Roma – Comunicato Op.Bialystock

Sull’operazione Bialystock

Aridaje.
L’ennesima operazione repressiva anti-anarchica è iniziata all’alba del 12/06/20 nei territori dominati dallo stato italiano, francese e spagnolo. In grande stile, quindi passamontagna e armi spianate, le guardie hanno perquisito diverse abitazione sequestrato il solito materiale e arrestate 7 persone, 5 di loro sono in carcere e 2 agli arresti domiciliari.
Nulla di nuovo sotto il cielo stellato.
Le accuse che lo stato muove contro di loro sono varie, tra cui la solita associazione sovversiva con finalità di terrorismo oltre ad incendio, istigazione a delinquere ecc ecc.
Ora, non è importante stare dietro ai loro cavilli giudiziari, ma è necessario ribadire che l’azione diretta, il mutuo appoggio, il rifiuto di ogni gerarchia e di tutte le autorità e che la pratica della  solidarietà  sono espressione della nostra tensione anarchica.
Non ci interessa entrare nella logica colpevol*/innocent*, le individualità colpite sono le nostre compagne e avranno la nostra vicinanza, solidarietà e complicità.

Ros merde
Ad ognuno il suo.

Alcun* occupant* del Bencivenga Occupato

Per il momento, gli indirizzi conosciuti dei e delle compagne arrestate sono:

Nico Aurigemma
C.C Rieti
Viale Maestri Del Lavoro, 2 – 02100 Vazia (RI)

Flavia Di Giannantonio
C.C Femminile Rebibbia
Via Bartolo Longo 92. Roma 00156

Claudio Zaccone
C.C Siracusa Via Monasteri, 20C.
Contrada Cavadonna
Siracusa 96100

IERI MALFATTORI OGGI SOVVERSIVI – SOLIDARIETÁ ALLE ANARCHICHE E ANARCHICI VITTIME DELLA REPRESSIONE STATALE DENOMINATA OPERAZIONE “Byalistok “A ROMA

COMUNICATO STAMPA
 
SOLIDARIETÁ ALLE ANARCHICHE E ANARCHICI VITTIME DELLA REPRESSIONE STATALE DENOMINATA OPERAZIONE “Byalistok “A ROMA
 
IERI MALFATTORI OGGI SOVVERSIVI
Lo Stato fin dalla sua nascita ha sempre avuto degni oppositori politici che hanno messo in discussione il sistema di annientamento istituzionale sull’individuo e sulle classi proletarie, definendo malfattore chi si opponeva con ogni mezzo necessario alla sbirraglia di ogni tempo.
Oggi continuiamo ad essere malfattori e sovversivi e lo ammettiamo pubblicamente perché vogliamo eliminare ogni forma autoritaria dalle nostre vite.
Il 12 Giugno del 2020 è scattata l’operazione “Byalistok”; per cinque compagni è stata richiesta la custodia cautelare in carcere, mentre per altri due sono scattati gli arresti domiciliari.
Ora, non è importante stare dietro ai loro cavilli giudiziari, ma è necessario ribadire che l’azione diretta, il mutuo appoggio, il rifiuto di ogni gerarchia e di tutte le autorità e che la pratica della solidarietà  sono espressione della nostra tensione anarchica.
Per quello che si sa fino ad ora tra i reati contestati ci sono l’attacco ad una Caserma dei Carabinieri a Roma, l’incendio di due auto Enjoy dell’Eni e anche delle iniziative pubbliche.
Lo Stato, il governo a guida PD -M5 Stelle e frattaglie di sinistra ed i carabinieri dei ROS , per propria ammissione continuano a colpire in maniera preventiva chi, nei loro occhi é un avversario politico del regime statale .
LIBERTÀ SUBITO PER TUTTI E TUTTE!
Solidarietà e complicità sempre e comunque con chi lotta contro l’esistente, i suoi difensori e contro questo quieto vivere e questa alienante pacificazione sociale imposte a colpi di repressione, sgomberi, sorveglianza, controlli, sbirri, telecamere, carceri e oppressione quotidiana.
RIBELLI SEMPRE !
 
Sovversivi Val di Noto , 14 Giugno 2020
sovversivivaldinoto@libero.it
https://www.facebook.com/situazionisovversivevaldinoto
sovversivivaldinoto.altervista.org/

Dietro l’angolo PT.9 – Movimento disordinato

QUALCHE IPOTESI SU COVID 19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO. La diffusione globale del Covid-19 ha salutato l’inizio degli anni ’20 del Duemila.

Dalla Cina, ma si può mettere in discussione l’epicentro unico senza che il risultato cambi, la portata del virus è diventata rapidamente omogenea alle traiettorie mercantili e sociali che sono di fatto le moderne condizioni di vita della stragrande maggioranza di persone sulla Terra.

Scrivevamo all’inizio di queste riflessioni che la vita di una buona parte degli uomini e delle donne si sostanzia da tempo nel tentar di rimanere aggrappati ai pioli di una scala, senza più nemmeno la speranza di poterla risalire. Un’impresa particolarmente difficoltosa che rischia di diventare proibitiva a causa di questa pandemia che ha reso questa scala ancor più carica e traballante, togliendole al contempo punti d’appoggio. Se è lecito attendersi che, per evitare di scendere sempre più in basso o caderne, aumenteranno numero e ferocia di calci e gomitate contro i propri compagni di sventura, tenderanno altresì a moltiplicarsi quelle strategie di resistenza, individuali e collettive, volte invece a prendersela con chi ne è responsabile.

La retorica sulla colpevolizzazione dei poveri, secondo la quale determinati problemi sociali non sono dovuti a cause strutturali ma sono piuttosto da ricercare nella biografia di chi li subisce, farà sicuramente più fatica ad attecchire in un momento come questo in cui le ragioni delle difficoltà di arrivare a fine mese sono chiare quanto non mai.

Abbiamo infatti scritto e sostenuto che questa pandemia ha avuto le caratteristiche di un’esperienza di massa, contingenza che nella storia recente, ha come precedente più prossimo l’ultima guerra mondiale.

Chiaramente non tutti ne avranno avuto la stessa percezione, e non tutti ne pagheranno le conseguenze in egual misura, ma il carattere sismico di questa pandemia, in grado di peggiorare contemporaneamente le condizioni di vita di tanti, potrebbe favorire lo svilupparsi di una rinnovata capacità di leggere le iniquità che potremmo definire di classe.

Una situazione simile, seppur di portata ben minore, ci sembra essere quella seguita alla crisi del 2008 in cui le responsabilità delle banche nell’impoverimento generale erano talmente evidenti e note che risultavano estremamente comprensibili le ragioni di chi ad esempio lottava contro gli sfratti o occupava delle case, verso cui c’era una certa empatia anche in molti di coloro che non si trovavano con l’acqua alla gola. Una finestra che non è rimasta aperta troppo a lungo e, alla luce del fatto che il conflitto sociale, almeno a queste latitudini, non è riuscito a produrre significative rotture della normalità, il sentimento di indifferenza e la guerra tra poveri, potenziati anche dal vecchio caro razzismo, hanno ripreso prepotentemente terreno.

Ci sembra quindi tutt’altro che remota la possibilità che questa pandemia crei un qualche cortocircuito alla retorica che vuole i poveri responsabili della loro sorte e a quell’atomizzazione sociale così feroce vissuta negli ultimi anni. Un cortocircuito la cui durata e profondità sarà inevitabilmente legata non solo allo spazio che determinate lotte e il conflitto sociale in generale riusciranno ad allargare, ma anche a quali dinamiche di esclusione riusciranno a contrastare o invertire e a quanto riusciranno a far retrocedere quella normalità statale di cui abbiamo provato nel corso di questo testo a delineare degli aspetti.

Se il peso e l’importanza di tutta quella sfera di problemi legati ai bisogni più basilari è destinata ad aumentare e con questo i conflitti e la tensione sociale che ruoteranno attorno ad essi, la forma che queste lotte prenderanno tanto nel breve quanto in un periodo più ampio risulteranno con ogni probabilità almeno in parte diverse da quelle che abbiamo avuto modo di conoscere finora.

Un impoverimento generale e rapido, le cui conseguenze devono ancora iniziare a manifestarsi, non ha precedenti recenti in questa porzione di mondo e le dinamiche in Paesi più o meno lontani, piombati altrettanto velocemente in una recessione economica di tali proporzioni, potrebbe fornire più di una suggestione riguardo ad alcuni degli scenari che potrebbero delinearsi. Ben difficilmente conflitti di tipo rivendicativo o vertenziale attorno a questioni come quella lavorativa, abitativa o sanitaria si limiteranno a muoversi lungo quei binari che solitamente conducono a trattative di tipo sindacale, pur particolarmente accese. È facile prevedere che possano invece dare il la o intrecciarsi a esplosioni di rabbia e malcontento diffusi se non a vere e proprie sommosse popolari.

Di questi tempi più che mai l’importanza di questi conflitti specifici attorno alla sfera dei bisogni non sarà allora soltanto legata a ciò che queste singole lotte saranno in grado di produrre nel tentare di ‘risolvere’ i problemi che le hanno causate, ma anche al loro carattere in qualche modo propedeutico a sommovimenti più ampi, eterogenei e anche contraddittori.

La contraddittorietà non è solo quella che potrebbe manifestarsi in un terreno di contestazione, o anche di lotta ampia, in cui alcune propaggini sono strumentalizzate da partitucoli, associazioni o affini. Il recupero di istanze sociali nell’alveo di riforme politiche che in qualche modo le pacifichino è un nodo storico a cui ahinoi si arriva quasi sempre e su cui le teorie dei sovversivi da tempo immemore si interrogano. La contraddittorietà in tempi di crisi acuta all’interno di un campo sociale di complessità caotica come quella contemporanea, emerge spesso in quella che si è definita guerra civile. Una nozione identificabile non solo nei grandi scontri intranazionali degli ultimi secoli, ma il cui germe serpeggia sottotraccia e viene puntualmente rinvigorito dalle politiche di impoverimento e infinita differenziazione. Nelle periferie la guerra per la sopravvivenza prende spesso forme di conflitto acuto, tracciate sotto etichette diverse che non restituiscono l’essenza del problema: dai benpensanti di sinistra certi conflitti vengono definiti semplicemente come la conseguenza del razzismo innato a una certa componente autoctona e ignorante; da una certa popolazione radicata nelle città e impoverita la delinquenza di strada viene percepita come il maggior problema da affrontare quotidianamente; per alcuni individui in forte deprivazione l’arrangiarsi a danno dei propri vicini di casa non è che l’unica maniera per campare.

Ma queste non sono solo percezioni da correggere con una sana educazione alla realtà sociale, come si usa dire ora dei bias frutto di una distorsione cognitiva, ma la materia viva di cui è fatta l’esistenza delle persone e che prende spesso il nome imposto e propagato dai media e dall’organizzazione della società. I fatti e le divisioni sono dunque reali e quasi sempre gravosi, l’intelligibilità è invece falsata dal discorso pubblico. Come fare a scardinare le frizioni tra parti di popolazione in forte difficoltà e farne emergere conflitti che non siano orizzontali ma contro padroni e governanti? Questo è da tempo un interrogativo pressante a cui ora più che mai è necessario guardare con attenzione perché l’acuirsi di quel germe di cui parlavamo non è una previsione pessimistica del futuro delle città, ma un fatto che si sta sviluppando esponenzialmente.

Ecco, a nostro parere, l’importanza dei momenti di lotta specifica: la loro esistenza e crescita potrebbe essere uno dei pochi antidoti che abbiamo a questa guerra anomica e strisciante.

Le relazioni che in questi conflitti specifici riusciranno a crearsi saranno un pezzo importante di questi percorsi: la solidarietà che nasce nel lottare fianco a fianco, accomunati dagli stessi problemi, è un obiettivo importante almeno quanto il far fronte ai problemi che generano quei conflitti.

Sappiamo bene come la solidarietà non sia un sentimento aprioristico, qualcosa di religioso o culturale, ma come scaturisca dal vivere un esperienza di lotta comune, la comunanza del conflitto.

Inedite tanto quanto le forme saranno le problematiche con cui i conflitti si troveranno a dover fare i conti e da cui nasceranno.

Si pensi in primis alla possibilità di spostarsi senza vincoli e restrizioni. Al di là degli aspetti più strettamente economici relativi all’aumento dei prezzi e alla riduzione selettiva dell’accesso al trasporto pubblico, aspetti che assumeranno una sempre maggior importanza specie nelle grandi città – il lusso di poter prendere la metropolitana di cui parlavano ad esempio i rivoltosi cileni –, qui ci preme concentrarci brevemente sul coprifuoco con cui ci siamo improvvisamente trovati a convivere. Un fatto del tutto nuovo che non poteva che trovare tutti impreparati; un’impreparazione inevitabile che riguarda tanto la sfera della vita in senso stretto, con le sue abitudini e relazioni, come quella della possibilità di lottare, esprimere la propria rabbia e insofferenza senza introiettare soltanto frustrazione e senso di impotenza.

In una città parzialmente o totalmente deserta, organizzarsi con e conoscere altri possibili compagni di lotta presenta indubbiamente difficoltà inedite, così come prendere l’iniziativa in pochi, pur avendo già conoscenze e affinità. Ragionare su un simile coprifuoco appare ancor più complesso anche a causa della legittimità che in parte ha avuto per le innegabili ragioni sanitarie che ne hanno causato l’imposizione. Far tesoro dell’esperienza appena conclusa, con l’idea di capire cosa fare, quali accorgimenti prendere, quali discorsi elaborare e come eventualmente diffonderli non può che partire dal riconoscimento di tali ragioni sanitarie.

Il rischio altrimenti è di suffragare una lettura di questo fenomeno alquanto distorta. Da questo punto di vista gli strali sul popolo-gregge quanto mai ubbidiente e servile nell’accettare tali misure risultano a dir poco semplicistiche, dato che restare dentro casa e limitare spostamenti e assembramenti non era una scelta figlia soltanto e principalmente della paura o del non voler rischiare conseguenze penali o amministrative. Ma questo è un discorso da approfondire altrove.

Si deve far tesoro di quest’esperienza a partire dal fatto che non è dato sapere che natura potranno avere eventuali futuri lockdown per ragioni di ordine sanitario, né è dato sapere se la popolazione reagirà in toto allo stesso modo in presenza di nuovi focolai: è innegabile che a causa di questa sorta di domiciliari di massa si sia accumulato un senso d’insofferenza generale. Ma a monte, probabilmente la forza delle ragioni sanitarie ci sembra essere inversamente proporzionale alla gravità delle altre problematiche da cui si è assillati. Un esempio significativo, che griderà ancora a lungo vendetta, ce lo hanno fornito i familiari dei detenuti di molte carceri italiane, i quali sono stati non a caso tra i primi a esporsi in prima persona in momenti in cui il problema epidemiologico era più acuto e le misure di lockdown più rigide; altrettanto significative, anche se mosse naturalmente da altri assilli, le pressioni contro misure di distanziamento sociale e affini provenienti dai settori del commercio al dettaglio.

Ma la misura di lockdown, magari con una diversa gradazione a livello spaziale, potrà ripresentarsi nei prossimi tempi pur a pandemia finita per ragioni esclusivamente di ordine pubblico, vista l’aria che minaccia di tirare tra le strade dei quartieri di tante città. Una differenza che modificherebbe in maniera sostanziale il quadro nelle possibili resistenze dal basso, che non dovrebbero più fare i conti con preoccupazioni di ordine sanitario ma si troverebbero ad avere a che fare con una gestione dall’alto probabilmente ben diversa da quella attuale. Davanti a un siffatto coprifuoco a uscir di casa o assembrarsi non si rischierebbe infatti solo una multa o una denuncia per l’art.650 c.p.

Torniamo alle accennate proteste di ambulanti, del commercio al dettaglio e dei vari rami della ristorazione. Tra chi non riaprirà e chi rialzerà la serranda per breve tempo per poi seguire l’esempio dei primi, saranno con ogni probabilità in tanti a ritrovarsi in breve tempo senza una fonte di reddito e senza grandi risparmi per tirare avanti. Se molti non versavano già da tempo in floride condizioni, ben difficilmente avrebbero immaginato di dover chiudere bottega così all’improvviso e in così gran numero. I miseri fondi stanziati e promessi dallo Stato italiano funzioneranno da frangiflutti fino ad un certo punto.

Difficile prevedere quali forme assumerà l’inevitabile tensione prodotta da questo improvviso, generale e, almeno per queste caratteristiche, inaspettato impoverimento. Se hanno certamente le loro valide ragioni le previsioni più pessimiste che prevedono la crescita soltanto di un blocco reazionario, non meno sensate appaiono quei paralleli con il recente movimento francese dei Gilets Jaunes non tanto da un lato sociologico, piuttosto per il senso di ingiustizia subita.

Pur coscienti che il conflitto di classe serpeggi in ogni società secondo modalità minute, continue, irregolari e individuali, se dovessimo ricapitolare le sollevazioni più imprevedibili che hanno movimentato il corso del tempo prima del Coronavirus, potremmo definire il 2019 come l’anno dei Gilet Jaunes, dei disordini in Ecuador, in Catalogna, in Cile, a Hong Kong, per citare solo quelle con una copertura mediatica imponente.

Rivolte la cui dinamica, pur alimentata da cause diverse, persone diverse, diverse ‘parole d’ordine’, diversi mezzi e diversi fini, ci risulta combaciare in alcuni punti.

Il primo aspetto, pur conosciuto dalla letteratura rivoluzionaria ma sempre troppo sottovalutato, potrebbe essere definito come la banalità dell’innesco delle sollevazioni, l’insignificanza delle cause scatenanti di molte rivolte, se non insurrezioni e perfino rivoluzioni o guerre. Difficilmente la rabbia esplode a livello collettivo per ragioni ideali – o peggio, ideologiche – rispetto a quelle più minute e insignificanti.

Un altro aspetto, collegato al precedente, è l’immediato e contagioso sentimento di legittimità del protestare e lottare contro misure imposte, percepite come ingiuste. Un sentimento che qualcuno in passato ha definito economia morale in riferimento a dei conflitti contro l’innalzamento dei prezzi del pane nel XVIII sec. in Inghilterra, moti, seconda questa lettura, alimentati non solo da un fattore strettamente economico ma anche da quanto tale peggioramento venisse vissuto e interpretato come particolarmente ingiusto rispetto alle condizioni precedenti.

Un simile sentimento, di questi tempi di misure e contromisure, licenziamenti e cassa integrazione forzosi, potrebbe certo accomunare e far da collante ai tanti uomini e donne messi all’angolo dalla pandemia.

Prevedere fin da ora che la retorica che accompagnerà eventuali mobilitazioni di questo tipo con tutto il suo portato populista potrà contenere numerose ambiguità e criticità è fin troppo facile; val la pena anticipare che sarebbe assai miope però la critica di chi si limitasse a tentar di capire cosa bolle in pentola guardando solo alle rivendicazioni scritte o verbali di simili situazioni.

Ben più difficile immaginare che piega potrebbero prendere questi conflitti sulla spinta di questo pezzo di mondo, soprattutto se riuscisse ad attrarre quel malcontento e quella rabbia generati da questa emergenza che faranno fatica a trovare altre occasioni per esprimersi.

Una suggestione di una qualche utilità potrebbe forse venire dall’esperienza “nostrana” che maggiormente sembra alludere al quadro appena tratteggiato, quella dei Forconi del dicembre 2013, in grado di sorprendere un po’ tutti e, a Torino, di bloccare all’improvviso buona parte della città richiamando una parte significativa di chi viveva nei suoi quartieri.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Nord sud ovest est

Taglio netto

Il mondo inabitabile

Macchine, sensi e realtà

Lockdown, quarantene e zone rosse

Un lato oscuro. Ancora su guerra civile e insurrezione.

 

DIETRO L’ANGOLO PT.9 – MOVIMENTO DISORDINATO

Chi non muore si ritrova – Considerazione in merito all’operazione “Ritrovo”

CHI NON MUORE SI RITROVA

Considerazioni in merito all’operazione “Ritrovo”

Intorno alle due di notte di mercoledì 13 maggio 2020, i Ros di Bologna, Firenze e Fidenza insieme a 200 carabinieri irrompono nella vita di 12 anarchiche e anarchici. Il gip Panza, su richiesta del pm Dambruoso, ne dispone per sette l’arresto  e per cinque l’obbligo di dimora con rientro notturno (per quattro di questi anche la firma quotidiana). Un copione che conosciamo bene e che grazie alle dichiarazioni della procura, che ci rivelano la natura “preventiva” degli arresti, rende a chiunque ancora più esplicito il messaggio lanciato: sia ben chiaro a chi spera che la crisi apra la possibilità di dare uno scossone agli attuali rapporti sociali che lo Stato non cambia. Le accuse sono associazione con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico, avente per reati scopo l’istigazione a delinquere, il compimento di alcuni danneggiamenti e un incendio.

 

270 bis: associazione con finalità di terrorismo

Sebbene in fase di riesame l’accusa sia stata ritenuta inappropriata dal tribunale delle libertà, azzardiamo qualche parola in merito visto che su di essa, e il suo avvallamento da parte del gip Panza si sono rette le misure cautelari.

Anche in quest’operazione, denominata “Ritrovo”, al centro delle accuse stanno le lotte. Due in particolare: quella contro i CPR e quella contro il carcere – fosse questo destinato a compagni e compagne o meno. Lo Stato parla chiaro: terrorista è chi  esprime solidarietà, chi lotta, chi non tiene la bocca chiusa, chi manifesta aperta approvazione verso l’azione diretta e le forme di opposizione radicali – anche illegali – alle strategie della repressione e dello sfruttamento. Non solo, una ricorrenza che si ritrova anche in altre recenti operazioni repressive è l’utilizzo del reato di istigazione a delinquere come collante dell’ipotesi associativa: la parola, di questi tempi, fa paura e lo Stato si muove ormai con modalità da regime. Accade da un po’ e ci aspettiamo accadrà ancora.

Almeno in potenza, dicono le carte, la “cellula” di Bologna aveva la capacità di attivare azioni piccole ma replicabili su scala nazionale da gruppi ad essa simili. Gruppi con cui la suddetta “cellula” era in contatto: una ramificazione capace di “costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto”.

La nostra posizione in merito è semplice: se portare solidarietà a chi si rivolta e schierarsi contro le ingiustizie è terrorismo, allora siamo tutti e tutte terroristi. Ben lieti di accettar l’accusa se in questo mondo terrorista è chi non chiude la bocca e sceglie di attaccare. Attaccare quelle stesse istituzioni che sulla paura fondano il governo dei popoli. A riguardo potremmo parlare di guerre, bombe nelle piazze, morti in mare e manganellate, ma a che serve? Gli ultimi tre mesi non sono forse bastati a farci capire di quanta paura ha bisogno lo Stato per governarci? La paura dei controlli, la paura dell’arbitrio delle forze dell’ordine, dell’“abuso di potere”, la paura dell’ammalarsi e del far ammalare, costretti a doversi recare a lavorare per forza e a non potersi curare adeguatamente a fronte dello smantellamento della sanità. Una paura che si fa sempre più terrore se pensiamo agli arresti degli scioperanti e alle quattordici morti nelle carceri.

Le gestione delle crisi da Covid-19 ha rivelato in maniera lampante quali siano le vite più sacrificabili per il potere in un regime di produzione tecnodigitale come ad esempio anziani e disabili nelle case di riposo o case per disabili; piuttosto che le persone detenute, corpi criminalizzati nelle carceri e nei Cpr.

Una parte sempre più ampia della popolazione subisce un livello di violenza sempre maggiore e reagire è presto detto terrorismo.

 

Istigazione a delinquere

Oggi, l’accusa di istigazione a delinquere esplicita una contraddizione evidente, l’ingiustizia e l’arbitrio su cui il potere si fonda. Perché l’istigazione si verifichi – afferma il pm Dambruoso – è necessario un contesto adeguato e recettivo; perché non si perseguano le idee, è necessario, come in questo caso, che l’ambiente economico-sociale sia adeguato a recepire l’istigazione all’atto illecito. Il senso è: quello che ieri non era istigazione oggi lo diventa perché i tempi sono cambiati. Di cos’altro c’è bisogno per capire che il codice penale non è altro che uno strumento per il mantenimento della disparità di classe, finalizzato alla sola tutela della classe dirigente che, a seconda dell’aria che tira, rischia oggi di vedersi volar via il cappello e domani la testa?

È in quest’ottica che la “strategica valenza preventiva” assume tutto il suo senso. In un momento come questo un’operazione che tolga di torno dodici teste pensanti, dodici cuori liberi, fa assai comodo, perché – l’hanno detto loro stessi – la crisi incalza e i tempi a venire saranno bui per chi siede sul trono. Le sei misure cautelari rimaste (obblighi di dimora con rientro notturno) infatti riguardano proprio il reato di istigazione.

Permetteteci però una breve parentesi su questa “preventività”. La prima richiesta delle misure cautelari, inizialmente respinta dal gip, risale al luglio 2019, la seconda e accettata ci parla invece del 6 marzo 2020, alla vigilia delle rivolte nelle carceri. L’operazione era pronta a dispiegarsi da un bel pezzo e la “strategica valenza preventiva” si aggiunge, assieme a qualche recente segnalazione circa i presidi sotto il carcere della Dozza, a un malloppo già denso.

Agitatori, fomentatori, sobillatori, propagandisti, questo anarchici e anarchiche lo sono da sempre. Una cosa però ci sentiamo di dover chiarire: gli anarchici e le anarchiche non dicono a nessuno di fare per loro conto qualcosa. Essi difendono quello che ritengono essere giusto, agiscono in prima persona, da soli o con altre persone, ma mai si pongono al di sopra degli altri, pronti a plasmarne i comportamenti e l’agire. Questa è una strategia propria della politica e noi nella politica non crediamo, crediamo nell’azione diretta, nelle sue mille forme, che sono della politica l’esatto opposto.

Non si tratta di rispedire al mittente le accuse, né tanto meno capire se anarchismo e istigazione vadano di pari passo (una diatriba che lasciamo volentieri agli avvocati), ci preme semmai interrogarci su quale siano le cause profonde della rivolta. La rivolta secondo qualcuno sta nelle parole istigatrici del sobillatore, nelle insinuazioni del folle, che avrebbero la capacità di incrinare questo migliore dei mondi possibili. Secondo costoro se fuori dalle mura di carceri e CPR fossero mancate le presenze solidali le rivolte all’interno non si sarebbero verificate. Come ben sappiamo le rivolte in certi luoghi abbondano, anche senza che ci siano presenze solidali là fuori a far da cassa di risonanza. Questo perché la presa di coscienza della miseria in cui si vive, l’individuazione del nemico e la necessità di agire non sono certo determinate da discorsi istigatori, quanto piuttosto dalle angherie subite e dalle ingiustizie non più sopportabili.

È d’abitudine nei CPR da anni, è stato così nelle carceri nel marzo 2020 e lo è in questi giorni negli Stati Uniti, dove all’ennesimo sopruso, all’ennesimo omicidio di una persona nera compiuto da poliziotti bianchi, parte della popolazione è insorta. La rabbia negli Stati Uniti lo dice forte e chiaro: non sono necessari gli anarchici che istigano, lo schifo di questo mondo è di per sé sufficiente.

Eretici, socialisti, autonomi, anarchici, antifa… di categorie con cui i governi hanno  cercato, da sempre, di mistificare il fenomeno dell’opposizione radicale, pur di non affermarne le radici profonde, non se n’è mai fatta parsimonia. La verità, però, è che il seme della rivolta sta in un terreno fatto di sfruttamento, controllo, repressione, razzismo, ingiustizia e, sempre più, gratuita prevaricazione. Non c’è da stupirsi se un giorno decidesse di germogliare anche qui, anche nel più completo e assordante silenzio di voci oppositive. Statene certi, accadrà.

Lo si è visto durante i mesi di quarantena. Mentre fuori il governo della paura ammansiva la popolazione, dentro le carceri questa stessa paura è diventata ingestibile per chi su di essa ha sempre costruito il proprio potere. Già dal 26 febbraio, Roberto Ragazzi, dirigente del Dipartimento di Medicina Penitenziaria dell’Ausl di Bologna, ordinava ai suoi operatori di non indossare mascherine nel reclusorio al fine di non allarmare la popolazione detenuta.

Il 9 marzo, messi all’angolo ed esasperati, i detenuti decidono che la paura loro imposta è divenuta oramai insopportabile, la situazione sfugge dalle  mani delle istituzioni penitenziarie e alla Dozza esplode una rivolta, sulla scia delle altre che si accendono nelle prigioni lungo la penisola.

Chi può, di fronte a ciò, ancora pensare che la rivolta sia di fatto il prodotto della cospirazione o di qualche isolato contestatore? Istigano gli anarchici o è l’invivibilità di una vita fondata su paura e terrore la prima fonte di istigazione?

 

Azioni e sabotaggi

Tutto parte da qui, o almeno così dicono, anche perché intercettazioni ambientali e telefoniche erano già attive da tempo, almeno dal 2016, dalla bomba messa alla caserma di Corticella. Tutto comunque partirebbe da una notte del dicembre 2018, quando fu dato fuoco a un’antenna sui colli bolognesi. I ponti radio di Santa Liberata erano in uso a radio e televisioni locali, nonché a forze dell’ordine (rete interforze) e a non meglio precisate ditte coinvolte in sorveglianza audio-video. Quella sera alcune reti televisive si trovano oscurate e la Guardia di Finanza subisce un’interruzione momentanea delle sue comunicazioni radiofoniche. “Spegnere le antenne, risvegliare le coscienze, solidali con gli anarchici detenuti e sorvegliati” questa la scritta lasciata nei pressi. Era questa una delle tante azioni che in Italia ed Europa si verificano ai danni dell’infrastruttura fisica del mondo immateriale.

Durante il periodo febbraio-aprile 2019, contestualmente a manifestazioni di piazza, ma non solo, si verificavano poi imbrattamenti e danneggiamenti alle filiali delle banche BPER e BPM, entrambe coinvolte nella proprietà della struttura del CPR di Modena in previsione d’apertura, oltre che contro telecamere, monumenti nazionalisti e una caserma dei carabinieri. Che dire, quando ai responsabili di ingiustizie ed oppressione tocca un po’ dell’amaro che ci fanno ingoiare ogni giorno non riusciamo a non rallegrarcene. Certe azioni, seppur piccole, hanno tutto un loro senso per noi. Il nostro criterio di giustizia non è dato da un codice che non abbiamo mai sottoscritto, ma dalla non casualità di queste azioni e dal significato dell’obiettivo che scelgono.

Che provino pure a tapparci la bocca a suon di denunce, colpire chi sfrutta e reprime è giusto e questo è un fatto.

 

Solidarietà

Affrontare la repressione significa cercare di trasformare la merda in fiori.

Le dimensioni della solidarietà ricevuta sono state una bella sorpresa. Non solo “militanti ed attivisti”, ma anche molte persone che nessuno avrebbe immaginato poter prendere le difese di una “banda di anarchici”. In ciò hanno sicuramente avuto un peso non indifferente le amicizie, le conoscenze, gli incontri e le persone che segnano la quotidianità, la vita di tutti i giorni insomma. Con ciò non vogliamo affermare che il “radicamento sociale” sia la ricetta contro la repressione, anche perché una sua precisa definizione risulta piuttosto difficile, né i percorsi di anarchici e anarchiche debbono prevederlo di necessità. Tuttavia ciò è stato in questa specifica situazione un dato che ci sentiamo di dover riportare.

Questa solidarietà ricevuta non è casuale, così come non lo è il fatto che dopo mesi di reclusione domiciliare, paura e angherie poliziesche, qualche persona abbia pensato che quest’ulteriore svolta repressiva, destinata a chi negli ultimi tempi aveva chiaramente fatto voce contraria all’andazzo securitario, fosse davvero troppo.I vecchi rapporti sociali sono mutati in peggio per gli sfruttati e devono essere repentinamente normalizzati; forse c’è chi non se l’è sentita di abbassare la testa, anche solo di fronte alle affermazione inerenti la “strategica valenza preventiva”, come se i propri amici e conoscenti fossero un virus da debellare, gente scomoda di cui sbarazzarsi a prescindere.

Ad essere sinceri, però, va rilevato un fatto, di cui siamo consapevoli e su cui è necessario riflettere per quel che sarà il futuro: la debolezza dell’ipotesi accusatoria è stata sicuramente un fattore importante di mobilitazione della solidarietà, soprattutto da parte di persone lontane dalle lotte. Essa ha sicuramente contribuito a far nascere l’idea di un’ingiustizia da regime che andava compiendosi. La situazione contingente ha fatto gioco, lo riconosciamo. Sappiamo pure, però, che la solidarietà dev’essere rivoluzionaria, sempre a fianco di chi lotta contro Stato e padroni e non condizionata dalle accuse mosse. Dobbiamo avere l’onestà di leggere i contesti, ma pure la coerenza di rimanere fedeli alle nostre convinzioni anche nei momenti più duri, cercando di dimostrare una solidarietà forte e decisa anche quando la repressione colpisce più forte. Proprio per questo non ci siamo mai permessi di parlare di “montature”, né mai si è scelto – come giusto che fosse – un discorso innocentista, anche di fronte all’allargamento della solidarietà, cercando di continuare a portare discorsi radicali a più orecchie possibili. “Spegnere le antenne, risvegliare le coscienze”, così si apriva il corteo del 30 maggio, una dichiarazione di come l’azione diretta, il sabotaggio e le pratiche di attacco a strutture e servi di questo sistema siano giuste.

La prima risposta di fronte a tutto questo è stata quella di tornare nelle strade, come prima, più di prima, nonostante la paura e i divieti, per esprimere ciò che per noi è solidarietà: le pratiche.

La repressione quando sequestra compagni e compagne alle lotte, ha per scopo il limitarci materialmente togliendoci forze e spaventandoci. Bisogna essere coscienti che i nostri percorsi prevedono la possibilità che lo Stato prima o poi bussi alle nostre porte, bisogna prepararsi all’eventualità che la repressione arrivi e in quel momento mantenere la lucidità, per non farsi affossare e – sarà banale, ma – rispondere rilanciando le lotte, per non dichiarare la resa. Proprio quando è la solidarietà ad essere attaccata – come in questo caso – e proprio quando le sue reti sono messe in discussione,occorre far della repressione condizione e opportunità di rafforzamento e rilancio. Nella difficoltà comune essa può divenire opportunità e condizione per conoscersi, capirsi e organizzarsi meglio, rafforzarsi e rendere la solidarietà un’arma.

Il periodo che stiamo vivendo dimostra che lo Stato ha imboccato una strada chiara e significativa, abbiamo ben compreso che i prossimi mesi e anni saranno delicati e tesi.

Più consapevoli e più forti di prima, ci ritroveremo nelle strade.

 

«E dite, dite! Che cosa sareste voi

senza dio, senza re, senza padroni,

senza ceppi, senza lacrime?

— Il finimondo!»

 

“Matricolati!”,Cronaca sovversiva, 26 maggio 1917

 

Anarchici e anarchiche di Bologna

 

 

*Poco prima della stesura definitiva del testo ci è giunta la notizia dell’ennesima operazione repressiva che ha colpito 7 tra compagni e compagne, 5 in carcere e 2 ai domiciliari, messa in campo dalla Procura di Roma. Le notizie sono ancora un po’ frammentarie, ravvisiamo però diverse similitudini con quella bolognese. A condurla sono anche qui i Ros, le accuse sono di 270bis (per le persone in carcere) più numerosi fatti specifici, tra cui attentato con finalità di terrorismo, incendio e istigazione a delinquere, diversi episodi riguarderebbero azioni in solidarietà con prigionieri e prigioniere. L’abbiamo detto, lo Stato mostra i muscoli in un momento storico che si preannuncia denso di possibili tensioni. La solidarietà è fondamentale e la ribadiamo senza se e senza ma nei confronti dei compagni e delle compagne colpiti a Roma.

FISSAZIONE DELL’UDIENZA PRELIMINARE PROMETEO, UN RESOCONTO E QUALCHE RIFLESSIONE – 14 giugno 2020

Il 21 maggio 2019 i carabinieri del Ros, guidati dai pm Piero Basilone e Alberto Nobili del pool antiterrorismo di Milano hanno dato il via all’operazione Prometeo che ha portato all’arresto di Natascia, Robert e Beppe accusati di 280 (attentato con finalità di terrorismo) in relazione all’invio di alcune buste esplosive a Roberto Sparagna e Antonio Rinaudo, pubblici ministeri impegnati da anni nella repressione di chiunque lotti contro questo mondo di gabbie e sopraffazione, e a Santi Consolo, ex direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, responsabile di rendere le carceri dei veri e proprio luoghi di tortura.
Per mesi i tre compagni sono stati sballottati in diverse prigioni della penisola, collocati in sezioni in cui di norma non sarebbero dovuti stare, come le AS2 islamiche di Sassari e Rossano, l’AS3 di Piacenza e la sezione protetti di Pavia.
Il 2 dicembre 2019 Robert, prigioniero nell’AS2 di Sassari, è stato scarcerato senza alcuna misura cautelare, e la decisione è arrivata dal tribunale del riesame dopo che la cassazione a ottobre aveva annullato l’ordinanza del GIP per mancanza dei “gravi indizi di colpevolezza”. Il ricorso per cassazione era stato chiesto per lui e Beppe, e purtroppo a Beppe era stato rigettato. A distanza di una settimana lo zelante pm si è opposto alla scarcerazione di Robert presentando ricorso in cassazione ma il tutto gli è stato rigettato e dichiarato inammissibile.
A metà febbraio le indagini sono state chiuse, e le ripetute richieste di domiciliari per Beppe e Natascia sono state rigettate.

Dopo oltre un anno dagli arresti è stata fissata l’udienza preliminare per il 22 giugno alle ore 10 al tribunale di Milano. Con la scusa del COVID, e soprattutto del tipo di reato contestato, si sarebbe sicuramente svolta in videoconferenza, se non fosse che le aule destinate al collegamento da remoto risultano inagibili per l’incendio che a fine marzo ha distrutto svariate aule del palazzaccio di giustizia. Dunque Natascia e Beppe potranno essere presenti in aula ma l’udienza sarà a porte chiuse.
Durante tutta la carcerazione l’accanimento dello stato si è concretizzato con l’arroganza della procura di Milano, e in particolare del pm Basilone, noto ormai da anni per indagini in cui ha tentato di seppellire compagni e compagne sotto anni di galera, dai processi per svariate occupazioni, gli scontri per lo sgombero dell’ex cuem nel 2013, l’indagine per devastazione e saccheggio dopo il corteo no expo del 2015, fino all’operazione Prometeo.
In quest’ultima inchiesta l’onnipotenza inquisitoria di  Basilone si è caratterizzata dalle continue richieste di trasferimento dei compagni rinchiusi, per non farli venire in contatto con individualità affini con la scusa di un “potenziale inquinamento di prove”. I trasferimenti a Sassari, Rossano, Piacenza e Pavia sono stati infatti chiesti da lui stesso, che ha dato poi carta bianca all’amministrazione penitenziaria per tentare nuovi esperimenti carcerari (in barba allo stesso principio del DAP di omogeneità fra detenuti) mischiando componenti agli antipodi e confinando a sfregio Beppe nella sezione dei protetti di Pavia in cui sono rinchiusi per lo più stupratori, infami e collaboratori di giustizia. Inoltre la censura sulla corrispondenza durata 6 mesi ha comportato ritardi, sparizioni della posta e difficoltà nella comunicazione fra i prigionieri e l’esterno.
Dall’inizio del 2019 con le operazioni antianarchiche Scintilla, Renata, Prometeo, con le pesanti condanne scaturite dal processo Scripta Manent, fino ad arrivare alle ultime due operazioni, Ritrovo e Bialystock, le procure ritirano puntualmente fuori l’accusa associativa del 270 bis o del 280 per i fatti specifici utilizzando accozzaglie ridicole di presunte prove per far fuori quelle esperienze di solidarietà fra ribelli, di azione diretta contro lo stato e i suoi sgherri, di lotta contro le galere sotto ogni forma.
Lo stato legittima l’immane violenza che esercita quotidianamente sulle persone mentre chiama “terrorismo” la determinazione di quegli individui che hanno il coraggio di non stare fermi a guardare e di non essere complici di quest’ordine annichilente in cui prevale la legge della forza e della prevaricazione.

Non ci interessa la distinzione fra colpevoli e innocenti. Di fronte a questo mondo alla rovescia ribadiamo la nostra solidarietà con Natascia, Beppe e Robert, con i compagni e le compagne recentemente arrestate nelle operazioni Bialystock e Ritrovo,  con tutte e tutti quelli che ancora si trovano rinchiusi per le operazioni degli scorsi anni, e con tutte quelle individualità che continuano a lottare senza paura e senza compromessi.

Ricordiamo le coordinate per contribuire alle spese legali e detentive di Natascia e Beppe

– Postepay evolution
intestata a Vanessa Ferrara
n° 5333 1710 9103 5440
IBAN: IT89U3608105138251086351095
– Postepay evolution
intestata a Ilaria Benedetta Pasini
n° 5333 1710 8931 9699
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GLI INDIRIZZI PER SCRIVERE A NATASCIA E BEPPE

NATASCIA SAVIO
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STRADA DELLE NOVATE 65
29122 PIACENZA

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VIA VIGENTINA 85
27100 PAVIA

LIBERTA’ PER NATASCIA E BEPPE
LIBERTA’ PER TUTTE E TUTTI

La nave dei folli – Episodo 10

Su Le Monde del 28 dicembre 1948 compare l’articolo di Dominique Dubarle, cronista scientifico, fisico e padre domenicano, intitolato “Verso una macchina per governare”, una recensione a Cybernetics di Wieneer appena pubblicato.

Le macchine informatiche sono presentate da Padre Dubarle come «i primi sostituti del cervello umano» che permetteranno finalmente di colmare le lacune dell’intelligenza sensibile e di governare in modo più efficace. In un sol colpo apre all’applicazione sociale dell’informatica e al declassamento del cervello rispetto alle macchine.

Squalificato da qualcosa da lui stesso creato, l’umano impefetto e biologicamente limitato, perde il suo prestigio.

Si domanda infatti Dubarle: «Non si potrebbe concepire un’apparecchiatura di Stato che ricopra l’intero sistema di decisioni politiche, sia in un regime di pluralità di Stati che si dividono le terre, sia in un regime apparentemente più semplice, di un governo unico per il pianeta? Oggi nulla impedisce di pensarlo. Possiamo sognare un tempo in cui una macchina per governare giungerà a supplire – nel bene o nel male, chissà? – l’insufficienza oggi evidente delle teste e delle apparecchiature abituali della politica».

 

 

Riferimenti Episodio 10

 The Ex & Tom Cora, Batium (Scrabbling At The Lock, 1991)
 Rupert Sanders, Ghost in the Shell (2017)
 Catharsis, Passion… (Passion, 1999)
 Ennio Morricone, Il buono, il brutto, il cattivo (Sergio Leone, 1966)
 Smokey Bandits, Smoke From The Attic (Debut, 2010)
 Dottor Thomas Cowan – https://www.youtube.com/watch?v=00I7675Q2oQ
 Monty Python, “Il miracolo della nascita” (Il senso della vita, 1983)
 VODAFONE e 5G: John Wizards, Finally/Jet Up e Tet Lek Schrempf (John Wizards, 2013)
• Paola Pisano (Ministero per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione): Têtes RaidesBibliothèque I (Gratte Poil, 2000)
• 
Son de la barricada (testo)

https://lanavedeifolli.noblogs.org/

Cronache dallo stato di emergenza (numero 10)

Pensieri su salute e medicina

(Cronache dallo stato di emergenza n.10, 29 maggio 2020)

Mentre il governo ci accorda per la cosiddetta Fase 2 la libertà di lavorare, di consumare e di fare passeggiate – ma non quella di manifestare –, il fatto che dei medici in formazione si dichiarino in mobilitazione permanente ci sembra un bel segnale. Così come il fatto che la situazione creatasi negli ospedali di fronte al Covid-19 venga esplicitamente collegata ai tagli (37 miliardi di euro solo negli ultimi dieci anni) e al processo di aziendalizzazione della Sanità. Se c’è un insegnamento da trarre dall’esperienza di massa che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, è che la difesa della salute individuale e collettiva non può essere delegata e che è urgente aprire nei diversi territori spazi di confronto e di iniziativa che uniscano il personale sanitario e il resto della società. Non solo perché “ripartire” come se nulla fosse successo è quanto di più insensato si possa fare; ma anche perché l’enorme debito pubblico che il governo sta creando con i prestiti alle banche e alle grandi aziende comporterà, in assenza di resistenze, ancora tagli e una più feroce aziendalizzazione. «La salute non è in vendita» non può che essere un invito a lottare, dunque, non certo una costatazione: in un mondo in cui tutto è profitto, la salute è in vendita, eccome!

Partiamo allora da un passaggio del vostro appello:

«Chiediamo che venga riconosciuta la centralità della medicina sul territorio, realtà che si assume la cura della persona nella sua totalità e globalità. Chiediamo che venga garantito ai futuri Medici di Medicina Generale un percorso formativo di qualità, nel quale venga valorizzata l’importanza di una gestione globale e proattiva dei pazienti». Questo significa non solo avere gli strumenti per affrontare le malattie, ma anche la volontà di prevenirle. Una «medicina sul territorio» che «si assume la cura della persona nella sua totalità e globalità» può esimersi dal denunciare le cause ambientali delle malattie? L’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo, le condizioni in cui lavoriamo, i mezzi con cui ci spostiamo sono le basi stesse di un territorio. L’inquinamento, l’artificializzazione del cibo, gli incidenti sul lavoro e del lavoro hanno o non hanno a che fare con la medicina? Che l’arte medica richieda competenza e formazione è sicuro; che la sua estrema specializzazione tenda a rendere dei perfetti incompetenti in ciò che è umano e sociale, è altrettanto sicuro.

È proprio questa competenza umana e sociale che manca, e che si tratta di costruire insieme. Una volta che abbiamo denunciato tagli e privatizzazioni, vogliamo dir qualcosa sulle cause strutturali per cui milioni di esseri umani si ammalano? Vogliamo dire che le stesse malattie zoonotiche come il Covid-19 – diventate ormai il 70% delle nuove infezioni – sono provocate dalla deforestazione, dagli allevamenti intensivi di animali, dall’agricoltura industriale e dall’urbanizzazione smisurata? Se possiamo suggerirvi e suggerirci degli esempi da seguire, che vanno ben al di là di un ambito professionale specifico, questi non sono certo i grandi baroni della medicina (che sulle varie controriforme sanitarie sono sempre stati zitti), ma quei “medici scalzi” che denunciavano insieme agli operai il pericolo dell’amianto o assieme agli abitanti di città e campagna l’impatto delle varie nocività petrolchimiche. Si tratta di figure nate non a caso negli anni in cui si discuteva e si lottava su tutto ciò che riguarda la società, cioè ci si prendeva cura della «persona nella sua totalità e globalità». In tal senso, auspichiamo non solo che le mobilitazioni riprendano e continuino, ma che si intreccino fra loro. Abbiamo visto fin troppo bene che “malattie” produce l’isolamento.

www.ilrovescio.info

testo distribuito il 29 maggio, a Trento, nel corso dell’iniziativa organizzata lì come in ventuno altre città dai “medici in formazione in mobilitazione permanente”

Qui in formato pdf:

cronache 10

 

Cronache dallo stato d’emergenza (Numero 10)

Una storia italiana. Di terremoti ed emergenze sanitarie

Una storia italiana. Di terremoti ed emergenze sanitarie

Il giorno 2 maggio il capo della polizia Franco Gabrielli ha dichiarato: «Attenzione, con la fase due dell’emergenza coronavirus ripartirà anche la criminalità», che, tradotto, voleva significare «ma perché non prolunghiamo per un altro periodo questa quarantena e poi facciamo in modo che lo stato d’eccezione diventi la normalità…?».

Ebbene, Gabrielli sa perfettamente cosa dice e penso che abbia anche in mente uno scenario ben definito. Infatti c’è stato un periodo e un luogo in cui l’autoritarismo emergenziale è assurto a realtà fattuale, trasformando una città e ilsuo territorio in un laboratorio politico per il superamento di tutte le normali dinamiche sociali.

Mi riferisco alla gestione del sisma che ha colpito L’Aquila e il suo circondario il 6 aprile del 2009.

Il giorno stesso del terremoto il governo Berlusconi, che annoverava come ministro dell’interno Roberto Maroni, come primissimo atto politico nominò proprio Gabrielli, che proveniva dalla guida dei servizi segreti civili, prefetto della città… guarda alle volte i casi…

In seguito la protezione civile, comandata dal ras Guido Bertolaso, evocato da Renzi e Salvini come salvatore della patria nell’emergenza coronavirus e poi nominato commissario straordinario della Lombardia e delle Marche, stese una cappa di coprifuoco militare, chiamata zona rossa (…vi dice niente?), su L’Aquila e su 52 comuni del cosiddetto cratere sismico.

Nessuno poteva accedere alle proprie case se non scortato da forze dell’ordine e vigili del fuoco, tutti gli abitanti furono o confinati in tendopoli gestite dalla protezione civile, in cui era persino vietato fare assemblee pubbliche, oppure deportati negli alberghi sulla costa adriatica.

La sistematica attuazione di tale piano di contenimento sociale è avvenuta seguendo una ben precisa strategia chiamata Metodo Augustus. In pratica una serie di linee guida per fronteggiare l’emergenza, pubblicate la prima volta nel 1997 e integrate nel corso degli anni, mutuate interamente dalle procedure adottate dall’Ente Federale Gestione Emergenze statunitense, che fa parte dell’Homeland Security, cioè l’antiterrorismo interno.

Tale impostazione militare è ben presente nel protocollo italiano fin dai nomi scelti, ad esempio il centro di coordinamento della protezione civile sul territorio si chiama Direzione di Comando e Controllo… come in guerra…

Controllo che non doveva limitarsi alla gestione del territorio, ma bensì come si legge testualmente sul documento Augustus, doveva spingere la cittadinanza ad «abdicare alle proprie autonomie decisionali, a sottoporsi a privazioni e limitazioni, e ad ubbidire alle direttive impartite».

Come si vede, niente di nuovo sotto il sole…

mammut

Tratto da Fase zero, giugno 2020.

Una storia italiana. Di terremoti ed emergenze sanitarie