en cuenta la situación de la sanidad estatal ya antes de la crisis, es probable que no hubiera muchas alternativas al confinamiento, pero de todas formas la población no está invitada a opinar. Como en otras crisis, el Estado retoma protagonismo, para gestionar las catástrofes que provoca el Capitalismo y garantizar su continuidad. La gestión estatal de esta epidemia parece que siguiera el modelo chino, sobretodo en lo represivo.
La coronación de héroes
El relato oficial funciona porque promete un final tranquilizador, la contención de la epidemia. En él se nos aclara, por anticipado, quienes serán los artífices de la victoria: héroes serán las instituciones sanitaria, científica y punitiva, y el Gobierno. En un siguiente escalón estaría la ciudadanía disciplinada, más abajo los portadores inconscientes del virus y en el infierno mismo estaría minoría indisciplinada junto al virus. Esta escala se puede reconocer si se presta atención a la forma en que los medios tratan a cada escalafón. El relato oficial distingue bien entre el papel de los héroes y el de los soldados rasos que cumplen con su deber, como las cuidadoras (remuneradas o no) y el resto de trabajadores que siguen con su labor. Además, la coronación de los héroes será solo una pausa, hasta el siguiente rebrote de este virus, o de su primo. Si lo que está provocando la aparición de estas epidemias son situaciones sociales, económicas o geopolíticas de larga duración que no se van a afrontar, entonces la siguiente crisis espera a la vuelta de la esquina.
Los héroes sirven como modelos de conducta, hacen de puente para que los súbditos confinados se puedan identificar con las autoridades al mando. Cuando a pesar de los héroes, el vínculo súbdito-Estado se debilita, aparece la crítica y la indisciplina que son la peor enfermedad para una institución.
La necesidad de un enfoque crítico
El lenguaje se utiliza para confundir a los enemigos, reunir y motivar a los amigos, y ganar el apoyo de los espectadores vacilantes, dicen los analistas militares, y añaden que la guerra es un duelo de narrativas más que de razones o datos. En esta guerra sanitaria el enemigo es, aparentemente, el virus. Este virus parece tener como aliados a los vínculos entre personas no mediados por el Estado, y a la población indisciplinada. El relato oficial genera pánico, cortocircuita la capacidad crítica y refuerza la cultura de la clase dominante. Al hacer esto influye sobre las líneas de trabajo científicas, médicas y policiales, agravando la situación ya delicada de muchas personas. El relato fomenta la sumisión acrítica a la autoridad, y estigmatiza a sectores concretos de la población. Convendría tratar de ir un poco más allá de la mampara sanitaria-militar, para poder tener una perspectiva más amplia, o sea mejor.
Crisis estructural, no excepcional
Esta epidemia no es un suceso original o repentino, ya han pasado antes otras parecidas a distinta escala. Las epidemias y la guerra dependen para su aparición de factores sociales, por eso están ligadas a las formas de dominación. La forma actual es el Capitalismo, y hace tiempo que se venía anunciando que volvería a entrar en crisis, parece que ya llegó. La epidemia está acelerando procesos económicos y de control social. Algunos de estos procesos ya se anunciaban hace tiempo, como la vuelta de la crisis económica, otros en cambio se estaban ensayando a escala más pequeña, como las tecnologías de control social. Esta puede ser la Crisis del Coronavirus, como la de 2008 fue la Crisis Financiera y antes hubo la de las Puntocom o la de Petróleo. Todas ellas son manifestaciones diversas de un Capitalismo en crisis permanente, desde hace al menos 50 años. Aunque la novedad es que esta haya llevado a la parálisis de gran parte de la economía.
El relato oficial, en el 2008, describía la crisis como una catástrofe natural, con sus terremotos financieros, su tormenta en los mercados, su sequía crediticia, etc. El Capitalismo se presentaba como un hecho natural, cuestionarlo sería como cuestionar la brisa marina. Esta crisis también se solía describir como una enfermedad que atacaba la salud de la economía, a la que se le inyectaba fluidez para sanear sus cuentas. Al representar la crisis como una patología, se ocultaba la posibilidad de otro tipo de diagnósticos, como que la enfermedad fuera el Capitalismo mismo.
Las epidemias responden a causas estructurales, ligadas al modelo social en que se desenvuelven, que en este caso es el Capitalismo. Cada crisis que vivimos, responde a las necesidades de transformación del modelo capitalista.
El relato de la epidemia que nos están contando no es nuevo, hay versiones anteriores. Si en la Biblia se relacionaba la enfermedad con el pecado, los teólogos medievales refinaron el argumento. En sus escritos acusaron a herejes, judíos, gitanos y moriscos de provocar epidemias, y de ser ellos mismos una plaga que podía contagiarse. La difusión de estas ideas fomentó el confinamiento y la persecución de poblaciones enteras.
Las crónicas de las epidemias del s XIX, acusaron a las personas migrantes de ser portadoras de enfermedades, especialmente si se resistían a perder su cultura de origen. Las primeras mujeres que lucharon contra los roles asignados por el Patriarcado, también fueron objeto de esta acusación. En su caso, se las acusaba de portar una enfermedad que amenazaba el corazón del cuerpo social, la familia. El tratamiento para ellas debía ser, una vez más, el confinamiento en el hogar. Durante la Guerra Fría los portadores se volvieron más siniestros. Disidentes y agitadores se infiltraban con disimulo entre la población, y contaminaban con sus ideas a la ciudadanía honrada. La lucha anticolonial de esos años, llevó a las metrópolis a acusar a sus colonias de ser territorios sanitariamente peligrosos, y proclives a la enfermedad comunista.
En todos estos casos, el relato de la epidemia ha tenido una estructura similar, unos héroes y unos villanos parecidos, y un final semejante. El relato terminaba con el reforzamiento de la cultura de las élites como cultura dominante, y con la criminalización de sectores enteros de población.
Un virus que cabalga el Capitalismo
Los patógenos necesitan ecosistemas favorables para reproducirse, hace falta que se dé una relación adecuada entre el virus y los procesos sociales, ambientales, tecnológicos, etc. La industrialización y la urbanización intensivas son ecosistemas favorables para el surgimiento de epidemias, como lo es cualquier transformación brusca del hábitat animal o humano. El Capitalismo es el auténtico Paciente 0, las instituciones estatales se lavan las manos sobre este asunto, y se limitan a gestionar los efectos de la epidemia.
El modelo social capitalista se basa en la competencia y la desigualdad, por eso necesita entidades que garanticen la seguridad de sus negocios, y la paz social. Durante este Estado de Alarma se están potenciando las medidas represivas que ya se aplicaban antes, y sobretodo se las está extendiendo a gran parte de la sociedad. El confinamiento es una medida que pretende evitar el contacto entre personas, y obstaculiza las redes informales de amistad y cuidados. La distancia social que nos han impuesto, no afecta igual a todo el mundo, hay quienes para poder vivir dependen totalmente de esas redes como las personas migrantes, las presas, las madres solteras, etc. Y aunque no se esté en ninguna de esas situaciones, el confinamiento agrava los malestares provocados por la explotación y la dominación que ya existían antes. Hay confinamientos y confinamientos.
La Ley Mordaza se diseñó para reprimir las protestas durante la anterior crisis, y está siendo una herramienta fundamental para castigar la indisciplina en ésta. Es probable que, como ha pasado en otros sitios, algunas de las medidas excepcionales que se tomen ahora, acaben por instalarse permanentemente en nuestras vidas. La mordaza tiene ahora un uso sanitario.
Agredir a la vida
El Capitalismo daña la vida al contaminar el medio ambiente y destruir entornos naturales. Las desigualdades y la explotación dificultan el sostenimiento de la vida colectiva. La lógica capitalista trocea la vida, dividiéndola entre el trabajo productivo y el reproductivo, y la convierte en una carrera suicida. El Estado ataca la vida con el sistema punitivo y las guerras. Además de todo esto, el Capitalismo sacrifica a una parte de la población cada cierto tiempo al fomentar la aparición de epidemias.
La estructura del relato oficial se parece a la de los viejos ritos de paso, esos que se usaban antiguamente para marcar las etapas de la vida (de la niñez a la adultez, de la soltería al emparejamiento, etc.). Esas ceremonias servían para preparar a los miembros de la comunidad para los cambios que se les avecinaban. Los ritos de paso solían pasar por tres fases, la primera era la separación con respecto al resto de la comunidad. Luego había que pasar un periodo de transformación personal. Finalmente, el individuo se reintegraba al grupo como una persona nueva.
La narrativa oficial de la epidemia y sus aplicaciones prácticas, pretenden transformar la cultura, los valores y los hábitos de la población para adaptarlos a las necesidades del Capitalismo. Para eso promocionan identidades colectivas como la del ciudadano responsable o la del patriota, y favorecen determinadas formas de relación entre las personas, y entre estas y el entorno natural. Hay aspectos de esta transformación que ya son visibles, como el uso de la casa como lugar para todo (trabajo, consumo, educación o gobernabilidad). Además, la distancia social se presenta ahora como un hábito saludable, mientras que el encuentro no mediado por las instituciones, genera sospechas.
Los procesos de transformación del Capitalismo, son situaciones delicadas para las instituciones estatales. En ellos, los Estados se juegan su legitimidad, por eso movilizan muchos recursos, y se intensifican la violencia estructural y la violencia más visible. Las consecuencias de esta forma de afrontar la crisis ya se empiezan a ver, y éste es solo el principio.
Defender la posibilidad de vivir de una manera digna, de vivir, requiere ser capaces de una crear una perspectiva crítica sobre lo que pasa, y sobre lo que la narrativa oficial de la epidemia dice que pasa. Esto se debe traducir en hechos prácticos, como por ejemplo los intentos de crear redes de apoyo mutuo. Estas redes son una respuesta coherente al ataque a los vínculos entre personas y grupos, y por eso el Estado ya esta tratando de recuperarlas como un ejemplo de ciudadanía responsable. El apoyo mutuo es una buena base desde la que partir para superar la lógica de guerra sanitaria, pero para evitar que pueda ser recuperado debe marcar la línea que separa a los bandos. Hay que sacarle la rabia al apoyo mutuo, hay que contribuir a que emerja su esencia anticapitalista.
Para poder hacer esto tenemos que cuidarnos, y a lo mejor éste es un buen momento para plantearnos que dejar alegremente en manos del Estado y del Mercado nuestra salud y nuestra seguridad, no es lo más sensato. Las redes de apoyo mutuo, las asambleas de barrio, los colectivos de apoyo a las personas migrantes y presas… podrían ser una buena base para tejer nuevos vínculos de solidaridad. Esos tejidos colectivos podrían ir arrebatando espacios de autonomía al Poder, desde los que plantar cara a sus agresiones y vivir más dignamente.
Biblioteca Social Contrabando, 3 de abril de 2020
Prison-State UK comes into Law : Coronavirus
The Coronavirus Act 2020 in the UK is now in force for the next two years. It is a totalitarian coup by a right-wing government which has already shown it’s utter contempt for the judiciary, for parliament and for the people. Many of the provisions of this Act are already experienced by those on the margins of society, by dissidents, those in the prison and criminal justice system, the poor, and ethnic groups consistently disposed of by the police and the system, through poverty, imprisonment and death. Now the grand experiment is whether the kind of control infrastructure and total suspension of rights already administered to particular groups can be rolled out to the entire population.
The most manipulable provisions come, as ever, under the Mental Health sections. Always a good catch-all since dissidence, illegality and criticism of the existent is already considered by the system to be tantamount to mental illness, people can now be hospitalised and medicated on the say-so of a single approved clinician. This power of one also decides the fate of those awaiting trial, convicted persons (we wonder whether that refers to anyone with a criminal record regardless of their current status) and those currently serving prison time: the Act allows a single person to sign off on a transfer from a prison to mental hospital. To the cynical, it might imply that unruly prison populations or undesirables (either currently or historically) are now living under the threat of being summarily detained or if already detained, then transferred and sedated with a no-questions-asked decision by a single clinician.
Under coronavirus, the criteria that elects someone to the status of a person approved to implement these laws is considerably relaxed. Under the emergency laws, a person applying to volunteer as a health worker or social worker can be approved by a single senior administrator who believes the person is “fit, proper and suitably experienced”. Moreover, this administrator can approve a group of people who have organised themselves as such, presumably concerned ‘citizens groups’, without assessing each individual within that group. While the public health sections appear not to allow forced medical treatment, although it does allow for forced screening and assessment including the taking by force of biological samples from your body, the mental health provisions do allow people to be medicated by force, again to be decided by a single officer.
Dissidents and undesirables will also fall foul of the sections dealing with Potentially Infectious Persons (PIP), again this designation to be the whim of a single official. As they roll out their totalitarian nightmare under the guise of coronavirus, all civil liberties are suspended. They do not expect this strange compliance to last. It cannot last. In the UK, there is barely any social welfare for people being rolled out and a huge swathe of the population, already broken by a decade of Tory rule, are hungry now. There have already been riots.
There are infectious diseases and there are infectious ideas: it is the latter that they are most keen to contain. For either, just read ‘Potentially Infectious Person’! The new Act allows for arrest and detention, new search and entry laws, and retention of an potentially infectious person’s things. Detention has a time limit but can be extended… and extended… and extended with no legal rights. Restrictions on a potentially infectious person’s movement, place of residence, activities and social contact, previously reserved for those leaving prison but still on licence, could now be rolled out for anyone with potentially infectious ideas under the guise of public health concerns.
We are witnessing the building of a new wall where borders can be and are closed at a moment’s notice. Countries are being sealed off overnight. This is how the horror happens. One day you enjoy “free movement”, the next it is punishable by the law, if not death. The same status that refugees and undocumented people fleeing wars and shot at the borders have, blamed and vilified for the problems of the capitalist society.
The new laws surrounding the registration of death and disposal of bodies are some of the darkest pieces of this legislation. In essence, there is no longer a need for an inquest, no investigation into suspicious deaths, there is no safeguard surrounding the recording of a cause of death which can simply be written by a temporarily registered medical practitioner (not the doctor attending the death), no medical certificate is required for cremation or burial and the disposal of remains and the place of disposal is taken out of the hands of relatives and given to national or local authorities regardless of the wishes of the deceased or relatives. How easy it would be to disappear us under such conditions.
Totalitarianism is born under the pretence of necessity, of protection, of security. This moment is no different. Whatever the truth of the deadliness of this virus, the world created by this new legislation, the willingness of the people to accept it and the potential abuses written into it, are sobering. It reveals if not the plan then the opportunism of the totalitarian project which underlies the techno-industrial civilisation: immediate suspension of elections and referendums, no right of assembly or protest (which lockdown conditions have already illegalised), the implementation of the virtual and cashless surveillance society, the army on the streets as a matter of course, a police state whereby every move is monitored, absolute and unmitigated powers of detention (which must be experienced in isolation) and subjection of the individual to medical intervention, complete and punitive control of the movement, activity and association of individuals and groups, and a dismantling of safeguards over causes of death, recourse to an inquest and disposal of bodies. As scared and confused as people are by this pandemic, we must remember that the measures introduced by dictatorships to control populations often seem reasonable or even laudable at the time and are born of an irresistible logic that is embraced by the good citizen, whether that is the logic of communism, nationalism, protectionism or the logic of infection.
We must also remember that throughout history people fought back against the false logic of their social and political reality. They also risked being detained, medicated, tortured, and killed. The states of emergency being rolled out by our national governments are in danger of becoming the new normal if we do not fight back. We are always facing death, both physical and metaphysical. This is an extraordinary moment in which we may find we have more comrades than we know as the system’s collapse reveals not only people’s crippling dependence on it, but also the forms of our potential liberation as critical masses experience new ways of being, new priorities and desires, that will not be met by a post-pandemic return to business as usual and also will not tolerate this state of emergency for long. As ever, our task is to find our leverage in this situation, to find our opportunities to engage according to our own anarchic principles, to organise against and despite of the tightening of control, to expose it for what it is and to break out of our isolation and the state of fear that is the real virus.
Anarchists
Napoli e Milano – Tante persone evadono dalla quarantena
I continui inviti all’obbedienza stupida e acritica fortunatamente non vengono recepiti da tutti, segno che la domesticazione delle persone ancora non è totale. Negli ultimi giorni quindi, tra le critiche delle istituzioni, in tanti hanno ripreso a girare per le strade delle loro città. I più con la mascherina, evidentemente consci del fatto che se non vogliono essere contagiati o diffondere il virus non è necessaria l’auto-reclusione, ma basta questa semplice contromisura.
The being done
On stepping from the doorway to the street it’s as though nothing’s
really changed. The breeze strokes your face and a glimpse of sunshine
passes through the clouds to shed light on the pavement, damp from the
night’s rain. Around you there are people, walking as they always do
from A to B, maybe even to C, carrying bags of their mornings’
purchases.
But something’s not right.
And then it hits you. The imprisonment you momentarily forgot as you
descended the stairwell returns to knock you square in the face. The
pallid faces of those that pass you stink of weeks in the absence of
natural light. You can smell the rickets as their weakened bones grind
pass whilst desperately trying not to attract attention. A glance too
long is suspicious intent. A kiss of greeting is criminal.
We stand up straight, compose ourselves and prepare the excuses. From
queue to line to orderly fucking mess we go, basking in the UV rays as
though enjoying the beaches of southern Spain. You cough and someone
crosses the road. A laugh and heads turn.
This is not happening. It is being done. This is not a natural disaster:
a culmination of environmental forces that level an area, wreak havoc on
normal lives and leave nothing behind but a legacy to be consumed into
the laboratories, although the latter is, in part, true. It is a process
– planned and executed – within a framework of processes, both
complementing and competing. Fluctuating, exacerbating, suffocating.
Isolation is becoming a positive term. To separate and withdraw is to do
your duty. It is to protect those around you: the damaged, dying, done,
because in a world where there’s only one saviour, everyone can be a
victim. As always, our beings are cut in half. Protect the body and the
mind will endure, yet this stimulation deprivation is ripping us apart
from the inside. Slowly. It’s the opposite of a media blackout. It’s a
landslide. A cascade of numbers, facts and proportions that, as
incomprehensible and contradictory as they might be, have become the
newspeak of 2020.
And yet we have no choice but to believe. Science sold out to capital
long ago and, as such, without entering its stadium we are disarmed for
the tournament. We are the pieces, not the players. The stories of those
hospitals that plod along, business as usual, are censored, cast-off and
mocked. Our throats are sore from trying to articulate what we see as
happening. Reduced to a dialogue that merely condemns police brutality,
as though it were something surprising, we find ourselves occupied by
providing services to those that everyone had forgotten about before,
and will again after.
If there are any questions left, don’t let them be said, scream, for the
silence of criticism is deafening.
Società di lavoratori senza lavoro
Con lo svolgersi delle crisi e il crollo degli stati del benessere (welfare), essi espongono le loro innumerevoli frodi e truffe. Questo fa intravedere un futuro (non troppo lontano, spero) di confronto tra chi, nonostante tutto, preferisce la falsa sicurezza dell’ordine stabilito e chi capisce o comincia a sentire che la vita è un’altra cosa e, quindi, deve passare attraverso altri canali ancora da costruire.
Siamo di nuovo nel bel mezzo di una crisi, sanitaria questa volta. Terribile, senza dubbio, ma non più di quelle già passate o di quelle che devono ancora venire. In questa crisi ci sono molte vittime, troppe. Le prime e le più dolorose, le morti e la scia di dolore che lasciano sui loro cari. Ma anche tutti coloro che hanno camminato sulla sottile linea della sopravvivenza e che, ancora una volta, sono spinti nella miseria e dipendono dalla solidarietà/carità per restare a galla e non perdere il controllo della vita.
La crisi è diventata lo stato naturale della società negli ultimi tempi. La sua gestione, il solito modo di governare. Viviamo in uno stato di eccezione permanente perché questo ordine sociale non ha altro modo di essere mantenuto se non quello di gestire la miseria, prodotto della crisi permanente che il Capitalismo rappresenta.
Un aspetto fondamentale di questa crisi permanente è legato al lavoro. Attualmente lo vediamo con una buona parte del lavoro sospeso e, di conseguenza, centinaia di migliaia di persone espulse dal loro lavoro e tante altre impossibilitate a farlo in modo informale (dato che erano già state espulse dal mercato prima o non le si è mai permesso di entrare). Questo non è qualcosa di esclusivo del momento attuale.
Per decenni, ci sono stati avvertimenti sulla progressiva perdita di posti di lavoro a causa di vari fattori. Ciò ha portato alla proliferazione di un numero sempre crescente di posti di lavoro non redditizi e alla precarietà della immensa maggioranza dei posti di lavoro e quindi della vita di milioni di persone. Il lavoro si è distaccato dalla necessità di produrre beni (più o meno necessari). Oggi ha più a che fare con le esigenze politico-ideologiche di avere a disposizione il maggior numero possibile di consumatori. In sintesi, si tratta di tenere a galla, costi quel che costi, l’ordine basato sul lavoro.
Ecco la chiave, l’ordine del lavoro è l’ordine del mondo. Il nefasto bisogno di “guadagnarsi da vivere” è alla base di un mondo gerarchico dove lavoro o morte (fisica, sociale, morale) è l’unico dilemma per milioni di esseri umani.
Non ci sono alternative, praticamente tutte le posizioni politiche hanno messo al centro teorico l’idea di lavoro fino a farla diventare una sorta di destino naturale dell’essere umano. Ora la crisi colpisce un’altra volta e la legislazione viene di nuovo approvata a favore dei favoriti, quelli che non smettono mai di vincere. Ondate di licenziamenti si susseguono da tutte le parti, indipendentemente da ciò che dicono i politici di diversa estrazione. Ancora una volta pagheremo gli stessi, quelli che paghiamo sempre, quelli di noi che non smettiamo mai di farlo.
Stiamo diventando una società di lavoratori senza lavoro. E questo ci rende sacrificabili, come sanno da molti anni milioni di persone in tutto il mondo.
Viviamo in tempi di immediatezza, tuttavia, può essere il momento di intravedere altri ordinamenti del mondo perché prima o poi l’ordine del lavoro non sarà più valido e lì, proprio in quel momento, ci sarà l’occasione per quel confronto di cui parlavo tra chi vuole la sicurezza dell’Ordine attuale e chi non la vuole. È meglio essere preparati a quando dobbiamo scegliere. Non possiamo permetterci di stare dalla parte sbagliata, non di nuovo.
Tradotto da: https://quebrantandoelsilencio.blogspot.com/2020/04/sociedad-de-trabajadores-sin-trabajo.html