Lecce – Lettera aperta di un corona virus agli abitanti della terra

Mi rendo conto che può sembrare strampalato ricevere la lettera di un virus, ma dal momento che continuate a nominarmi, ho pensato anche io di dire la mia. Me ne stavo tranquillo per conto mio in una bella foresta, convivevo con altri animali e non avevo creato alcuna pandemia. Certo in natura le cose non sono così regolari, la natura è profondamente selvaggia, però vi è un certo equilibrio di fondo secondo cui le cose procedono. Poi, voi umani, anzi alcuni di voi, hanno iniziato a deforestare, a tagliare alberi, in maniera disastrosa. Non potevo crederci. Veder buttare giù tutti quegli alberi! Così sono entrato in contatto con animali a voi più vicini. Li tenete ammassati, rinchiusi, li trattate come fossero scarpe. Li ingozzate di medicinali e poi li mangiate a chili. Che strana civiltà che siete! Avrei preferito non entrare in contatto con loro, ma voi, o alcuni di voi, gli specialisti, da alcuni decenni, più o meno dagli anni ’70, con quella che avete chiamato “rivoluzione verde” hanno convinto molti che bisognava allevare gli animali e la terra in maniera intensiva. Industrie vere e proprie che si espandono sempre più. Per poter far mangiare tutti questi animali che ormai sono più degli umani, dovete sottrarre terre agli altri esseri viventi e a voi stessi e così deforestate. Perverso! Inoltre questi allevamenti inquinano tantissimo e questo peggiora la vostra vita e vi fa ammalare. Che strana civiltà che siete!

Così, probabilmente, attraverso gli animali, sono entrato in contatto anche con gli esseri umani, che se la menano tanto ma poi non è che siano tanto diversi dai virus! Molta gente è morta! Anche in questo caso, non potevo crederci. Ho visto metropoli ammassate e inquinate, e la mia circolazione è stata più veloce. E nonostante ciò, chi vi comanda, ha continuato a tenere le fabbriche aperte comprese quelle di armi! E allo stesso tempo vi impediva di fare una passeggiata al parco, o in montagna, o al mare anche da soli.
Vi impediva di prendere sole, di prendere aria, di rinforzare le vostre difese immunitarie. E molti di voi gli hanno dato pure ragione. Che strana civiltà che siete!

Vi hanno fatti stare in casa, a trangugiare paura e numeri, a terrorizzarvi facendovi vedere solo morte e malattia. Vi hanno vietato di incontrare le persone a cui tenevate. Qualcuno è rimasto da solo e ha preferito andarsene via da questo mondo assurdo senza più contatti umani. Vi hanno riempito la testa sulla mia pericolosità e poi hanno “dimenticato” di fornire tutte le protezioni adeguate a chi entrava in contatto con me. Li conoscete no? Medici, infermieri, ecc. Hanno continuato a dire che ad ammalarsi erano soprattutto gli anziani e anziché proteggerli, soprattutto quelli che si trovavano nelle strutture residenziali, li hanno abbandonati o non sono riusciti a tutelarli. Hanno trasformato un problema sanitario in una guerra con tanto di sceriffi , militari, checkpoint, repressione; vi hanno colpevolizzati e criminalizzati e considerati degli inetti.

E i bambini e i ragazzi! Quanta tristezza ho provato nel vederli rinchiusi in casa, i bambini che sono argento vivo, per fortuna! Neanche una parola per loro, sacrificati con disprezzo, anzi un po’ vi stavano pure sulle palle, perché li credevate subdoli portatori di contagio. In fondo, non ho capito tutta la vostra paura di morire. Come se la morte prima non ci fosse, come se non ci siano cause di morte ancor più letali di me (vi dice qualcosa l’inquinamento?). Non ho capito perché secondo voi, per paura di morire, bisogna rinunciare a vivere. Mi sembra che così morirete due volte!
Forse perché accumulare merci, in fondo non vi rende felici, e se non è la felicità il vostro scopo, che tipo di vita conducete? Che strana civiltà che siete! Vi ricordate la bomba atomica? Ha annientato migliaia di persone con effetti devastanti. È stata realizzata da un progetto di ricerca. Qualcuno ha pensato che quella sia stata la fine dell’umanità. Che in quel modo l’essere umano si sia dato la zappa sui piedi per sempre, non essendo più in grado di prevedere gli effetti di tutte le sue azioni. Oggi qualcuno dice che io possa essere uscito da un laboratorio. Vi ho detto  all’inizio come è andata secondo me, ma mi preme dirvi che ci sono uomini e donne che lavorano per distruggere l’umanità e gli altri esseri viventi, non per favorirla, né per proteggerla, né per farla stare bene. Agiscono per indebolirla, sottometterla, renderla schiava, farla ammalare e poi curarla, all’infinito. Agiscono solo per ricavare un profitto, da ogni cosa, da ogni aspetto della vita, della morte, della natura. Si chiamano Economia, Finanza, Stato, Tecnocrazia o Scientocrazia e nonostante sembrano invincibili, perché protetti da un gran numero di guardiani, compresi quelli che vi hanno fermato in questi mesi, non lo sono affatto. Ci sono stati periodi nella storia, in cui hanno tenuto completamente in scacco l’umanità, altri in cui il terrore che hanno seminato gli è stato restituito. Vorrebbero che voi foste solo carne da macello, pezzi di ricambio. Altro che siamo tutti sulla stessa barca! Ma voi siete esseri viventi, come gli animali, le piante, non robot, come vorrebbero farvi diventare e fortunatamente non siete del tutto prevedibili come algoritmi. Forse, una possibilità che avete è quella di non ammalarvi più. Ma non di corona virus; credo che se non si correrà ai ripari, smettendo di inquinare, devastare la natura, accatastare le città, spostarsi con velocità da una parte all’altra del mondo, costruire macchine, macchine, macchine, altri virus, come me torneranno.
E non ci sarà vaccino che tenga. Quando avrete riconosciuto il virus dell’autorità e del profitto, e lo avrete isolato e debellato, allora si, forse avrete ancora la possibilità di abitare questa terra e, chissà, anche di essere felici!

Covid – 19

Comunicati in solidarietà ai compagni e alle compagne di Bologna

Le mani avanti
Ieri mattina le nostre sveglie sono state sostitute da un tam tam di mail, messaggi e telefonate.
Una prassi che conosciamo purtroppo bene ma a cui i nostri cuori non riescono comunque ad abituarsi, una prassi che accompagna l’arrivo di una nuova operazione repressiva.
Gli immancabili ROS hanno dato seguito all’ennesima indagine per 270bis, questa volta contro le compagne e i compagni di Bologna. Il nome scelto è “Ritrovo” e le tempistiche sono state spiegate dai principali giornali come finalizzate al prevenire lo scoppio di malcontenti sociali in vista della ripresa post covid-19.
Delle accuse specifiche non ci interessa parlare perché chi si rivolta contro questo sistema di ingiustizie, fatto di controllo, carcere e CPR, repressione e capitalismo spinto all’ennesima potenza, ha tutta la nostra solidarietà.
Ci preme sottolineare che nonostante le modalità repressive non siano per nulla nuove, queste mani avanti dello Stato per evitare che il malcontento sociale esploda sono l’ennesima riprova della bassezza alla quale può giungere.
Ci interessa invece dire a gran voce che al fianco dei compagni e delle compagne arrestate e sottoposte a misure ci siamo anche noi.
Come al nostro fianco sono stati loro, magari in strada, magari su un argine, magari davanti ad una rete, magari in un campeggio, magari in una campagna, magari con uno scritto, magari con una riflessione.
Anche se dall’altra parte del mare, anche senza conoscerci direttamente, sappiamo che nei loro sguardi ci riconosceremmo, ci siamo riconosciute e ci riconosceremo di nuovo.
Potranno anche cercare di togliere dalle strade di Bologna compagne e compagni che lottano ogni giorno con generosità, ma questo non fermerà la voglia, nostra e di altri, di continuare a trovare nuove vie per i nostri desideri, repressione dopo repressione.
Saremo ancora lì, con le nostre di mani, avanti, protese verso chi, come noi, non smetterà di avere rabbia in corpo.
Solidarietà alle compagne ed ai compagni colpiti dall’operazione Ritrovo, libertà per tutte e tutti.

Kuntra sa prepotentzia de s’istadu feus kumente s’ortigu*

Kasteddu,
Maggio 2020.
* Facciamo come la quercia da sughero, che nel corso dei secoli per proteggersi dagli incendi che
imperversano nelle torride estati sarde ha sviluppato una corteccia ignifuga, fatta appunto di sughero, che
le permette di non soccombere sotto il calore delle fiamme.
Così come le querce resistono agli incendi rigermogliando alle prime piogge autunnali, noi auspichiamo una
resistenza diffusa preparandoci al germogliare della ribellione.

Contro l’ennesimo 270bis, solidarietà da Cagliari
13 maggio, ore 02:00 i ROS suonano ai citofoni di numerose case, la maggior parte a Bologna. E’ appena scattata l’operazione “Ritrovo”. Per alcuni le notizie saranno brutte, arresto, per altri un po’ meno, misure cautelari alternative.
Prima dell’alba si inizieranno a fare i conti che con le luci del mattino diventeranno chiari. 7 misure cautelari in carcere e 5 obblighi di dimora, di cui 4 con l’obbligo di firma quotidiano, xx perquisizioni, fra cui anche il circolo Tribolo.
Il reato contestato è l’ormai abusato 270bis “associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico”.
Come da prassi degli ultimi anni gli arrestati sono stati divisi in varie prigioni e nessuno a Bologna.
Il fatto che sembra tenere in piedi l’indagine è un attacco incendiario avvenuto nel dicembre 2018 a dei ripetitori a Monte Donato, dove furono gravemente danneggiate delle antenne di emittenti televisive e di alcune ditte  specializzate in intercettazioni.
Nell’indagine appaiono anche fatti di rilevanza penale inferiore, come dei danneggiamenti avvenuti nel corso di cortei e imbrattamenti vari.
Inoltre è ricostruita la partecipazione attiva degli indagati alle iniziative di solidarietà sotto il carcere della Dozza del marzo scorso durante le rivolte contro le misure anti-covid. Per chi non se lo ricordasse poco prima del lockdown generale ci furono delle giornate di rivolte violentissime dentro le carceri di mezza Italia, i prigionieri preoccupati dei rischi del contagio e dell’inefficienza totale della sanità carceraria si ribellarono, devastando intere strutture. Il costo fu fra i più salati degli ultimi decenni, i prigionieri morti furono ben 15.
L’accusa si completa includendo nel faldone le iniziative e l’interesse da sempre portato avanti con generosità ed efficacia contro la macchina delle espulsioni, i lager per migranti e in generale le politiche dello stato in materia migratoria.
Ovviamente il tutto è stato condito da intercettazioni ambientali, ottenute con microspie infilate nell’intimo delle vite degli indagati, utili più che altro a tracciare profili psicologici, a infarcire migliaia di pagine di faldoni altrimenti rinsecchiti dalla pochezza di notizie interessanti che gli inquirenti riescono a ricavare nonostante le incredibili risorse economiche, scientifiche e umane che hanno a disposizione.
Non avendo letto il faldone non abbiamo quindi notizie precise, ci fermiamo a queste prime fonti giornalistiche e ai racconti riportatici dai compagni emiliani che abbiamo potuto contattare, per provare a tracciare alcune analisi di base che sono sufficienti a riscontrare preoccupanti similitudini nei meccanismi repressivi dello Stato.
La necessità repressiva
Lo Stato può essere visto come un’enorme matriosca, che per quanto riguarda i temi di queste righe contiene il Ministero dell’Interno, le varie prefetture, questure, procure, digos, sbirri ecc.
Questo è l’apparato di controllo, repressivo, che di questi tempi più che mai vive dell’assoluta necessità di portare a casa dei risultati, che per questi signori hanno un solo nome: arresti, o in seconda opzione indagini.
In una fase storica di impoverimento, di pressione sulle frontiere, crollo del welfare, lo Stato chiede all’apparato repressivo di prevenire, ancora più che di curare, qualsiasi eruzione di rabbia e tensione sociale. I mezzi a disposizione di questo obiettivo sono infiniti, soldi a palate, tecnologia di ultima generazione e tutti gli uomini che servono. L’esatto opposto ad esempio di quello che lo Stato mette a disposizione della sanità.
Ma ad avere una sanità efficiente non ci salvi uno Stato dal conflitto di classe.
Quindi ecco che le energie spese in questo campo devono dare risultati, sia come evidenza del valore degli investimenti sia come deterrente per chi sta pensando di alzare la testa e iniziare a tirare le pietre al posto della cinghia.
Terrorismo come grimaldello
Recentemente – a conferma della strumentalità di tali operazioni – la maggior parte delle indagini per 270bis non ha superato il vaglio dell’udienza preliminare. Se quindi non ci stupiamo e non ci stupiremo di vedere cadere pomposi castelli accusatori di reati gravi come quello di terrorismo di fronte ai banchi dei tribunali, non ci stupiamo neanche che il terrorismo venga ricondotto anche a delle pratiche di tutt’altra natura, come la solidarietà, l’azione diretta, il sabotaggio, il danneggiamento.
In particolare è prassi degli ultimi tempi quella di inserire nelle indagini per terrorismo a carico di compagni e compagne reati di piazza, rivendicati, svolti sotto la luce del sole, partecipati attivamente da tante persone. Un esempio tra i più lampanti lo abbiamo con l’indagine condotta dal pm Pani qui in Sardegna, che ha basato il teorema accusatorio su cortei, campeggi, tagli alle reti, tutte iniziative pubbliche, di massa, rivendicate da centinaia di persone.
Tale scelta viene compresa andando a leggere cosa prevede l’articolo 270bis, innanzitutto lo sblocco di ingenti somme di denaro per portare avanti le indagini, la detenzione preventiva, la secretazione dell’indagine ed altre conseguenze come il sequestro di locali o mezzi utilizzati dagli indagati, insomma è un ottimo attrezzo nelle mani di sbirri e magistrati.
Inoltre vi è anche l’aspetto mediatico, quando i compagni e le compagne vengono arrestate i giornali titolano “arrestati i terroristi”, “antimilitaristi? No terroristi eversivi”, “smantellata la cellula terroristica anarco-trentina”, di sicuro poi non fanno pubbliche scuse quando i reati vengono derubricati a danneggiamento o i compagni vengono addirittura assolti.
Si criminalizza quindi il dissenso anche nelle forme più lievi e diffuse, col fine di isolare alcuni gruppi, di spaventare i complici e i solidali.
La solidarietà
Potrà sembrare strano ma anche la solidarietà viene inclusa nelle condotte che portano all’accusa di 270bis: una scritta in solidarietà a dei compagni arrestati diventa un danneggiamento aggravato che unito ad altre segnalazioni creano quell’insieme di avvenimenti necessari ad imbastire un indagine per “associazione sovversiva con finalità di terrorismo”.
Ma non solo, andare fuori da un carcere in fiamme a sostenere con urla e striscioni i prigionieri viene ritenuto un fatto gravissimo, anch’esso inseribile (e inserito) nelle indagini dell’operazione “Ritrovo”, ma fatti simili li abbiamo ritrovati nelle operazioni Renata e Lince solo per fare degli esempi.
La corrispondenza con i detenuti viene anch’essa inclusa in queste indagini e diventa quindi poi materia per allungare il brodo.
Inserire varie pratiche di solidarietà dentro le indagini per terrorismo ha l’amaro duplice sapore del reprimere chi le fa e intimidire chi le vorrebbe fare, magari proprio per chi è stato arrestato per averle fatte.
Il tentativo di isolare le pratiche, ridurle ulteriormente in una fase in cui sono già ai minimi storici è uno degli obiettivi dichiarati dello stato e dei suoi aguzzini.
La rivendicazione e la propaganda
Se c’è una cosa che proprio le istituzioni e lo stuolo di benpensanti che le difendono non possono accettare è la difesa pubblica di azioni e pratiche esplicitamente illegali, ma per noi giuste e necessarie. Parliamo di sabotaggi, imbrattamenti, latitanza, clandestinità, blocchi, occupazioni e via dicendo. Oramai anche semplicemente far parte di un gruppo di compagni, frequentare assemblee e momenti pubblici, è un buon presupposto per finire nelle pagine di inchiesta.
Pm e sbirri stanno forzando la mano a più non posso per convincere l’opinione pubblica, ma specialmente i giudici, del nesso di causalità per cui chi si dice d’accordo a un fatto, un’azione o una scelta ne è in qualche modo responsabile. Non è importante che un fatto sia successo o che sia rivendicato, non servono neanche prove schiaccianti, è sufficiente un profilo indiziario (e per questo ci sono le centinaia di ore di intercettazioni e  pedinamenti) e che ci sia un gruppetto di compagni che sostiene che è giusto prendersela con i responsabili dello sfruttamento del pianeta.
Anche per questo abbiamo organizzato la Fiera dell’editoria sovversiva a Cagliari a gennaio di quest’anno, per provare a difendere pubblicamente la pubblicistica e la propaganda sovversiva e indipendente. Visto il clima c’è da aspettarsi che alcuni di quelli che l’hanno organizzata o hanno partecipato se la ritroveranno nelle accuse delle prossime indagini.
Il momento
Un aspetto specifico, che capiremo col tempo che effetto produrrà, è il momento che è stato scelto per eseguire questi arresti. La fase 2 della lotta al Coronavirus.
Lo stato comunica in modo neanche troppo subliminale che non ci sono pause per la repressione, neanche quando il virus ammazza e l’economia rischia il collasso.
Anzi gli arresti vengono sfacciatamente spacciati come “necessari” in un momento di crisi come questo, in un noto giornale di Bologna si può infatti leggere: “proprio in questo senso le misure cautelari, sottolineano i carabinieri, assumono una strategica valenza preventiva volta ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, derivati dall’emergenza Coronavirus, possano insediarsi altri momenti di più generale campagna di lotta antistato”.
Che dire? La repressione non è certo una novità, e rischiamo che la ristrutturazione socio-economica post pandemia si fondi ancora di più sul controllo e la sicurezza. Effettivamente se lo Stato non dovesse riuscire ad elargire i finanziamenti che promette potrebbero aprirsi diverse crepe, quindi non stupisce il tentativo di portarsi avanti con il lavoro e cercare di “togliere di mezzo” i pericolosi sobillatori.
Viene arrestato chi durante l’epidemia ha scelto di non sottostare acriticamente alle misure di contenimento imposte, chi ha offerto solidarietà e non ha smesso di lottare neanche quando tutti erano chiusi in casa. Gli arresti di 7 persone giungono in prigioni strapiene dove il rischio del contagio è tutt’altro che superato. Alla faccia delle richieste di indulto e amnistia.
Questi che abbiamo esposto sono alcuni dei punti, scritti velocemente, che abbiamo rilevato nelle operazioni degli ultimi tempi, e in quest’ultima bolognese.
Ci sarebbe molto altro da dire e da approfondire, quello che vorremmo sottolineare maggiormente e su cui vorremmo rilanciare un dibattito e delle pratiche, è la difesa dello spazio di azione, di espressione e di conflitto.
Lo Stato con precisione e violenza sta colpendo tutte le realtà che propongono lotte, organizzazione orizzontale, solidarietà e un’idea di un mondo differente; per fare questo vengono utilizzati tutti i mezzi a disposizione per evitare che queste si possano rialzare in fretta. E purtroppo a volte, almeno in parte, ci riescono.
L’obiettivo neanche troppo nascosto è quello di addomesticarci, di chiuderci in una vita di casa e lavoro – e il lockdown è stato un buon banco di prova – in un mondo di sfruttamento e disuguaglianze.
Non sarà sicuramente l’ultima inchiesta, anzi viste le recenti abitudini questurili non dovremo aspettare troppo per la prossima. Le istituzioni sono decisamente più determinate e debellare il virus della ribellione, altro che covid.
Questi tempi ci parlano di mura e sbarre, di repressione e distanziamento, solo una buona dose di coraggio e determinazione ci può aiutare a superare questi ostacoli, o almeno spingere a provarci.
Esprimiamo la più totale solidarietà nei confronti dei compagni e delle compagne arrestate e indagate, rilanciamo la solidarietà e l’azione con le parole utilizzate per rivendicare l’azione di Monte Donato, fulcro dell’operazione “ritrovo”.
“spegnere le antenne, risvegliare le coscienze, solidali con gli anarchici detenuti e sorvegliati”.

Kuntra sa prepotentzia de s’istadu feus kumente s’ortigu*
Kasteddu,
Maggio 2020.
* Facciamo come la quercia da sughero, che nel corso dei secoli per proteggersi dagli incendi che imperversano
nelle torride estati sarde ha sviluppato una corteccia ignifuga, fatta appunto di sughero, che le permette di non
soccombere sotto il calore delle fiamme.
Così come le querce resistono agli incendi rigermogliando alle prime piogge autunnali, noi auspichiamo una
resistenza diffusa preparandoci al germogliare della ribellione.

https://roundrobin.info/2020/05/comunicati-in-solidarieta-ai-compagni-e-alle-compagne-di-bologna/

Genova – Solidarietà ai compagni e alle compagne di Bologna

Per questa occasione è stato il PM Stefano Dambruoso a firmare l’ennesima operazione anti-anarchica denominata “Ritrovo” nella città di Bologna, accompagnata dagli sgherri del Ros.

Sono in totale 12 le compagne e i compagni (di cui 7 in carcere e 5 con l’obbligo di dimora e firma quotidiana) accusati di vari reati tra cui l’immancabile 270bis.

Quello che questa volta risalta di più agli occhi di chi legge e che la stampa di regime non fa neanche finta di celare, è il motivo contingente da cui scaturiscono gli arresti: questi individui hanno sostenuto e divulgato le lotte che i detenuti stanno conducendo dall’inizio dell’emergenza Covid 19 per non veder ulteriormente annichilito il loro diritto a non crepare in quella trappola per topi che sono le carceri italiane.

E come osano questi anarchici scendere in strada, infischiandosene delle restrizioni causa coronavirus, ostinatamente e senza aspettare il beneplacito di masse e movimenti, per esprimere solidarietà e passione per la libertà, quando ormai la maggior parte della popolazione è ridotta ad un gregge obbediente e terrorizzato dal lavaggio del cervello mediatico.

Non sia mai che continuino a supportare attivamente queste proteste che hanno da subito mostrato la loro potenzialità di conflitto, non perché effettivamente mediazione non ve ne sia stata o non si aspiri ad obiettivi intermedi (amnistia, indulto, scarcerazioni), ma per il loro carattere spontaneo e dirompente, il loro essere una lotta per la sopravvivenza stessa, condotta da uomini e donne già portati allo stremo e disposti, almeno per una volta, a giocarsi il tutto per tutto.

Non sia mai che il gusto di lottare per i propri bisogni e desideri si contamini e si diffonda.

E allora questi anarchici è meglio incarcerarli preventivamente e strategicamente, levarli di mezzo in vista di possibili conflitti futuri.

Sarebbe ovvio presumere che questa tensione sociale sia probabile (per noi auspicabile) e incalzante visto il giogo sempre più pesante dal punto di vista del controllo, della repressione delle voci che non si conformano, della stretta al collo dell’economia… purtroppo rileviamo con sconcerto che più il regime alza l’asticella più il popolo si attrezza per sopportare.

Quando tutte le teste sono chine è più semplice, per chi ci vuole dominare, individuare e colpire quelli che la alzano.

Fortunatamente gli anarchici non la pensano alla stessa maniera, le passioni non possono essere né imprigionate né dominate, volano alto e quando meno ce lo si aspetta, cadono, come fulmini a ciel sereno, sulla testa del nemico.

 

SOLIDARIETÀ A TUTTE LE COMPAGNE E I COMPAGNI ANARCHICI NEL MONDO!

FUOCO ALLE GALERE!

 

Alcun* compagn* di Genova

Sai che Ritrovo…

E i cani sciolti escono fuori dal gregge escono fuori come schegge

e chico puoi giurarci, quando occorre esco fuori legge

perché devo svoltare in tempi duri

seguo la mia idea visto che ancora oggi come ieri

Sangue Misto, Cani sciolti

 

Ci risiamo. L’anno 2020 sarà ricordato come l’inizio dell’epoca del contagio, ma non poteva farsi mancare l’ennesima operazione repressiva contro alcune individualità anarchiche. Lo scenario questa volta è Bologna: sette fra anarchiche e anarchici dispersi nei carceri di Piacenza, Vigevano, Ferrara e Alessandria e altri cinque colpiti da misure restrittive quali obbligo di dimora nel comune di residenza, firme quotidiane in qualche merda di caserma e rientro notturno nelle proprie abitazioni. L’operazione poliziesca, denominata ”Ritrovo”, ruota attorno alla fantomatica accusa di associazione sovversiva con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, il famoso 270bis. Questa accusa ormai è usata a grappoli – come le bombe lanciate a suon di democrazia da qualunque Stato su gente inerme – contro gli anarchici negli ultimi anni. Gli altri reati contestati sono istigazione a delinquere, deturpamento, imbrattamento, danneggiamento e incendio.

In sostanza l’Inquisizione parte da un fatto: l’incendio di alcune antenne delle telecomunicazioni nel dicembre 2018 nel bolognese per aprire un’inchiesta per terrorismo. Da qui i noti spioni, con le solite tecniche investigative, cercano di ricamare una storia che giustifichi vari psicoreati di orwelliana memoria. Come avvenuto in passato, rapporti di affinità e di solidarietà divengono il sostegno per cercare di devastare le vite a individui che non hanno mai nascosto il loro odio viscerale per l’autorità.

Di questa indagine dai contorni come al solito fumosi, il fulcro centrale non è il vuoto gergo repressivo fatto di fantomatiche associazioni terroristiche, ma la volontà di potenza nel colpire duramente chi ha delle idee sovversive. Ed è qui che il potere vuole zittire chi è refrattario a rassegnarsi ad un vita fatta di oppressione e sfruttamento, dove l’era della tecnica la rende apparentemente incontrovertibile. Chi ha una coscienza, cioè quell’incontro meraviglioso fra intelligenza e sensibilità, come può non odiare i lager di Stato chiamati CPR e tutti quelli che sostengono l’annientamento umano? Chi riflette sul circostante, come può non riconoscere che cavi, telecomunicazioni e flussi di energia aiutano inesorabilmente questo mondo dell’idiozia e del rincoglionimento totalitario, alienando la maggior parte delle persone e devastando quello che rimane di naturale? Chi vuole diffondere le proprie idee contro una vita obbligata e fatta di stenti perché non dovrebbe scagliarsi contro questo mondo nella sua totalità? Come possono degli individui che vedono il carcere come discarica sociale, non lottare per la fine della segregazione ovvero farla finita con ciò che è e con ciò che è Stato? Come non riuscire a vedere con i propri occhi la responsabilità delle condizioni sociali imposte nel diffondersi di un’epidemia?

Quando uno spirito libero comprende che un sentito di libertà inizia col dissenso verso le atrocità del presente diviene un problema per chi domina. La critica radicale si manifesta intraprendendo un viaggio che contiene il crimine di tutti i crimini: un mondo senza dominio. Chi ha una passione senza misure viene trattato da criminale, a cui si imputano una serie di fatti accaduti per toglierselo di torno.

Nella neolingua giuridica lo scrivere e diffondere l’idea diviene terrorismo e istigazione a delinquere. Tutto questo fa parte del rapporto sociale chiamato Stato. Nessun vittimismo potrà scalfire che il ruolo storico della burocrazia è un meccanismo di guerra verso qualunque indesiderabile per difendere gli scaffali della merce e la tecnica impiegata. In sostanza, difendere i privilegi dei ricchi da un mondo di povertà agonizzante.

Se riconosciamo che la meschinità si accompagna prepotentemente allo squallore, dove la miseria esistenziale è legata alla mercificazione di ogni aspetto relazionale, in cui la devastazione della terra è sovvenzionata dalle protesi tecnologiche, mentre la bruttura filosofica supina al potere fa rima con la banalità artistica da streaming, non possiamo che riconoscersi solidali e complici con chi si espone per le proprie idee, così tanto pericolose da essere ingabbiate. Se viene repressa un’idea di libertà intesa come assenza di limiti, spezzare le catene del potere per puntare a qualcosa di inconoscibile è un atto di sensibilità profonda che non riguarda solo le anarchiche e gli anarchici arrestati a Bologna (senza dimenticare tutti i ribelli richiusi e sorvegliati), ma che tocca tutte quelle persone che non si rassegnano al mutismo e all’immobilismo.

Visto che oggi questo mondo è come ieri, non possiamo arrenderci al virus della paura anche se la tecnologizzazione delle vite, l’apparente assolutismo della polizia e del denaro, potrebbero calmare anche gli spiriti più indomiti. Non esiste una via di mezzo fra l’arrendersi alla paura o distruggerla. Donarsi all’imprevisto e ai propri sogni è un’allettante possibilità per non rimanere ingarbugliati con il sangue agli occhi. Un modo alquanto caloroso anche per sostenere la liberazione di tutte le ribelli e i ribelli sepolti vivi nelle gabbie sta anche nell’interrogarsi su come nuocere a questa società e su come attraversare l’ostilità verso ciò che la propaga.

Gli svariati attacchi alle strutture del dominio che spesso infuriano la normalità mortifera non ci parlano proprio di questo? E le minacce del potere di far tacere le voci che sostengono apertamente la rivolta non ci fanno intendere che qualunque di queste grida potrebbe essere strozzata da una catena?

https://csakavarna.org/?p=5049

Spagna – Secondo numero di “Madrid Cuarentena City”

Madrid cuarentena city 2 (pdf)

Secondo numero di “Madrid Cuarentena City”, metà di aprile, pubblicazione per la guerra sociale in tempi di stato di allarme

In questo numero:

-Andrà tutto bene

-Lavoro, produzione e consumo. La ruota dello sfruttamento del lavoro continua

-La solidarietà come arma

-La città: terreno di coltivazione per malattie e controllo sociale

-Da quel fango a questa melma

-Chiamata per estendere l’occupazione: “Occupa la quarantena”


Andrà tutto bene

Andrà tutto bene.
“E’ la storia di un uomo che cade da un edificio di 50 piani
Per calmarsi mentre cade nel vuoto non smette di ripetersi:
Fin qui tutto bene.
Fin qui tutto bene.
Fin qui tutto bene…

Ma quel che conta non è la caduta, è l’atterraggio.
Come nella metafora del film francese “L’Odio”, viviamo in un mondo che era stato condannato al disastro. La continua distruzione degli ecosistemi per estrarre le materie prime, il degrado sistematico della crosta terrestre a causa delle monocolture e dell’agroindustria, l’espulsione o l’annientamento di specie, la trasformazione degli oceani in letamai, il danno irreversibile allo strato di ozono… hanno avuto un progresso esponenziale negli ultimi anni. Ci hanno portato verso una più che evidente trasformazione, in peggio, della vita sulla terra.

Allo stesso tempo, abbiamo generato società annichilatrici del diverso, nemiche del rischio e dell’avventura. Perpetuatrici di gerarchie e autorità, schiave di un sistema economico che pone il flusso dalle merci sopra ogni altra cosa. Il profitto come unica ideologia. In cui il virtuale si impone sul reale. La simulazione sull’esperienza.

Nelle ultime settimane, sono state lanciate campagne in luoghi come l’Italia o la Spagna dove ax bambinx è stato chiesto di disegnare poster con un arcobaleno e il messaggio “todo va a salir bien” o “andrà tutto bene” per poi appenderli su balconi o edifici pubblici. Purtroppo, questo messaggio innocente e illuso implica compiacenza con tutto quello che di prima, un desiderio di un ritorno ad una realtà autodistruttiva per le persone e deleteria per il nostro ambiente.

E tutto questo lo abbiamo accompagnato con un’autoincriminazione, considerando gli individui come agenti colpevoli responsabili della trasmissione di un virus, quando è chiaro che le malattie non si trasformano in pandemie per i comportamenti di alcune persone, sono necessarie, e ovviamente ci sono e ci sono state, una serie di condizioni infrastrutturali (come il sovraffollamento nelle grandi città, ad esempio), ambientali, di movimento, ecc.

Assumiamo, quindi, gli appelli in tono paternalistico e patriarcale, a restare a casa per il nostro bene e per il bene degli/delle altrx. Ma quando ci si proibisce di andare per strada da solx, o con le persone con cui condividiamo una casa, si sta rispondendo a criteri medici o di ordine pubblico?

Nel frattempo, battiamo le mani dai balconi e appendiamo dei cartelli… ma forse non andrà tutto bene. È anche possibile che qualsiasi cosa facciamo non andrà bene. Le possibilità di recupero del pianeta sono infinite, non è detto, tuttavia, che in questo risorgere dalle ceneri possiamo continuare ad esistere come specie. Ma non ci negheremo il piacere di goderci questo viaggio, anche se è l’ultimo.
Ci batteremo, combatteremo, sperimenteremo, immagineremo… Segnalando e colpendo x responsabili di
questa realtà e allontanandoci dalla sua perpetuazione con le nostre pratiche.

Un altro mondo è possibile, dicevano i classici slogan di sinistrorsi, un altra fine del mondo è possibile, è lo slogan che non abbiamo altra scelta che adottare, e lo facciamo con passione. Moltx senza speranza, ma con la fiamma negli occhi di quando sei così vicino da poter guardare l’abisso.


Lavoro, produzione e consumo: la ruota dello sfruttamento del lavoro continua.

Questi sono tempi nuovi. Mai prima d’ora in Spagna avevamo vissuto uno stato di allarme che controllasse i nostri movimenti con la polizia e i militari per le strade. Ma, sebbene questa realtà sia nuova, molte di noi sentiamo un canto di sirena che ci risulta familiare, un canto che, se seguito, ci porterà alla rovina: la chiamata al lavoro. Ed è il capitalismo che intona questo canto.

Molte volte nel corso della storia, il Capitalismo ci ha dimostrato la sua capacità di adattarsi e riconfigurarsi di fronte ai grandi eventi che possono verificarsi. Ed è difficile pensare ad eventi più grandi di quelle che stiamo vivendo attualmente: una pandemia mondiale che ha paralizzato l’economia globale in poche settimane.

Ma il Capitalismo non si è spaventato, ha deciso di fare ciò che gli riesce meglio per cercare di far sì che tutto continui come sempre. Ha deciso di mandare noi povere a morire, affinché le ricche rimangano ricche. Ancora una volta ci ha mostrato il rapporto che abbiamo noi (sfruttate) con i nostri capi (capitale), rendendo la cosa più evidente. E questo è un rapporto parassitario di sfruttamento e di dominio, che ruba il nostro tempo di vita, quando non ce la strappa via letteralmente, per le briciole di quello che produciamo.

Questo rapporto si materializza nelle misure che sono state adottate. Il confinamento ha due curiose eccezioni: lavorare e comprare; cioè produrre e consumare. Giusto le due azioni necessarie affinché la ruota continui a girare, in modo che le nostre sfruttatrici continuino ad accumulare ricchezza. Ci hanno rinchiuse tutte in casa durante il primo fine settimana, ed il lunedì ci hanno obbligato ad andare a lavorare. Ci hanno fatto ammassare in metropolitana, contagiandoci le une con le altre, diffondendo la pandemia tra le povere, mentre loro rimangono al sicuro nelle loro ville.

È vero che le misure si sono estremizzate rispetto a quel momento. Hanno scelto le attività imprescindibili affinché, una volta contenuto il virus, tutto possa tornare alla normalità il prima possibile. Il resto, a telelavorare a casa. Così non dimenticheremo che il nostro tempo è loro, e non possiamo disporne a nostro piacimento.

Rischiamo la nostra salute e la nostra vita arricchendo gli altri, le imprenditrici.
Lavoriamo in condizioni di lavoro terribili e per salari ridicoli.
Siamo noi che sosteniamo il loro mondo. Senza di noi non esisterebbero.

Combattiamo contro lo sfruttamento del lavoro salariato. Ruba alla tua azienda, praticare l’assenteismo dal lavoro, il sabotaggio, organizza scioperi, prenditi cura delle tue compagne e fotti i tuoi capi.
Tutto quello che hanno ce lo hanno rubato e lo rivogliamo indietro.


Da quel fango a questa melma.

Volti di panico, impotenza o incredulità. Grida strozzate. Telecamere in movimento. Filmini casalinghi. Sbirri in uniforme che umiliano, insultano, abusano, picchiano…
Un rapido sguardo alle reti sociali, a youtube e anche alla stampa “seria” ci lascia un campione del circo degli orrori con cui i bracci armati del potere ci stanno dilettando. Con particolare enfasi nei quartieri più impoveriti e verso le corporalità più indifese.

Tristemente famosi sono già gli abusi quotidiani in quartieri come Lavapiés a Madrid o San Francisco a Bilbo. Ma ora andiamo a passeggiare attraverso un campionario del degrado e del controllo meno sottile al di fuori dei nostri confini. Supponendo, naturalmente, che questo sia solo il volto più duro della democrazia, che quando il monopolio dell’uso della forza è posto nelle mani dello stato, quando l’uso della violenza è legittimato, sia dal punto di vista giudiziario che etico, solo da parte dei pistoleri del potere, impunità e abusi sono all’ordine del giorno.

Militari che pattugliano le strade, poteri speciali concessi a presidenti (come quello ungherese, che è autorizzato da ora a legiferare senza il parlamento). Diffusione smisurata di mezzi di videosorveglianza (170.000 a Mosca), sistemi elettronici per consentire o negare l’uscita e l’entrata in casa (Cina) o la localizzazione permanente attraverso il cellulare come in Israele, una misura che avremo presto anche qui attraverso l’applicazione contro il coronavirus e la cessione dei dati dalle antenne delle compagnie telefoniche all’INE [Istituto Nazionale di Statistica, ndt].

“Se mi capiscono con le buone, bene; altrimenti mi hanno dato il potere in modo che lo capiscano con le cattive”. Con questa frase il capo della polizia argentina ha iniziato la campagna pro-confinamento, che include pestaggi (con ragazzinx di 12 anni come possibili protagonisti), umiliazioni varie (flessioni, danze ridicolizzanti), ecc. Tutto questo documentato in video disgustosi, come in altri paesi dell’America centrale e meridionale. Nel caso dell’Ecuador è stata la stessa polizia a rilasciare immagini in cui aggrediscono con fruste, bastoni o cinture i passanti, con lo scopo di spaventarli.
Ancora più dure, forse, le parole del presidente filippino. Che, fucile d’assalto in mano, ha assicurato che si sarebbe sparato per uccidere contro chiunque avesse violato la quarantena.
In India, i lavoratori vengono spruzzati con insetticidi. Gas e ancora bastoni in Kenya (dove è riportata perlomeno la morte di un ragazzino di 12 anni).
In Turchia, escluderanno dal rilascio di 10.000 prigionierx tuttx gli/le accusatx di crimini terroristici (prigionierx politicx, in pratica).
In Russia, il rilascio di 230.000 persone è stato sospeso temporaneamente, e allo stesso tempo è stato sospeso il servizio di inoltro pacchi nell’intero paese, il che lascia x prigionierx in una situazione di totale impotenza.

Tutti questi pezzi di infamia, senza contare la violenza che di per sé questo sistema sta esercitando contro la maggior parte degli abitanti del pianeta, danno un resoconto del posto che pretendono che occupiamo nelle società che ci impongono, di fatto, in molti di questi paesi i cadaveri iniziano ad ammucchiarsi sui marciapiedi.

… A volte ti fa venire voglia di tirar fuori le katane.

https://roundrobin.info/2020/05/madrid-cuarentena-city-n2/

Roma – Insieme nel cuore della lotta

Tra gli atti a sostegno dell’operazione repressiva del 13 marzo, la Procura di Bologna dichiara apertamente la necessità di togliere di mezzo le persone disposte a lottare e di farlo preventivamente, in considerazione dell’attuale momento storico in cui tensioni sociali potrebbero scatenarsi in tutto il paese.

Le accuse rivolte a 12 compagni/e sono istigazione a delinquere, danneggiamento, imbrattamento e incendio, nel quadro di un’associazione con finalità di terrorismo o eversione dell’ordine democratico. Anche quella Procura è convinta che bisogna vivere di miseria e di carcere, e così altre 7 compagne e compagni sono detenuti e altri/e 5 hanno l’obbligo di dimora e di firma.

Descrivere chi vive di solidarietà come “istigatore” non rappresenta solamente un pesante capo di imputazione dal punto di vista di anni di carcere da richiedere. La figura dell’istigatore fa emergere l’ennesimo tentativo manipolatorio dello Stato. La responsabilità di ciò che avviene all’interno di qualsiasi luogo di reclusione, così come nella società tutta, risiede esclusivamente nelle scelte politiche dei vari governi. Chiunque viva sulla propria pelle lo sfruttamento, l’impoverimento, l’esclusione, il pericolo della propria incolumità causata proprio da quelle stesse politiche, sa bene verso chi rivolgere la propria rabbia e non ha certo bisogno di suggerimenti terzi. Lo ha ben dimostrato l’immediata risposta delle persone detenute all’irresponsabile e cinico disinteresse dello Stato sulla gestione dell’emergenza Covid, con le spontanee rivolte di marzo dentro le carceri e le proteste ancora in corso. Così come lo hanno sempre dimostrato le rivolte avvenute all’interno dei centri di detenzione per immigrati.

Da due mesi ci sono rivolte nelle carceri di tutto il mondo perché le persone detenute non accettano di essere condannate al contagio del Covid nel contesto atroce di privazione della libertà.

C’erano Elena, Leo, Zipeppe, Stefi, Nicole, Guido, Duccio, Martino, Otta, Angelo, Emma e Tommi davanti le mura di tutte le carceri?

Probabilmente sì. Tante Elena, Leo, Zipeppe, Stefi, Nicole, Guido, Duccio, Martino, Otta, Angelo, Emma, Tommi e tante/i noi.

La lotta per un mondo giusto, la lotta per la libertà, la lotta contro ogni forma di autorità, non è “istigazione” bensì solidarietà ed è, e sempre sarà, patrimonio di tutti e tutte noi.

In un mondo di muri, droni, guerre, segregazione razziale, violenza di genere e sfruttamento c’è chi sceglie da che parte stare.

SIAMO CON VOI

LIBERI TUTTI LIBERE TUTTE ORA

Rete Evasioni

https://ilrovescio.info/2020/05/14/due-testi-da-roma-in-solidarieta-con-gli-arresti-di-bologna/

Roma – MERDE – CESSI – CHIAVICHE

Queste sono le parole che abbiamo sentito risuonare in questi ultimi mesi dalle bocche di numerose familiari di persone detenute, riferite per lo più all’operato vigliacco e vendicativo di giudici, magistrati, ministri e viceministri operanti nella sfera della sorveglianza, della repressione, della reclusione. Della “Giustizia”, insomma… che in questo periodo di emergenza-Covid, ha preferito mostrare il pugno di ferro invece di mettere in atto misure adeguate a preservare veramente la vita di chi si trova in carcere.

Oggi, più di sempre, ci uniamo a questo coro.

Oggi, che lo Stato ci strappa, arrestandoli, altri 7 tra compagni e compagne, i nostri cari.

Oggi, che la procura di Bologna rende operativi dei mandati di cattura ideati, ed eseguiti in piena notte, dai Reparti Operativi Speciali dei carabinieri, e impone ad altri/e 5 l’obbligo di dimora a Bologna, rientro notturno e firme quotidiane.

L’inchiesta ripercorre il modus operandi di ormai decine di altre in passato, il ciclico e strumentale utilizzo dell’articolo 270 bis, l’associazione con finalità di terrorismo, che tutto giustifica. Soprattutto i mezzi impiegati, i soldi spesi per farlo, e i tempi d’indagine prolungati.

Questa inchiesta infatti è un po’ datata (sembra prendere avvio nel 2018)… ma una nota della procura ci chiarisce il perché, nonostante la richiesta delle custodie cautelari fosse depositata nei loro uffici già dal luglio 2019, proprio ora viene accordata.

Non è nostra abitudine citare certe fonti, ma questa volta ce la sentiamo, ché questa nota ci suggerisce un paio di considerazioni: 1) […] “Le evidenze raccolte in questo ultimo periodo, caratterizzato dalle misure di contrasto all’emergenza epidemiologica del Covid-19, hanno evidenziato l’impegno degli appartenenti al sodalizio[…] ad offrire il proprio diretto sostegno alla campagna “anti-carceraria”, accertando la loro partecipazione ai momenti di protesta concretizzatisi in questo centro” (Bologna).

Come spesso accade, è la generosità – e l’impegno, certo -, delle compagne e dei compagni che viene punita.

Non ci fossero state le rivolte a rivendicare vita e dignità, e le iniziative fuori a sostenerle, la “questione carcere” e le morti, pesanti come macigni che si porta dietro, sarebbero rimaste tombate nel silenzio.

2) […] “In tale quadro, l’intervento, oltre alla sua natura repressiva per i reati contestati (ma ciò non dovrebbe avvenire a processo concluso? Cioè una volta eventualmente accertate le responsabilità?), assume una strategica valenza preventiva volta ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturibili dalla particolare descritta situazione emergenziale possano insediarsi altri momenti di più generale “campagna di lotta antistato” oggetto del citato programma criminoso di matrice anarchica. ” […]. E la valenza preventiva connaturata a qualsiasi misura cautelare, non dovrebbe riferirsi al pericolo di reiterazione di un qualche reato, un po’ più specifico di un opinabile “istigazione” al limite del “delitto d’opinione”?

Certo, se la custodia cautelare è già considerata come repressione dei reati contestati, è evidente che si può affermare senza problemi che in questo già claustrofobico momento bisogna prevenire, anche tramite la privazione della libertà, l’azione di chiunque si permetta di mettere in discussione la natura e le scelte dello stato (che nel mentre ha mostrato cosa – e chi – è sacrificabile) … come se non fossero esse stesse a provocare la tensione sociale.

Oggi più di sempre possiamo solo dire di essere orgogliose/i di avere delle compagne e dei compagni che anche nei periodi più difficili non rinunciano a battersi per ciò che si ritiene giusto! Contro ciò che risulta inaccettabile! E che sempre più persone arriveranno a comprendere volenti o nolenti, non perché lo dicono gli anarchici, ma perché, come questi tempi hanno reso evidente, lo stato non fa sconti a nessuno.

In quanto alla formula del terrorismo, a onor del vero usata e abusata nel corso del tempo, e sempre spendibile strumentalmente nel teatrino mediatico, non sprechiamo parole.

Ad Elena, Stefi, Nicole, Zi peppe, Guido, Duccio, Leo, rinchiusi nelle varie sezioni penitenziarie di Alta Sicurezza adibite ai sovversivi e alle sovversive; ad Emma, Otta, Martino, Tommi, Angelo, colpiti dalle altre misure restrittive, va tutta la nostra solidarietà, il nostro sostegno, il nostro affetto.

LIBERE SUBITO, LIBERI SUBITO!

Roma, 13 maggio 2020.

NED-PSM

https://ilrovescio.info/2020/05/14/due-testi-da-roma-in-solidarieta-con-gli-arresti-di-bologna/

Chiaro e tondo. Sugli arresti di Bologna

Sette arresti e cinque obblighi di dimora nel Comune aggravati da rientro notturno e quattro anche da firme quotidiane. Questo l’esito dell’operazione Ritrovo, condotta dai Ros e dalla procura antiterrorismo di Bologna contro alcuni compagni anarchici, nella notte tra martedì 12 e mercoledì 13 maggio. L’inchiesta ricalca un copione ormai logoro, ciclicamente rispolverato negli ultimi vent’anni. Un’associazione sovversiva con finalità di terrorismo – art. 270bis – contestata ai soli arrestati, condita da un certo numero di reati e condotte specifiche che vanno dall’istigazione a delinquere, al danneggiamento e deturpamento fino all’incendio di un ripetitore, aggravati dalla finalità eversiva e distribuiti, non sappiamo ancora bene in che modo, tra i vari indagati.

Non avendo notizie più precise sull’inchiesta e sulle ordinanze di misure cautelari ci limitiamo per ora a sottolineare le particolarità relative all’emergenza coronavirus di quest’operazione. Sul fronte penitenziario i compagni e le compagne sono stati immediatamente trasferiti in carceri con circuiti di Alta Sicurezza, senza passare e sostare per qualche settimana, come normalmente avviene, in carceri vicine al luogo dell’arresto. Una scelta che immaginiamo sia dettata da ragioni di logistica penitenziaria legate non solo a ragioni sanitarie ma anche a preoccupazioni di ordine pubblico. Guarda caso nelle dichiarazioni della Procura si fa espressamente riferimento alla partecipazione di questi compagni ai recenti conflitti scoppiati nelle carceri italiane in seguito all’epidemia da coronavirus. Ma vediamo più precisamente cos’altro dice la Procura bolognese di quest’inchiesta rispetto all’attuale emergenza epidemiologica:

«In tale quadro, l’intervento, oltre alla sua natura repressiva per i reati contestati, assume una strategica valenza preventiva volta ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturiti dalla particolare descritta situazione emergenziale, possano insediarsi altri momenti di più generale “campagna di lotta antistato” oggetto del citato programma criminoso di matrice anarchica». Dichiarazione che tradotta dalla lingua di legno utilizzata dagli scribacchini dei tribunali vuol più o meno significare:  coi tempi che corrono è opportuno toglierci dai piedi questi irriducibili rompiscatole, che siamo certi non perderanno occasione per tentare di ricordare in vario modo le responsabilità delle autorità statali e promuovere lotte contro di queste.

Parole che, nell’esprimere le notevoli e legittime preoccupazioni degli uomini di tribunale per i tempi che verranno, non tentano in alcun modo di dissimulare la funzione preventiva di quest’inchiesta e del loro lavoro in generale. Una funzione che raramente ci sembra sia uscita con tanta chiarezza dalla bocca del nemico. Se ancora ci fosse qualche sincero democratico in grado di leggere con attenzione queste righe avrebbe sicuramente di che indignarsi, a maggior ragione se poi sapesse che, a quanto pare, quest’inchiesta era pronta e giaceva ormai da diversi mesi in un cassetto di qualche procuratore. A noi queste parole sembrano invece ribadire che il futuro prossimo venturo sarà pieno di rischi e difficoltà come di possibilità e occasioni di lotta . E del resto ben difficilmente queste ultime possono viaggiare da sole senza la compagnia dei primi.

Per completare il quadro delle particolarità post-Covid di quest’operazione segnaliamo che venerdi prossimo si svolgeranno gli interrogatori di granzia dei comapgni arrestati in videoconferenza.

Questi gli indirizzi cui scrivergli e mandare un saluto:

Giuseppe Caprioli, Leonardo Neri
C. R. di Alessandria “San Michele”
strada statale per Casale 50/A
15121 Alessandria

Stefania Carolei
C. C. di Vigevano
via Gravellona 240
27029 Vigevano (PV)

Duccio Cenni, Guido Paoletti

C. C. di Ferrara
via Arginone 327
44122 Ferrara

Elena Riva, Nicole Savoia
C. C. di Piacenza
strada delle Novate 65
29122 Piacenza

Chiaro e tondo. Sugli arresti di Bologna

Dietro l’angolo pt.6 – Macchine, sensi e realtà

QUALCHE IPOTESI SU COVID-19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO

Imparare a convivere con il virus. Questo il leitmotiv che ci viene ripetuto oramai da settimane.

Il peso specifico di un’epidemia non dipende solo dalle peculiarità del virus, dai suoi tassi di contagiosità e letalità, ma in buona parte dagli effetti che queste provocano all’interno di una determinata organizzazione sociale e da come quest’ultima decide di farvi fronte.

Imparare a convivere con il virus va dunque ben al di là di quell’insieme di pratiche e comportamenti utili, a livello strettamente epidemiologico, per evitare di contagiare ed essere contagiati. Quello che dobbiamo apprendere sembra piuttosto essere, l’abitare in un mondo a misura di pandemia, dove la misura non verrà certo stabilita per salvaguardare la salute collettiva.

Un mondo che prenderà forma piuttosto attorno alla priorità di limitare i danni e i fastidi possibili che emergenze di questo tipo possono arrecare al capitalismo e al funzionamento dello Stato. Tanto rispetto all’epidemia in corso, in una prospettiva più o meno breve a seconda del numero di ondate e della loro durata, che rispetto alle pandemie prossime venture, visto che le cause che hanno originato e favorito lo sviluppo di questa non verranno certo rimosse, e sono da annoverare nell’elenco di quei danni e fastidi da limitare di cui sopra.

Le nostre vite dovranno adattarsi a queste esigenze. Una logica di compatibilità che non nasce certo con il Covid19 ma è da tempo il cuore delle politiche relative alla cosiddetta emergenza climatica.

In cosa concretamente consista questa compatibilità ce lo mostrano ad esempio le ipotesi geoingegneristiche di mitigazione e adattamento all’emergenza climatica. La Gestione della Radiazione Solare (Srm), ad esempio, ossia l’iniezione tramite aerosol di solfati nell’atmosfera per deflettere parte dei raggi solari nello spazio e contrastare così il surriscaldamento globale. Senza entrare nel merito della fattibilità di simili ipotesi e delle imprevedibili e tragiche spirali di conseguenze che potrebbero innescare, qui preme sottolineare come la soluzione per far fronte a un cambiamento climatico sia quella di cambiare in maniera pianificata il clima: non potendo riconfigurare le politiche economiche alla base dei problemi ambientali si sceglie di riconfigurare materialmente il pianeta. Per quanto particolarmente emblematici non è necessario soffermarsi su macro progetti dall’aspetto vagamente fantascientifico, la stessa logica regola il funzionamento di strumenti molto più familiari, come i condizionatori presenti in molte abitazioni in grado di creare ambienti domestici a misura di surriscaldamento globale, senza contrastare ma anzi aggravando le cause del problema.

All’interno di questo quadro la vita, tanto nella sua essenza biologica che rispetto alle gradazioni di benessere materiale che vanno dalla mera sopravvivenza ai gradini più alti della scala sociale, dipenderà sempre più dal livello di artificializzazione che riuscirà a raggiungere.

Già da tempo nella retorica ufficiale c’è sempre meno spazio per l’idea di un miglioramento generale delle condizioni di vita da un punto di vista economico, sociale, culturale e tantomeno ambientale; l’unico progresso cui si accenna, per l’uomo come per il mondo in cui viviamo, e che in qualche modo fagocita tutti gli altri, coincide con il progresso tecnologico tout court.

Per questo per noi senso ha parlare di artificializzazione e pervasività tecnologica rispetto agli scenari presenti e futuri. Seppur il termine artificiale possa essere frainteso se viene opposto intuitivamente al termine naturale – mettendo in scena una contrapposizione difficile da districare riguardo al significato e alla sostanza delle attività umane – quando lo utilizziamo intendiamo un concatenamento di tecniche umane sempre più complesse che svuotano la vita individuale di capacità di autonomia, non potendo i singoli individui controllarne l’intero processo. Concatenamenti che costituiscono una sorta di ipoteca sulla propria libertà poiché legano la propria sopravvivenza a quella di una determinata organizzazione sociale.

Una condizione di dipendenza che rappresenta l’aspetto più critico della crescente pervasività tecnologica. Se dal cielo delle ipotesi geoingegneristiche in cui le entità statali che dovessero adottarle si autoattribuirebbero un ruolo di deus ex machina definitivamente necessario, abbassassimo lo sguardo verso gli aspetti più minuti della nostra vita ci accorgeremmo che una parte considerevole dei momenti in cui entriamo in contatto con il mondo, cioè dell’esperienza che facciamo nel nostro quotidiano, è filtrata attraverso tecnologie digitali, ed è lecito attendersi che di questo passo i nostri sensi saranno sempre meno in grado, da soli, di orientarci e guidarci nel mondo reale. Non è un caso se i sensori attraverso cui alcuni elementi – siano essi suoni, immagini, condizioni dell’aria, temperature etc.- vengono trasformati in dati, “catturati”e immagazzinati in rete, sono spesso paragonati alla vista, all’olfatto, all’udito e al tatto umani dato che costituiscono la base di quel processo di elaborazione delle informazioni e di apprendimento definito come Intelligenza Artificiale.

Un concetto, quello di intelligenza, che ormai da tempo non è più appannaggio esclusivamente degli esseri viventi e l’aggettivo smart è diventato una sorta di prefisso che accompagna, senza che nessuno ci faccia più caso, determinati dispositivi tecnologici e ambienti iperconnessi, come quello domestico o urbano, in grado di svolgere funzioni complesse elaborando attraverso algoritmi una mole consistente di dati. Associare questa facoltà a delle macchine è un tratto caratterizzante di quest’epoca che in passato ha suscitato non poche discussioni e critiche accese, e sarebbe interessate comprendere attraverso quali passaggi questa associazione, un tempo ricca di criticità, si sia normalizzata.

Alcuni suggerimenti utili possono forse venirci da un libro, «Macchine calcolatrici e intelligenza» scritto nel 1950 da Alan Turing che iniziava con la seguente domanda: «Propongo di considerare la questione: le macchine possono pensare?» e prosegue definendo quello che comunemente è conosciuto come il test di Turing, in cui un giudice, attraverso delle domande scritte, deve riuscire a riconoscere tra un certo numero di partecipanti un computer, programmato per cercare di convincerlo di essere umano. Alla metà del secolo scorso Turing ipotizzava che in cinquant’anni i computer sarebbero stati programmati così bene da riuscire ad ingannare 3 volte su 10 un interrogatore medio, dopo cinque minuti di domande. Ipotesi che a quanto sembra si sono rivelate abbastanza fondate e la costante crescita della capacità di elaborazione e apprendimento dei cervelli sintetici ha spinto molti a vedere nei risultati raggiunti dai computer in questo test, il criterio per rispondere affermativamente alla domanda iniziale. Sembra però che non fosse questa l’ottica dell’autore che nel prosieguo del suo testo scrive: «La domanda originale “le macchine possono pensare?” credo sia così priva di significato da non meritare alcuna discussione. Ciò nonostante, credo che alla fine del secolo l’uso delle parole e l’opinione generale delle persone informate sarà cambiata a tal punto che si sarà in grado di parlare di macchine pensanti senza aspettarsi di essere contraddetti».

Detta altrimenti, per Turing la possibilità di associare la facoltà del pensare a delle macchine non risiedeva nell’implementazione della capacità di calcolo delle stesse e nella loro capacità di ingannare un tot di volte il giudice del suo test; ma nel modificarsi del significato di parole come pensare o intelligenza fino a permettere di associarle alle macchine in grado di raggiungere determinate prestazioni.

Se alla capacità di pensare sostituiamo il concetto di vita, come ipotizziamo possa essere utilizzato tra vent’anni o forse meno? E non sono certo problemi di ordine linguistico quelli che ci poniamo. Se è la materialità del mondo e delle attività che caratterizzano le nostre vite a contribuire al significato di alcuni concetti e questi sono quindi una sorta di specchio in grado di aiutarci a capire come è organizzato il mondo in cui vengono utilizzati, le parole racchiudono altresì idee e tensioni, in grado di influenzare profondamente l’agire e modificare quindi la realtà. Idee che hanno una loro forza materiale.

Difficile valutare lo spessore e di quale materia sia fatto il filo che intreccia tra loro i concetti di vita, umanità e ambiente.

Tralasciamo – perché non meritano discussione, per dirla con Turing – le trame tessute dalle ipotesi accelerazioniste o transumaniste che individuano nell’artificializzazione dell’ambiente e della stessa vita biologica delle prospettive di liberazione. Le misure adottate per far fronte all’epidemia in corso promettono di assottigliare ulteriormente questo filo, aumentare ancor più il distacco fisico dalla realtà e accrescere quindi l’inadeguatezza delle nostre percezioni. L’isolamento sociale particolarmente rigido, vissuto nelle settimane di lockdown, minaccia a piccole o grandi dosi di durare nel tempo e anche quando questa pandemia potrà dirsi conclusa da un punto di vista epidemiologico, le nostre relazioni con gli altri esseri umani e con il mondo – i fondamenti della nostra esperienza e del nostro tentare di dar significato e intellegibilità a ciò che ci circonda – rischiano fortemente di non essere più quelle, tutt’altro che ottimali, dell’epoca pre-Covid. Perché nel frattempo quella parte di esperienza reale venuta meno sarà stata sostituita da un’esperienza mediata in misura e intensità crescente da dispositivi e infrastrutture tecnologiche digitali, in grado di offrire un ventaglio ampissimo di possibilità: dall’ottimizzare le nostre scelte quotidiane a livello nutritivo e ginnico, all’organizzare i nostri spostamenti nel modo più veloce e al contempo sicuro; dal permetterci di consumare una gamma di merci sempre più ampia attraverso un app, all’aiutarci a scegliere quali persone incontrare all’interno di safe zone relazionali; fino alla sostituzione tout court del mondo esterno attraverso il ricorso alla realtà virtuale o a quella aumentata e alla creazione di nuovi ordini di bisogni e desideri. Arrivando potenzialmente a colonizzare ogni aspetto della quotidianità.

Una colonizzazione in atto già da tempo, a cui quest’emergenza permetterà di fare notevoli salti in avanti, tanto da un punto di vista giuridico che infrastrutturale, forzando in breve tempo delle strettoie che con ogni probabilità avrebbero richiesto tempi più lunghi, – pensiamo soltanto alla rete 5G – specie in un paese come l’Italia che sotto questo profilo si trova certamente indietro rispetto ad altri. Non solo perché continuerà ad aleggiare, con una forza che non siamo in grado di prevedere, la minaccia di altre pandemie, ma perché nel frattempo la pervasività di questi dispositivi digitali sarà aumentata e una certa organizzazione della vita si sarà sedimentata.

Proviamo ora a soffermarci brevemente sulla sfera lavorativa. Una sfera che verrà profondamente riorganizzata dalla crescente automazione, in grado non solo di sostituire braccia e cervelli umani in un ventaglio molto ampio di attività ma anche di stravolgere i compiti e i comportamenti di chi non sarà espulso dall’ambito lavorativo. In attesa di vedere come e per quanti lavoratori lo smartworking diffusosi nelle ultime settimane diventerà permanente e quali conseguenze questo comporterà, un buon esempio di stravolgimento delle mansioni lavorative può essere quello del cosiddetto stoccaggio caotico con cui da tempo sono organizzati, da cervelli sintetici, i magazzini di Amazon e di altre aziende: i prodotti sono collocati sui vari scaffali non in base alla tipologia di merce, come farebbero probabilmente dei magazzinieri per memorizzarne meglio la posizione, ma in base al principio di ottimizzare i tempi – mettendo ad esempio vicini quei prodotti che più frequentemente sono spediti assieme – e gli spazi. Un ordine che non è assolutamente a portata d’uomo e che nel rendere i lavoratori del tutto dipendenti da elaborazioni algoritmiche, ne riduce le competenze e accresce la precarietà; dinamiche simili stanno iniziando a regolare, o promettono di farlo a breve, anche attività meno manuali, come quelle svolte negli uffici pubblici e nelle banche o negli studi legali e medici.

Esempi significativi del livello di condizionamento che l’automazione può arrivare ad imporre, a livello lavorativo, possiamo poi trarli dal controllo sulle cassiere adottato nella catena di distribuzione statunitense Target, dove un sistema automatico classifica come verde, gialla o rossa ogni operazione alle casse in base alla velocità e precisione. Una scala cromatica a cui sono legati stipendio e mantenimento del posto. Ancora più invasiva è la valutazione della performance emotiva effettuata nell’azienda giapponese Keikyu che misura la quantità e qualità dei sorrisi, dei propri dipendenti a contatto con il pubblico, attraverso software che controllano e interpretano i loro movimenti oculari e la curva delle loro labbra.

Una certa organizzazione della vita è in grado di sedimentarsi grazie alla raccolta e gestione di enormi mole di dati, di primaria importanza a livello economico e politico, e che permettono poi di implementare ulteriormente le capacità d’apprendimento di questi cervelli sintetici, che saranno così in grado di aumentare il ventaglio delle proprie funzioni e svolgere compiti sempre più complessi, in una dinamica capace quindi di autoalimentarsi.

Emblematica la discussione attorno alle nuove app di tracciamento in cui l’accento delle dichiarazioni governative è stato intelligentemente messo sulla loro non obbligatorietà. Una questione alquanto oziosa. Al momento, per i numerosi problemi tecnici che queste app di tracciamento sembrano avere, a partire dal fatto che non sono ancora pronte, l’introduzione del contact tracing sembra per lo più utile a fornire alle autorità una nuova figura di untore – chi sceglie di non scaricarle – cui attribuire la responsabilità di eventuali nuovi focolai. Ma una volta che applicazioni di questo tipo entreranno a far parte della quotidianità, e si saranno risolti i problemi di ordine tecnico, l’attuale non obbligatorietà risulterebbe alquanto aleatoria. Non solo perché potrebbe essere velocemente sacrificata, a livello legislativo, sull’altare della tutela della salute pubblica, ma soprattutto perché sarebbe facile renderle obbligatorie di fatto impedendo o limitando l’accesso a determinati luoghi e servizi a chi ne fosse sprovvisto. Come già accade in altri paesi più hi-tech e come alcuni, del resto, ipotizzavano sarebbe accaduto anche qui, quando a ridosso dell’inizio della Fase 2 si vociferava che la mobilità individuale sarebbe stata subordinata all’utilizzo di queste app. Discorso simile si potrebbe fare per una delle ultime new entry nel campo delle tecnologie “anti-Covid”: i braccialetti elettronici in grado per ora di di regolare “soltanto” il distanziamento sociale e che a quanto sembra hanno buone possibilità di entrare a far parte della nostra quotidianità. Ma l’esempio più lampante di obbligatorietà convergente è quello che quasi tutti portiamo già in tasca: lo smartphone. Per come sono organizzati i più svariati ambiti della vita, farne a meno risulta in molti casi estremamente difficile e anche quando è possibile richiede un notevole dispendio di tempo ed energie per elaborare strategie alternative.

Quella che stiamo tentando di tratteggiare è una tendenza che non si svilupperà certo in maniera piana e omogenea. All’incerta velocità con cui si realizzeranno le infrastrutture necessarie a rendere smart le città o i territori in cui viviamo si aggiungeranno fattori sociali e anagrafici a differenziare la diffusione di dispositivi digitali. E ci saranno poi ostacoli soggettivi, di coloro che rifiuteranno di delegare una parte più o meno consistente delle attività e scelte della propria vita a strumenti collegati in rete. Tentativi, individuali come collettivi, di sbarrare la strada a questa colonizzazione o perlomeno di utilizzare criticamente questi dispositivi indubbiamente importanti, sotto molteplici punti di vista, ma che da soli non hanno grandi possibilità di contrastare questi processi. Il rischio è anzi di convincersi e corroborare l’idea, ingenua e pericolosa, che la tecnologia si riduca a un insieme di strumenti che si possono decidere o meno di utilizzare, quando in realtà appare oggi come una fitta ragnatela che intrappola il mondo materiale, modificando le capacità percettive degli esseri umani, organizzando e regolando fette sempre più crescenti dell’approvvigionamento, della distribuzione e della produzione delle risorse su cui si basa l’esistenza umana. Le tecnologie digitali sono quindi un sistema di relazioni che contribuisce a dar forma alla realtà e alle nostre vite. Pensare di poterne semplicemente vivere al di fuori è come pensare di poter vivere al di fuori, senza esserne quindi profondamente influenzati, dal capitalismo.

Scrivevamo che ci sembra difficile valutare come si stiano intrecciando i concetti di vita, ambiente e umanità. Tra chi aspira a vivere in un mondo di liberi e uguali da un lato si corre il rischio di sottovalutare il problema, minimizzandolo o subordinandolo a priorità di altro ordine – sociale, economico, ambientale etc. – cui se ne affida automaticamente la risoluzione, o si rimanda piuttosto qualsiasi riflessione critica o iniziativa di contrasto a un indefinito domani, e se ne perdono in ogni caso di vista le specificità; dall’altro si rischia di assolutizzarlo, come se l’artificializzazione della vita non si intrecciasse e contribuisse ad approfondire le disuguaglianze sociali, come se questo processo avvenisse in un ambiente vuoto in cui il principale, se non l’unico, contrasto esistente fosse quello tra l’essere umano e quello macchinico. Una visione in cui è facile lasciarsi tramortire e catapultare in labirinti distopici in cui iniziative o lotte che nascono attorno ad altre problematiche risultano inutili e non possono che condurre a vie senza uscita.

A complicare ulteriormente il quadro il fatto che una necessaria prospettiva luddista risulta sempre più difficile, da molti punti di vista, senza un adeguato bagaglio di conoscenze tecnologiche.

Capire come difendere e ridare spazio a una certa idea e materialità, del mondo come dell’uomo, ci sembra quindi una questione estremamente complessa. In cui il necessario livello di attenzione, su un piano tanto riflessivo quanto pratico, al problema specifico dell’artificializzazione non può essere separato da quegli sforzi volti ad aprire attraverso altre lotte e conflitti delle brecce nell’organizzazione sociale della vita. Questione complessa ma centrale in una prospettiva rivoluzionaria che voglia ancora confrontarsi con la parola libertà in tutto il suo spettro di significati. Perché vivere in un mondo di liberi e uguali richiede che esistano ancora un certo tipo di mondo e di esseri umani.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Nord sud ovest est

Taglio netto

Il mondo inabitabile

 

Dietro l’angolo pt.6 – Macchine, sensi e realtà