Reflections on Rent Strike Vancouver

So called Vancouver BC has in its most recent years been a place of
relative social peace – anarchist intervention in local politics has
been pushed into the shadows. After decades of insurrectionary agitation
and action, things slowed down – folks left, faced repression, struggled
with the daily onslaught of capitalism, or for their owns reasons took a
step back. Yet in the shadows is where we thrive, and more recently
anarchist action and analysis has been occurring on a semi-public stage
in so called Vancouver.

One such initiative is Rent Strike Vancouver (rentstrikevan.ca), it is a
decentralized effort to provide those interested in striking resources
while agitating the fires of class war. It emerges as a result of
COVID-19, a symptom of the intersecting and inseparable crises of
capitalism, civilization, colonialism.

Agitating for a rent strike is fraught with tension. A rent strike’s
strength comes from its numbers along with the organization and
militancy of its strikers – as such accessible messaging is needed to
build mass participation, while radical messaging is necessary to grow
and inspire action. Remembering the need for a diversity of tactics and
voices lead to the establishment of Rent Strike Vancouver, which stands
in contrast to the more reformist efforts of the Vancouver Tenants’
Union. Despite this realization we find ourselves still walking a fine
line, and struggling to decide if we should participate in the politics
of producing respectable speech. Recognizing our local context, and the
lack of visible anarchist scene we have hung our heads and chosen to
participate, watching our mouths.  Participating in activism feels like
it forces us to obscure our most insurgent dreams and it is exhausting.
Nonetheless we find ourselves unable to pay our rent, or wanting to
experiment with not paying and as such participation seems necessary.
Capitalists not only force us to go to work, but it seems they are
endlessly capable of constraining our desires.

Another tension emerges around the idea of risk and identity. Rent
strikes by there very nature confront capital and the colonial project –
therefore they pose significant risk to their participants.
Simultaneously, the politics of risk have lead many to discredit them.
Many activists demand a strike not put anyone at risk, particularly
those most vulnerable. While we agree this is a noble intention, our
lives are always at risk – its avoidance is both impossible and would
constrain any desire for militant struggle. Of course different people,
have very legitimate reasons to have different thresholds of acceptable
risk. So we want to be explicit when we say that we cannot guarantee
anyone’s safety and anyone else who promises to do so is lying. With
this in mind those who feel angry enough or “safe” enough should join us
and withhold rent April 1st.

Through striking we hope to further actualize the desires shared in
whispers between friends, the screams splattered on the city’s walls and
the hate for this system imprinted into our hearts. Solidarity with all
rent striking. Solidarity with all striking blows against the crises of
capitalism, colonialism and civilization. Solidarity with those living
on the streets unable to withhold rent, yet resisting with every breath.

For a growing revolt and realization of desire

 

Segnali

Se nessuno, goveno in primis, sembra sapere quando arriverà il tanto atteso picco dei contagi, sembra stia invece avvicinandosi quello dell’insofferenza verso una situazione che giorno dopo giorno diventa per tanti, sempre più invivibile. All’impossibilità di uscire di casa senza sentire il fiato sul collo di polizia, carabinieri e militari, alla sensazione di essere diventati tutti dei comodi capri espiatori utili da additare come untori per coprire le incapacità mostrate dalla macchina statale, inizia ad aggiungersi, pressante, il problema di come mangiare. E sì, perchè dopo diverse settimane ormai in cui son venuti meno gli abituali modi per mettere qualche soldo in tasca, per molti, e sono numeri destinati a crescere, emergenza sanitaria e economica iniziano a intrecciarsi in un mix esplosivo. E poco o niente contano le balbettanti misure prese a riguardo dal governo. casse integrazioni in derogafondi speciali di 9 settimane e assegni di 600 euro sono destinati solo ad alcune categorie e non si sa bene con che tempi arriveranno. Anche il reddito di quarantena di cui si sente parlare da più parti, a sinistra, comporterebbe gli stessi problemi, qualora si riuscisse a ottenerlo raggiungerebbe infatti soltanto le tasche di una parte di chi se la passa peggio e ci vorrebbero comunque tempi notevoli dalla sua approvazione a che venisse stanziato.

Soluzioni parziali, tortuose e quanto mai lente insomma, cui sembra stiano iniziando a sostituiris misure ben più pragmatiche, all’insegna di una parola d’ordine universale, alla portata di tutti e immediata: gratuità. C’è chi si organizza in maniera più accurata e accorta e assalta un tir di generi alimentari saccheggiandolo; chi promuove, a quanto pare, una pagina su facebook per poi ritrovarsi in un supermercato a riempire i carrelli e provare, ahinoi senza successo, ad uscire senza pagare. Salvo poi costringere di riffa o di raffa il supermercato, in accordo coi Carabinieri, a distribuire nei giorni seguenti buoni da 50 euro per la spesa, così da sedare i bollenti spiriti. E ci saranno poi tanti, c’è da esserne certi, protagonisti di fatti simili di cui non siamo venuti a conoscenza. Di certo le autorità non hanno alcun interesse a che si pubblicizzino questi fatti, con l’aria che tira ci vuole poco che si crei un effetto domino una volta che esempi di questo tipo salissero alla ribalta, un po’ come acccaduto nelle carceri, del resto. E un simile scenario creerebbe non pochi problemi a lorsignori visti i compiti extraordinari di controllo del territorio in cui sono impegnati militari e forze dell’ordine, e con la crescente tensione nelle carceri che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Ben difficilmente si potrebbero allora schierare preventivamente, come a Palermo, reparti mobili davanti a tutti gli ipermercati….

Segnali significativi poi, di quello che potrà accadere più in là, quando la situazione sanitaria rientrerà, almeno per un po’, in una certa normalità, arrivano dalla regione dell’Hubei focolaio iniziale del Covid19, dove ieri è scoppiata una rivolta contro le autorità e le forze dell’ordine che continuano a imporre rigidi controlli sugli spostamenti.

Macerie

Utopia della città perfettamente governata

Mai come oggi il governo si regge sulla collaborazione dei propri cittadini, mai come oggi il potere si regge sull’obbedienza dei propri sudditi. Questo rapporto tra governanti e governati, al di là delle favole di una visione contrattualistica e pacificata, in cui i governati rinunciano volontariamente alle loro libertà in cambio di sicurezza, è in realtà una lunga storia di conflitti. La storia di questo rapporto non andrebbe letta come un patto sociale ma come quello che materialmente è, una guerra sociale.

Eppure oggi, in pieno stato di emergenza, lo Stato chiede collaborazione (ovviamente dietro la minaccia della punizione,nel liguaggio da boia che più gli si confà) e senza troppi fragori, la ottiene.

Come si è potuta produrre una tale coincidenza di interessi tra governati e governanti? Una tale corrispondenza di intenti tra oppressi e oppressori?

C’è chi sostiene che ciò sia avvenuto per cause di forza maggiore, il coronavirus, ovvero per spingerla all’estremo, è la minaccia dell’estinzione che fa saltare ogni differenza e ci riconcilia coi nostri nemici di classe per far fuori un nemico esterno, comune..

Non mi convince molto questa narrazione, non credo che sia stato fondamentalmente questo a generare “l’utopia della città perfettamente governata”, che è poi l’utopia di ogni governante. Piuttosto qui c’è in ballo qualcosa di più di una mera obbedienza, che di fatto diverrebbe insopportabile sul lungo periodo, c’è una logica gratificante che il neoliberalismo mette in campo da circa quarantanni senza sosta su tutti i piani, dal privato al pubblico, che è quella della performatività e della meritocrazia.

In una situazione come quella attuale, la responsabilizzazione di massa che è di fatto una obbedienza di massa può essere vissuta come performatività della propria condotta, sempre in chiave competitiva (stavolta a chi e’ più obbediente, normalmente a chi è più produttivo).

Il buon cittadino è colui che partecipa volontariamente al governo attraverso l’autogoverno, e si fa portatore dello sguardo dello stato, basti pensare alla sorveglianza generalizzata che trasforma ogni cittadino, ogni vicino, ogni persona in un poliziotto, pronto a denunciare, a segnalare, se non a picchiare chi infrange le regole sempre più pericolosamente restrittive (ormai i runner sono considerati gli untori ma c’è chi ancora va a lavorare sfuttato e senza mascherine senza che nessuno si scomponga). Forse perchè il lavoro, e quindi la produttività, è l’altra faccia della performatività dell’obbedienza (produttivi oltre che docili).

Questo significa che chi si ammala, chi non sa come organizzare la propria vita, chi rimane senza lavoro, senza casa, senza via d’uscita, non ha che da prendersela con se stesso, perché non ha curato bene la propria “impresa individuale”, e gli si dirà, non ha obbedito abbastanza.

Sono anni che la governamentalità neoliberale scarica sui singoli la responsabilità delle nefandezze prodotte da un sistema energivoro, estrattivista e predatorio. Per esempio ha fatto credere, con un ambientalismo pret a porter, che chi non differenzia o chi non si compra una macchina ibrida, è il responsabile del cambiamento climatico. Tutta la politica di riduzione di emissioni viene giocata secondo la stessa logica, incolpando i più poveri di utilizzare automobili più inquinanti di quelle di ultima generazione, per loro chiaramente inaccessibili. Incolpandoli di fatto di essere poveri. Non performativi quindi non meritevoli, vite di scarto, vite sacrificabili.

L’autogoverno, che oggi in tempo di virus, si traduce letteralmente in autoreclusione, risolve nell’immediato due ordini di problemi:

1- la crisi di legittimità del governo → che da apparato tecnocratico di controllo e gestione iniqua delle risorse, si immedesima ora sempre più nella bandiera, nell’ordine simbolico nazionalista carico di paternalismo di Stato, che lo riveste di una nuova legittimità, quella di dover combattere contro un nemico esterno, il virus (retorica dell’all around the flag in tempo di guerra). Quindi l’appello all’unità nazionale è funzionale non a combattere il virus ma a rinforzare lo stato, non appena la fase emergenziale sarà dichiarata finita.

2- l’ineguaglianza sostanziale dei rapporti sociali → le misure restrittive emanate dai vari governi sono rivolte a tutti indistintamente ma di fatto sonoo idealmente indirizzate a un uomo appartente alla classe-media,

*che ha un lavoro che può sospendere o meglio praticare come tele-lavoro (perciò non perde la sua produttività e dimensione soggettivante di lavoratore),

*che ha un automobile o un mezzo autonomo per muoversi (perciò può rispondere più agilmente a tutte le restrizioni di movimento, non dipendendo da mezzi pubblici o da una dimensione non individualistica delle relazioni -vedi i più poveri che tendono a organizzare più collettivamente i propri bisogni, spostamenti o altro),

* che ha generalmente una piccola unità familiare e non troppe relazioni significative all’infuori da quella (perciò può ritirarsi nell’isolamento del privato senza cambiare di molto la qualità dei propri rapporti)

per questo soggetto ideale, cittadino ideale, collaboratore ideale del governo dell’emergenza, il disagio personale sarà accettabile, ma e’ evidente che non per tutti il disagio sarà tale, e non per tutti sarà accettabile, anzi per molti evidentemente non lo è e non può essere diversamente.

I più vecchi, i più precari, i più poveri, i senzatetto, i migranti, i reclusi, i disabili,i lavoratori senza tutele-protezioni sono tutti coloro per i quali le misure di contenimento del virus possono significare letteralmente morire più facilmente, dato che non dispogono di un salvagente privato o pubblico (di un qualche residio di welfare familiare o di stato). Per loro, il disagio sarà inaccettabile, o meglio sarà un dramma.

Per cui si ammaleranno maggiormente i più ricattabili, chi lavora senza protezioni adeguate inizia a scioperare (vedi Amazon), per molti non sarà neanche possibile astenersi da un lavoro a rischio dato che l’alternativa è la fame,lo sfratto, l’abbandono totale. Se sopravviveranno poi saranno comunque quelli che pagheranno maggiormente i costi di questa emergenza.

Ci serve innanzitutto rigettare questa stucchevole retorica da unità nazionale, ci serve una narrazione di parte e un’azione di parte.

Berlino – La catastrofe si chiama capitalismo, ed è la regola – Un comunicato (e un appello)

Noi occuperemo…

…finché non dovremo più farlo”, scrivevamo. Abbiamo spesso occupato case a Berlino, molte sono state di nuovo sgomberate. Ma ora la situazione è diversa. In tempi di “crisi”, questa frase può trasformarsi in un appello: “Unitevi a noi, facciamo in modo che succeda ovunque!”

Il COVID-19 si sta diffondendo in sempre più aree del mondo evidenziando che il cosiddetto stato di catastrofe è la regola. Perché laddove gli stati costringono paternalisticamente e rigorosamente a “rimanere a casa”, non tutti ne hanno una. Come se non bastasse, lo stesso stato ha aumentato il numero dei senzatetto sfrattandoli, sta chiudendo tutti i dormitori e anche le mense dove i senzatetto potevano racimolare quantomeno un tozzo di pane, dell’acqua, del sapone. Ma, sempre lo stato, con il suo moralismo contraddittorio, ci esorta patriarcalmente a fare “attenzione all’igiene”

Anche “evitare il contatto sociale” è ciò che i governi ci chiedono di fare. Ma dove dovrebbero rincasare i rifugiati quando sono ammassati nei campi di deportazione e nelle prigioni che si trovano nelle frontiere esterne dell’Europa e nelle periferie in Germania? Oltre a togliere loro ogni diritto umano – come l’asilo, la libertà di movimento e di alloggio – sono stati anche privati della possibilità di una protezione efficace contro il COVID-19. La catastrofe in questo paese è che nemmeno le ultime macerie che restano di questo sistema sanitario sono accessibili a tutti. È una farsa sociale il fatto che i medici, i paramedici e gli infermieri che hanno dichiarato questo stato di emergenza molto prima della pandemia da COVID-19 siano stati ignorati. E per questo motivo meritano tutta la nostra solidarietà. Presto dovranno decidere, come in Italia, chi può vivere e chi deve morire. Questo di per sé è catastrofico. La catastrofe si chiama capitalismo. Ed è la regola. Da giorni affittuari, associazioni sociali e i partiti socialdemocratici chiedono la confisca delle case di vacanza e dei posti liberi per metterli a disposizione dei senzatetto e dei richiedenti asilo. Mentre ambiguamente i governi dichiarano che rimanere a casa e isolarsi è la protezione più efficace contro il coronavirus, la città di Berlino ha creato 350 posti in un ostello della gioventù e un impianto di raffreddamento. Spacciare questa mossa per solidarietà è puro cinismo. Nella situazione attuale, la confisca degli alloggi è un dovere sociale. Ecco perché occuperemo.

Unisciti a noi!

Saluti da Berlino a tutti coloro che stanno lottando!

In ostaggio

Mai come in questi giorni la realtà ha preso in ostaggio l’immaginazione. I nostri desideri e sogni più folli sono sovrastati da una catastrofe invisibile che ci minaccia, ci confina, legandoci mani e piedi al capestro della paura. Qualcosa di essenziale si gioca oggi attorno alla catastrofe in corso. Ignorate le poche Cassandre che da decenni lanciavano i loro avvertimenti, ora siamo passati dall’idea astratta al fatto concreto. Come dimostra l’odierna emergenza con tutti i suoi divieti, ad essere in ballo non è la mera probabilità di sopravvivere, ma qualcosa di ben più importante: la possibilità di vivere. Ciò significa che la catastrofe che oggi ci perseguita non è tanto l’imminente estinzione umana — da evitare, ci viene assicurato sia in alto che in basso, solo con una completa obbedienza agli esperti della riproduzione sociale — quanto l’onnipresente artificialità di un’esistenza la cui pervasività ci impedisce di immaginare la fine del presente.
«Catastrofe»: dal greco katastrophé, «capovolgimento, «rovesciamento»; sostantivo del verbo katastrépho, da kata «sotto, giù» e stréphein «rovesciare, girare».
Sin dall’antichità questo termine ha conservato fra i suoi significati quello di un avvenimento violento che porta con sé la forza di cambiare il corso delle cose, un evento che costituisce al tempo stesso una rottura e un cambiamento di senso, e che di conseguenza può essere sia un inizio che una fine. Un evento decisivo, insomma, che spezzando la continuità dell’ordine del mondo permette la nascita di tutt’altro. L’immagine facile ed immediata dell’aratro che spacca e rivolta una zolla di terra seccata ed esausta, rivivificando e preparando il terreno a una nuova semina e ad un nuovo raccolto, rende bene l’aspetto fecondo presente in un termine solitamente associato al solo epilogo drammatico.
Da qui l’ambivalenza di sentimenti umani suscitati in un lontano passato dalla catastrofe, che vanno dal timor panico al fascino estremo. Al di là e contro ogni paura della morte, per lunghi secoli gli esseri umani hanno percepito l’infinito attraverso la distruzione catastrofica, cercando al suo interno la folgorante rivelazione fisica di ciò che non erano. Dal Caos primordiale all’Apocalisse, dal Diluvio universale alla Fine dei tempi, dalla torre di Babele all’anno Mille, numerosi sono stati gli immaginari catastrofici attorno ai quali l’umanità ha cercato di definirsi, nella sua relazione con la vita ed il mondo sensibile, sotto il segno dell’accidente. Il sentimento di catastrofe è stato con ogni probabilità la prima intima percezione della dirompenza dell’immaginario, una fessura permanente nella (presunta) uniformità della realtà. Avvicinarsi ai bordi di questa fessura, seguirne la linea, significava cedere alla tentazione di interrogare il destino, non ostentare la presunzione di rispondervi. Immaginaria o reale, la catastrofe possedeva la forza prodigiosa di emergere in quanto oggettivazione di ciò che eccede la più triste condizione umana.
È solo verso la metà del XVIII secolo, dopo la scoperta dei resti di Pompei nel 1748 ed il grande terremoto di Lisbona del 1755, che la parola catastrofe ha cominciato ad essere usata nel comune linguaggio per definire un disastro improvviso di enormi dimensioni. Slittamento di significato facilitato dal fatto che, dopo il 1789 e la presa della Bastiglia, sarà un’altra la parola impiegata per indicare un ribaltamento, una rottura irreversibile dell’ordine pre-esistente in grado di preparare l’avvento di un mondo nuovo. Nato nel secolo dei Lumi, il concetto di rivoluzione non poteva però che avere un carattere intenzionale, fortemente legato alla ragione, e perciò lo si è legato al compimento di un processo, all’evoluzione di un’idea, al risultato di una scienza. È questa la profonda differenza che ha con la catastrofe che l’ha preceduta, e che in un certo senso l’accompagna. Laddove la rivoluzione è un’incarnazione della Storia, la catastrofe è una sua interruzione. Tanto la prima viene programmata nelle strutture, progettata negli scopi, organizzata nei mezzi, quanto la seconda è inaspettata nei tempi, imprevista nelle forme, inopportuna nelle conseguenze. Non innalza uomini e donne soddisfacendoli nelle loro aspirazioni e convinzioni, originali o indotte che siano, li fa precipitare al di fuori delle loro misure comuni e delle loro rappresentazioni, fino a ridurli ad elementi insignificanti di un fenomeno senza alcuna legge.
Ancor più della rivoluzione, l’esplosione catastrofica del disordine spazzava via il vecchio mondo, aprendo la strada ad altre possibilità. Dopo che si è materializzato l’impensabile, gli esseri umani non possono più rimanere gli stessi poiché non hanno visto con i loro occhi crollare solo le case, i monumenti, le chiese o i parlamenti. Anche le fedi, le teorie, le leggi —  tutto è finito in macerie. L’antico fascino della catastrofe nasce da lì, da quell’orizzonte caotico irriducibile ad ogni calcolo, nel momento in cui uno sconvolgimento senza precedenti spezza bruscamente ogni riferimento stabile, ponendo brutalmente la questione del senso della vita le cui infinite ripercussioni richiedono, in risposta, un eccesso d’immaginazione. La catastrofe è servita all’individuo, nella drammatica scoperta di qualcosa che va al di là della sua identità, per confondersi nuovamente con la natura, il suolo primordiale o la fonte della creazione.
Ma a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, contrassegnata dalla prima esplosione atomica, cosa è accaduto? Che la prospettiva rivoluzionaria è andata via via spegnendosi, cancellata dai cuori e dalle menti. Così al loro interno è rimasta incontrastata una sola forma possibile di sconvolgimento materiale, per di più in possesso di ulteriori formidabili mezzi tecnici per manifestarsi. Ma la catastrofe odierna ha ben poco in comune con quella degli evi trascorsi. Non è più la folgore della natura o l’opera di un Dio che pone l’essere umano davanti a se stesso — è un mero prodotto dell’arroganza scientifica, tecnologica, politica ed economica. Se mettendo a soqquadro l’ordine stabilito le catastrofi del passato incitavano a guardare in faccia l’impossibile, le catastrofi moderne si limitano a scavare ulteriormente nel possibile. Invece di aprire l’orizzonte e condurre lontano, lo chiudono ed inchiodano a quanto di più vicino ci sia. L’immaginazione selvaggia lascia il passo al rischio calcolato, per cui non si desidera più vivere un’altra vita, si ambisce a sopravvivere gestendo i danni.
Una dopo l’altra, le catastrofi verificatesi in questi ultimi decenni sfilano davanti ai nostri occhi come se fossero state semplicemente una conseguenza della miopia tecno-scientifica e del cattivo governo, da superare con tecnici e politici più attenti e lungimiranti. Le catastrofi del presente e del futuro diventano perciò evitabili, o per lo meno riducibili, solo e soltanto con un controllo sempre maggiore delle attività umane, poste in condizioni di perenne emergenza. Effetto di questa logica, i disastri «naturali» vengono subito dimenticati e rimossi in un contesto distante, quasi fossero eventi minori, mentre i soli disastri «umani» occupano il centro della scena in una narrazione che ci invita ad accettare l’inaccettabile. Se ci terrorizzano, è solo perché la nostra sopravvivenza fisica come specie è minacciata. Ed è questo che andrebbe temuto più di ogni altra cosa, la catastrofe invisibile della sottomissione sostenibile, dell’amministrazione del disastro, quella che incatena e paralizza la nostra smisurata voglia di vivere imponendole distanze e misure di sicurezza.
[28/3/20]

Chile: A few quick words from Refractario on the Covid-19 pandemic

March 25, 2020. The spread of Covid 19 around the world reached the territory dominated by the Chilean State, the rate of sick people grows exponentially and we assume the number of dead people will grow.

Far from speculating on its origins and roots, we believe that it is clear that today we have to fight against a disease on the one hand and the increasingly restrictive measures of social control that states seek to impose on us and others. The reality in prisons is no different, as shown by the riots, escape attempts and mobilizations that have multiplied inside the prisons, since enduring such an illness inside the prisons in practice is a death sentence.

The revolt that is shaking the foundations of the Chilean state has changed drastically due to the force of the context. We do not sit down to cry, but we rather assume the need to know how to overcome these new scenarios and also maintain the confidence that we will take the streets again.

From Refractario we call to remain alert regarding the situations inside the prisons: In the southern prisons where different Mapuche community members are imprisoned, in the Santiago 1 prison and the San Miguel prison where most of the prisoners of the revolt are held, in the High Security Prison where our comrades, prisoners of the social war, are being held hostage.

Communication with the prisoners is likely to become less and less fluid, with restrictions on visits and increasing bans looming. We’re out here, we’re with the prisoners, and we’re watching what might happen.

It is likely that in practice, due to the increasingly restrictive measures to move around the city and to communicate, the Refractory page will fall out of date. We will try our best to keep the site as up to date as possible within our capabilities. Since 2012, when we started and continued this project, keeping active in different periods in spite of different obstacles, our possible absence for this period will only be due to force majeure. As soon as we can, we will keep our website active and updated as it has been for 8 years now.

Remain vigilant for our prisoners of social war!

We’ll be back on the streets!

We’re gonna get our prisoners out of jail again!

Refractario, Marzo 2020

https://325.nostate.net/2020/03/26/chile-a-few-quick-words-from-refractario-on-the-covid-19-pandemic/

Chile: Algunas rápidas palabras desde Refractario ante la pandemia del covid-19

La expansión del covid 19 por el mundo llegó al territorio dominado por el Estado Chileno, la taza de enfermos crece exponencialmente al igual que suponemos crecerá la cifra de muertos.

Lejos de especular sobre sus orígenes y raíces, creemos que es evidente que hoy tenemos que luchar por un lado contra una enfermedad y por otro lado contra las medidas cada vez más restrictivas de control social que buscan imponer los Estados. La realidad en las cárceles no es distinta, asi lo muestran los motines, intentos de fuga y movilizaciones que se han multiplicado al interior de las cárceles, ya que sobrellevar una enfermedad así al interior de las prisiones es en la práctica una condena a muerte.

La revuelta que sacude los cimientos del Estado Chileno a cambiado drásticamente por la fuerza del contexto, no nos sentamos a llorar sino que asumimos la necesidad de saber sortear nuevos escenarios y también mantener la certeza que volveremos a tomarnos las calles.

Desde Refractario el llamado que podemos hacer es a permanecer atentxs a las situaciones al interior de las cárceles: En las prisiones del sur donde se encuentran encarcelados distintos comuneros mapuche, en la cárcel Santiago 1 y la cárcel de San Miguel donde están recluidos la mayoría de lxs prisionerxs de la revuelta, en la Cárcel de Alta Seguridad donde permanecen secuestradxs nuestrxs compañerxs, prisionerxs de la guerra social.

Es probable que la comunicación con ellxs cada vez sea menos fluida, la restricción de visitas y las crecientes prohibiciones así lo avecinan. Estamos aca afuera, estamos con ellxs y atentxs a lo que pueda ocurrir.

Es probable que en la práctica, debido a los impedimentos cada vez más restrictivos para circular por la ciudad y de comunicación, la pagina Refractario decaiga en la actualización de información. Nos esforzaremos por poder mantener la mayor actualización posible dentro de nuestras capacidades. Desde el 2012 que hemos dado inicio y continuidad a este proyecto, manteniéndonos activos en distintos periodos a pesar de distintos obstáculos, nuestra posible ausencia por este periodo se deberá solamente a motivos de fuerza mayor. A penas podamos vamos a volver a mantener nuestra página activa y actualizada como ha sido la tónica durante 8 años..

¡A permanecer atentxs a nuestrxs prisionerxs de la guerra social!

¡Volveremos a las calles!

¡Volveremos a sacar a nuestrxs presxs de las cárceles!

-Refractario-

Marzo 2020

Algunas rápidas palabras desde Refractario ante la pandemia del covid-19

A walk on the edge… a jump to nowhere

We have received a second translations with some corrections, so the content is quite different from the previous english version

 

Plagues, indeed, are a common thing, but it is hard to believe in
plagues that crash down on your head. There have been as many plagues in
the world as there have been wars. And yet, plagues and wars always find
people unprepared.

(Albert Camus, The Pest)

Chaos…or not?

The arrival of the epidemic in Italy is the starting point of a
unprecedented upheaval. The economy collapses. Hundreds of billions of
euros have disappeared. Shops are being closed. Public offices, schools,
gymnasiums… everything is blocked. Only supermarkets and shops for
basic needs remain open and are emptied daily. People often leave their
homes only to go shopping. They don’t talk to each other out of fear,
everyone tries to get everything done as soon as possible. It seems to
be a pre-apocalyptic scenario, some might think that this is the sign of
a period of chaos. But today’s situation seems to be quite different
from chaotic: millions of people have given up leaving their homes in
the name of a collective responsibility filled with patriotism. The
state commands and citizens obey; some out of fear, others to avoid
retaliation. Relationships are mostly mediated by digital media, and
human contact has become a violation of public health. The economy is
based on web-based platforms, large multinational companies manage all
the movement of goods, and supermarket chains become the main point of
reference for satisfying needs. Classes are taught remotely; surely the
classrooms will be quiet now… How is this chaotic?

Of course the situation in the hospitals by no means under control, but
why should that be so surprising? Has the state ever cared about
people’s health? Illness is not just  a threat, it is an opportunity for
profit or control.

***

But we also know that in their order, disorder, rebellion, the feeling
of denied life lies just below the surface, more or less accessible and
understandable for the individual. There is an unexpressed potential in
terms of desire. The more this potential is banished and denied, the
more dangerous it becomes, because it could catch fire at any moment. Or
maybe not, maybe everything is already lost, and perhaps only we (who is
we?) still feel passions and desires?

But if neither of these two possibilities changes the individual
decision to continue the attack on power, it changes the way we can
reject the idea of the inevitable eternal reproduction of the present
state of things. Let us empower ourselves by trying to perceive the
stifled tension, the idea that another world is possible, or that this
is not the best, the only possible world.

***

Alternative or co-administration?

However, as happens in many historical moments when the authority of the
ruling social system is not undermined at the root, the alternatives
take only a few steps along a different path before they are caught in
the misery of co-administration.

What does it mean today to help with the distribution of masks? It would
mean either making arrangements and coordinating with civil defence and
the city administration, or it would mean that military and police
repression is just around the corner, because laws and decrees
prohibiting leaving the house are being violated.

This social system has created a world in which 7-8-9 billion people
live. As Huxley said in his prophetic novel “Brave New World”

“Stability. No civilization without social stability. No social
stability without individual stability.” His voice was a trumpet.
Listening they felt larger, warmer.

The machine turns, turns and must keep on turning–for ever. It is
death if it stands still. A thousand millions scrabbled the crust of the
earth. The wheels began to turn. In a hundred and fifty years there were
two thousand millions. Stop all the wheels. In a hundred and fifty weeks
there are once more only a thousand millions; a thousand thousand
thousand men and women have starved to death.

Wheels must turn steadily, but cannot turn untended. There must be
men to tend them, men as steady as the wheels upon their axles, sane
men, obedient men, stable in contentment.

Crying: My baby, my mother, my only, only love groaning: My sin, my
terrible God; screaming with pain, muttering with fever, bemoaning old
age and poverty–how can they tend the wheels? And if they cannot tend
the wheels … The corpses of a thousand thousand thousand men and women
would be hard to bury or burn.”

***

Which problems are ours, and which are Empire’s problems?

Do we have to solve the pollution problem? We didn’t study biology.
We’re tearing down a transmission tower to shut down a factory.

Must we solve the problem of poverty? We are not financing an ethical
bank, we are robbing it and we are trying to destroy the world of trade
and also that of the fraud called “fair trade”.

Must we solve the problem of disease? We are not studying medicine, we
are trying to break up this social system. Because revolutionary actions
do not restructure the prison, nor do they seek to improve it. They tear
it down to clear space, to give life a chance to flourish.

In fact, otherness can only arise where the power of the state does not
exist, and it suffocates when these spaces in which it tries to
germinate do not expand, but remain confined to small controlled
pockets.

Unfortunately, the casualties are caused by this world, by our
collective way of life – even of survival.  And not as a result of where
we choose to struggle. And a revolution is paved with blood and death,
because that is where this social system has placed humanity: without
it, existence is denied. How could humanity exist without the science of
nuclear energy, from the moment the first power station was switched on
and nuclear waste started to be produced? The price of the choices of
those who lived before us will continue to follow us for many years to
come, but if we do not start paying the debt of suffering now, in the
long-term, our suffering will only increase.

***

The emergency brake is a dangerous device.

However, if we do do not take action, paternalism will continue to
deepen and change our lives and dominate us materially. For this reason
it is not possible to accept co-administration or to postpone conflict,
which should actually be permanent: after all, the disaster belongs to
them and they must pay for it. And it has to stop.

Those who want a world of freedom are not responsible for the massacres
of the ruling class, not even for those that will take place tomorrow or
after the collapse of rule. Of course we must not lose sight of the
consistency between means and ends, but we must also be able to look at
the world from a certain distance.

***

However, it is also true that the pace of these days is obsessive and
the awareness of the disaster is becoming increasingly clear to most
people. What will happen when fear abandons the field of desire for hope
or the hope of desire?

An unexpected world

And then what? A situation like this comes at you unprepared.

As lovers of freedom, we strive for the plots of this emergency regime
to be broken by an uncontrollable hotbed of passions. We also wonder,
however, how the possibilities for intervention change when a whole
range of guarantees, especially material ones, are denied or simply no
longer guaranteed by the social system. How can we continue to have
relationships and organise ourselves when we remain separated? How is it
possible to disseminate ideas without dispersing them in the virtual
space of opinion when it is difficult to communicate off screen?

Moreover, if communication and memory are entrusted exclusively to
social networks, which have the power to suddenly eliminate and censor
everything, how can we preserve the memory of the events which have been
bombarded by the messages of the eternal present? By which means can we
do this autonomously, when printing houses and printing presses are
closed by decree? And what are the risks involved in trying to break
this macabre silence?

Looking back

A look into the past could be a good starting point at this time to try
to orientate oneself according to the decisions to be made. Yet it must
be done without distracting the mind from the present, which offers us a
new and unique perspective.

The experiences of individuals and anarchist groups in the past could
enlighten us about the importance of having various skills, knowledge
and means at our disposal which have made it possible to make life
difficult for the state and its means of repression.

Even in times of war or military dictatorship, when the conditions of
precariousness were much more extreme than they are today, there were
those who managed to continue fighting, to spread ideas of revolt and to
put them into practice. But what are these nebulous “means and
capabilities” that we spoke of earlier? An example, which may seem as
trivial as it is obvious, is the ability to independently print paper
material in large quantities and in a short time, so that it can be
distributed quickly.

In the twentieth century it was common for those who wrote a newspaper
to have the knowledge and material means to print the copies to be
distributed. In many cities there were secret printing houses where
comrades could print their leaflets, posters, brochures, books, and so
on. It was, for example, in many cities in Russia during the tsarist and
Bolshevik rule or in Argentina under the Uriburu dictatorship, where one
Severino di Giovanni – as a person in hiding – was able to go from
robbing banks to printing books and leaflets in a short time.

Other possibilities are linked to a thorough knowledge of the territory
in which one lives and the knowledge of how to move about in it
unnoticed. One thinks of the case of Caracremada, who for decades
succeeded in carrying out acts of sabotage, either in company or alone,
on French territory, crossing the Pyrenees each time, only to return to
France a few weeks later. While forms of control in history certainly
assume different, reflecting on the conditions of those who have eluded
them in the past could be a preparation for the development of forms of
escape in the present. How does one combine knowledge of the territory
with the contemporary tendency towards nomadic life and constant
movement in space? What if the restrictions currently imposed were an
incentive to learn to move wisely through a territory, somehow avoiding
being stopped?

But this is only possible over time and not immediately. And what
scenarios do we now see before us?

A look at tomorrow

To simplify things, perhaps to an excessive degree, there are only two
alternatives. Of course we can intervene with our actions, we are not
overtaken by events nor we do not wait for history to take its course.
Our will carries weight and plays a role in what happens, both near and
far. The first possibility is that Empire will succeed in finding its
own new stability, normalizing the situation and continuing to reproduce
its world and the relationships it has produced. The other is that this
Empire begins to desintegrate, to spiral into ever greater instability,
to collapse inexorably.

The times could rapidly and unexpectedly unfold into one scenario or
another.

***

In the first case it would be necessary to understand what it means to
live in such a state of emergency and to find a way to avoid being
blocked by such external restrictions in the future. There is always a
next time.

Let us consider what would happen if certain websites were blocked and
filtered out in the future. Or if our mobile phone SIM cards were
deactivated. We would become mute. Today more than ever, since we don’t
even have a way to print, because we depend on printers and copy shops
and may not even have the addresses of the people we want to communicate
with. We also think about all those elements of knowledge and skills
that we need to develop over time and not in an emergency. Today we have
what we have, our limitations and our ignorance. Or maybe other people
feel ready instead? And how do we want to feel tomorrow? And what do we
want to know?

***

In the second case, we should be able to survive, firstly, and secondly,
to ensure that Empire does not reappear in another form. The city is
easily isolated and is not capable of self-sufficiency: it needs
supplies brought in from outside to continue to exist.

The city is a place that could suddenly prove inhospitable, because it
was built in the image and likeness of the powers that shaped it and is
thus only designed to function for them. Networks of relationships could
quickly be destroyed if you flee to places where you can still make a
living, where there is more than concrete. When gasoline is impossible
to get, and when it is not possible to phone or email each other, living
together becomes necessary to be able to live well and conspire
together. You choose the people you want to be with, because the future
is uncertain. If we hope that antennas will be burnt down and that
infrastructure will be destroyed, we have to find out how and where we
can reinvent our lives. And maybe we should start asking ourselves these
questions, even though we have always thought that the problem of
destruction is so overwhelming that we never thought that we would have
to ask ourselves other questions. And we should start sowing seeds,
because it’s not necessarily the case that with just-in-time production
there will still be noodle warehouses to attack or warehouses to loot
near where we live(1). Food could run out before the flowers are in
bloom.

Perhaps the Paris Commune would have lasted longer if groups of
revolutionaries rose up from the land and attacked the back of the
Republican army in scattered form and broke through the enclosure.

***

Which of these two scenarios do we consider more plausible? Depending on
location and sensitivity, the answers could be different.

No solutions, just clear ideas

Let us leave behind the illusion that the collapse of Empire can be a
unified process.  Everywhere in the world the dynamics and timing will
be different, like the spots of a leopard, which can make the situation
even more chaotic and confusing in a short time.

Perhaps we would never have thought to actually write it out, since we
had resigned ourselves to the inevitable reality of our world.  But
maybe we can actually see the birth of other forms of life. It will be
difficult to judge the different situations from a distance, as we used
to do. Thirty kilometers could separate different experiences and ways
of life, separated by a cordon sanitaire of military and police.

There is no blueprint today, any more than there was yesterday. It takes
intelligence, generosity, shamelessness and intuition to understand what
to do, where, how and at what time. Which are the times for destruction,
and which for construction? There is no single answer that applies to
every case. However, one thing is needed to make experiences
translatable and intuitions communicable: clarity of purpose. And that
in this time of change, the will to eradicate all forms of power from
the world that we inhabit, inside and outside of us, remains strong.

For the attack, here and now.
For life, here and now.

Amici di penna

(1) We mention this early contribution by A.M. Bonanno about
insurrectionary
perspectives and about some of his reflections on the organizational,
mental and
physical abilities that should be developed (see for example p. 21):
https://collafenice.files.wordpress.com/2013/09/trascizione-incontro-23-giugno.pdf

 

Madrid Cuarentena City: Nueva publicación anarquista desde Madrid

Sale a la luz el primer número de una nueva publicación anarquista en
Madrid, en tiempos de Estado de Alarma, por la extensión de la guerra
social.

Contenido:

-Hacia aguas desconocidas
-Que vuelvan las huelasgas. Que proliferen las okupaciones. Que lleguen
los saqueos
-Sobre el ataque a nuestros lazos
-Crónica de motines, fugas y sucesos en las cárceles y CIES a causa de
la crisis del coronavirus
-¿Volver a dónde? ¿Volver a qué?

Hacia aguas desconocidas

Llevamos más de una semana en estado de emergencia. La capacidad
destructiva del virus no es algo ya cuestionable. Pero nos gustaría
hacer unos apuntes sobre sus consecuencias no clínicas y sobres sus
orígenes.
Si el COVID-19 surgió por un murciélago o por un intento estadounidense,
que se ha ido de las manos, de deshabilitar la economía china, nos
parece poco relevante ahora. Este virus, como otros anteriores en la
historia que masacraron poblaciones enteras en la Amazonía, Mesoamérica,
África y Oceanía, es un fenómeno biológico. Pero el contexto donde nace,
la forma en que se propaga y la gestión de este son cuestiones sociales.
Este virus es el resultado de un sistema que mercantiliza cada proceso,
objeto, relación o ser vivo en la tierra. Extendido rápidamente por la
macroconcentración de mano de obra y corpus consumista de las ciudades,
que se alimenta de la agroindustria y la ganadería intensiva. Un flujo
constante de bienes humanos (5.000 millones de personas vuelan
anualmente alrededor del planeta) a velocidades frenéticas, reflejados
en 200 caracteres y 5000 likes.
Es precisamente este empeño en artificializar todo, hasta nuestras
emociones, basando todo en el beneficio, viendo el mundo a través de una
pantalla, dejando que nuestra mente sea colonizada por la “eficacia”, lo
que nos ha llevado a una pérdida paulatina de lo “humano”, de lo “vivo”.
Facilitando que medidas tan extremas, en las que solo hay dos motivos
para salir de casa (trabajar y consumir) hayan entrado de una manera no
exageradamente traumática. A la vez que se nos plantea como vía de
escape las mismas dinámicas tecnófilas que nos han conducido al
desastre. Si a esto le añadimos el miedo, el gobierno del miedo,
terminamos perdiendo el norte y reinterpretando conceptos como el de
responsabilidad o solidaridad.

Serás tildadx de irresponsable, por ejemplo, si no te sometes al arresto
domiciliario voluntario. Menuda perversión del significado, que no es
otro, en realidad, que el abrazo entre el corazón y la cabeza, entre el
análisis, la decisión y la acción. Con ese grito de “inconsciente”, como
poco, que recibirás desde la ventana si vas, por ejemplo, de la mano con
tu compañerx por la calle, se te está gritando, en realidad, “¡obedece
la norma!”. De la misma manera sucede con las llamadas a la solidaridad
que son traducidas por servidumbre voluntaria colectiva cuando se
convierten en un acrítico #yomequedoencasa.

¿Qué pasa con las cientos de personas que se acumulan en Atocha y y
Chamartín entre 6.30 y 8.30 de la mañana? ¿Por qué no se han paralizado
las obras de construcción de edificios en una ciudad que tiene un
excedente desorbitado de viviendas? ¿Las personas hacinadas en IFEMA no
son personas? ¿Es desquiciante estar una semana encerrada? ¿y pasar 5,
10, 15, 30 años y que ahora no puedas recibir ni una visita, ni un vis a
vis y en muchos casos las llamadas y el correo absolutamente
restringido? Por citar solo algunos hirientes ejemplos.

Para las personas que no tienen hogar ya no es posible una anónima
supervivencia, ya no pueden pasar desapercibidas cuando la jungla de
cristal se ha convertido en un desierto de hormigón. Son, más si cabe
que antes, personas prohibidas. Que en el mejor de los casos serán
pastoreadas hacia rediles como IFEMA. También se ha desatado la, ya de
por sí exacerbada, impunidad policial contra lxs otrxs prohibidxs, lxs
que no pueden acreditar mediante escritos burocráticos que son personas
con “plenos derechos”, o que sus rasgos o color de piel inducen a los
torturadores uniformados a pensar que no. (La prensa mayoritaria
acredita numerosos casos de agresiones policiales en Lavapiés, Centro y
otras ciudades). Porque una pandemia sigue siendo una cuestión de
clase, de privilegio, de muertes no tan aleatorias.

No se nos ha otorgado el poder del augurio como a Casandra, pero sí, en
cambio, la maldición de Apolo. Es decir, no tenemos la certeza de que
estos pronósticos se cumplan (aunque hay evidencias inequívocas de hacia
donde apunta el poder y muestras, ya fehacientes, de este tipo de
medidas), sin embargo, nos tememos que difícilmente seremos escuchadxs.
Creemos que todas estas medidas de control se volverán permanentes, como
ya ocurrió con las leyes antiterroristas tras el 11S, o recurrentes; que
no nos extrañe que en el futuro seamos nuevamente llamadxs al
confinamiento en circunstancias como tempestades, huracanes y todo tipo
de crisis climáticas, que por seguro llegarán, o nuevas y viejas
epidemias que volverán a llamar a nuestra puerta. Rastreo de movimiento
por teléfono, controles biométricos y de temperatura, limitaciones de
movimiento en función de estos… son una realidad ya y han venido para
quedarse. A esto habría que sumar la precarización generalizada de la
vida que vendrá a medio plazo, la socialización de la pobreza…

Llegados a este punto queremos compartir la idea de que el presente, o
el pasado más bien, el mundo tal y como lo conocemos: basado en la
dominación, con sus estructuras perpetuadoras de miseria, su ortodoxia,
su afán liberticida… no nos vale. Y de ninguna manera queremos volver a
él.

Empecemos a intentarlo. Teniendo en cuenta que hay gente que no nos
gustaría infectar, rompamos el aislamiento. Actuemos, si es necesario, a
nivel individual. En esta realidad incluso golpeando a ciegas es muy
fácil acertar. Comuniquémonos, hablemos, circulemos información y seamos
críticxs, forcemos los toques de queda, mapeemos el control (dónde y
cuándo se patrulla, que espacios han quedado vetados, dónde habiendo
abastecimiento…). Fomentemos las huelgas y el cierre de empresas. No
queremos una gestión de la crisis. Queremos experimentar, chocar,
luchar, conflictuar…
Esforcémonos por incidir en un presente aunque cuando levantemos la
vista no veamos el horizonte. Quizá precisamente aquí se encuentre la
clave, dejemos atrás verdades, convicciones y seguridades, naveguemos
con pasión por la aventura hacia aguas desconocidas, hacia amaneceres de
libertad y revuelta.

 

MADRID CUARENTENA DEFINITVO.cleaned

SOBRE EL ATAQUE A NUESTROS LAZOS

Yo pendiente de lo mío y tú pendiente de lo tuyo, escucha tu reloj su tictac es un murmullo”

El confinamiento tiene unas consecuencias desastrosas sobre uno de los pilares más importantes de nuestra vida: las relaciones personales. Éstas están siendo obligadas a distanciarse, a romperse, a sustituir el contacto de la carne por el aislamiento de los bits y las pantallas. No es como cuando alguien que quieres marcha por situaciones vitales a algún lugar alejado, donde se tiene la certeza de que ese lazo seguramente a la vuelta esté polvoroso pero intacto, o que vivirá en el recuerdo; pero ahí se tiene el apoyo de todas las otras relaciones en las que nos apoyamos en nuestra vida diaria. Esta situación de cuarentena ha interrumpido forzosamente de la noche a la mañana el curso de nuestras interacciones sociales, ha confinado nuestras vidas al módulo de aislamiento.

Hay quien tiene suerte y al menos (al menos porque para nada completa el vacío que han dejado los lazos distanciados) puede pasar el confinamiento con gente que quiere y en la que apoyarse mutuamente, pero, ¿qué es de las personas que viven solas? ¿quién escuchará sus gritos de ayuda cuando el suicidio aupado por la ansiedad llame a su puerta? ¿Y las mujeres que tienen a su propio carcelero en casa? Se dice que la policía estará atenta de llamadas por violencia de género, pero no podemos esperar que la policía solucione estos problemas, menos aún cuando sabemos que la mayoría de las veces contribuyen a la vejación y humillación de la mujer maltratada. Además, ¿realmente estando encerrada con una persona que te domina podrás coger el teléfono?, ¿podrás salir a la calle? Las cifras de feminicidios nos mostrarán que no. ¿Y quién no tiene sitio donde vivir? A los que los militares “ayudarán” y “relocalizarán”. No debemos fiarnos para nada de lo que dice el Ejército que hará cuando no estemos mirando porque estemos encerrados en casa.

Y para añadir otra piedra a la mochila, el pánico social no sólo ha hecho que individualmente la gente rompa sus lazos, sino que intente romper los que intentan resistir. Regañinas desde los balcones por caminar juntas por la calle, por darse la mano, abrazarse, besarse… Ansiedad colectiva en la base del “yo me estoy quedando en mi casa y tú te lo estás tomando a broma”. Pero es que hablar por whatsapp, skype, redes sociales y demás alternativas que nos proporciona la tecnología ni de lejos valen para salir de la ciénaga de ansiedad y locura en la que nos han hundido. Se necesita contacto, se necesita caminar con alguien sin estar pensando que un coche patrulla nos va a poner un multón por mantener los lazos y no caer en la histeria.

¿Qué pasará cuando podamos volver a salir a la calle y no sepamos relacionarnos en grupo, cara a cara en una plaza? ¿Cuando la ansiedad social esté generalizada y tengamos que unirnos y luchar contra el mundo de mierda en el que vivimos?

No dejemos que el pánico social y el control estatal destruya lo más valorable que tenemos, fortalezcamos nuestros lazos para que sean cadenas irrompibles que barran la dominación.