Non se ne andranno

Da qualche giorno l’esercito pattuglierà l’esterno del carcere di Sulmona e L’Aquila. Dopo l’operato dei militari nelle carceri durante la Fase1 con lo scopo dichiarato di sanificare gli ambienti, ecco che questi amanti dell’ordine e disciplina, per la Fase2 si sono sistemati in un ambiente in cui si trovano a loro agio, ambiente di gerarchia e repressione, e pensiamo non se ne andranno molto presto. Quindi dal controllo di questi mesi delle strade di tutto il paese insieme alle altre forze dello Stato, si passa direttamente al passaggio del controllo delle carceri e non solo. Ma in certi casi eccezionali, come una rivolta, potrebbero intervenire in caso che la polizia penitenziaria non riesca a sedarla sul nascere? E se si in che modo lo farebbero? Come i loro colleghi della penitenziaria di Modena con i mitra che sparano ad altezza uomo?

Senza contare che quello che è successo nel magazzino della Brt in questi giorni durante un ‘assemblea sindacale sia solo uno dei futuri esempi di come verranno impiegati i militari in Italia, senza contare che in altre parti del mondo come in Cile stanno intervenendo per reprimere le proteste nei quartieri più poveri in cui si comincia a fare nuovi buchi sulla cintura dei pantaloni.

Il discorso pubblicitario dello Stato riguardo l’utilizzo del suo braccio armato nella Fase2, nasconde nei fatti la realtà più spicciola, quella che si tocca con mano nel momento in cui si alza la testa o che non si rispetti qualche regola insensata, o che se finisca nelle patrie galere per questi e altri motivi. A passi lunghi e ben distesi l’esercito avanza nel quotidiano, la mimetica fa parte dell’arredo e pensiamo che se la cinghia bisognerà tirarla ancora anche a queste latitudini, non ci verranno distribuiti medicinali in modo affabile come ci viene fatto credere, ma ben altro ci verrà dato per colmare la fame.

https://www.milanotoday.it/video/sedriano-carabinieri-interrompono-sciopero.html

 

Non se ne andranno

 

La nave dei folli – Episodio 9

Altro tassello fondamentale del puzzle cibernetico è un saggio di John Von Neumann e Oskar Morgenstern, Teoria dei giochi e comportamento economico (1944), dove si mira ad analizzare e prevedere matematicamente le azioni umane tenendo conto di determinati aspetti psicologici.

Erede del liberalismo economico anglosassone, la teoria dei giochi offre una visione puramente operativa della razionalità umana. In base al postulato semplicista secondo cui il soggetto razionale è alla ricerca costante del massimo di soddisfazione, Neumann e Morgenstern sviluppano un modello matematico che presuppone l’utilizzo di strategie comunicative da parte dei giocatori, che devono prevedere le proprie azioni seguendo le regole prestabilite e le informazioni ricevute.

L’immagine dell’homo oeconomicus assume le sembianze del “soggetto-giocatore che sceglie” che, all’interno di un universo probabilistico, deve prevedere strategicamente il comportamento degli altri giocatori. Secondo questa logica la razionalità umana si riduce a un insieme di regole strategiche di calcolo e trattamento dell’informazione, motivo per cui sottomesso all’imperativo dell’efficacia operativa, il soggetto si muove attraverso un gioco di ruoli prevedibili e misurabili.

Proprio come il cittadino del mondo globalizzato di oggi, disposto a trasferire e delegare la propria esistenza, la propria libertà, ad application di cui Immuni rappresenta soltanto un grezzo prototipo.

Riferimenti Episodio 9

• Fire At Work, traccia 1 (Total Audio Resistance)
• Bonzo Dog Doo-Dah Band, Doctor Jazz (Tadpoles, 1969)
• Sam Peckinpah, La Ballata di Cable Hogue (1970)
• Letture a mezza voce – Divieto di socialità, diario da un carcere del 2020. (Edizioni sprofessori). Massimo Ferrante, A’Nuvella (Ricordi, 2006); Henryk Górecki, Symphony No. 3 [Symphony of Sorrowful Songs], Op. 36 (1976)
• Sandman, Nothin’ to Say (The Long Walk Home, 2004)
• Intervista della Nave dei Folli a John Zerzan
• Albert Ayler, Masonic Inborn, Pt. 1 (Music Is The Healing Force Of The Universe, 1969)
• Andrej Tarkovskij, Stalker (1979)
• L’ASTRONAVE DEI FOLLI – (Sigle: Katyusha Cosmowave Remix e Kalinka Remix). Prima puntata: Inno CCCP e Duo LyubAnya, Pirati dei Caraibi; Anton Arkhangelsky/Nikolay Ikonikov, Bolshevik Funeral March, You Fell Victim to a Fateful Struggle (1878);Lev Trotskij, Letteratura e rivoluzione (1924)
• Jacques Marchais e Vanessa Hachloum, Les Journées de mai (Guy Debord), Pour en finir avec le travail (1974), disco prodotto da Jacques Le Glou (testo)

https://lanavedeifolli.noblogs.org/

Lettera di un padre sulla violenza psichiatrica

Riceviamo e diffondiamo:

LETTERA di DENUNCIA di un PADRE CHE CHIEDE GIUSTIZIA per la FIGLIA

Raccogliamo la lettera di denuncia di un padre che chiede giustizia per sua figlia. Ci sembra importante raccontare questa storia di abusi che va avanti da troppo tempo. È necessario attenzionare maggiormente ciò che avviene all’interno di alcune strutture psichiatriche private convenzionate, che in Italia sono più di 3.500, spesso veri e propri luoghi di reclusione in cui è difficile entrare e verificare quali pratiche e terapie vengano attuate.

Ci preme sottolineare inoltre come il ruolo degli Amministratori di Sostegno diventa sempre più invasivo e determinante per la vita di persone vittime della psichiatria che di fatto non hanno commesso alcun reato. Vi chiediamo di pubblicare la storia di Antonio e sua figlia sui vostri canali e sui vostri siti, di inoltrarla il più possibile nella speranza che altri si uniscono alla sua battaglia per la liberazione di Alice.

Collettivo Antipsichiatrico Antonino Artaud

antipsichiatriapisa@inventati.org
www.artaudpisa.noblogs.org 335 7002669

Racconto la mia storia e quella di mia figlia nella speranza che possiate aiutarmi a tirar fuori mia figlia da una situazione di oppressione fisica e psicologica che è costretta a subire da tre anni a questa parte a causa di malasanità e mal gestione della sua condizione da parte delle istituzioni.

Attraverso le vie legali non sono riuscito a cambiare la condizione di mia figlia. Il caso ha anche una valenza più generale, perché ritengo che possano esserci anche tante altre persone in questa situazione.

Il mio nome è Antonio Di Vita, sono residente a Montevarchi (AR) e mia figlia si chiama Alice Di Vita e ha 26 anni. Tre anni fa Alice a seguito di un presunto arresto cardiaco fu ricoverata nel Reparto di Rianimazione di Careggi a Firenze. Dopo circa dieci giorni di coma indotto le viene eseguita una tracheotomia e le viene applicata una cannula a scopo precauzionale. Dopo gli esami strumentali (RM,TC e ECC) ripetuti ad otto giorni di distanza, le condizioni di Alice sono definite “incredibilmente ottime”. Nessuna conseguenza cerebrale, nessuna conseguenza motoria e psico-reattiva. I responsabili del Reparto di Terapia Intensiva danno disposizione al trasferimento di mia figlia da Careggi di Firenze al reparto di Riabilitazione dell’Ospedale del Valdarno (Alice era residente a Montevarchi). La prognosi indicata è di circa dieci giorni. Affermano anche che la cannula della tracheotomia dovrebbe essere rimossa entro tre giorni.

Inaspettatamente, per ragioni non chiare, Alice è invece trasferita all’Istituto Don Gnocchi di Firenze, dove rimarrà per più di un anno subendo le pene dell’inferno. Legata al letto o alla sedia, imbottita di psicofarmaci, con infezioni e piaghe causati degli escrementi non rimossi adeguatamente e frequenti attacchi di panico. La cannula della tracheotomia non viene rimossa e genera aderenze alle corde vocali, paralizzandole e granulomi all’interno della trachea (di natura incerta, benigna o maligna). Da subito, a mia insaputa, viene nominato un amministratore di sostegno (ADS) nella persona del fratellastro. A seguito di mia opposizione l’ ADS viene sostituito da un’avvocatessa la quale però si disinteressa totalmente di mia figlia. Avendo constatato di persona la mal gestione e le atrocità subite da mia figlia ho presentato diversi esposti alla Procura della Repubblica di Firenze. L’ADS, probabilmente spinto dall’Istituto Don Gnocchi stesso, presenta due istanze per trasferire Alice in altri istituti, prima Villa Le Terme dove la maggioranza dei degenti sono in stato vegetativo, e poi un altro nel quale avrebbe dovuto passare tutta la vita . Io richiedo al giudice di trasferire mia figlia in una struttura pubblica specializzata in otorinolaringoiatria e di sostituire l’ADS con la mia persona. Il giudice non acconsente che sia io ad occuparmi di mia figlia ma sostituisce la l’ADS con un altro avvocato.

Il nuovo ADS fa trasferire Alice dal Don Gnocchi all’Ospedale del Valdarno in un reparto chiamato Modica, dove viene scoperto che le diagnosi del Don Gnocchi non sono corrette o sono addirittura false. Viene verificato che, a dispetto di quanto affermato dal Don Gnocchi, Alice può deglutire e può essere alimentata in modo naturale e non più attraverso Peg allo stomaco. Si predispone un piano di recupero psico-fisico attraverso fisioterapia e riduzione/eliminazione degli psicofarmaci somministrati dal Don Gnocchi. Mia figlia ha da subito un grande recupero di forza e vitalità, anche espressiva. Riprende a camminare da sola, sente i bisogni fisiologici e tutto sembra finalmente andare per il meglio. Addirittura sembra che debba essere dimessa, ritornare a casa con me (essendo residenti nella stessa abitazione di Montevarchi) e proseguire la fisioterapia come paziente esterna. Mi viene detto che con venti sedute di tre ore e mezzo di riabilitazione. Alice recupererebbe completamente la postura e la tonicità muscolare. Però questo apparente lieto fine della storia viene bruscamente cambiato dal fatto che l’ADS per motivi non chiari predispone il trasferimento di Alice in un’altra struttura, stavolta privata, l’Istituto Agazzi di Arezzo. Perché?

Alice entra nell’Istituto Agazzi il 2 ottobre 2018. Fin dalle prime settimane mia figlia regredisce, sia fisicamente che mentalmente. Non sente più i bisogni fisiologici e non ricorda più le cose recenti. Da questi fatti e dalla sua espressione mi accorgo presto che le stanno dando di nuovo psicofarmaci. Probabilmente gli stessi del Don Gnocchi. Alice perde di vitalità ed autonomia di giorno in giorno mostrandosi sempre stanca e assente. Io ho faccio presente questa situazione all’ADS il quale non mostra alcun interesse al riguardo. Faccio notare che il principale problema di mia figlia, la rimozione della cannula della tracheotomia, non è stato minimamente affrontato. Richiedo e sollecito di far visitare mia figlia in centri specializzati per questa patologia, alcuni di essi da me stesso contattati e disponibili a visitare Alice. L’ADS mi risponde testualmente così “Decido io, dove, come e quando far visitare Alice”. Il problema che l’ADS non si pone è il fatto che in quelle condizioni Alice è sempre ad alto rischio di arresto respiratorio, come è poi avvenuto per almeno tre volte. L’ADS non ha provveduto neanche a far visitare mia figlia dal Reparto Otorino di Arezzo dove da anni ci sono eccellenti risultati per questo tipo di patologie. Perché???

A seguito dei rifiuti e dell’arroganza mostrata dall’ADS e a causa del continuo peggioramento di mia figlia scrivo al giudice tutelare facendo presente quanto accade e richiedendo espressamente di provvedere per far visitare mia figlia da medici e strutture competenti in materia a cominciare da ospedali di terzo livello dove ci sono reparti specializzati. Verbalmente la giudice dispone per queste visite e l’ADS fa ricoverare Alice a Volterra dove è sottoposta a broncoscopia (inutile perché già fatta e già a conoscenza della diagnosi). Da Volterra Alice è trasferita ad Empoli per visita, dove viene espresso timore nel sottoporre mia figlia ad operazione, ma si afferma anche che la cosa si potrebbe risolvere con multipli interventi in sette -otto mesi.

Io ricontatto quei centri specializzati per problemi alle corde vocali con i quali avevo già discusso, i quali mi richiedono prima di tutto la stessa cosa. “Sua figlia è capace di deglutire?” Alla mia risposta affermativa, a seguito di accertamento diagnostico in mio possesso che ho letto telefonicamente a loro, dicono che l’intervento operatorio sarebbe molto più semplice e rapido di quanto invece era stato affermato dall’Ospedale di Empoli. Mi chiedo perché Alice non viene fatta visitare in uno di questi centri specializzati, a partire proprio dall’Ospedale di Arezzo. Alice da Volterra è di nuovo riportata all’Istituto Agazzi dove nel mese di febbraio va incontro a due arresti respiratori con ricoveri immediati al Pronto Soccorso di Arezzo e con ripetute ostruzioni della cannula dovuti al muco (meccanismo di difesa per rigetto naturale della cannula). A seguito di questi eventi e del fatto che Alice è in pratica parcheggiata in questo istituto senza essere curata per il suo principale problema faccio un ulteriore esposto attraverso la Guardia Di Finanza di San Giovanni Valdarno nel 2019.

A inizio maggio 2019, ho richiesto tramite istanza al giudice tutelare di Arezzo di autorizzare la nomina di un CTP (Consulente Tecnico Di Parte) e la revoca dell’ ADS, in più di prendere atto della volontà di Alice di essere collocata presso la mia abitazione. In subordine chiedevo di poter disporre di nuove perizie mediche su Alice in merito alla possibile rimozione della canula. Ulteriore istanza è stata presentata con simili richieste il 6 febbraio 2020.

Il fatto principale è che a mia figlia viene negato il diritto alla cura. Come tutti i cittadini di uno stato democratico mia figlia ha il diritto di essere visitata non da uno, ma da quattro, cinque, dieci venti specialisti per cercare di risolvere il suo problema. Mi chiedo anche come può una persona recuperare da un problema se si tiene internata in un istituto, privata della propria libertà, delle amicizie, degli affetti e di tutti gli stimoli positivi che si hanno quando ci possiamo muovere nella natura e nei colori delle stagioni. Neanche se fosse una criminale pericolosa avrebbe un trattamento simile.

Richiedo gentilmente a Voi un aiuto per salvare la vita di mia figlia, in quanto ritengo che in pratica si tratti di una morte annunciata, e per portare alla luce questi fatti gravissimi che potrebbero accadere a chiunque di noi in un paese che si ritiene democratico, civile e di diritto. Vi ringrazio sentitamente.

Nell’attesa di un vostro interessamento, cordiali saluti

Antonio Di Vita

Lettera di un padre sulla violenza psichiatrica

Un respiro profondo

«Non andartene docile in quella buona notte
Infuriati, infuriati contro il morire della luce»
Dylan Thomas
 
No, questa volta no. L’ennesimo omicidio di un nero da parte della polizia, avvenuto lo scorso lunedì 25 maggio a Minneapolis (Minnesota), nel «paese più libero del mondo», non passerà inosservato, non finirà anch’esso a fare numero in qualche statistica. Schiacciato sotto il peso di tre poliziotti, uno dei quali col ginocchio premuto sul suo collo, George Floyd ha inutilmente invocato pietà. Le sue ultime parole sono state: «non riesco a respirare, non riesco a respirare, per favore, signore, per favore, per favore, per favore, non riesco a respirare». Ma ai signori che compongono il braccio armato dello Stato, di qualsiasi Stato, è inutile chiedere favori. È il loro lavoro non fare respirare, calpestare e soffocare ogni slancio vitale. Si arruolano appositamente per questo, per godere del potere di togliere il respiro a chi sta sotto di loro. Vengono addestrati e pagati appositamente per questo, per impedire ogni movimento di chi sta sotto di loro. E poi, se una tale richiesta proviene per di più da un poveraccio nero ed è rivolta a sbirri bianchi, allora l’esito finale è quasi sempre scontato. Talmente scontato che l’omicidio da parte della polizia è un fatto quotidiano negli Stati Uniti, considerato quasi endemico (secondo alcune statistiche, sarebbero almeno 400 le persone finora uccise dalla polizia statunitense nel 2020). È un fatto assodato, deplorato, criticato, con la stessa prontezza con cui viene metabolizzato e dimenticato.
No, questa volta no. Non è stato possibile. Se la morte di George Floyd ha suscitato ben più delle abituali polemiche sulle «tensioni razziali» che allignano negli Stati Uniti o sul razzismo dilagante fra le forze dell’ordine, se ha provocato il più ampio sollevamento che si ricordi nel paese, ciò è dovuto fondamentalmente a due motivi. Il primo è quasi banale: questo atroce omicidio è stato ripreso e il video ha fatto immediatamente il giro del mondo (proprio come accadde nel 1991 a Los Angeles con il pestaggio di Rodney King). Davanti a quelle immagini che rimbalzavano ovunque, sbattute in faccia nella loro brutalità, non è stato possibile limitarsi a scuotere la testa, a bestemmiare, a sospirare, a stringere i pugni… e rassegnarsi. 
È questa la differenza fra la morte di George Floyd e quella di Breonna Taylor, crivellata di pallottole lo scorso 13 marzo nel suo appartamento di Louisville (Kentucky) da tre agenti in borghese che vi avevano fatto irruzione senza mandato, o quella di Mike Ramos, ucciso da un poliziotto ad Austin (Texas) lo scorso 24 aprile mentre si trovava in un parcheggio a bordo della sua macchina. Lontani dagli occhi, è stato più facile tenere i loro omicidi lontani dal cuore. Già, terrificante tautologia — nella società dell’immagine è l’immagine a fare la differenza. Lo scorso 23 febbraio, mentre stava facendo jogging in un sobborgo di Brunswick (Georgia), Ahmaud Arbery è stato ucciso da un ex-poliziotto da poco andato in pensione e da suo figlio, che lo avevano inseguito scambiandolo per un ladro. Per oltre due mesi i due responsabili di quell’omicidio non sono stati infastiditi finché il 5 maggio è stato diffuso un video che riprendeva la loro prodezza; padre e figlio sono stati arrestati 48 ore dopo. Gli uomini dell’ordine possono ben uccidere chi non ha santi in paradiso, difficilmente verranno perseguiti, ma è meglio che prestino qualche attenzione a non farsi riprendere.
Il secondo motivo che ha impedito al fatto di cronaca avvenuto a Minneapolis di venire archiviato in una triste contabilità ordinaria, rendendolo viceversa dirompente, è del tutto casuale. Non c’è nulla che si assomigli più di due gocce d’acqua, ma è solo l’ultima a far traboccare il vaso. Anche se non era diverso da altri che l’hanno preceduto, l’omicidio di George Floyd  — quest’uomo qualunque, che aveva appena perso il lavoro e che cercava solo di sopravvivere, in cui è così facile riconoscersi — ha fatto da evento catalizzatore in grado di scatenare una serie di reazioni a catena che fino ad ora niente è riuscito a fermare e che stanno rendendo sempre più incandescente la situazione sociale negli Stati Uniti.
 
Dunque, cosa è successo? Nella notte di quel tragico lunedì 25 maggio è stato postato su Facebook un video ripreso da una passante che mostra gli ultimi minuti di vita di George Floyd. Si odono i suoi lamenti, si vede lo sguardo vuoto e indifferente del suo carnefice in uniforme. Sono bastate poche ore perché quel video diventasse assai più «virale» del Covid-19, indignando milioni di persone e facendo precipitare nell’imbarazzo le autorità locali. Il sindaco della città Jacob Frey, membro del DFL (un partito vicino al Partito Democratico, ma su posizioni ancora più «liberal»), esprime il proprio cordoglio alla famiglia di George Floyd e licenzia in tronco i quattro poliziotti coinvolti nella sua morte. Un provvedimento urgente più che raro, reso necessario per allontanare dall’amministrazione ogni sospetto di complicità ed abbassare così la tensione in vista delle manifestazioni di protesta previste per quel martedì 26 maggio. Per tutto il giorno in molte zone della città si terranno infatti iniziative per denunciare quanto accaduto. L’incrocio dove è morto Floyd diventa punto di ritrovo, di discussione, ed il traffico viene più volte interrotto. Cortei partono da vari quartieri della città per confluire tutti davanti al commissariato del terzo distretto, quello a cui appartenevano i poliziotti licenziati, che viene circondato da migliaia di manifestanti in preda ad una rabbia crescente. La vetrata d’ingresso va in frantumi mentre c’è chi traccia scritte sulle volanti e sui muri, e chi lancia uova e sassi contro l’edificio. Quando alcuni manifestanti cercano di infrangere le finestre del commissariato scatta la reazione dei poliziotti che si trovano all’interno, i quali respingono la pressione della folla usando gas urticanti. Ne nascono tafferugli che si spostano nel parcheggio del commissariato, i cui mezzi vengono danneggiati. Inferocita, la polizia carica i manifestanti sommergendoli di gas lacrimogeni e sparando proiettili di gomma, ma i manifestanti si difendono e daranno battaglia per tutta la notte (saccheggiando un negozio di liquori per rifornirsi di spirito). Sempre nel corso di quel martedì altri manifestanti stanno tenendo un presidio davanti alla casa di Derek Chauvin, l’ormai ex-poliziotto che nel video preme il proprio ginocchio sul collo di George Floyd.
 
La mattina di mercoledì 27 maggio la notizia del giorno in tutto il paese è la violenza impiegata dalla polizia di Minneapolis contro i manifestanti. Qua e là cominciano a venire organizzate le prime iniziative di solidarietà. A Portland (Oregon) viene occupato il Justice Center, mentre le strade di Los Angeles sono invase da un corteo che blocca la superstrada. Una volante della polizia investe la folla dei manifestanti, che reagiscono attaccandola prima di andare a presidiare il quartier generale della polizia. L’indignazione generale è tale che lo stesso presidente degli Stati Uniti tenta di cavalcarla, scagliandosi contro il sindaco di Minneapolis accusandolo di essere un «estremista di sinistra» che reprime giuste proteste. Intanto nella città del Minnesota viene eretto un recinto di protezione attorno al commissariato del terzo distretto, mentre altre manifestazioni e presidi di protesta prendono il via. Sebbene all’inizio sia la calma a prevalere, col passare delle ore la rabbia monta, aumenta, fino a dilagare incontrollabile. Il commissariato del terzo distretto viene nuovamente attaccato e, dopo essersi scontrati con la polizia disposta anche sui tetti, i manifestanti si disperdono per la città. Decine e decine di negozi vengono saccheggiati, palazzi interi dati alle fiamme. Un manifestante sorpreso all’interno di una gioielleria viene abbattuto dal proprietario.
 
Giovedì 28 maggio gli Stati Uniti si svegliano sotto shock per quanto accaduto. A Minneapolis viene inviata la Guardia Nazionale e sulla città si alzano gli elicotteri della polizia. Se da un lato il sindaco Jacob Frey cerca di calmare i manifestanti invitandoli ad essere «migliori di quanto lo siamo stati noi», dall’altro il procuratore Mike Freeman butta benzina sul fuoco dichiarando di non intendere procedere contro gli agenti licenziati (Freeman è noto per la sua grande comprensione e la mano leggera nei confronti dei poliziotti dal grilletto facile). Le proteste si diffondono in entrambe le «città gemelle» che sorgono sulle sponde contrapposte del fiume Mississippi, Minneapolis e Saint-Paul, dove migliaia e migliaia di persone scendono in strada. Tafferugli fra polizia e manifestanti scoppiano fin dal pomeriggio. Ma è la notte, è soprattutto la notte a scatenare i rivoltosi, i quali sanno bene dove darsi appuntamento per dare battaglia. Il commissariato del terzo distretto viene nuovamente attaccato e questa volta i manifestanti riescono a penetrarvi all’interno. Davanti alla pressione di una folla furibonda, i poliziotti capiscono di avere un’unica via d’uscita e sono lieti di obbedire ad un ordine senza precedenti: abbandonano l’edificio e scappano via a bordo delle loro volanti. Il commissariato è ora vuoto, alla mercé dei rivoltosi. Prima viene saccheggiato e devastato, poi viene dato alle fiamme, da cima a fondo. Un rogo che durerà per ore, salutato da urla di gioia in una vera e propria festa di liberazione. Non soddisfatti, i manifestanti devastano, saccheggiano e incendiano negozi di ogni genere: di elettrodomestici, di alcolici, di abbigliamento, di ristorazione, di telefonia mobile, supermercati… anche qualche banca e molti uffici postali finiscono in fiamme. Secondo la polizia di Saint-Paul sarebbero oltre 170 i negozi attaccati a partire dall’inizio delle sommosse. La stessa sera alcuni autisti di autobus rifiutano di guidare i propri mezzi per trasportare poliziotti o manifestanti arrestati, esempio di non-collaborazionismo che nei giorni seguenti si estenderà ad altre categorie di lavoratori.
Non pare un’esagerazione affermare che la notte fra giovedì 28 e venerdì 29 maggio resterà nella storia. La brutale e iper-equipaggiata forza di sicurezza del paese più ricco e potente del pianeta, barricata in una sua sede, è stata letteralmente sbaragliata da migliaia di manifestanti, neri incazzati ed incazzati neri, armati con mezzi di fortuna, per lo più giovani, privi di una consapevolezza politica, provenienti dalle fasce più povere della popolazione, ma tutti uniti dall’odio per il nemico più comune, più palese e più onnipresente: la polizia.
Non solo, ma proprio mentre nell’epicentro raggiunge il suo culmine, la rivolta contro la polizia e la società che difende inizierà a divampare in altri punti del paese. Quello stesso giovedì 28 vengono infatti organizzate iniziative in solidarietà a Portland (Oregon) ed Olympia (Washington). A Phoenix (Arizona) un corteo selvaggio finisce con una sassaiola contro il commissariato locale. In California, ad Oakland viene bloccato l’ingresso di una superstrada, a Sacramento le strade vengono bloccate dai cortei, a Fontana un presidio nei pressi di un commissariato si trasforma in un blocco stradale prima di terminare con danneggiamenti e lanci di pietre contro il municipio. A Denver (Colorado) viene occupata una superstrada e scoppiano scontri fra polizia e manifestanti. A Columbus (Ohio) i tafferugli sfociano in atti di vandalismo contro il palazzo del governatore. Scontri fra manifestanti e polizia avvengono anche a Louisville (Kentucky) ed a New York.
 
L’alba di venerdì 29 maggio spunta su un paese che non sembra essere più lo stesso. Qualcosa sta accadendo, qualcosa di imprevisto fino a pochi giorni prima e che nessuno sa dove potrebbe portare. E di questo i politici si rendono ben conto, tant’è che al risveglio si ode subito il cinguettio notturno di Trump, che da simpatizzante non può che diventare avversario della protesta. Preoccupato per la fine del rispetto verso la proprietà privata, annuncia la mobilitazione della Guardia Nazionale e lancia il suo avvertimento ai rivoltosi: «quando iniziano i saccheggi, si inizia a sparare». Parole che non otterranno l’effetto desiderato, al contrario — più che scoraggiare, ecciteranno gli animi. Il procuratore di Minneapolis, travolto dagli avvenimenti, gioca il suo asso nella manica per tentare di spegnere i disordini che si stanno diffondendo incontrollabili. Dopo aver visto bruciare un commissariato di polizia della sua città assieme a decine di altri edifici, dopo che il suo ufficio è stato bombardato da migliaia di quotidiane telefonate ed e-mail di protesta, dopo che la scintilla scaturita nella sua città ha attecchito in altre parti della nazione, ordina l’arresto immediato di Derek Chauvin con l’accusa di omicidio di terzo grado (è il primo caso di un poliziotto bianco incriminato per la morte di un cittadino nero nella storia del Minnesota). Forse, se fosse stato preso subito, questo provvedimento avrebbe dato i risultati disinnescanti sperati. Ma dopo quattro giorni di sangue agli occhi, si rivela del tutto inutile. Anzi, in un certo senso peggiora pure la situazione. Perché è evidente che si tratta di un’ipocrita pezza da esibire (assieme ai risultati dell’autopsia di George Floyd, secondo i quali l’uomo non sarebbe affatto morto per asfissia ma per proprie patologie pregresse) nel disperato tentativo di coprire le vergogne istituzionali (per altro, proprio quella mattina la polizia di Minneapolis aveva arrestato in diretta un giornalista della CNN reo di avere la pelle troppo scura). La tensione non si spegne affatto, tutt’altro, è destinata ad esplodere in maniera incontrollabile ovunque quel venerdì 29, primo giorno del week-end. In tutti gli Stati Uniti sono innumerevoli le persone che scendono in strada per protestare contro la violenza poliziesca, sfidando il coprifuoco notturno.
A Minneapolis vengono erette barricate in alcuni incroci stradali per bloccare la circolazione del traffico. È la quarta notte consecutiva di scontri (almeno quattro i poliziotti rimasti feriti), saccheggi ed incendi (di una banca e di esercizi commerciali). Un altro commissariato di polizia viene assaltato e devastato, su un muro viene lasciata un’ironica domanda: «ci ascoltate adesso?».
A Washington si verifica l’incredibile: i manifestanti circondano la Casa Bianca e tentano di assaltarla. L’edificio viene chiuso in stato di massima allerta, il suo celebre inquilino viene trasferito in un bunker sotterraneo, ed il servizio di sicurezza (composto da agenti dei servizi segreti) respinge i manifestanti ricorrendo al gas urticante.
Ad Atlanta (Georgia) si apre una specie di caccia allo sbirro, diverse pattuglie della polizia vengono attaccate. Le volanti sono danneggiate e incendiate. La sede della CNN viene presa di mira dai manifestanti, che ne sfondano le vetrate.
A New York hanno luogo violenti scontri durante i quali vengono feriti almeno una decina di poliziotti. Un loro furgone viene dato alle fiamme, e si registrano centinaia di arresti. Fra questi, una manifestante accusata di tentato omicidio ai danni di quattro poliziotti per il lancio di una molotov contro il furgoncino sul quale si trovavano. La molotov non è esplosa e la ragazza viene arrestata, assieme alla sorella, dagli stessi agenti presi di mira (uno dei quali viene accolto a morsi).
A Los Angeles alcuni manifestanti attaccano un poliziotto, che riesce a fuggire. In serata viene bloccato il traffico nel centro della città e saccheggiato uno Starbucks.
A San Jose (sempre in California) i manifestanti erigono barricate con cassonetti della spazzatura poi dati alle fiamme, si scontrano con la polizia e infrangono diverse vetrine dei negozi.
A Portland (Oregon) i manifestanti danno l’assalto alla prigione e al commissariato centrale. Una galleria commerciale è saccheggiata e incendiata.
Scontri e disordini si verificano anche a Dallas (Texas), Houston (Texas), Las Vegas (Nevada), Denver (Colorado), Memphis (Tennessee)… Ma è in altre due città che avviene l’irreparabile, ciò che contribuisce ad alimentare ed estendere ulteriormente le sommosse in corso.
Ad Oakland (California) è stata una giornata di manifestazioni di protesta. In serata migliaia di persone invadono l’autostrada, bloccando il traffico. Alle 21.45 la polizia annuncia il divieto della manifestazione. I manifestanti si disperdono per la città; c’è chi incendia cassonetti della spazzatura, chi devasta e saccheggia negozi, chi penetra dentro una banca per appiccarvi il fuoco, chi fa una rude visita a qualche concessionario d’auto… davanti al municipio si può leggere la scritta «non abbiamo nulla da perdere, solo le nostre catene». Ma proprio poco dopo le 21.45, da un’auto che transita davanti al tribunale federale vengono esplosi alcuni colpi d’arma da fuoco che raggiungono due agenti di guardia, uno dei quali muore. Che il modo migliore di «stop killing black people» sia quello di «start killing white pigs»? Questa notizia viene data solo il giorno dopo e all’inizio le autorità ne enfatizzano i toni, annunciando che si tratta di un atto di «terrorismo domestico». Poche ore dopo, forse accortisi che così rischiano di indicare il cattivo esempio, gli inquirenti si affrettano a negare che ci siano collegamenti con le proteste in corso.
Invece a Detroit (Michigan) una manifestazione di protesta contro la brutalità poliziesca, iniziata nel pomeriggio nella maniera più pacifica, finisce con scontri notturni fra manifestanti e forze dell’ordine. In mezzo alla baraonda, verso le 23.30, anche qui alcuni colpi di arma da fuoco vengono sparati da un Suv. Ma questa volta contro i manifestanti, ed un ragazzo di 19 anni viene colpito a morte.
 
Con simili presupposti, è inevitabile che anche sabato 30 maggio sia una giornata infuocata in una nazione dove in almeno 25 città di 16 Stati è stato imposto il coprifuoco, e la Guardia Nazionale mobilitata in una decina di Stati. Il ministero della Difesa ordina all’esercito di prepararsi a schierare in tutto il paese le unità di polizia militare. Nel corso della giornata hanno luogo manifestazioni pacifiche (a Eureka, Des Moines, Tacoma e Geneva, dove viene chiusa la superstrada, Santa Rosa, Modesto, Houston, Bloomington, Louisville, Miami, Durham, Montgomery, Atlanta, davanti alla casa del governatore, Burlington), altre che generano scontri fra manifestanti e forze dell’ordine (a Salem, Portland, dove il sindaco ha decretato il coprifuoco dalle 20 alle 6, Salt Lake City, Oakland, Phoenix, Denver, Dallas, Oklahoma City, Columbus, Milwaukee, Tampa, Jacksonville, Little Rock, Boston, Pittsburgh).
Nell’epicentro della rivolta, Minneapolis, il governatore Tim Waltz lancia un appello ai manifestanti: «Capisco la rabbia ma tutto questo non riguarda la morte di George Floyd, né le disuguaglianze, che sono reali. Questo è il caos». Le sue parole non devono apparire molto convincenti, considerato che migliaia di manifestanti sfideranno ancora il coprifuoco e la Guardia Nazionale per andare a devastare la casa di Derek Chauvin, incendiare banche, uffici postali, ristoranti e una pompa di benzina, prima di cercare purtroppo inutilmente di bruciare il commissariato di un altro distretto.
A Washington ennesima manifestazione davanti alla Casa Bianca, protetta dalla Guardia Nazionale e — a detta del fulvo settantaquattrenne bimbominkia che vi risiede — da cani cattivissimi. Un sempre più massiccio servizio d’ordine usa nuovamente il gas urticante per disperdere la folla, ma questa volta i manifestanti resistono ed alcuni di essi riescono perfino a contrattaccare con una sassaiola. Un’auto dei servizi di sicurezza parcheggiata all’esterno viene danneggiata, così come il Ronald Regan Presidential Foundation and Institute.
A New York scoppiano ancora violenti scontri, il cui bilancio ufficiale parla chiaro: 350 manifestanti arrestati (fra cui la figlia del sindaco della città, la quale stava partecipando ad un blocco stradale), 33 agenti feriti, 47 mezzi della polizia danneggiati. Un Suv della polizia investe una barricata, ferendo alcuni manifestanti.
A Seattle (Washington), oltre a scontri con la polizia durante i quali vengono date alle fiamme alcune volanti, si verificano dei saccheggi e viene chiusa una strada interstatale.
A Reno (Nevada) la polizia fa uso di gas lacrimogeni scatenando l’ira dei manifestanti che assaltano e devastano un commissariato.
A Las Vegas (Nevada) i poliziotti vengono attaccati con bottiglie molotov mentre vengono danneggiate automobili e saccheggiati negozi.
A Jackson (Florida) durante gli scontri restano feriti diversi poliziotti, uno dei quali pugnalato al collo.
A Sacramento (California) ci sono saccheggi e scontri con la polizia. Nel pomeriggio molti manifestanti attaccano il carcere della contea, infrangendone i vetri.
Ad Emeryville (California) vengono saccheggiati grandi magazzini in diverse aree.
A San Francisco sono bloccate strade e saccheggiati negozi. Il sindaco invoca la Guardia Nazionale.
A Los Angeles scoppia una vera rivolta di massa, con negozi saccheggiati a Berverly Hills e sulla Rodeo Drive al grido di «Eat the rich!», volanti attaccate, commissariati incendiati. Viene decretato lo stato d’emergenza e mobilitate tutte le forze di polizia. 
A La Mesa (California) si verificano saccheggi e incendi di banche.
A Scottsdale (Arizona) un centro commerciale è saccheggiato.
Ad Austin (Texas) viene chiusa un’autostrada, si saccheggiano negozi, si vandalizzano i commissariati.
A San Antonio (Texas) dopo un pacifico corteo viene attaccato ed incendiato l’ufficio della libertà vigilata.
A Lincoln (Nebraska) in mezzo a proteste, blocchi stradali, scontri con la polizia, viene dato alle fiamme l’edificio delle Poste.
A Madison (Wisconsin) la protesta sfocia in scontri e saccheggi.
A Grand Rapids (Michigan) e a Kansas City (Missouri) i manifestanti riscaldano l’aria con numerosi roghi.
A Rockford (Illinois) hanno luogo scontri e saccheggi.
A Chicago i poliziotti vengono bersagliati con oggetti di ogni genere e le loro volanti fracassate.
A Cleveland (Ohio) si verificano scontri, saccheggi e molte volanti sono date alle fiamme.
A Charleston (West Virginia), Columbia (South Carolina) e Raleigh (North Carolina) le manifestazioni terminano con scontri e saccheggi, alcune volanti prendono fuoco.
A Richmond (Virginia) molti negozi vengono saccheggiati, la sede delle Daughters of the Confederacy viene incendiata. Si inizia a vandalizzare i monumenti confederali, celebrazione dello schiavismo.
A Ferguson (Missouri) viene danneggiato e fatto evacuare un commissariato, dopo che i suoi agenti sono subissati dal lancio di petardi, mattoni, sassi, bottiglie.
A Nashville (Tennessee) i manifestanti, dopo essersi scontrati con la polizia, riescono ad incendiare il tribunale.
A Syracuse (New York) viene attaccato il commissariato centrale di polizia.
A Philadelphia (Pennsylvania), dopo scontri con la polizia e incendi di volanti, alcuni manifestanti si arrampicano sulla statua di Frank Rizzo (commissario di polizia nel 1968 e successivamente sindaco della città) e le danno fuoco.
Ad Indianapolis (Indiana) viene ucciso un altro manifestante, il terzo dall’inizio delle sommosse.
 
Domenica 31 maggio la protesta contro la polizia si internazionalizza. A Rio de Janeiro si tiene una grande manifestazione contro la polizia che solo lo scorso anno in quella città ha commesso circa 1800 omicidi — una media di 5 al giorno. Sfidando le norme antipandemia, diverse manifestazioni di protesta sono organizzate anche a Londra (dove si registrano arresti), Berlino, dove l’ambasciata statunitense viene circondata dai manifestanti, Toronto e Auckland (Nuova Zelanda).
Nel frattempo le agitazioni continuano inarrestabili anche negli Stati Uniti. In una Minneapolis blindatissima tutto sembra procedere nella calma, quando un’autocisterna cerca di investire la folla di manifestanti su un ponte. Un atto che per fortuna non provocherà nessun ferito (a parte l’autista del mezzo, che viene quasi linciato sul posto).
A Washington per tutta la giornata nei pressi della Casa Bianca, soprattutto nel parco antistante, scoppiano violenti e ripetuti scontri, durante i quali rimangono feriti una cinquantina di agenti dei servizi di sicurezza. Lo scantinato della chiesa di Saint-John (chiamata «Chiesa dei Presidenti»), che si trova all’ingresso del parco, viene dato alle fiamme. Ancora una volta all’interno del palazzo governativo viene decretato lo stato di allerta e il Presidente condotto in un bunker. Altrove per la città alle manifestazioni si risponde con gas lacrimogeni e granate stordenti. La sede dell’AFL-CIO, la più potente organizzazione sindacale del paese, viene devastata e incendiata. Sul suo muro viene lasciata la scritta «il silenzio è complice». Banche e gioiellerie vengono attaccate. Molti monumenti sono vandalizzati.
A Los Angeles la polizia fa uso di gas lacrimogeni contro i manifestanti che bloccano una via commerciale nel quartiere di Santa Monica. Numerosi palazzi commerciali e negozi sono saccheggiati. Sono oltre 20 le città della California in cui avvengono saccheggi.
A New York migliaia di manifestanti invadono le strade di Manhattan per raggiungere Union Square. Scoppiano nuovamente scontri con le forze dell’ordine, sulla Broadway. In cinque quartieri della città si verificano saccheggi.
A Boston (Massachusetts) centinaia di manifestanti si scontrano con la polizia, danneggiando ed incendiando volanti. Si saccheggiano alcuni negozi.
Anche ad Atlanta (Georgia) la polizia ricorre ai lacrimogeni. Viene dato l’annuncio che due poliziotti sono stati licenziati e altri tre sospesi per «uso eccessivo della forza» durante le manifestazioni del giorno precedente.
A Philadelphia (Pennsylvania) molte volanti della polizia vengono attaccate e distrutte, e alcuni negozi saccheggiati.
Poco dopo mezzanotte un manifestante viene ucciso dalla Guardia Nazionale a Louisville (Kentucky), città che in tutto il week-end è stata teatro di violenti scontri anche perché brucia ancora il ricordo della morte di Breonna Taylor. Altri due manifestanti rimangono uccisi a Davenport (Iowa). Il capo della polizia di questa città dichiara che anche tre agenti hanno subito un agguato, e che uno di loro è rimasto ferito.
 
Oggi è lunedì 1 giugno. È trascorsa una settimana dalla morte di George Floyd e tutta l’opinione pubblica statunitense è concorde nel ritenere di trovarsi di fronte «ai peggiori disordini civili dai tempi dell’assassinio di Martin Luther King». Il che è un elegante modo di fare buon viso a cattivo gioco. È infatti evidente che non è più la «questione razziale» a scaldare gli animi, come dimostra non solo la componente multietnica dei rivoltosi (Samantha Shader, la ragazza newyorkese arrestata venerdì notte per il lancio di una molotov contro la polizia, non è nera, né nativa americana, e nemmeno latina; è bianca, il colore della pelle giusto per essere lasciati in pace dal razzismo poliziesco, cosa che non le ha impedito di rischiare oggi l’ergastolo per aver cercato di vendicare George Floyd e tutte le altre vittime degli assassini in divisa), ma anche gli stessi slogan che scandiscono le manifestazioni in corso. L’appello alle Vite nere che contano ha lasciato sempre più spazio agli universali Nessuna pace senza giustizia e Non riesco a respirare. Da sgherri quali sono, i poliziotti non fanno altro che difendere il mondo dei loro padroni. Ed è proprio questo mondo che da Los Angeles a New York, passando per Minneapolis, viene dato alle fiamme. Un incendio divampato quasi con naturalezza, con rapidità impressionante, che ha sorpreso gli abituali pompieri-recuperatori lasciandoli attoniti davanti al fatto compiuto, senza più molte possibilità di intervenire. Quando un’attivista nera avvocata dei diritti civili difende apertamente i saccheggi, quando una celebre pop-star si dichiara pronta a fare qualsiasi cosa pur di buttare fuori l’inquilino dalla Casa Bianca, significa che le classiche riluttanze stanno venendo meno.
Fra le autorità cosiddette «responsabili», quelle più attente a non far precipitare la situazione, non si sa più cosa fare per calmare le acque (agitate anche dalla nuova autopsia sul cadavere di George Floyd, che ha indicato nell’asfissia provocata dalla pressione sul collo la causa effettiva della morte). Ecco quindi salire oggi alla ribalta niente meno che i poliziotti buoni, come quelli che a New York, Washington, Miami (Florida) e Santa Cruz (California) si sono messi in ginocchio in solidarietà con i manifestanti, o quelli che a Genesee (Michigan) e Norfolk (Virginia) si sono uniti ai cortei di protesta. Spettacolo mediatico più che reale defezione, senz’altro, ma avvenimento comunque indicativo e destinato ad essere presto sovrastato dall’arroganza di un governo che sputa sul fuoco nella certezza di riuscire a spegnerlo. Questa mattina l’ex-sindaco di New York, nonché consigliere di Trump sulla sicurezza, Rudolph Giuliani, ha dichiarato: «sono 7 giorni che la teppa comanda nelle città con i sindaci più democratici, è ovvio che questi sindaci sono incapaci di proteggere i loro cittadini. Danno forza ai rivoltosi abbandonando commissariati e ordinando alla polizia di stare ferma e di farsi aggredire senza procedere ad arresti» (sebbene siano migliaia gli arrestati nel corso delle sommosse). Poche ore dopo, il suo tracotante superiore, stanco di venire rinchiuso nel bunker di una Casa Bianca da giorni sotto assedio, ha annunciato che considererà «terroristi» i militanti Antifa (che considera i fomentatori dei disordini) e sollecitato governatori, sindaci e commissari a riportare Legge & Ordine usando le maniere forti contro i manifestanti: «Se non dominate le vostre città e i vostri Stati, vi spazzeranno via… A Washington stiamo per fare qualcosa che la gente non ha mai visto».
Appellandosi all’Insurrection Act del 1807, vuole inviare l’esercito nelle strade. Successe già nel 1967 o nel 1992, dopo le rivolte di Detroit e Los Angeles. Ma quelle rivolte erano circoscritte ad una singola area, qui è tutta la nazione che andrebbe pattugliata militarmente. Una simile decisione cosa può provocare? Riporterà la pace sociale o scatenerà la guerra civile? Trattare da insurrezione una protesta generalizzata costellata da sommosse non è forse il modo migliore per materializzare ciò che si è evocato? Senza dimenticare che con somma ipocrisia è la stessa Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti a proclamare il diritto, anzi, il dovere di rovesciare un governo dispotico.
Tanto più che — qualora politici e miliardari non se ne siano ancora accorti — in tutti gli Stati Uniti sta già accadendo qualcosa che alla Casa Bianca di Washington non avevano mai visto: la diffusione della consapevolezza che sotto il peso dell’autorità non si riesce né a muoversi né a respirare, ovvero a vivere. Che è inutile chiedere favori a chi ci tiene, più o meno premuto, il piede sul collo. Che quando la sola scelta lasciata da questa società è quella fra obbedire in silenzio o venire schiacciati, non resta che rifiutare entrambe le alternative e armare questa consapevolezza con la rivolta. Sfidando coprifuoco e forze dell’ordine, gas urticanti e pallottole. Sfidando la paura e la rassegnazione, il senso di impotenza ed il realismo. Scendere in strada e battersi, con furia, senza moderazione, scoprendo che non si è affatto soli, che non si è affatto deboli, e che è possibile, è sempre possibile rovesciare la situazione. 
Cominciare a respirare, nella sola maniera possibile: non facendo più respirare l’autorità.
 
Finimondo.org [1/6/2020]
 

Minneapolis: Ora questa lotta si combatte su due fronti

Queste poche righe ci sono pervenute da dei compagnie e compagne americani:

E’ una insurrezione. E’ scoppiata una vera e propria insurrezione negli Stati Uniti. Credo che calerà in alcuni posti e si estenderà ad altri, muterà. Ancora scontri pesanti ad Atlanta ma senza più incendi e saccheggi. Chicago ieri [31/5 ndT], a detta di un compagno che era lì, 10 ore di saccheggi, niente polizia. Dice che il centro è una “zona abbandonata” (forsaken zone), non è più gente né sbirri, solo vetrine infrante. A New York City nella zona sud del quartiere Hudson e nel quartiere Soho, tutti negozi di lusso e costosi -Supreme il suo negozio principale lì- sono stati saccheggiati, dal primo all’ultimo. E poi Chelsea, Brooklyn, Harlem, Manhattan. A San Francisco, San José, Oakland e tutta la Bay Area, a Philadelphia non c’è altro che riot. Ora col presidente nel bunker, la destra si è presentata da qualche parte ma non così in massa come è circolato. Riot ieri [31/5 ndT] a Montreal in Canada, con saccheggi. Sta
incominciando a estendersi internazionalmente E’ importante che la gente diffonda ciò che sta avvenendo e che ci siano manifestazioni di solidarietà. Sarebbe un ottimo segnale per la gente che si sta battendo in queste strade. Sembra che applichino lo stesso schema usato con Ferguson. Al terzo giorno dissero che gli scontri erano stati pianificati da anarchici bianchi. Questa roba funziona per un paio di giorni poi la gente smette di crederci. Ora provano a far si che la polizia aderisca ad alcune manifestazioni in solidarietà e anche questo funziona solo per un paio di giorni.

Tratto da https://de.crimethinc.com/2020/05/28/minneapolis-ora-questa-lotta-si-combatte-su-due-fronti-cosa-significano-i-disordini-per-lepoca-del-covid-19

Minneapolis: ora questa lotta si combatte su due fronti

Cosa significano i disordini per l’epoca del COVID-19

Le dimostrazioni di questa settimana a Minneapolis segnano uno spartiacque storico nell’epoca del COVID-19. Come abbiamo scritto a marzo, ci sono alcune cose per le quali vale la pena morire. La perpetuazione del capitalismo non è una di queste. Ma alcuni di noi affrontano minacce ancora più mortali del COVID-19. Vale la pena rischiare la nostra vita per lottare per un mondo in cui nessuno sia ucciso come George Floyd – e ciò che sta accadendo a Minneapolis dimostra che la gente è pronta a farlo.

Anche prima della pandemia, gli Stati Uniti erano una polveriera, con diseguaglianze in rapida crescita che stavano polarizzando la popolazione. Da marzo, oltre a una disoccupazione mai vista prima, abbiamo assistito alla proliferazione di rischi letali in tutta la popolazione sulla falsariga delle disparità preesistenti legate a razza e classe. Il Governo ha creato miliardi di dollari da far confluire nelle tasche dei dirigenti, lasciando la gente comune a bocca asciutta; le multinazionali stanno costringendo chi ha ancora un lavoro a rischiare la vita giorno dopo giorno, introducendo nuove tecnologie di sorveglianza e cercando di accelerare il ritmo dell’automazione. In poche parole, siamo considerati alla stregua di una popolazione in eccedenza per essere controllati dalla violenza dello Stato ed essere decimati dal virus.

I politici di ogni schieramento sono complici di ciò che sta accadendo. Qualcuno preferisce affidarsi alla forza bruta per stabilizzare la situazione, altri a una gestione più razionale; ma nessuno tra chi è al potere ha un piano serio su come affrontare i fattori sistemici che, innanzitutto, ci hanno portato a questo punto. Nel migliore dei casi, prendono in prestito la retorica e i punti cruciali dalle campagne da noi avviate, mostrando che – proprio come nel caso del licenziamento dei poliziotti di Minneapolis a – l’unico modo in cui potremo assistere a un cambiamento sociale sarà attraverso azioni popolari portate avanti con la forza.

Fino al 26 maggio, la principale tensione sociale negli Stati Uniti sembrava essere quella esistente tra i sostenitori di Trump – che fanno finta che non vi sia alcuna pandemia in atto – e i Democratici – che vogliono passare per quelli cauti e responsabili senza però affrontare i fattori che ci costringono correre dei rischi. Lo spettacolo degli scontri tra un movimento di astroturf di estrema destra, che richiede la “riapertura” dell’economia, e agenti di polizia insolitamente frenati, che difendono le misure di chiusura statale, è servito solamente a limitare il discorso politico a una scelta fasulla tra il tipo di “libertà” promossa da capitalisti e suprematisti bianchi da un lato, e il tipo di “sicurezza” che gli Stati totalitari promettono sempre di fornire dall’altro.

La coraggiosa resistenza al controllo della polizia di Minneapolis del 26 e del 27 maggio in risposta al brutale omicidio di George Floyd mostra che un gran numero di persone sono pronte a opporsi a Governo e Polizia anche a costo di correre rischi elevati. Stiamo udendo la voce di una parte della popolazione rimasta in silenzio negli ultimi due mesi – ma quella di coloro che non sono né ricchi liberali né servili conservatori – e si scopre che insieme siamo abbastanza potenti da sconvolgere lo status quo.

Gli eventi di Minneapolis amplieranno l’immaginario collettivo – che si era dolorosamente contratto negli ultimi anni – su ciò che è possibile. Cambieranno il discorso su come avviene il cambiamento sociale. È diventato ormai chiaro che supplicare coloro che detengono il potere con mezzi elettorali è un vicolo cieco. Tentare di apportare dei cambiamenti con la forza è un azzardo ma è l’unica scelta realistica rimasta.

È significativo che la mobilitazione che ci ha fatto aprire gli occhi sia stata una risposta contro la violenza di poliziotti razzisti, iniziata da chi è vittima della supremazia bianca e di tutti gli altri vettori di oppressione. Come notammo alla fine del 2017, le rivolte contro la violenza della Polizia svoltesi in tutto il Paese, da Ferguson a Baltimora e altrove, cessarono virtualmente dopo l’elezione di Donald Trump. Non è chiaro perché ciò accadde ma, di sicuro, non finirono perché la violenza della Polizia fosse diminuita. L’insurrezione di Minneapolis riporta alla luce tutto l’irrisolto di quel periodo inserito però in un contesto completamente diverso, in cui molte più persone sono state radicalizzate, la società è molto più polarizzata ed è sempre più chiaro a tutti che – ma che sia per i proiettili della Polizia, per il COVID-19 o per i cambiamenti climatici globali – le nostre vite sono in pericolo.

Gli scontri di Minneapolis imperversano in tutti i notiziari, dalla Grecia al Cile. Nel bene o nel male, gli Stati Uniti occupano una posizione di rilievo nell’economia globale dell’attenzione – e, grazie alla pandemia, chiunque in qualunque parte del mondo sta subendo pressioni simili. Soprattutto nel Sud del mondo – Brasile, Indonesia, Sudafrica – dove una buona fetta della popolazione vive la stessa brutalità inflitta a persone come George Floyd, la ribellione a Minneapolis offrirà un esempio che altri emuleranno nei prossimi mesi.

Come risponderà la classe dirigente? Negli Stati Uniti, Trump e i suoi sostenitori accuseranno i Democratici di non poter controllare gli Stati da loro governati, usando questo per alimentare la paura razzista tra i beneficiari del privilegio bianco. I centristi Democratici affermeranno che questo tipo di disordini è ciò che accade quando lo stato di diritto non viene rispettato dalla Casa Bianca, sperando così di riconquistare potere a livello nazionale – anche se in Minnesota c’è un governatore Democratico e la legge è sempre stata uno strumento di supremazia bianca. La sinistra istituzionale si presenterà nelle vesti d’intermediaria, offrendosi di toglierci dalle strade e dal controllo in cambio di alcune concessioni.

Fortunatamente, in un momento in cui lo Stato stesso si sta disgregando in fazioni rivali, nessuno di questi gruppi ha il capitale politico di cui hanno bisogno per compiere una vera e propria repressione statale senza correre il rischio di essere abbandonati dagli altri. Sembra che ogni fazione desideri che le altre siano ritenute responsabili dell’escalation della situazione. In ogni caso, Trump non è più l’unico a dominare i notiziari. Ora questa guerra si combatte su due fronti.

Solo una settimana fa, alcuni elementi dell’estrema destra stavano cercando di inquadrarsi come anti-polizia a causa delle proteste contro la “riapertura.” Ieri notte a Minneapolis, miliziani armati si sono schierati, in modo imbarazzante, in favore delle proteste ma contro il saccheggio – una contraddizione che diventa palese non appena si nota in quale direzione puntano le loro pistole. Il probabile omicidio di un manifestante a Minneapolis commesso la scorsa notte da un vigilante di guardia a un negozio dovrebbe esplicitare in modo abbastanza chiaro che guardie giurate e sbirri sono la stessa cosa – assassini –, con o senza uniforme.

E cosa dovremmo fare? Dovremmo dire chiaramente a tutti quelli che vorranno ascoltare perché la gente si difende da sola. Dovremmo condividere le conoscenze su come proteggersi l’un l’altro nelle strade. Dovremmo rafforzare le nostre reti e prepararci a partecipare a eventi simili in tutto il mondo. Dovremmo resistere a ogni tentativo di dividere coloro che agiscono insieme in modo solidale contro la violenza della Polizia, in particolare contro le teorie del complotto sugli agitatori esterni. Dovremmo spiegare ancora una volta perché vandalismo e saccheggio sono tattiche di protesta efficaci e legittime. Ogni volta che le persone si difendono da sole dallo stato di Polizia, dovremmo mostrar loro solidarietà, preparandoci a correre gli stessi rischi che coloro che sosteniamo affrontano ogni giorno. Soprattutto, dovremmo condividere la visione di un mondo senza oppressione, senza gerarchia, senza polizia o carceri o sorveglianza e mostrare quali sono le strategie attraverso le quali possiamo crearlo.

Non siamo debitori nei confronti della Polizia che ha approfittato della pandemia per uccidere i neri in modo ancora più evidente di prima. Non è mai stata concepita per tenerci al sicuro. Non siamo debitori nei confronti dei miliardari che hanno approfittato della pandemia per intascare ancora più soldi dallo Stato e per monopolizzare il mercato. La vita della loro economia significa la morte per noi. Non siamo debitori nei confronti dei politici che hanno a malapena alzato un dito per proteggere la nostra salute o le nostre case. Hanno avuto la loro occasione. Dobbiamo cambiare tutto da soli.

L’ordine dominante è condannato. Prima o poi collasserà. La concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di un numero sempre minore di persone non è sostenibile. L’unica domanda è se lo rovesceremo prima che ci uccida e prima che decimi il pianeta. Il tempo stringe. La vita che pensavamo fosse davanti a noi ci è già stata strappata. Tocca a noi creare un altro futuro.

Grazie a tutti coloro che la notte scorsa hanno rischiato la propria libertà – e forse la propria vita – a Minneapolis e a Los Angeles per dimostrare che l’omicidio di George Floyd è inaccettabile.

Manifestazioni di solidarietà programmate

Aggiorneremo questa sezione man mano che verranno annunciate nuove dimostrazioni.

California

San Francisco/East Bay

Venerdì 29 maggio, ore 20.00

Fuck the Police: Vengeance for George Floyd (Fanculo gli sbirri: vendetta per George Floyd)/Manifestazione di solidarietà per Minneapolis a Oakland Oscar Grant Plaza, 14th e Broadway – “Resta in sicurezza, indossa una mascherina”

Colorado

Denver

28, 29 e 30 maggio, tutti i giorni a mezzogiorno presso il Denver Capitol Building: Justice for George Floyd (Giustizia per George Floyd)

Georgia

Atlanta

29 maggio, ore 16.00

CNN Center 1: Stop Killing Us! (Smettetela di ucciderci!)

7 giugno, ore 20.00

All’angolo tra Satellite Blvd e Pleasant Hill Rd

Indiana

Jasper, Indiana

30 maggio, dalle 10.00 a mezzogiorno, “Stand Up and Say Their Name” (Alzati e dì il loro nome) – ospitato da ONE – Dubois County, presso Dubois County Courthouse

Iowa

Des Moines

30 maggio, ore 13.00 – We Still Can’t Breathe (Non riusciamo ancora a respirare)

Kentucky

Louisville

29 maggio, ore 20.30

March of Freedom (Marcia per la libertà): incontro all’esterno del Muhammad Ali Center; indossare una maschera nera

Massachusetts

Boston

Venerdì 29 maggio, ore 17.00 – Peters Park, 1277 Washington Street – ”Stop the pandemic of police brutality” (Fermiamo la pandemia della brutalità della Polizia)

Springfield

Venerdì, 29 maggio, ore 13.30 Western Mass Stand-Out Protest: Stop Killing Black People (Protesta di massa occidentale: smettere di uccidere i neri)

New Hampshire

Lebanon (Dartmouth College)

Sabato 30 maggio, ore 18.00 End the Killing Now (Smettete di uccidere ora)

Manchester

Sabato 30 maggio, ore 10.00

Black Lives Matter March on Elm (Le vite dei neri contano)

Albany

Sabato 30 maggio, ore 13.00

Albany Corre/Cammina/Marcia per le vite dei neri

New York

New York City

Giovedì 28 maggio, alle 18.00

New York Solidarity with Minneapolis (Solidarietà di New York con Minneapolis), Union Square

Venerdì 29 maggio, ore 18.00

Barclay’s Center, Brooklyn; “Wear PPE, prepare to escalate, prepare to march” (Indossa i DPI, preparati a un’escalation, preparati a marciare)

North Carolina

Charlotte

Venerdì 29 maggio, ore 18.30 Justice for George Floyd (Giustizia per George Floyd)

Raleigh

Domenica 31 maggio ore 15.30 Memorial for George Floyd – In memoria di George Floyd

Ohio

Cleveland

30 maggio, ore 14.00, presso Free Stamp – SURJ NEO (Showing Up for Racial Justice – Ergiamoci per la giustizia razziale – Northeast Ohio)

Oregon

Portland

Al momento è in corso un’occupazione del polo giudiziario nel centro città in 1120 SW 3rd Avenue in solidarietà con George Floyd, annunciato dal PNW Youth Liberation Front.

Tennessee

Knoxville

Venerdì 29 maggio, ore 18-00

Raduno presso il dipartimento di polizia di Knoxville: “I partecipanti hanno chiesto di indossare mascherine e il distanziamento sociale o di partecipare alla protesta in auto se non si sentono a proprio agio/al sicuro in grandi gruppi.”

Texas

Austin

30 maggio, ore 12.00

From Austin to Minneapolis:Justice for George Floyd and Mike Ramos” (“Da Austin a Minneapolis: giustizia per George Floyd e Mike Ramos”)

Houston

29 maggio, ore 14.00

Ospitato da Black Lives Matter Houston – Discovery Green, incontro in 1500 McKinney Street e marcia verso il Municipio

San Antonio

30 maggio, 17.00,

301 E Travis St. – ospitato da Autonomous Brown Berets

San Jose

Venerdì 29 maggio, ore 14.00 George Floyd Solidarity Action (Azione di solidarietà per George Floyd)

Vermont

Burlington

Sabato 30 maggio, ore 18.00

Protest for George Floyd (Protesta per George Floyd)

Virginia

Richmond

Venerdì 29 maggio, ore 20.30

NO JUSTICE NO PEACE FUCK THE POLICE (NIENTE GIUSTIZIA NIENTE PACE FANCULO AGLI SBIRRI) appuntamento al Monroe Park (indossate una mascherina e dei guanti)

Stato di Washington

Seattle

29 maggio, ore 19.00

International District, Chinatown, Hing Hay Park

Sabato 30 maggio, ore 12.00 (mezzogiorno)

610 5th Ave. South- “March for Justice #GeorgeFloyd” (Marcia per la giustizia #GeorgeFloyd)

6 giugno dalle 14.00 alle 17.00

#SeattleJusticeforGeorgeFloyd – “Ci incontreremo sotto lo Space Needle e inizieremo a marciare verso Pike Place alle 14.00; per favore niente violenza o saccheggio” [sic]

Germania

Manifestazioni spontanee si sono già svolte a Neumunster e Brema.

Wuppertal

29 maggio, ore 18.00

Uhr vor dem City Arkaden (Alte Freiheit)

Grecia

Atene

Venerdì 29 maggio, ore 20.00 – Piazza Exarchia – “Contro il terrore di Stato ovunque.”

 

Interviste fatte il 01.06.2020 sulle sommesse in America:

https://radioblackout.org/2020/06/born-in-the-u-s-a/

 

Minneapolis: Ora questa lotta si combatte su due fronti

DIETRO L’ANGOLO PT.8 – UN LATO OSCURO. ANCORA SU GUERRA CIVILE E INSURREZIONE

QUALCHE IPOTESI SU COVID-19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO.

Nel corso dell’attuale epidemia di Covid-19, e soprattutto nel suo portato di misure di contenimento sanitarie e sociali sono apparse blande seppur allusive manifestazioni di una questione inquietante. Una questione complessa che, a memoria, è emersa all’interno della teoria e analisi anarchiche con tremenda urgenza durante uno degli avvenimenti che più hanno ecceduto gli schemi logici con cui sino ad allora si affrontavano gli scenari bellici: il massacro jugoslavo. Ci sembra che il libretto Guerra civile di Alfredo M. Bonanno1 sia un contributo inaggirabile per l’elaborazione rivoluzionaria, non solo per l’originalissima prospettiva analitica, ma soprattutto per le questioni etiche che tale tema pone, non lì esplicitamente affrontate e per questo tutte da svolgere.

Le righe che seguono riprenderanno la tematica non solo per affrontare questo imperativo, ma anche perché non ci sembra peregrino riproporre e riprendere l’analisi di questo complesso teorico (e pratico) proprio in un momento che, come allora, ci costringe a fare i conti con una eccezionalità che ha stravolto, stravolge e stravolgerà il modo di vivere a cui tutti, con più o meno agio, eravamo abituati.

 

Lungo il corso del testo apparirà euristicamente quella che probabilmente è una definizione minimale e scolastica di guerra civile come conflitto anomico, diffuso e infra-nazionale, caratterizzato da violenza indiscriminata potenzialmente senza limiti.

Una premessa doverosa: faremo di certo torto all’intelligenza di tante lettrici e lettori, ma vorremmo sottolineare a priori come per chi scrive lo scenario di ‘guerra civile’, per quanto a noi sconosciuto, disgusti profondamente.

Tuttavia, ad essere onesti, non pare sufficiente contrapporvi il concetto di ‘guerra sociale’, ovvero non sia sufficiente indirizzare programmaticamente i nostri sforzi pratici e analitici verso momenti di lotta in cui si contrappongono chiaramente (interessi di) sfruttati e sfruttatori. Non è sufficiente sostenere la necessità della guerra sociale contro la mostruosità della guerra civile. Siamo certi che questo in nessun modo potrebbe metterci al riparo, facendoci imboccare i retti binari della rivoluzione emancipatrice.

Non è difficile sostenere che le dinamiche insurrezionali, necessarie per aprire possibilità di liberazione collettiva, non hanno mai uno svolgimento lineare, animate come sono da tensioni variegate e contraddittorie, di cui spesso è difficile dare un significato etico univoco. La ‘guerra civile’ ci pare non certo il contesto auspicabile in cui agire (lo ripetiamo ancora una volta), ma di certo uno tra i probabili esiti di certe rotture o svolte improvvise nella quotidianità alle nostre latitudini.

Per concludere. Il tema ‘guerra civile’ ha peso e sembra ancora una volta inaggirabile perché ha tutte le carte in regola per essere l’impensato dell’insurrezione, il suo lato oscuro. Da una parte, abbiamo a che fare con un campo teorico e pratico in cui ci si è mossi – perlomeno dal punto di vista teorico – in lungo e in largo, con indubbia originalità e elaborazioni concettuali tuttora preziose e valide. Dall’altra, abbiamo una certezza: chiunque pensi e agisca con la pretesa di scatenare o partecipare a lotte con sbocchi insurrezionali non può non avere ben chiaro che il loro probabile svolgimento avrà di certo a che fare con quella che può essere definita ‘guerra civile’.

La presente pandemia di Covid-19 ha causato e causerà imponenti fratture nella quotidianità di praticamente tutti gli abitanti del pianeta. In questo luogo non verrà affrontata la cosiddetta narrazione dominante sul Covid-19, piuttosto la pandemia verrà considerata da un unico e pur complesso lato: come un momento di rottura, di profonda crisi del sistema capitalistico nazionale e trans-nazionale.

Come tale, come improvviso e imprevisto avvenimento critico chiama in causa, seppur da un’angolazione inedita, la teoria e la pratica rivoluzionaria: molteplici strutture del potere, a più livelli, vengono intaccate e messe parzialmente o totalmente fuori uso. Una crisi del genere, a nostro parere ha più differenze che analogie con le crisi economiche che, anche di recente, minano il funzionamento del sistema capitalistico avanzato: le sue ripercussioni sono molto più immediate sulla vita delle persone e probabilmente questa ha ricevuto molta meno attenzione in termini di previsioni e relative contromosse economiche e politiche.

Una spaccatura di tale portata ridisegnerà, tra le altre mille cose, gli equilibri nello scontro tra sfruttati e sfruttatori. Se da una parte le misure antiepidemiche si innestano organicamente su efficienti per quanto inedite modalità di produzione, distribuzione e consumo (e della loro difesa), dall’altra costringono e costringeranno altissimi numeri di sfruttati in spazi angusti di vivibilità e di accesso ai beni primari.

Non risulta quindi peregrino un tentativo ulteriore di analisi della guerra civile, nelle sue intensità più variabili, nelle sue forme oscure che paiono potersi ripresentare ed acuire perfino in latitudini che si reputavano al sicuro da bubboni di brutalità e di scontro anomico.

Qualche anno fa, un brillante articolo2 pubblicato da un mensile anarchico, si inseriva nel minuscolo dibattito sull’analisi del concetto di ‘guerra civile’, apportando preziose critiche ad un precedente scritto sul tema3.

Schematicamente lo scritto sosteneva che:

  • la guerra civile, perlomeno nella presente epoca, non si manifesta come un conflitto capace di eccedere ogni limite; un tale conflitto, pur iscritto nel profondo di ogni organismo sociale, non è mai scollegato dal contesto principale in cui avviene, anche nei casi di crisi irreparabile;
  • non è possibile immaginare il retrocedere di uno Stato-nazione con i suoi apparati sullo stesso piano di azione di emergenti formazioni organizzate, eventualmente partecipanti al conflitto;
  • lo Stato è infatti ‘ciò che, in ultima istanza, decide delle sorti della guerra civile’, ovvero ha una funzione che nel corso della sua durata (ma che perdura anche nel caso di sua dissoluzione) si articola come sapere di Stato = capacità di dare forma ad un conflitto e potere di Stato = capacità di esercitare il monopolio della forza;
  • questo significa che lo Stato esiste, quando è in salute, come agente di sospensione della guerra civile, non del suo annullamento: sulla minaccia sempre presente di esplosione di suoi focolai costruisce il suo consenso;
  • ma questo significa infine che la guerra civile gode di un’esistenza strisciante, sotterranea all’interno delle società organizzate in Stato e che perciò segue e si sviluppa su assi e traiettorie isomorfe ai rapporti di forza consolidatisi in esso;

Terremo a mente questi punti per sviluppare il presente elaborato, il cui punto di osservazione è il suolo italico, nello specifico un contesto urbano semimetropolitano.

Ancor prima dello sconvolgimento della quotidianità cittadina via decreto, a fare data dal 9 di marzo, le caratteristiche proprie della epidemia hanno dispiegato una dinamica antica, la caccia all’untore, che, come proveremo ad argomentare non può fare a meno di richiamare la figura più arcaica e fondamentale del capro espiatorio.

Già dagli inizi di febbraio possiamo reperire notizie grottesche e realissime di fobia isterica, spesso incarnata in attacchi fisici, verso persone fisiognomicamente asiatiche, e cinesi nello specifico. Presunti veicoli del virus, i e le cinesi, i negozi e i ristoranti da essi gestiti son stati individuati da ampie porzioni di popolazione come ‘il’ problema, come luoghi e corpi di cui sospettare, da tenere a distanza, da evitare quando non da attaccare.

Il rapido evolvere della situazione, le successive e sempre più stringenti misure di contenimento hanno fatto scivolare la psicosi verso il Celeste Impero in secondo o terzo piano (non volendo entrare nel grottesco dibattito sulle presunte colpe ab origine di diffusione epidemica, come se il virus fosse un gattino scappato sui tetti del vicinato).

Dopo la Cina altre figure hanno rapidamente occupato la casella funzionale del capro espiatorio, in una sequela di ruoli sempre più improbabili e, fattore non di secondaria importanza, vaghi, cioè non immediatamente riconoscibili – senza più gli occhi a mandorla, o meglio, non solo –.

A questo punto del discorso è utile presupporre la funzione fondamentale e fondativa che il capro espiatorio svolge all’interno delle comunità, macro o micro che siano. Seppur sia stato molto importante il ruolo dello Stato nell’individuazione del colpevole dello spargimento del virus – chi non sta a casa, chi corre, i furbetti, chi non rispetta il distanziamento sociale –, ci pare tuttavia che in frangenti di crisi generale, di difficile comprensione, di incertezza, il colpevole, la funzione di colpevole svolga una cruciale importanza sia su un livello individuale sia su uno collettivo.

Non si può non collocare il concetto di capro espiatorio all’interno di una costellazione di altri concetti: danno, colpa, violenza, sacrificio/sanzione, obliterazione/soluzione del danno.

Per trivializzare: di fronte ad un danno se ne cerca la causa, che è immediatamente colpa; attraverso la violenza (con le sue forme più raffinate e accettabili fino alle più brutali) si persegue la soluzione del danno, la sua riparazione; tale processo ha come passaggio obbligato, come punto d’equilibrio, il capro espiatorio, la sanzione del colpevole (tale o presunto).

A ben vedere, da questo schema non eccedono neanche modelli alternativi di capro espiatorio: si pensi semplicemente al – sacrosanto e più preciso – modello teorico e pratico proposto dalla ‘nostra’ parte, laddove il ‘colpevole’ è individuato tra le file del nemico di classe.

Non è questo il luogo per provare a sondare la validità di questo schema, né tantomeno immaginare soluzioni alternative. Ci accontenteremo di dimostrare che proprio perché, volenti o nolenti, ci si trova a muoverci in un contesto di questo tipo, le conseguenze saranno più buie e drammatiche di quanto ci si possa aspettare.

Ricapitoliamo quanto esposto finora:

  • lo Stato versa in un momento di crisi di cui esso stesso non conosce la fine né gli effetti che avrà nella vita del corpo sociale (ovvero non conosce a priori gli effetti che le misure post-crisi potranno dispiegare nella società);
  • ogni comunità non si può sottrarre alla dinamica del capro espiatorio di fronte a quelli che vengono interpretati come danni o torti, ed è pronta, al di là dei limiti democratici, progressisti, umanitari, razionali, ad agire in modo violento verso il colpevole supposto;
  • la guerra civile non è uno scenario che sostituisce il presente stato di cose in determinati momenti di anomia, ma esiste in maniera strisciante, in qualche modo controllata, nel ventre della cosa pubblica; e che i suoi rapporti di forza dormienti seguano le linee tracciate dalla strategia gestionale di controllo e repressione statali;
  • la presente pandemia di Covid-19 avrà ripercussioni imponderabili non solo sulle economie globali, ma immediati riverberi sull’esistenza di gran parte della popolazione: dal punto di vista occupazionale, dei consumi, dei costumi;

Tutto ciò può fare legittimamente presagire una serie di turbolenze sociali.

Da qualche parte sono già iniziate. Da qualche altra esistono strutturalmente.

Se si guarda con attenzione ai periodi di crisi in cui non appaiono fasi di sovversione diffusa sufficientemente incisive, non si può che notare l’acuirsi della ferocia con cui i poveri organizzano la propria sopravvivenza. Non ci si riferisce qui a un’antropologia negativa del tipo homo hominis lupus:non dobbiamo pensare ad una natura umana – concetto molto problematico – cattiva, quanto piuttosto a dinamiche dalle coordinate precise, spesso pianificate e ampiamente previste da analisti e governanti.

Finito il sogno illuminista e novecentesco di un’emancipazione comune, quando l’esistenza materiale pone alle strette, il risultato quasi deterministico è quello dell’accaparramento di ciò che è necessario, con mezzi e fini a tratti insostenibili. L’esistenza di molti, al netto del niente in cui si riproduce, si arrabatta già ora tra l’affitto di un posto da dormire su un marciapiede, tra i furgoncini in cui il caporalato organizza il lavoro tra i campi, strappando elemosine dal collo di un’anziana, in una busta di roba all’angolo. Tra le spire di un mercato sommerso, con prezzi esosi, capace di distribuire beni a cui ai più è negato un accesso formale, il cui controllo è spesso appannaggio di soggetti parastatali capillari, autodifesi e abili nella riscossione di crediti.

Fenomeni che individualmente possono essere ascritti a dinamiche di un ultra-sfruttamento ferocissimo e cannibale, ma che, moltiplicate e complicate nei sistemi complessi che sono le città e le metropoli, si traducono in dinamiche che afferiscono a ciò che definiamo guerra civile.

Il conflitto endemico all’interno della classe sociale degli esclusi potrebbe dunque con la crisi economica della pandemia portare all’inasprimento ulteriore delle dinamiche di cui sopra. Guerra che non solo vedrebbe i sovversivi in difficoltà rispetto alla sua intellegibilità, ma che li costringerebbe a far fronte a tensioni che spostano inevitabilmente il punto dalla lotta contro padroni e governanti a quello di doversi guardare le spalle da pericoli moltiplicati e su fronti inediti. Non si descrive qui uno scenario da tetra fantapolitica, ma quello che accade conseguentemente alla trasformazione di ogni pezzo di questa Terra in spazio di mercato dalle risorse limitate e dalla repressione spudorata. Un conflitto acuto e diffuso che rende poco vivibili per tutti le strade dovrebbe essere affrontato con rigore ideale e cautela ferrea. Per non subire o ignorare da una parte le angherie e le violenze di cui è composto, dall’altra per non finire nel derubricarlo come inevitabile “delinquenza”, dimenticando di fatto la questione sociale e abbandonandosi alla guerra tra bande.

Ad ogni modo. siamo convinti che nei momenti di crisi reale e vissuta molti nodi vengano al pettine, a discapito dei diversi piani di retorica, naif, caramellosi, ecumenici che l’inesauribile macchina ideologica che è lo Stato ha per questi frangenti: abbiamo letto del malcontento montato nel settore sanitario e produttivo in generale; possiamo immaginare che le dinamiche di potere, nella loro intollerabilità, emergano con più chiarezza rispetto ai periodi di ‘normalità’.

Non siamo tuttavia sicuri che, all’acuirsi della tensione, ci si ricordi delle responsabilità precise.

Che tipo di scontro potrà mai esplicarsi in società che non solo non esprimono da decenni capacità di analisi e organizzazione di classe ma soprattutto che non hanno più dinamiche interne capaci di dimostrarne chiaramente la struttura di classe? Chi sono oggi gli sfruttatori? Chi è oggi, o meglio ancora, domani, il nemico?

Temiamo che per distribuire e sanzionare le colpe sia sempre più facile imboccare le strade già battute: gli altri in generali, poveri, stranieri, marginali, furbetti di turno, non allineati, avversari corporativi e via elencando.

Qualche anno fa un compagno scriveval’insurrezione fa splendere il sole a mezzanotte perché in essa gli individui sentono, avvertono, evocano e vedono la potenza che hanno sempre avuto: quella di negare la propria condizione.

Non sappiamo se ci saranno insurrezioni. Sappiamo che ci saranno malcontento, rabbia, paura, incertezza, e sappiamo che queste cose sono il combustibile delle insurrezioni.

Un ulteriore punto sarebbe capire cosa significhi negare la propria condizione: a noi piacerebbe che si negasse la condizione di sfruttati, subalterni, oppressi. Che ci si batta per negare la propria condizione e quella degli altri in cui ci si possa riconoscere.

Invece è probabile che nel presente stato di cose e soprattutto nell’immediato futuro, l’esigenza prioritaria di ogni sfruttato sarà quella di riappropriarsi di quanto appena perso, a discapito soprattutto dei più prossimi, di tutti quelli che versano in frangenti simili. Probabilmente con modalità e strumenti inimmaginabili, propri di una crisi inaudita.

Non potremo però girarci per non vedere. In primo luogo perché, come sfruttati, la questione ci riguarderà da molto vicino. In secondo luogo perché se è vero che le insurrezioni non sono mai pure, sono impure in entrambi i sensi. Mai solo rivoluzione, mai solo reazione.

Anche nei contesti di più difficile lettura e intervento, ci sono sempre stati momenti di rottura che, pur frammisti ed intrecciati ad altri di segno opposto, hanno alluso o costituito passaggi di emancipazione.

Postilla di fine maggio ’20

Questo testo è stato redatto intorno alla metà di marzo, nell’ottica della collazione di testi in uscita sul blog Macerie e storie di Torino. Ad una rilettura due o tre punti che sarebbero inevitabilmente suonato come superati dagli eventi son stati aggiustati, altri li abbiamo lasciati volutamente come erano. Indubbiamente molti punti trattati, nonostante le aggiunte continue, hanno necessità di approfondimento ulteriore.

Il bacino di esempi e fatti di cronaca da pandemia, allo stesso tempo agrodolci, grotteschi, inaccettabili e catartici, che potrebbero supportare quanto scritto sopra è vastissimo.

Se dovessimo circoscrivere qui dei campi di forze – si badi, non dei soggetti – particolarmente fecondi per innescare o alimentare dinamiche da guerra civile, potremmo eleggere:

  • gli effetti selettivi e distributivi della previdenza sociale, riscopertasi fondamentale ai tempi del Covid-19, che, con i suoi bizantinismi creerà diverse categorie di persone dipendenti dal sostegno al reddito. Come ogni differenziazione anche questa sarà facilmente radice di cannibalismo sociale e scontro indiscriminato;
  • quel magma eterogeneo e confuso, distillato di differenti tensioni che si potrebbero definire complottiste, populiste, sovraniste, corporativiste, che ha dimostrato insofferenza palese alle varie misure di ministri e governatori soprattutto sui social network (un esempio locale, il cosiddetto Movimento dei Forconi a Torino); ad ora un popolo da tastiera, ma uno spettro significativo di cosa ribolla nello stomaco di quello che fino a ieri l’altro si chiamava proletariato;
  • la meta-distinzione tra salute e malattia, tra chi può e deve essere sano e chi invece rimane o può rimanere o deve nella casella del malato, del non salvabile, del sacrificabile; un taglio che si va ad aggiungere tra le innumerevoli linee di esclusione, inclusione e inclusione forzata che attraversano le società contemporanee, e i cui effetti, soprattutto in quelle sotto capitalismo avanzato, potrebbero scompaginarne le strutture;
  • non ultimo le vecchissime e nuovissime identità regionali, se non etniche, riemerse in un contesto dove la diffusione a macchia di leopardo del virus ha reso diversamente efficaci (o gradite) le misure del Governo centrale, emesse su una dimensione nazionale; per ora lo scontro è soprattutto politico istituzionale, ma scriviamo che ancora gli spostamenti tra Regioni sono vietati.

1 A. M. Bonanno, Guerra civile, Edizioni Anarchismo, Catania, 1995.

2 Invece n° 22, Combattere la guerra civile, marzo 2013.

3 Invece n° 18, Campo di battaglia, novembre 2012.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

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Taglio netto

Il mondo inabitabile

Macchine, sensi e realtà

Lockdown, quarantene e zone rosse

https://macerie.org/index.php/2020/06/03/dietro-langolo-pt-8-un-lato-oscuro-ancora-su-guerra-civile-e-insurrezione/

Dietro l’angolo pt.7 – Lockdown, quarantena e zone rosse.

La produzione di spazi sicuri

Le zone rosse hanno oramai una loro lunga storia. Da misure di prevenzione attuate per difendere i capi di stato durante i grandi summit come il G8 (ad esempio a Genova 2001), erano poi state utilizzate per difendere le zone di interesse strategico nazionale (inceneritori, discariche e le grandi opere infrastrutturali come il cantiere di Chiomonte ) e ultimamente avevano fatto capolino, tra gli altri, nei quartieri torinesi più movimentati dal conflitto sociale. In questi ultimi episodi aveva decisamente stupito la sproporzione tra le misure di controllo attuate rispetto alla reale minaccia da contenere e alle conseguenze che queste misure imponevano alla popolazione residente.

Nel caso dello sgombero dell’Asilo, avvenuto il 7 febbraio del 2019, era stato circoscritto al traffico pedonale e automobilistico un quadrilatero di strade limitrofe all’edificio nelle quali si poteva accedere solo attraverso l’esibizione di documenti che comprovassero la residenza o l’attività lavorativa in quella zona. Nonostante le ben immaginabili conseguenze per l’economia del territorio le misure si erano protratte per un paio di mesi. Lo stesso è avvenuto per lo sgombero del mercato delle pulci del Cortile del Maglio dove per qualche tempo, nei giorni di mercato, è stata istituita una sorta di zona rossa, interdetta al traffico, nella piazza dove si svolgeva abitualmente questo mercato.

Al netto della comprovata volontà da parte delle forze dell’ordine di una dimostrazione muscolare in aree metropolitane poco obbedienti alle norme e alle leggi imposte ciò che balzava agli occhi in questo fenomeno era in sostanza una banalizzazione dell’utilizzo delle zone rosse senza alcun riguardo nei confronti delle reazioni che queste potevano scatenare in chi era costretto a subirne le conseguenze. È importante, ora, per comprendere l’utilizzo delle zone rosse nello scenario pandemico sottolineare alcune questioni legate a questa tecnica di militarizzazione dei territori.

La tecnica delle zone rosse è una misura concepita all’interno dei manuali di controinsurrezione e nasce con lo scopo di isolare porzioni del territorio dove l’ordine costituito viene messo in discussione, al fine di costruire degli spazi sicuri al movimento delle truppe e per le attività della popolazione collaborante (le cosiddette Green zone). La teoria delle zone rosse è quindi funzionale all’instaurarsi di questa dialettica tra spazi sicuri e spazi insicuri. Nel caso dell’emergenza Covid italiana ci si è trovati per un lungo periodo in assenza di questa dialettica. Ciò comporta due valutazioni differenti e per certi versi paradossali: la generalizzazione di questa tecnica, tra l’altra adottata con strumenti giuridici cangianti e contraddittori, che in sostanza sentenzia un fallimento dello Stato nel controllo della pandemia, non è una sofisticata strategia ma duna sorta di coprifuoco o quarantena adottata di fretta e con scarsi mezzi, uno strumento antico e quantomai abusato. La seconda valutazione riguarda la sua banalizzazione. L’estendersi indefinito della zona rossa e quindi il suo scarso significato strategico ha, però, sicuramente inculcato nella popolazione un precedente quantomai inquietante. Non è tanto, quindi, la misura in sé, dalla scarsa efficacia, ad essere preoccupante ma soprattutto il suo carattere storico e simbolico. Storico, perché rende comprensibile a chiunque cosa significhi una zona rossa e come ci si debba comportare in quella situazione. Simbolico in quanto allena gli spiriti a una ginnastica dell’obbedienza quantomai contorta e non così facilmente sbrogliabile.

Per tracciare quindi un filo rosso, che lega l’attuale gestione dell’ordine pubblico nell’emergenza con i suoi antecedenti, vorremmo sottolineare due aspetti che permettono di delinearne una continuità. Il primo riguarda essenzialmente la protezione degli interessi economici e dei capitali investiti nel territorio: che si tratti di accordi internazionali tra capi di stato oppure di aree soggette a investimenti infrastrutturali, o che si tratti invece di riqualificazione di quartieri semiperiferici oppure di contenimento di una pandemia che rischia di far collassare il sistema sanitario, la zona rossa compare laddove l’interesse economico è messo in discussione da circostanze esterne. E su questo punto, e in particolare rispetto alle questioni riguardanti gli investimenti nella riqualificazione, è chiaro che nell’incertezza e nella precarietà che contraddistinguono determinati quartieri marginali la capacità di difendere i capitali investiti non è un capitolo supplementare al bilancio dell’investimento ma è un capitolo organico alla strutturazione dell’investimento stesso.

Confrontando quest’ultima considerazione con l’attuale scenario epidemico, il cui decorso non è in nessun modo chiaro, è possibile comprendere quanta importanza rivesta economicamente l’efficacia delle misure di contenimento attuate da uno stato anche nell’ottica della competizione internazionale. Un secondo aspetto, che è già stato trattato nei testi precedenti, e che probabilmente risulterà maggiormente significativo nell’evolversi della gestione della pandemia, riguarda la delimitazione di spazi all’interno dei quali far stare la porzione di popolazione sacrificabile diminuendo il rischio per tutti gli altri. L’esempio dell’occupazione abitativa Salem Palace a Roma è significativa a riguardo: si tratta di un edificio occupato nel quale vivono 700 profughi ai quali è stata comminata una quarantena con tanto di presidio militare all’esterno a fronte di una trentina di positivi al Covid riscontrati all’interno.

Accanto a questioni prettamente tecniche si aggiunge la selva di decreti, decretucci, provvedimenti e ordinanze comunicati spesso la sera precedente alla loro entrata in vigore (alle 22 a reti unificate) che hanno reso indecifrabile quali fossero i comportamenti legalmente corretti e a quali sanzioni si andava incontro. In questa confusione si è fatto spazio violentemente il carattere soggettivo della legge e dell’ordine incarnato nello sbirro che ti ferma e da cui ci si può aspettare di tutto. Non c’è effettivamente niente di più indefinto che una situazione nella quale ogni singolo poliziotto può decidere la legittimità o meno di un tuo spostamento. Se a questo si aggiunge il fatto che i militari di Strade sicure dopo dieci anni di lavoro gregario si possono finalmente avvalere delle prerogative di un funzionario di polizia (e che nella fase 2 saranno integrati di 500 unità) il piano per il futuro è presto fatto.

La carica morale che permea il lavoro dei rappresentanti dello stato va di solito di pari passo con l’innalzarsi della loro brutalità. È sicuramente in questo aspetto dell’attività repressiva che si ritrova oggi meglio incarnato l’imperativo controinsurrezionale di produzione di una popolazione collaborante. In questo senso è importante rimarcare anche il ruolo che, perlomeno, in provincia e fuori dai grandi centri abitati hanno avuto la protezione civile e la protezione boschiva nel presidio del territorio, in particolare dei supermercati, durante i periodi più recrudescenti di questa fase 1.

Non da ultimo c’è la questione degli assistenti civici, in discussione in questi giorni che prefigura un’organizzazione e una messa al lavoro della pratica della delazione così ampiamente sollecitata dalle forze dell’ordine nei mesi precedenti. Sarebbe, però, troppo facile semplificare la situazione analizzandola come una prova o un esercizio controinsurrezionale comandato da una volontà precisa e chiara. Si tratta qui piuttosto di chiedersi cosa effettivamente sia stato appreso dai difensori dell’ordine costituito nel far fronte a minacce future. Del resto non è casuale il nesso, spesso metaforico ma non per questo meno pregnante, tra controinsurrezione e contenimento delle epidemie, fin dalle origini del pensiero controinsurrezionale. Il maresciallo Bugeaud, a capo della repressione dell’insurrezione parigina del 1834 e di quella algerina del 1841 presentava il suo libro La guerre des rues et des maisons come costituito “da consigli pratici del genere delle istruzioni contro il colera”. È necessario allora provare a ragionare e a intravedere come le tecniche apprese in questi mesi possano convertirsi ed essere usate in caso di conflitti sociali violenti e/o estesi.

Un esempio, al contrario, ma decisamente interessante riguarda la app meteorologica dell’Arpa Lombardia. Nata nel dicembre 2019 “AllertaLOM “ aveva come scopo, attraverso l’utilizzo delle tecnologie Gps, di avvertire gli utenti nel caso si trovassero in prossimità di un evento meteorologico pericoloso. L’applicazione, di proprietà della Protezione Civile, si è tramutata prima, senza tanto clamore, in un sistema statistico di valutazione del rispetto del lockdown e si è evoluta in una app per il tracciamento dei contatti Covid con tanto di questionario sui sintomi. Altro elemento interessante rispetto a queste tecnologie “dual use” è l’utilizzo dei droni, di cui durante questa pandemia si è ampliato e regolamentato il traffico e lo sviluppo di software capaci di monitorare automaticamente il rispetto del distanziamento sociale. “Social distancing” è un progetto che l’Aeroporto di Genova avvia con l’Istituto Italiano di Tecnologia, usando le telecamere di sorveglianza, che può generare una mappa dell’ambiente e circoscrivere un raggio intorno a tutte le persone presenti, segnalando quando sono troppo vicine. Grazie al progetto sarà possibile capire quali siano le aree a maggior rischio assembramento e generare avvisi in tempo reale in caso di mancato rispetto del distanziamento. Inutile sottolinearne i potenziali usi per questioni che nulla hanno a che fare con un’epidemia. Altri strumenti ancora, come il termoscanner, non fanno altro che radicalizzare il concetto di dual use. Si tratta infatti dell’introduzione di nuovi strumenti di controllo (che altro sono i termoscanner se non telecamere intelligenti?) giustificata tramite questa pandemia ma che materialmente posso essere utilizzati per tanti altri scopi. E’ necessario semplicemente sostituire il software al loro interno. L’unico ostacolo alla loro implementazione è oramai un problema tecnico.

In questa prospettiva le parole di questa discussione tra un esperto di controinsurrezione e un organizzatore di eventi riportate nel libro Out of the mountains. The coming age of urban guerrilla assumono un significato ancora più pregnante: “Iniziammo a speculare. Come si potrebbe combinare ciò che ho imparato a Baghdad rispetto alla protezione della popolazione dalla violenza estrema, con ciò che le law enforcement agencies sanno rispetto alle politiche community-based, i governi delle città rispetto al mantenimento di un ambiente urbano e ciò che la comunità olimpica conosce rispetto alla fornitura di sicurezza orientata alla preservazione dei flussi urbani? […] Possiamo modellare un approccio che replichi il modello sicurezza-più-servizi dei mega eventi sportivi ma su base permanente? […] Possiamo disegnare nella città stessa un sistema di sicurezza pubblica che mantenga la popolazione sicura e allo stesso tempo mantenga aperti i flussi che gli scorrono attraverso? Possiamo costruire questo, basandoci su ciò che gli architetti conoscono rispetto al metabolismo urbano, mettendo in sicurezza la città intesa come un organismo vivente, e non solo come un pezzo di terreno urbanizzato? E se possiamo farlo sulle città esistenti, possiamo inoltre costruirne delle nuove sulla base di queste conoscenze?”

Per questo, forse, è miope scandalizzarsi troppo per le misure adottate in questi mesi di lockdown sarebbe piuttosto necessario ragionare sui loro possibili effetti di ritorno e sui loro inaspettati aspetti “dual use”. Ragionare, quindi, sulla creazione di spazi smart, tendenza questa non inedita ma che subirà una forte spinta accelleratrice. Si prova, infatti, un profondo senso di vertigine a riandare con la memoria dal passato prossimo prepandemico al deserto del lockdown fino al labirinto attuale della cosiddetta fase 2. Lo spazio, che nell’accezione comune appare spesso come ciò che sommamente resiste alla forza umana, ne è invece da questa sempre profondamente plasmato e con velocità inaspettate.

Un aspetto altrettanto preoccupante che è necessario sottolineare è quello legato alla retorica che si è imposta a riguardo dell’epidemia trasformando il contenimento di una malattia in una metafora di guerra. La militarizzazione del linguaggio, dalla “guerra al virus” per arrivare alla comparazione dei morti da Covid con quelli dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, è un tentativo di mobilitazione popolare realmente pericoloso. C’è qui in gioco il tentativo di far ricomprendere il proprio destino misero e tragico in una missione collettiva dai confini incerti.

Il mondo attuale si avvia per questioni geopolitiche difficilmente aggirabili – tra le quali le più pressanti sono l’approvigionamento di risorse energetiche e la mancanza di liquidità monetaria – a una competizione interstatale sempre più feroce, la guerra guerreggiata anche su ampia scala diventa uno scenario sempre più plausibile. Questa esercitazione ideologica di massa fatta di morti, di eroi, di prime linee e retrovie, di bandiere e inni patriottici assume contorni quantomai inquietanti. L’emblematica immagine dei camion militari che portano via le salme dall’obitorio di Bergamo esprime una verità statale alquanto triste: quanto meno l’apparato sanitario e medico è in grado di gestire una situazione come questa tanto più la polizia e la militarizzazione avanzano.

L’ambito civile e quello militare non sono, quindi, due ambiti separati ma convivono in una sorta di continuità dove il prevalere dell’uno sull’altro è determinato dalla capacità di far fronte ai problemi che lo Stato si trova davanti. Ma l’avanzare del lato marziale dello Stato, per una strana legge ben nota ai suoi nemici, una volta avviato, non è un processo che si inverte automaticamente.

Lo spazio che si sono presi sarà necessario toglierglielo.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

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Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

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Dietro l’angolo pt.7 – Lockdown, quarantena e zone rosse.

Uno sguardo su Aurora e Barriera

Da quasi un mese abbiamo lasciato sul fuoco una pentola bollente senza più curarcene, ma è giunto il momento di provare a fare il punto su come le istituzioni cittadine hanno deciso di provare a serrare il coperchio.

Dopo che in un paio d’occasioni decine e decine di persone erano scese in strada a guardare, contestare e in un caso tentare di mettersi in mezzo davanti ad altrettanti fermi di polizia e che un corteino aveva attraversato le vie del quartiere in pieno lockdownuna seduta straordinaria del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza ha disposto una serie di misure ad hoc per contrastare e prevenire l’insorgere di ulteriori disordini in quel pezzo di città.

Insomma, Aurora e Barriera sono diventati quartieri sotto “sorveglianza speciale”.

Accanto all’annunciata implementazione della videosorveglianza e del coinvolgimento di non meglio identificate associazioni, è stato subito evidente il dispiegamento di forze messo in campo per mostrare i muscoli. In poco meno di un chilometro, lungo e attorno corso Giulio Cesare, nel punto dove si sono verificati i recenti accadimenti, sono state posizionate, a due a due, quattro camionette fisse con agenti antisommossa, 24 ore su 24. Per non parlare delle volanti di polizia, carabinieri e di quelle in borghese che fanno su e giù per questi quartieri, e degli agenti della municipale che stazionano tutto il giorno ad alcune fermate di tram e autobus, a dar manforte ai controllori della Gtt, da quando la parziale riapertura delle attività cittadine è tornata a riempirli un po’.

Un’esibizione muscolare che non si limita poi a questo quadrante di strade con le camionette che nelle giornate di maggior ressa sono solite sostare anche davanti al mercato di Porta Palazzo o ad esempio in corso Verona davanti all’ufficio immigrazione, dove il 25 maggio, giorno della sua riapertura, se ne potevano contare ben sei a guardia dell’ingresso e a monitorare la lunga fila di avventori.

Negli ultimi giorni la pressione sembra leggermente scesa, con i presidi fissi che almeno di notte paiono levare le tende fino al giorno dopo. Tuttavia è difficile capire se e quanto questa vistosa presenza poliziesca sia destinata a durare e soprattutto se alla lunga si mostrerà efficace nel soffocare il prevedibile acuirsi dell’insofferenza e della tensione sociale, in questo come in altri quartieri della città, o se piuttosto non faranno che gettare benzina sul fuoco.

 

Uno sguardo su Aurora e Barriera

Racconto in prima persona di quanto accaduto il 28 nel terzo distretto a Minneapolis

Quando sono arrivato nel pomeriggio al terzo distretto, l’atmosfera era gioviale, mentre migliaia di persone si rilassavano intorno al fuoco di un’auto in fiamme nel centro commerciale Target, ormai devastato. Sullo sfondo una cascata che sgorgava dallo scheletro carbonizzato di un enorme complesso residenziale a due piani incendiato, la gente festeggiava per ciò che era accaduto e per quanto fosse surreale l’intera situazione. Veicoli stracolmi di gente che si sporgevano dai finestrini attraverso il parcheggio del Target gridando “Fanculo 12!”, e cantando a squarciagola “Fanculo la polizia” di Lil Boosie – una canzone che è diventata comune nella cultura ribelle del Midwest.

Mentre il sole tramontava, è ri-prevalsa la rabbia, ed è iniziato il terzo assedio della stazione di polizia. Alla fine, l’edificio è stato sfondato e i rivoltosi sono entrati. In un ultimo tentativo di tenere il loro territorio, i maiali si sono rintanati vigliaccamente nel retro della stazione di polizia lanciando gas lacrimogeni contro la folla di ribelli inferociti. Esasperata e in vena di combattere, la gente libera del nord ha colpito il nemico (non equipaggiato a sufficienza) alle spalle e ha fatto degli scudi con le protezioni di legno compensato così da sopraffarre lentamente i porci. Con le munizioni che probabilmente si stavano esaurendo e senza opzioni a parte una ritirata strategica, ma in ogni caso patetica, non rimaneva nulla che potesse impedire la conquista. La stazione è stata presa.

Mentre le fiamme di un edificio di due piani a circa un isolato di distanza toccavano il cielo, il terzo distretto è diventata una piñata. Le sue recinzioni sono state abbattute mentre la struttura veniva distrutta; la parte anteriore è stata incendiata, le fiamme di 20 piedi rendevano evidente la vittoria. A questo punto i rivoltosi sono entrati in quella che posso descrivere come una frenesia estatica, poiché un rancore vecchio di decenni è stato cancellato e con questo il dolore che la sua facciata rappresentava. Mentre migliaia di persone si sedevano e guardavano bruciare questo schifo, non potevo fare a meno di pensare alle generazioni di persone tormentate, torturate e/o assassinate dai subumani che camminavano nei corridoi di questo distretto. La precisione di questo atto di giustizia vigilante trasudava dal vetriolo e dalla furia della vendetta ancestrale.

A questo punto, i rivoltosi hanno fatto irruzione nella parte posteriore del distretto che non era in fiamme – è un edificio molto lungo – e hanno iniziato a saccheggiarlo in cerca di armi, giubbotti antiproiettile, munizioni e altri oggetti utili. Si diceva in giro che i rivoltosi stessero cercando di incendiare la metà posteriore dell’edificio, ma sospetto che in realtà si stessero occupando di tutti i beni da saccheggiare. Alcune persone si sono prese la briga di appiccare un bell’incendio di rifiuti nel parcheggio, mentre la gente guardava con ammirazione lo spettacolo. Contemporaneamente, un altro edificio è stato incendiato in fondo alla strada, non posso confermare quale fosse, anche se ho potuto vedere le fiamme in lontananza.

I primi colpi d’arma da fuoco della notte si sono uditi mentre qualche patriota sembrava utilizzare un’arma semi-automatica sparando al cielo mentre blaterava stronzate tipo “blah blah blah 1776… blah blah blah non ci sottometteremo al Nuovo Ordine Mondiale…”. All’inizio questo ha scosso la gente, come fanno solitamente gli spari, ma alla fine è diventato evidente che questi pazzi erano per lo più alla ricerca di un sound-bite fresco e di un gesto simbolico da trasmettere sui social media o qualche cagata simile. Uno dei fottutissimi bastardi sembrava trasmettere le sue azioni ai suoi seguaci. Dopo aver gonfiato il petto per qualche minuto, se ne sono andati.

Più o meno in questa fase la gente ha iniziato a riferire che la Guardia Nazionale si stava muovendo per riprendere il terzo distretto. Questo ha avuto un effetto tangibile sull’umore del 10% della gente (soprattutto per tutti gli spari che si sentivano dai quartieri circostanti), ma tutti gli altri sembravano per lo più tranquilli. Alcuni hanno continuato a costruire barricate di fuoco, altri hanno saccheggiato Arby’s (e alla fine gli hanno dato fuoco), altri hanno ballato sopra e intorno alle auto che sfrecciavano sul Meek Mill, mentre selvaggi motorizzati facevano burnout e trucchi da duri ovunque trovassero lo spazio. Se dovessi dire che sensazione mi ha dato quel momento, direi che era una via di mezzo tra Fast and Furious (senza contare quella merda di Tokyo Drift) e lo spirito di Ferguson.

Anche se posso riportare con maggior precisione gli avvenimenti intorno al 3° distretto, l’intera Twin Cities [Per Twin Cities si intendono Minneapolis e Saint Paul, città distinte anche se adiacenti e costituenti un’unica area metropolitana, ndt] è stata saccheggiata. H&M in Uptown è stato saccheggiato, la gente si è data a riots e saccheggi nel centro di Minneapolis, e dopo una giornata di devastazione del centro commerciale a Midway, i rivoltosi hanno continuato a fare lo stesso in altre zone di Saint Paul. Questo breve resoconto non riporta i racconti dei saccheggi più modesti e l’aumento enorme di azioni criminali in entrambe le città a causa dei molti che probabilmente si sono resi conto che se i maiali non possono proteggere un misero distretto senza chiamare la Guardia Nazionale, la situazione è chiaramente oltre le loro capacità e non possono semplicemente essere ovunque.

Mentre preparavo le cose per la notte, la distruzione sembrava andare avanti veloce con i presunti incendi dolosi in entrambe le Twin Cities e le segnalazioni di persone che si concentravano sul primo e/o sul quarto distretto (o sui quattro), mentre il quinto si diceva che fosse completamente abbandonato. È difficile sintetizzare in pixel l’energia della battaglia per il 3° distretto. Immagino che avreste dovuto esserci. L’attuale paesaggio intorno al lago St. ricorda le scene di Escape from L.A. (Fuga da Los Angeles), con 5-10 isolati di Minneapolis in fiamme o distrutti, quasi senza polizia o la speranza di una tregua dall’insaziabile danza di guerra. Se lo spirito di quella notte è un’indicazione di ciò che verrà, dubito seriamente che gli arresti degli assassini di Floyd o della Guardia Nazionale riusciranno in qualche modo a placare la rabbia della gente. Si tratta di pareggiare i conti in un momento in cui ci sono molti più motivi per pareggiare i conti.

La vittoria spirituale e strategica nel devastare e saccheggiare il terzo distretto è incalcolabile e il potere simbolico scatenato da ciò che sarà possibile fare nelle rivolte future è a dir poco incredibile.

Le stazioni di polizia POSSONO essere conquistate.
Lo Stato PUÒ essere piegato dalla nostra volontà.

Viva l’anarchia e il popolo libero del nord!

 

https://anarchistnews.org/content/battle-3rd-precinct-personal-account

Che la violenza cambi di campo

Sembra che l’ ennesimo omicidio operato dalle forze dell’ ordine negli USA abbia destato una rabbia che, forse complice anche la RE-pressione pandemica,  si è riversata nelle strade e si è infranta assetata di vendetta contro polizia, negozi e fast food. Anche la blindata e sorvegliatissima america non sembra esente dalle “tensioni sociali” di cui in italia ha tanto paura la cosidetta “ministra” Lamorgese.

Tre giorni di rivolta e manifestazioni in molte città. A minneapolis ci sono stati attacchi a concessionarie, espropri a supermercati, fast food e scontri con gli sbirri. Il fuoco illumina le notti cittadine e culmina con l’ attacco a una stazione di polizia, che viene saccheggiata e data alle fiamme dalla irata teppaglia.

Il cosidetto “presidente” Trump minaccia di mandare l’ esercito e di far sparare sulla folla. Quindi? questo farà smorzare la rivolta e quietare gli animi oppure contribuirà ad estenderla e affilarla di più, come la lama mortale sotto le mani del laborioso arrotino?

Intanto alcuni giornali si chiedono che fine avranno fatto le armi e gli esplosivi detenuti nel commissariato dopo che la sbirraglia se la dava a gambe dal tetto e i “criminali” saccheggiavano i locali…Forse saranno veline o scoops giornalitici, ma chissà mai che non sia il solo Trump a volersi preparare per lo scontro…

Mentre da qualche parte nel mondo il cocktail di paura, paranoia, violenza e ultra-contollo tecnologico dettato da Covid e compagnia bella sta dando vita ad uno scoppio della dinamite sociale verso i mittenti della violenza strutturata e del sadismo istituzionalizzato, come al solito nel belpaese e in generale nell’ europa unita pare non muoversi una foglia, la violenza arriva sempre a senso unico da stato, polizia e antiterrorismo che si divertono a imbastire operazioni repressive industriose verso chi non attende e si ribella e a dettare legge su tutti gli altri. Le morti e torture nelle carceri e nei lager non sembrano nemmeno aver indignato la brava, vera cittadinanza democratica. Bisognerà aspettare che le merde in divisa ammazzino per strada anche qui per valutare la “legittimità” di un insurrezione? O forse nemmeno allora?

Speriamo che le amanti del fuoco e gli individui a cui bastano sé stessi per rivoltarsi, illuminino sempre le notti e portino avanti fieramente anche da sole la loro guerra. Per adesso…

La violenza rigenera se stessa nelle mani di chi domina e si ripercuote sempre contro chi passivamente non reagisce e zitto subisce.

Senza reagire ci si ritroverà sempre in posizione subalterna e dominata, in una vita ridotta all’ osso.

Armarsi, esplodere, reagire a cosa può portare?

Alla retorica della “violenza genera violenza”?

Alla repressione sempre più dura e all’ esercito che spara sulla folla?

…Ma davvero vale la pena di domandarselo ancora e non  conviene piuttosto tuffarsi nell’ oblio dell’ incerto e dell’ indeterminato?

Certamente chi in queste ore stà oltreoceano a battersi per le strade e a goire della rivolta ha di meglio a cui pensare che le pippe impaurite dei timorosi razionalisti.

Che la violenza cambi di campo

Che la violenza cambi di campo