“Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va”

Tratto da https://evasioni.info/2020/05/06/734/

Pubblichiamo questo estratto sul carcere tratto dall’opuscolo “Krino. Riflessioni sulla pandemia” allegato alla fine del testo.

Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va”

E’ a partire dal 7 marzo che abbiamo assistito a una delle più vaste rivolte delle carceri avvenute nella storia di Italia. È ormai un dato abbastanza accertato che la polizia (vedremo se con la complicità dello Stato), nei giorni successivi ha fatto delle spedizioni punitive dentro le celle, spesso lasciando i detenuti nudi in una pozza di sangue.

I fatti:

Tutto è cominciato a Salerno, dove la sospensione dei colloqui con i parenti, giustificata come misura per proteggere i detenuti, è stata la miccia che ha fatto scattare la rivolta. Sono circa in 200 a devastare un’intera sezione e ad accedere al tetto. Il giorno dopo da Modena, a Milano, a Pavia, a Roma e in moltissime altre carceri italiane, vi saranno incendi, occupazione di padiglioni, ostaggi e tutto ciò che può essere usato da un detenuto per cercare di cambiare la propria condizione. Uno scenario che in Italia non si vedeva da moltissimi anni, e difatti, come accade spesso quando si disabitua la mente, fanno più scalpore le rivolte dei moventi o, ancora peggio, dei morti (ovviamente dipende da che parte sono). Chissà; forse perché in Italia siamo abituati a vedere morire quei disperati che si dividono in due categorie: coloro che annegano e coloro che “se la sono andata a cercare”.

Tornando alle rivolte di quei giorni di marzo (7,8 e 9), il bilancio è pesantissimo: le rivolte si sono estese a quasi tutti i penitenziari del territorio nazionale e il numero dei morti fra i detenuti è di 13 persone, il tutto in 72 ore circa. Un susseguirsi così rapido di eventi probabilmente è stato mosso, se non si vuole credere alla narrazione della destra e di Salvini, da paura e disperazione dovuta a condizioni di vita indecenti: sovraffollamento, ricatti lavorativi e amministrativi, e trattamenti che la maggior parte delle volte non rispettano la dignità umana.

Le richieste dei prigionieri erano l’indulto e/o l’amnistia per coloro che avevano meno di 5 anni da scontare. Ricordiamo che in Iran sono state liberate circa 70.000 persone e anche nella non proprio democratica Turchia vi è stato un importante svuota-carceri.

Alcuni dati

Per capire meglio le carceri e i detenuti riportiamo alcuni numeri: al 30 aprile 2019 l’Italia ha 60.439 persone nei penitenziari, che significa circa 1 detenuto ogni 1000 abitanti.

I posti letto sono ufficialmente disponibili 50.511 (bisognerebbe sottrarre tutti gli eventuali in manutenzione), non andiamo oltre riguardo il sovraffollamento che è abbastanza evidente.

Chi c’è dentro queste strutture?

L’Italia è uno dei paesi in Europa dove si uccide meno, gli omicidi (prendiamo uno dei reati più gravi) sono calati tra il 2015 e il 2016, eppure il nostro paese è il primo dell’UE per aumento della popolazione detenuta tra il 2016 e il 2018.

Nel 2013 i detenuti per rapina erano il 28,9% dei casi, mentre quelli legati alle droghe il 38,8% che poi nel 2018 caleranno al 31,1%. La media europea comunque è del 18%. Anche qui non ci dilunghiamo nel dibattito sul ruolo del carcere e i consumatori di droghe, che forse riguarderebbe più una questione di salute che penitenziaria. Altra riflessione doverosa è notare come nel 2013 quasi il 70% della popolazione carceraria fosse dentro per questioni legate a droga, furti e rapine. Crediamo anche sia importante, anche se forse banale, ricordare che coloro che sono dentro per aver rubato non sono gli stessi che rubano migliaia o milioni di euro alla gente per vivere nel lusso… la maggior parte di questi è fuori. Dentro ci sono i poveri, a mostrare quanto quelle mura siano solo uno strumento di classe volto a contenere quelle “risorse umane” ritenute difettose in quanto non vivono (spesso per necessità) una vita scandita dai ritmi della produzione e del consumo. Non ci rimane che fare un’ultima riflessione a riguardo, e cioè che l’uguaglianza politica e civile non può che essere formale in una società fondata sulle disuguaglianze economiche: la legge criminalizza e punisce le condotte che quella parte di popolazione che vive in uno stato di disagio sociale o di deprivazione economica è costretta ad avere.

Altro e ultimo dato che riteniamo molto interessante, è che coloro che sono dentro senza una condanna definitiva rappresentano il 34,5% circa della popolazione carceraria anche se, stando alla Costituzione, si tratta di persone innocenti. Per trovare altri dati vi rimandiamo alla nota qui sotto.

Alcune riflessioni

Quindi tornando alle persone che chiedevano amnistia e/o indulto per coloro a cui rimaneva da scontare una pena inferiore ai 5 anni, contro di essi si è scagliata gran parte dell’opinione pubblica. Etichettandoli come dei possibili pericoli per la società (e vi rimandiamo ai dati appena mostrati per una riflessione) dimenticandosi, come spesso accade, che se oggi molte persone muoiono perché non hanno un posto in ospedale le responsabilità sono di altre persone. In più forse non si riflette che il vero pericolo per la società è non fare un decreto che svuoti in maniera più consistente le carceri, in quanto ad oggi sono più di 133 i positivi al virus dentro i penitenziari ma se si creano nuovi focolai ne risentiranno anche gli ospedali e le persone fuori.

Abbiamo assistito quindi a un dibattito praticamente unilaterale dove oltre a stigmatizzare queste persone, si giustificava la misura presa dell’interruzione dei colloqui come una misura di tutela nei confronti dei detenuti. Sarebbe buffo, se non fosse ipocrita, notare che è sempre nelle situazioni di emergenza che ci si preoccupa delle condizioni inumane nelle quali si vive o si lavora (dalle carceri agli ospedali o alle fabbriche), quando per tutto il resto del tempo si fanno tagli e ci si preoccupa di altro. Le carceri sono dei luoghi sovraffollati e dove vi sono scarse condizioni igieniche, rendendoli degli ambienti favorevoli per la propagazione dei virus. Si può comprendere una misura del genere solo se è accompagnata da un’amnistia o indulto, cioè un provvedimento che riduca la popolazione carceraria per tutelare la salute delle persone, solo se la si accompagna parallelamente con una informazione costante di quello che accade fuori (non cercando di oscurare le informazioni come invece è avvenuto), se di conseguenza si fossero aumentate subito le telefonate e videochiamate, se si fossero prese anche tutte le altre misure preventive (mascherine per tutti, gel, etc…). Tutto questo o non è stato fatto o solo in piccola parte e male. Infatti chi si trovava in cella, probabilmente si è chiesto come mai il proprio parente fosse più pericoloso per la propria salute del secondino che tutti i giorni ha di fronte (il quale entra ed esce dal carcere) oppure di tutto il resto del personale. Coloro che dovevano essere protetti dalla sospensione dei colloqui con i parenti non ci hanno messo molto a capire sia che questa misura era una presa in giro e che forse Coronavirus sarebbe potuto essere un forte pericolo anche per loro: come la preoccupazione divampa fra i cittadini in stato di libertà, fra i detenuti in poche ore questa paura si è espressa con l’unico mezzo che chi è recluso possiede per farsi sentire da chi sta fuori e cercare di ottenere qualcosa.

Se la paura e il virus sono qualcosa che può colpire tutti gli esseri umani, risulta evidente che il diritto è qualcosa che difende solo alcuni. L’articolo 2 della Costituzione (un testo non male per certi aspetti, peccato che vorrebbe essere la realtà, un testo di diritto e non un libro fantasy) recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. In senso generale questo articolo vorrebbe prendere le distanze dalla visione nazionalista di destra, e del fascismo, che lega lo Stato al cittadino. Così la Repubblica riconosce (attenzione al verbo!), in quanto il diritto fa già parte dell’essere umano e non gli è assegnato, una dignità a tutti gli uomini, cittadini e non. Altro verbo importante dell’articolo è: inviolabili. Lo Stato quindi riconosce, garantisce e difende l’essere umano e il suo diritto inviolabile. E’ evidente che in questo caso il carcerato non è riconosciuto come essere umano.

Quando nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (vicino Caserta) il 5 aprile (un mese dopo la sospensione dei colloqui) un detenuto viene trasferito in isolamento in quanto positivo al Coronavirus, succede che 150 dei 400 reclusi, fanno una piccola rivolta (che non è più di una battitura e alcune barricate) che rientra nel giro di poche ore, con la concessione e promessa di un colloquio con il Magistrato di Sorveglianza. Il giorno dopo, una volta andato via il Magistrato, entrano 400 agenti in antisommossa che in gruppi da 7 entrano nelle celle massacrando di botte i detenuti. Non ci dilunghiamo nel racconto dei dettagli di questa mattanza (per chi è interessato alleghiamo l’articolo1), prendiamo solo nota del fatto che questo non è altro che l’ennesimo caso in cui le richieste dei carcerati vengono represse nel sangue.

A seguito delle proteste, oltre a pestaggi in cui sono state spaccate mascelle e setti nasali2 (c’est la démocratie…), trasferimenti che non hanno fatto altro che portare il virus da un carcere all’altro (come avvenuto da Bologna al carcere di Tolmezzo) è seguito un decreto che ha punito chi si è ribellato in quei giorni, incrementato le forze dell’ordine per evitare che la paura si esprimesse di nuovo e che i detenuti si facessero nuovamente sentire. I provvedimenti presi per il sovraffollamento è chiaro che sono ancora troppo timidi, e soprattutto che escludono anche solo chi è sospettato di aver preso parte alle rivolte. Ricordiamo che un terzo dei detenuti sono ancora innocenti in attesa che il giudice si esprima. E’ evidente come la discrepanza fra la Costituzione e la realtà sia ampia e come tutte le volte che ci sbattono in faccia la “bellezza della nostra Costituzione”, ci stanno semplicemente mostrando qualcosa che non esiste. Spesso veniamo anche tacciati di essere utopisti, a questi rispondiamo che siamo utopisti che accusano la realtà di non essere ciò che ci viene mostrato.

Oltre a questo decreto, i detenuti hanno ricevuto anche un’altra cosa “molto importante”: un caloroso saluto dalla persona più importante del nostro Stato, Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che evidentemente oltre a esprimere vicinanza e riconoscere che la situazione all’interno “non sempre rispetta la dignità umana”, non poteva fare di più (ricordiamo che il Presidente della Repubblica ha il potere di dare l’amnistia senza passare per altri organi). Insomma, come spesso accade, le uniche risposte sono state paternalismo e repressione.

Il carcere non agisce solo su chi si trova dentro, ma angoscia anche tutti gli amici e i familiari che sono fuori. Alcuni parenti dei detenuti hanno segnalato che questi ultimi oltre a non avere più i corsi scolastici, gli incontri con i volontari, i colloqui, le attività sportive etc, adesso cominciano anche a rinunciare alla propria ora d’aria per paura del contagio, così da vivere giornate ancora più grigie, monotone e pesanti. Segnaliamo a tal proposito questa testimonianza e domanda fatta alla Associazione Antigone riguardo un detenuto autoimmune: “il ragazzo ormai vive nel terrore di ammalarsi perché sa che non può prendere nessun farmaco. Vive rinchiuso nella sua cella, evita pure di telefonare a casa tutte le volte che vorrebbe perché ha paura pure di prendere il telefono in mano e sta sviluppando attacchi di panico, tanto che è stato visto dallo psicologo. Vi prego, potete fare qualcosa?3

Al netto di ciò, dei decreti e dei 12 morti, l’ultimo effetto delle rivolte che prendiamo in considerazione è che il SAPPE (Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria) ha fatto sapere che il penitenziario di Modena chiuderà perché inagibile e che in tutta Italia ci sono stati più di 20 milioni di danni nei penitenziari.

A questo punto crediamo sia necessario riflettere su cosa sia più importante, in questo l’opinione pubblica si è divisa (anche se non in egual misura) tra chi ha preferito pesare questi danni e chi ha invece considerato ben più grave la morte di 13 persone e la costante violazione dell’essere umano che avviene nelle carceri.

Lo Stato ha già scelto da che parte stare.

Qui sotto per scaricare l’intero opuscolo:

KRINO

“Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va”

Una riflessione sul COVID dal Portogallo

Questo testo nasce da un’esigenza di comunicazione e discussione fra compagni. Nasce da un tentativo di combattere la distanza fisica e la mancanza di dibattiti faccia a faccia, cercando di mettere su carta alcuni argomenti di discussione e analisi, senza alcuna pretesa di verità assoluta. Si tratta di una sintesi di alcune discussioni avvenute all’interno di certi gruppi ristretti e che ci sembrano importanti da condividere con un collettivo più ampio di compagni.

Il processo innescato dalla comparsa del coronavirus ha lasciato il mondo e principalmente l’emisfero settentrionale letteralmente attaccato alle macchine. Attaccato alle macchine negli ospedali e attaccato alle macchine in casa. Persino lo stesso capitale ha trovato il suo modo di riproduzione e sostentamento anche attraverso le macchine. Quello che ci proponiamo con questo testo è il tentativo di aprire una discussione, partendo da un’analisi sintetica, e forse anche meccanicista, di come è stata prodotta e come viene gestita politicamente la ridefinizione della vita, attraverso l’introduzione di un agente perturbatore nel corpo sociale e le sue conseguenze, già evidenti nel quotidiano. Vorremmo discutere su come la dichiarazione di pandemia ha permesso di mettere in atto una serie di meccanismi di privazione della libertà e di condizionamento degli individui e quali strumenti abbiano consentito l’efficacia di questo programma politico. Pensiamo che sia nel passaggio dal momento biologico (l’apparizione di un virus) al momento della risposta politica data a questo fenomeno che verrà costruita un’intera architettura della paura. Paura che, se in passato, era stata basata sulla costruzione di un nemico esterno ma palpabile (il terrorista), oggi si basa su un nemico invisibile e imprevedibile che, grazie al suo carattere biologico, consente una gestione basata sulla prigionia dei corpi.

Senza voler qui analizzare l’esistenza o meno del virus e la sua pericolosità maggiore o minore (non siamo scienziati e non pensiamo che sia questo il fulcro della questione), ci sembra che sia estremamente necessario discutere gli effetti politici della risposta da parte dello Stato e della società e le sue conseguenze sia nell’immediato quotidiano sia nei cambiamenti che causerà nella percezione della vita e nel modo di abitare lo spazio sociale nel futuro. Proprio all’inizio della cosiddetta crisi covid-19, le autorità hanno iniziato ad applicare una dialettica bellicistica, e per dichiarare questa guerra sono stati sufficienti i discorsi allarmistici. Questa bellicosità del discorso ci sembra avere diverse funzioni, più o meno ovvie, oltre a quella di inculcare la paura nella società. In primo luogo, giustifica l’adozione di misure eccezionali che nelle cosiddette situazioni normali difficilmente sarebbero accettate. L’intera pratica del confinamento e della restrizione della vita si basa su questo eccezionale momento della guerra al virus. D’altra parte, la percezione che siamo in guerra porta al raccoglimento della società attorno allo Stato e ai governi, in quanto unici garanti della vita terrena e della protezione dell’individuo. E questo pare verificarsi anche quando i sistemi sanitari nazionali collassano, come è avvenuto in Italia o in Spagna. Nonostante la gestione catastrofica della situazione, lo Stato rimane l’unico fulcro attorno al quale la società gira.

Infine, la socializzazione del discorso bellicistico, collettivizzata nella frase “SIAMO in guerra contro il virus”, consente anche la trasformazione della percezione di colui che si ribella allo stato di emergenza, che non appare quindi come nemico dello Stato (per aver infranto le sue leggi) ma come nemico della società e potenziale agente infettivo. Da qui la creazione di un nuovo nemico interno, potenzialmente nemico della stessa vita.

Per quanto riguarda le misure di confinamento e il cosiddetto “obbligo morale di stare a casa”, sembra ovvio che ciò è possibile a livello massivo solo grazie a tutto l’apparato tecnologico che ci circonda. Internet e i gadget elettronici rendono la casa più sopportabile grazie alla loro funzione ludica e consentono all’individuo di rimanere in contatto con i propri cari e quindi di astrarsi in un certo modo dalla propria situazione di isolamento, ma, e qui ci sembra risiedere la loro funzione principale, questi gadget sono serviti principalmente per l’ampliamento esponenziale di un sentimento collettivo di panico. È attraverso i social network e internet che la politica della paura raggiunge il suo maggior sviluppo dopo essere stata diffusa dai media tradizionali. Tutti i discorsi di “restate a casa” e di “poliziamento” dell’altro trovano in questi dispositivi gli strumenti per eccellenza della propria propagazione, permettendo a un discorso prodotto dalle istituzioni di essere sentito come qualcosa proveniente dalla popolazione e di essere difeso con le unghie e con i denti da coloro che ne sono “colpiti”. La quarantena e il proclamato stato di emergenza provocano una doppia conseguenza: da un lato, l’isolamento attraverso la riduzione della vita dell’individuo al suo spazio più ristretto (la casa) e, dall’altro, una massiccia socializzazione del panico attraverso l’amplificazione della paura via mass media e social network. Ci sembra che il progetto di paura politica messo in circolazione dalle autorità si giochi di fatto in questi due movimenti. La vita reale basata sul confinamento dell’individuo e l’esperienza sociale gestita e vissuta attraverso gadget tecnologici conducono, allo stesso tempo, ad essere schizofrenici e paranoici. Crediamo che sia su questa dualismo che la vita si baserà nel prossimo futuro, anche dopo la fine “ipotetica” delle misure restrittive che ci vengono imposte. La trasformazione dello spazio pubblico come focus della malattia e la distruzione della vita quotidiana non si basa più sull’atomismo capitalista classico, ma su un nuovo modo di percepire l’altro e lo spazio come potenziali pericoli per la vita dell’individuo.

In questo momento non ci interessa molto entrare nella discussione sull’ipervigilanza tecnologica che seguirà la fine della crisi del Covid-19, perché ci sembra che questa sorveglianza e i mezzi per metterla in pratica già esistano. E ci sembra che queste discussioni si siano basate più sul pessimismo distopico piuttosto che sulla volontà di analizzare le cause e i meccanismi che vengono “iniettati” nel corpo sociale e che inducono gli stessi individui stessi a richiedere la suddetta vigilanza (o almeno ad essere compiacenti con essa). Sorveglianza e controllo ci sono da molto tempo e non è stato il virus a portarli. È ovvio che si assisterà ad un aumento della robotizzazione della vita e all’espansione dei meccanismi di sorveglianza, ma probabilmente questi fenomeni si sarebbero verificati con o senza una crisi pandemica, al massimo sono stati accelerati da essa. Ciò di cui vorremmo discutere è il modo in cui gli anarchici hanno percepito la crisi e le possibilità di azione all’interno della paralisi sociale che ci è toccato vivere. Ovviamente, il panico e la paura colpiscono anche noi, in un modo o nell’altro, alcuni più di altri, e forse era inevitabile che fosse diverso. Per quanto ci costi ammetterlo, gli anarchici non sono una categoria al di fuori della società e impermeabili a ciò che accade al di fuori dei nostri ambienti.

Sono momenti eccezionali come questo che meglio di altri mostrano i nostri fallimenti come movimento e la mancanza di meccanismi per contrastare le situazioni che ci vengono imposte. La prova sta nel fatto che, più o meno ovunque, le risposte della maggioranza dei diversi gruppi anarchici non si siano di molto discostate dalla beneficenza. Questa critica è valida sia per i gruppi che hanno istituito strutture per la raccolta e la distribuzione di cibo, il cui risultato altro non è che una sostituzione del ruolo benefico dello Stato, come per tutti gli altri gruppi, nei quali ci includiamo, che, per inerzia, non sono stati in grado di delineare e nemmeno discutere le strategie di azione per affrontare il confinamento. L’incapacità di combattere il discorso che è poi diventato dominante e di diffondere un’altra versione delle cose, un’altra visione del processo, ha rivelato ancora una volta la nostra mancanza di coordinamento, e come l’assenza di dibattito e pratiche continuative tra compagni in questi momenti diventino fallimenti che eventualmente pagheremo caro. Approfittiamo quindi di questa situazione eccezionale, che ci porti a ripensare le nostre pratiche e ci consenta di trovare forme più efficaci di comunicazione e azione politica in modo che quando il conto dei mesi di confinamento ci verrà presentato, gli anarchici possano dare una risposta, che indichi percorsi e pratiche diversi. Il garantire i nostri spazi che saranno di estrema importanza nel futuro prossimo, la creazione di reti di produzione e consumo che puntino a una maggiore indipendenza rispetto ai circuiti tradizionali di consumo e una produzione e azione collettiva che ci permettano di intravedere una scintilla di rivolta creando strutture politiche che consentano un attacco a un nuovo mondo che è già qui. Sono proposte che, a nostro avviso, dovrebbero già essere elaborate collettivamente e questo testo è un appello a metterci a lavoro. Perché in un mondo pandemico, l’unico virus possibile è l’insurrezione!

Alcuni anarchici di Oporto
20 aprile 2020

https://roundrobin.info/2020/05/una-riflessione-sul-covid-dal-portogallo/

Nessuna normalità

«Mai visto in vent’anni», ha dichiarato lo scorso mercoledì 6 maggio un alto dirigente di una delle principali compagnie telefoniche francesi. A cosa si riferiva? Al panico nazionale scatenato in questo periodo di pandemia, al profitto che la propria azienda ricaverà grazie al confinamento che da settimane costringe milioni di utenti a stare incollati ai dispositivi elettronici, al crollo del livello di inquinamento dell’aria dovuto alla quarantena…? No, si riferiva a tutt’altro: al sabotaggio avvenuto il giorno precedente nell’Île-de-France, la regione in cui si trova la capitale del paese con i suoi ministeri politici e le sue sedi centrali finanziarie ed economiche. Un sabotaggio definito «intenzionale e su larga scala», avvenuto per di più solo 48 ore dopo che un giornale parigino aveva lanciato il pubblico allarme sulla «ripresa dell’azione diretta» in tutto l’esagono contro le (infra)strutture del dominio.
La misura del confinamento, proclamata lo scorso 17 marzo dal governo francese per arginare la pandemia, non è infatti servita a fermare l’offensiva — di logoramento, si potrebbe dire — che da anni è in corso su tutto il territorio contro il potere. Da nord a sud, da est ad ovest, sono centinaia e centinaia gli attacchi avvenuti nel recente passato non solo contro caserme, banche ed imprese, ma anche e soprattutto contro i mezzi tecnici che permettono il normale funzionamento di questo mondo: tralicci, ripetitori, parchi eolici, antenne, centrali elettriche e centraline di ogni tipo… Azioni semplici, alla portata di tutti gli arrabbiati, realizzate con i mezzi più disparati, e proprio per questo tenute lontano dalla ribalta nazionale al fine di neutralizzarne il cattivo esempio, relegandole a fatti di irrilevante cronaca locale. Così, mentre chiunque udiva (tremante o festoso) il tonfo delle vetrine infrante che cadevano nei centri cittadini nel corso delle grandi manifestazioni periodiche, quasi nessuno sentiva crescere giorno dopo giorno la selva oscura della rivolta anonima. Snobbate dagli aspiranti strateghi di movimenti sociali bisognosi di consenso, le azioni dirette sono state sostenute ed amplificate solo da chi non fa investimenti sulla rabbia.
Ebbene, se l’emergenza sanitaria è riuscita a svuotare rondò e piazze di Francia dai contestatori in giallo che settimanalmente le affollavano, nulla ha potuto contro la determinazione e la fantasia dei singoli sabotatori — con enorme fastidio di funzionari di Stato e dirigenti di impresa (nonché di qualche teorico rrrivoluzionario). Secondo i dati ufficiali, nel mese di aprile è stato compiuto quasi un sabotaggio al giorno, il cui fruscio è paradossalmente rimbombato nel silenzio dei cori di protesta. Talmente fragoroso da attirare l’attenzione generale? La scorsa domenica, 3 maggio, il quotidiano Le Parisien ha dato risalto all’ondata di sabotaggi avvenuti un po’ dovunque, sul cui conto sarebbero in corso una decina di indagini giudiziarie. Mai rivendicati da nessuno, questi sabotaggi vengono «attribuiti all’ultrasinistra», qui intesa come sinonimo di mouvance sovversiva (laddove nell’ambito specifico che potrebbe riconoscersi in quella definizione c’è chi li rimanda invece a «eco-nichilisti» o a «nostalgici dello Stato Islamico», senza dimenticare che alcuni «“anarchici” possono essere, teoricamente e socialmente, più vicini a Julius Evola che a Errico Malatesta» [sic!]). I lettori del Parisien vengono inoltre informati dell’esistenza di un paio di siti anarchici che esultano nel riportare la notizia di queste azioni dirette, che per altro si stanno diffondendo anche altrove in Europa (vengono nominati Italia e Paesi Bassi).
Sarà il caso, sarà una coincidenza, sarà un’irresistibile ispirazione, fatto sta che due giorni dopo quel grido d’allarme l’epidemia di sabotaggio arriva alle porte di Parigi. Durante la giornata di martedì 5 maggio le fibre ottiche di alcuni gestori telefonici vengono tagliate in più punti della periferia a sud-est (a Valenton, Fontenay, Créteil, Ivry, Vitry), provocando un gigantesco black-out telematico sia nella Val-de-Marne sia in alcune zone della capitale stessa. All’inizio si sospetta che sia stato un solo individuo, armato di smerigliatrice, ad aver agito in un paio di tombini di una zona industriale. Ma poi, col passare delle ore e l’arrivo di ulteriori segnalazioni di guasti, si comincia a pensare che si sia trattato di un attacco coordinato e perfettamente organizzato, i cui danni pare ammontino ad un milione di euro. Chi si è introdotto nelle cabine sotterranee delle compagnie telefoniche non ha rubato nulla, si è limitato a tranciare di netto i cavi di fibra ottica colpendo così «la rete nevralgica della rete internet francese, dove si trovano anche nodi di comunicazione internazionale». Ci vorranno ancora parecchi giorni per ripristinare del tutto il servizio, con gran disagio per decine e decine di migliaia di utenti. Niente chiamate ad amici e parenti? Già, ma soprattutto niente scambi commerciali, niente telelavoro, niente segnalazioni ai gendarmi, niente commissariati connessi, niente videosorveglianza, niente alienazione tecnologica.
«Sabotaggi a ripetizione» tuoneranno il giorno dopo gli organi d’informazione transalpini, sorpresi della facilità con cui possano essere disturbati gli affari pubblici. E nel lanciarsi tutti dietro alla pista sovversiva anticipata dai loro colleghi del Parisien, ieri (giovedì 7 maggio) c’è stato persino chi ha tenuto a precisare che sono tre, non due, i siti anarchici che festeggiano i sabotaggi; oltre a quelli già indicati (Sans Attendre Demain e Attaque), ce n’è un altro di cui non si riporta il nome ma che ha il cattivo gusto di pubblicare la traduzione di un testo italiano (ampiamente citato nell’articolo in questione) che saluta il pensiero stupendo avuto da chi in piena pandemia continua ad attaccare, invece di iniziare a tremare. Evidentemente fra i professionisti della propaganda poliziesca c’è chi ambisce ad infittire la trama a dismisura, spingendosi al di là delle Alpi…
Ancora uno sforzo, sbirri e giornalisti, se volete fermare l’epidemia di sabotaggi! Indicare i pochi che sostengono ad alta voce queste azioni, per poi eventualmente metterli a tacere, potrà forse soddisfare la brama di facile rappresaglia, ma di certo non fermerà la rabbia che trova sempre più motivazioni per dilagare, in Francia come altrove. Se già nella notte fra il 5 e il 6 maggio un ripetitore è stato incendiato a Oriol-en-Royans, ad oltre 600 km a sud-est di Parigi, mentre la sera successiva la stessa sorte è toccata ad un ripetitore a Languenan, a 400 km ad ovest della capitale, non è certo per permettere a tre siti anarchici di aggiornare le loro pagine. Se antenne e impianti elettrici si infiammano ovunque nel mondo, dall’Italia (l’ultima volta il 29 aprile a Roma, o forse il 6 maggio a Pozzuoli, dove è esploso un trasformatore in una centrale elettrica) al Canada (nell’area di Montréal, l’ultima volta il 4 maggio), dai Paesi Bassi (una ventina i sabotaggi realizzati a partire dai primi di aprile, l’ultimo dei quali a L’Aja, il 4 maggio, contro una antenna usata da polizia ed esercito) agli Stati Uniti (l’ultima volta a Philadelphia, all’inizio di maggio), senza dimenticare la Gran Bretagna o la Germania, non è perché esista un complotto internazionale anarchico contro le compagnie energetiche e telefoniche, ma perché ovunque si sta diffondendo una medesima consapevolezza: la normalità è la catastrofe che produce tutte le catastrofi. Non si tratta di invocare il suo urgente ritorno o la sua educata revisione a chi sta in alto. Si tratta, per chi sta in basso, di ostacolarne il ritorno sia teoricamente che praticamente.
[8/5/20]

Dietro l’angolo pt.5 – Il mondo inabitabile

Le epidemie convivono da sempre con la storia dell’umanità, sono legate indissolubilmente alle attività umane e sono apparse più volte come sintomo dei profondi cambiamenti sociali della specie umana.

Se dovessimo individuare in questo fenomeno una certa sintomatologia del nostro presente, che in qualche modo segna la discontinuità e la continuità con il nostro passato prossimo, e con un incerto futuro, potrebbe essere quella dell’impossibilità di un altrove.

Ciò che accadeva più frequentemente durante le epidemie storiche era la fuga repentina, di chi se lo poteva permettere, dai focolai di contagio. In questo caso, invece, la diffusione globale dell’infezione si è prodotta in un tempo brevissimo, al punto che anche gli Stati che ostentavano sicumera, e si pensavano in qualche modo al riparo, si sono dovuti nella quasi interezza sottomettere alle necessità proprie di una malattia che intasa gli ospedali, si appiccica ai luoghi chiusi ed affollati e di cui si conosce ancora troppo poco.

Al netto delle caratteristiche proprie di un virus piuttosto che di un altro, la velocità e l’ubiquità della diffusione è sicuramente un segno dei nostri tempi. Una velocità figlia delle infrastrutture dei trasporti mondiali, della gestione centripeta dei servizi, della concentrazione urbana, dell’industria turistica e della colonizzazione delle campagne.

Continuità e discontinuità, dicevamo, certamente gli aspetti sopra descritti del capitalismo attuale erano tra quelli più studiati e analizzati e, d’altra parte, l’aria soffocante di un mondo ultraconnesso, in cui il concetto di responsabilità diventava troppo vago – a causa dell’impossibilità di prevedere l’esito delle proprie azioni in questa catena inconoscibile di relazioni – s’era già fatta stantia in parecchie parti del mondo.

Insomma era un po’ sulla bocca di tutti l’idea che in questa interconnessione frenetica di relazioni prima o poi si sarebbe prodotto un patatrac.

All’inizio di questo processo, che in molti chiamano globalizzazione, vi era un preciso pensiero della classe dominante da loro definito come esternalizzazione, un mantra che pare oramai antico, l’idea cioè di scaricare altrove i costi sociali, sanitari e ambientali della produzione e degli imperativi produttivi del capitalismo avanzato.

Esternalizzazione che per molto tempo ha funzionato proprio come una forma di distanziamento sociale rispetto alle conseguenze del progresso tecnologico e industriale, un progresso che via via impoveriva di risorse i luoghi in cui si insediava, costringeva gli abitanti a migrare e rendeva man mano l’ambiente inabitabile.

La convinzione ultima dei dominanti su questo aspetto era, e per certi aspetti è, quella che non sarebbero mai stati loro a pagarne il prezzo.

L’irreversibilità di parecchi processi, dalla produzione nucleare al cambiamento climatico, stavano già facendo arrivare alcuni nodi al pettine.

Esternalizzare non basta più, il mondo pervaso, oramai, dal modello capitalista di sviluppo porta ovunque le sue nocività.

II

Per quel poco che si conosce di questo virus, una delle descrizioni che abbiamo trovato più pertinenti è quella rilasciata da 13 medici dell’ospedale Papa giovanni XXIII di Bergamo, il Covid-19 è :“L’Ebola dei ricchi”(…)“richiede uno sforzo coordinato e transnazionale. Non è particolarmente letale, ma è molto contagioso. Più la società è medicalizzata e centralizzata, più si diffonde il virus. La catastrofe che sta travolgendo la ricca Lombardia potrebbe verificarsi ovunque”

Già da tempo parecchi ecologisti e nemici del progresso ci avevano avvisato che l’urbanizzazione estrema, l’estrazione predatoria delle risorse e la produttività ad ogni costo stavano compromettendo fortemente le capacità riproduttive di determinati ambienti e popolazioni, una compromissione che spesso si autoalimentava generando processi a catena.

Era almeno da un decennio che in Cina la minaccia di una pandemia era percepito come un problema verosimile: ciò in virtù del repentino cambio di vita di milioni di persone, dell’intensificarsi a dismisura dell’allevamento intensivo e della mancanza di spazi intermedi tra la profonda campagna e la città che rendono sempre più fragili le barriere immunitarie tra la popolazione umana e l’ambiente in cui vivono.

I capitalisti già sapevano di dover fare i conti con questi problemi in un futuro non troppo remoto, e probabilmente pensavano di poter circoscriverne i danni.

Ma l’intelligenza biologica di ogni nuova forma di vita, compresi i virus, cerca costantemente la via più veloce e sicura per riprodursi.

La geografia della diffusione ha così seguito le vie principali degli scambi mondiali e nazionali andando a insediarsi nei poli produttivi più fortemente legati alla complessa catena di messa a valore planetaria.

L’”Ebola dei ricchi”, definizione calzante di una consapevolezza che si è imposta gradualmente nei principali Stati come minaccia alla riproduzione dei rapporti capitalistici.

E’ questo sicuramente un altro aspetto, se non proprio inedito, almeno degno di nota.

Il blocco della vita sociale e di parte delle attività produttive è stata una decisione presa certamente a malincuore dai governanti, i cui costi e le cui conseguenze sono ancora tutti da quantificare, una decisione che, per quanto abbiano cercato di posticipare, si è resa indifferibile davanti alla possibilità che il sistema sanitario collassasse, scalfendo inoltre quel poco di fiducia che i governati hanno ancora nelle istituzioni.

Da un po’ di tempo a questa parte, la vita delle popolazioni urbane stava iniziando a subire limitazioni; le mascherine in molti centri urbani asiatici erano già un armamentario necessario per uscire di casa a causa dello smog; l’anno scorso, per esempio, Nuova Delhi ha subito un lockdown del traffico aereo e di quello automobilistico, le autorità invitavano la popolazione a non uscire di casa perché l’aria era velenosa.

Il produttivismo capitalista dava segni di cedimento ben prima di questa epidemia e oramai non solo gli ecologisti sapevano che il livello dei ritmi di produzione e di scambi avevano raggiunto il limite rischiando di far collassare il sistema.

Un problema sicuramente pieno di sfaccettature e complesso quello di un sistema giunto ad un livello di saturazione tale che necessita, per sopravvivere, di essere bloccato.

In prima battuta si può affermare che un problema sistemico non sia per forza un problema avvertito da tutti gli attori, per esempio a riguardo delle emissioni di gas serra, la precaria soluzione è quella di una competizione molto feroce tra gli stati e le grandi multinazionali sulle quote di emissione.

Da questa piccola considerazione si possono intravedere alcuni scenari per il nostro presente pandemico rispetto a improbabili parametri comuni sui futuri blocchi della produzione e alla corsa forsennata per accaparrarsi soluzioni mediche all’avanguardia per competere nei mercati internazionali.La salvaguardia della salute della popolazione produttiva pare ora diventare un parametro necessario alla conservazione del proprio ruolo all’interno del sistema, cessando di essere solo un’istanza di magnati illuminati e green.

A scanso di equivoci, non si vuole qui affermare che si andrà imponendo una versione paternalistica del capitalismo attuale, dove i padroni si prodigheranno a far crescere il benessere nella popolazione oppure che gli Stati riformeranno su parametri universalistici i sistemi sanitari nazionali. Piuttosto si vuole rimarcare l’idea che la salute e l’ambiente necessariamente diventeranno centrali nel decidere le sorti della concorrenza intercapitalistica e, quindi, si imporranno come parole d’ordine a cui a tutti verrà ordinato di sottostare.

III

Se la velocità e l’ubiquità sono ciò che hanno reso questo fenomeno una brutta gatta da pelare per gli Stati, d’altra parte ciò che affligge soprattutto gli sfruttati che occupano il mondo è il suo carattere di massa. Milioni di persone hanno esperito, e stanno facendo esperienza, di cosa significhi vivere in un ambiente antropico ostile alla vita umana, un tipo di esperienza che fino a poco tempo fa era circoscritta ad ambiti di realtà gravemente compromessi.

La possibilità di questa esperienza comune potrebbe dare una materialità a tutta una serie di discorsi prima citati.

Una materialità che è prima di tutto biologica ma che potrebbe sostanziarsi in un atteggiamento di classe.

Non c’è nessun automatismo che lo garantisca, come gli esempi che ci arrivano dai tanti luoghi contaminati di questo mondo ci insegnano. Di certo per molti sfruttati l’obiettivo di riempirsi la pancia oggi potrebbe rendere un po’ più dolce la consapevolezza di produrre la propria morte dopodomani. Ma davanti a un’esperienza di massa potrebbero saltare tutti quegli escamotage individuali per indorarsi la pillola: e l’imporsi dell’idea che non c’è una via d’uscita.

Perchè, in fin dei conti, l’esposizione al rischio sta già svelando l’arcano del cosiddetto distanziamento sociale che non è altro che una rimodulazione della separazione tra le classi.

Se ne sono accorti bene i detenuti di tutto il mondo e i lavoratori costretti a continuare produrre, se ne accorgeranno a breve anche tutti gli altri che saranno costretti a tornare a lavorare e quelli che dovranno affrontare le conseguenze della nuova normalità.

E se la situazione non muta in poco tempo, i ricchi troveranno sicuramente un modo per allontanarsi dalle conseguenze del mondo nocivo su cui basano i loro privilegi.

E’ necessario comprendere come a livello ideologico sia veramente pericoloso l’imporsi di discorsi dall’impronta biologista sull’esposizione e l’allocazione del rischio infettivo. Quei discorsi che tracciano delle linee su parametri biologici, come l’età, per dare o togliere libertà o restrizioni, oppure tutti quelli che lamentano l’eccessivo sovraffollamento o la carenza di norme igieniche come un dato naturale.

Questi discorsi ci spogliano di qualsiasi capacità etica di fronte al problema, poiché riconoscono come sacrificabili alcuni individui. In questo modo tracciano delle separazioni tra coloro che potrebbero almeno desiderare, se non provare, a rovesciare questa società.

Inoltre, in questo modo, scompare la sola e gracile idea emancipatrice di questa malattia: il fatto che l’essere umano riconosca di condividere il medesimo ambiente e che se qualcuno potrà permettersi di salvarsi, per tutti gli altri, ogni giorno di più, anche quando l’epidemia sarà finita, non resterà che respirare la medesima aria.

Anche in questo caso si tratta di intravedere un ambito di intervento, un possibile orizzonte comune e non certo di una formula magica. Difatti potrebbero essere numerosissimi gli esempi di come questa situazione produca anche processi opposti di isolamento, diffidenza reciproca oppure di come in molti permanga l’illusione che questi sacrifici servano a riottenere una vita nuovamente all’altezza dei propri standard di comfort e consumi.

D’altra parte, però, non si tratta di una semplice alternativa tra libertà e paura quanto piuttosto tra libertà di esporsi o meno a un rischio e trovarsi costretti a doverlo fare per sopravvivere.

Non crediamo che svilire le altrui fobie serva a molto in questa situazione quanto piuttosto sarebbe più utile smontare la percezione del rischio che ci viene propinata, totalmente schiacciata sulle responsabilità individuali e sulla paura del corpo dell’altro. Anche perché i tempi che verranno, ci insegneranno che ci sono cose più terribili di cui avere paura.

IV

La versione ufficiale di come affrontare queste problematiche è farcita da una buona dose d’ottimismo.

Un ottimismo di certo propagandato, ma anche condiviso in buona fede da una ampia parte degli sfruttati.

Pare ci sia ancora tempo, tempo per convertire la produzione, per mitigare le conseguenze dell’inquinamento, per trovare cure a chi ne è vittima.

E insomma, proprio perché c’è tempo, l’innovazione tecnologica spinta nella giusta direzione risolverà i problemi mantenendo gli adeguati livelli di produzione, consumo e profitto.

Del resto anche ora in questa pandemia ci somministrano le stesse ricette: attraverso la quarantena cercano di guadagnare il tempo necessario a sviluppare le tecnologie adeguate, non certo per mettere in sicurezza la popolazione, ma per far ripartire il sistema.

Nel grande palcoscenico attuale le posizioni sul cambiamento climatico e sulla pandemia sono quasi simmetriche: da una parte ci sono i negazionisti – ultimamente un po’ in difficoltà poiché si trovano ad affrontare, nello stesso tempo, il crollo del prezzo del petrolio e a dover, a malincuore, bloccare la produzione industriale a causa dell’emergenza sanitaria – dall’altra i cosiddetti sostenitori del Green New Deal che a tutt’oggi sbandierano la possibilità alquanto fantasiosa secondo cui il salvataggio del pianeta e dell’umanità potrebbero convivere benissimo con la ripresa economica capitalista.

Sono effettivamente questi ultimi che da anni cercano di convincerci dell’alto valore dei buoni comportamenti individuali, spacciandoci l’apertura di nuove fette di mercato (dalle borracce, alle auto elettriche passando per le mascherine e il tracciamento dei contatti), come l’unica soluzione a dei problemi sistemici che loro stessi hanno generato.

Il problema non è soltanto quello del recupero delle istanze radicali.

Da scalfire, davanti a questa pandemia, è la speranza che il peggio possa essere posticipato, perché è una speranza che ci toglie il tempo di agire.

Non si daranno soluzioni morbide davanti alle emergenze e, come si vede bene di questi tempi, non c’è, davanti alla paura di morire, nessuna rimostranza che tenga.

La cosiddetta transizione ecologica non sarà di certo un passaggio felice e si manifesterà sempre più come un passaggio necessario alla conservazione stessa dell’apparato produttivo.

Da una parte c’è la portentosa capacità di convincimento di misure che vengono adottate per la sopravvivenza, aventi quindi carattere di necessità, che investono gli Stati di un enorme potere materiale e simbolico – di cui questa crisi sanitaria ci ha dato un buon esempio -; dall’altra ci sono le istanze degli ultimi su cui verranno sempre di più scaricate le conseguenze di questo mondo marcio, ultimi che si troveranno sempre di più a scegliere tra la mera sopravvivenza dettata da un ambiente antropico ostile e le condizioni possibili per vivere una vita che valga la pena di essere vissuta.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Dietro l’angolo pt.5 – Il mondo inabitabile

Quarantena o morte!?

«Le malattie infettive sono un argomento triste e terribile, certo,
ma in condizioni ordinarie sono eventi naturali,
come un leone che sbrana uno gnu o un gufo che ghermisce un topo»
David Quammen, Spillover, 2012

 

O come un terremoto che fa tremare il suolo, o come uno tsunami che sommerge le coste. Laddove non provocano vittime, o quasi, questi fenomeni non vengono nemmeno notati. È solo quando il macabro conteggio comincia a salire che cessano di essere considerati eventi naturali per diventare immani tragedie. Ed assumono contorni terribili e insopportabili soprattutto quando si verificano sotto i nostri occhi, qui ed ora, non in un continente o in un passato lontani facili da ignorare. Ora, quand’è che questi eventi di per sé naturali seminano la morte? Quando il loro verificarsi non viene tenuto minimamente in considerazione, presupposto per non prendere alcuna misura precauzionale nei loro confronti. Costruire case in calcestruzzo in zone altamente sismiche, ad esempio, è un modo sicuro per trasformare un terremoto in una catastrofe. In attesa delle prossime piogge, disboscare una montagna significa preparare una frana che spazzerà via il paese sottostante, così come cementare il letto di un fiume che attraversa zone abitate significa promettere un’esondazione che manderà sott’acqua sotterranei e parti basse degli edifici.
Lo stesso si può dire di una pandemia. Se un microrganismo è in grado di uccidere ovunque non è perché la natura è tanto cattiva e deve essere perciò addomesticata dalla scienza che è buona. Prendiamo ad esempio il coronavirus: prima l’organizzazione sociale dominante lo ha creato (con la deforestazione e l’urbanizzazione), poi lo ha diffuso in tutto il pianeta (con la circolazione aerea e il sovraffollamento), infine ne ha aggravato gli effetti (con la carenza di mezzi idonei a curarli e la concentrazione delle persone più predisposte e sensibili al contagio, trasformate in cavie delle più disparate terapie somministrate secondo discutibili criteri). Tenuto conto di ciò, dovrebbe essere chiaro che il modo migliore per ostacolare il più possibile la comparsa di un virus maligno – impedirla del tutto sarebbe pretenzioso quanto impedire un uragano, considerato poi che il corpo umano è sempre pieno di virus e di batteri di vario genere – è di sovvertire da cima a fondo il mondo in cui viviamo, al fine di renderlo meno favorevole allo sviluppo di epidemie. Mentre il modo migliore per evitare un’eventuale infezione è quello di rafforzare il sistema immunitario.

Si tratta di una duplice prevenzione, sull’ambiente generale e sui corpi particolari, che però non riscuote alcun favore. La prima perché comporta una trasformazione sociale ritenuta utopica in quanto troppo radicale, la seconda perché è un intervento biologico considerato insufficiente in quanto troppo individuale. Rimedi troppo vaghi e lontani, soprattutto viziati da un difetto fondamentale: non sono erogabili da uno Stato cui si è affidato il compito di sollevare dalla fatica di vivere. Insomma, misure poco pragmatiche e non rivendicabili all’alto. Nulla a che vedere con il potenziamento dei servizi sanitari o l’invenzione di un vaccino, rimedi oggi impetrati a gran voce da tutte le parti.

Nel nostro universo mentale a senso unico la questione della salute è come tutte le altre, oscilla fra le due corsie della via maestra data per scontata e obbligata: settore pubblico gestito dallo Stato oppure settore privato gestito dalle imprese? Poiché il secondo è riservato ai ricchi, è dal primo che la stragrande maggioranza delle persone si attende con urgenza la salvezza. Tertium non datur, direbbero i latini (e chi accusa i critici del sistema ospedaliero di fare il gioco delle cliniche di lusso). Ma dato che questa via maestra è quella perorata dal dominio e dal profitto, non sarà certo privilegiando una corsia rispetto all’altra che si potrà cambiare una situazione che è frutto proprio dell’esercizio del dominio e della ricerca del profitto.

Ecco perché è necessario fugare l’aura di ineluttabilità che fa da scudo a questa società, impedendo di intravedere altre possibilità. Qui però si sbatte contro una difficoltà in più. Quando e come uscire di strada per esplorare altri sentieri, se quando si gode di ottima salute non si pensa mai alla malattia, mentre quando si è malati si pensa solo a come venire guariti il più in fretta possibile? E come riuscirvi senza mettere in discussione non solo l’istituzione medica, ma anche il concetto stesso di salute, nonché il significato di sofferenza, di malattia e di morte?

Pensiamo ad esempio a come oggi chi osa osservare che la morte fa parte della vita, soprattutto superati gli ottant’anni di età, venga bollato di cinismo malthusiano (da chi, da aspiranti all’immortalità transumanista?). Oppure pensiamo alle considerazioni formulate a suo tempo da Ivan Illich sulla nemesi medica. Se oggi, in piena psicosi da pandemia, questo critico non certo sospettabile di estremismo anarchico fosse ancora vivo e si azzardasse a fare uno dei suoi interventi, verrebbe linciato prima sulla piazza virtuale e poi su quella reale. Ve lo immaginate se, davanti ad un pubblico distanziato e con i suoi asettici dispositivi di protezione, in spasmodica attesa di un vaccino salvifico, qualcuno cominciasse a sostenere che «solo limitare la gestione professionale della sanità può permettere alla gente di mantenersi in salute», o che «il vero miracolo della medicina moderna è di natura diabolica: consiste nel far sopravvivere non solo singoli individui, ma popolazioni intere, a livelli di salute personale disumanamente bassi. Che la salute non possa se non scadere col crescere della somministrazione di assistenza è una cosa imprevedibile solo per l’amministratore sanitario», o che «nei paesi sviluppati, l’ossessione della salute perfetta è divenuta un fattore patogeno predominante. Ciascuno esige che il progresso ponga fine alle sofferenze del corpo, mantenga il più a lungo possibile la freschezza della gioventù e prolunghi la vita all’infinito. È il rifiuto della vecchiaia, del dolore e della morte. Ma si dimentica che questo disgusto dell’arte di soffrire è la negazione stessa della condizione umana», magari concludendo con la preghiera «non lasciateci soccombere alla diagnosi, ma liberateci dai mali della sanità»?

Simili affermazioni, in giorni isterici come quelli che stiamo attraversando, apparirebbero come minimo di cattivo gusto persino a certi militanti rivoluzionari, ridotti chi ad attribuire ad uno Stato capitalista il compito di debellare un virus capitalista, chi a passare dal ruggito libertà o morte! al miagolio quarantena e sopravvivenza!. Eppure, la tanto bramata autonomia che si vorrebbe raggiungere facendola finita con tutte le dipendenze, può mai rinunciare alle sue intenzioni davanti al corpo umano, alla sua vita come alla sua morte?

Sugli scioperi in Messico

Moltissimx lavoratrx delle fabbriche nel nord del Messico, fabbriche
perloppiù di proprietà straniera (USA, Canada, Germania…), hanno
iniziato una serie di scioperi. Preoccupatx per il contagio dellx loro
compagnx, alcunx morti per il virus, lx lavoratrx chiedono che, in
accordo con il decreto federale che ordina la chiusura delle industrie
non essenziali, le imprese mandino a casa lx operax con il 100% del
salario. Ci sono stati scioperi negli stabilimenti di almeno 31 imprese
a Tijuana e Mexicali (Baja California), Ciudad Juárez e Matamoros
(Chihuahua), Nogales (Sonora) y Gómez Palacio (Durango).
Molte di queste imprese appartengono ai settori dell’elettronica,
telecomunicazioni e metalmeccanico come la Honeywell, Lear Corporation,
Electrical Components International, Syncreon, Legrand e Hyundai.

Gli scioperi selvaggi, non coordinati da sindacati, dove lx operax si
presentano dai resposabili degli stabilimenti pretendendo di essere
mandatx a casa con il salario completo.

Anche se la maggior parte dei beni prodotti nelle fabbriche delle città
di frontiera del Messico sono per il mercato statuniense o straniero, lx
lavoratrx delle fabbriche guadagnano solo una piccola frazione di quello
che ricevono lx statunitensx addette alle stesse mansioni, disparità che
è andata aumentando nelle ultime settimane a causa della forte caduta
del peso messicano nel mezzo della crisi sanitaria ed economica.
Gli scioperi cominciati a metà aprile per il virus rappresentano la
terza grande ondata di scioperi delle industrie del nord del Messico
negli ultimi quattro anni e mezzo, preceduta dalle proteste che avevano
avuto luogo in vari stabilimenti di Ciudad Juarez nel 2015/2016 e gli
scioperi a matamoros dell’inizio del 2019. in questi precedenti
conflitti, lx lavoratrx pretendevano aumenti salariali, miglioramento
delle condizioni di lavoro e sindacati indipendenti.

fonte: mail

Cronache dallo stato d’emergenza (Numero7)

1° maggio a Rovereto

Il 1° maggio, una ventina di compagni e compagne sono scesi in strada per circa un’ora nel quartiere popolare delle Fucine con una serie di interventi amplificati tra i palazzi dell’Itea (Istituto Trentino Edilizia Agevolata). Come già successo il 25 aprile al Brione, è stata un’occasione per parlare sia delle cause strutturali dell’epidemia – tutte collegabili al modo capitalista di saccheggiare e di sfruttare la natura – sia di come l’hanno affrontata Confindustria e governo, provocando di fatto una strage. Anche durante questa iniziativa si sono invitati gli abitanti dell’Itea che sono in difficoltà economiche (i dirigenti dell’Ente provinciale hanno annunciato una moratoria dei canoni per i negozianti, ma non per gli inquilini) a organizzarsi per non pagare l’affitto. Si è sottolineato come il divieto – che perdurerà anche dopo il 4 maggio – di incontrarsi in più persone all’aria aperta abbia lo scopo di tenerci isolati e passivi di fronte a ciò che ci stanno preparando: i prestiti che il governo si appresta a chiedere alle istituzioni europee e ai creditori interni (banche, assicurazioni, fondi di investimento) saranno rimborsati aumentando lo sfruttamento dei lavoratori e delle fasce più povere della società, aspetto sul quale “europeisti” e “sovranisti” sono tutti d’accordo. Per resistere a questo – e all’introduzione del 5G – è necessario violare responsabilmente le misure di confinamento sociale. Alcuni abitanti – soprattutto giovani – si sono avvicinati all’iniziativa. Due pattuglie della polizia, invece, si sono mantenute a distanza.

Se possiamo lavorare, possiamo anche scioperare”

Con questa slogan, tra il 30 aprile e il 1° maggio sono stati organizzati blocchi e scioperi nella maggior parte delle filiere della logistica. A Bologna, a Casoria, in provincia di Napoli, a Torino, a Campi Bisenzio, a Calenzano, a Modena (dove le proteste erano già cominciate all’inizio della settimana). E poi Genova, Milano, Brescia, Bergamo, Piacenza, Firenze, Roma, Caserta… Ancora una volta i facchini – in gran parte immigrati – si confermano come il settore più combattivo della classe salariata. Hanno scioperato anche i riders di Torino e i pulitori dei trasporti di Napoli, che il 30 aprile hanno bloccato la metropolitana.

Nel ventre della bestia

Mentre sui media italiani si dà spazio solo alle proteste dei sostenitori di Trump, i quali vogliono la ripresa dell’attività economica senza se e senza ma (la stessa posizione assunta dalla Lega e cavalcata dai fascisti, i quali provano a camuffarsi dietro le “mascherine tricolori”), il 1° maggio negli Stati Uniti ci sono stati scioperi imponenti contro giganti come Amazon, Whole Food, Walmart, Target. Le rivendicazioni sono la chiusura dei siti dove ci sono stati dei contagi, nessuna restrizione nei test ai sospetti contagiati, la retribuzione del lavoro pericoloso, l’interruzione della consegna di merci non essenziali e la fine delle ritorsioni contro i lavoratori che richiedono maggiore sicurezza sul lavoro. Gli infermieri sono scesi in strada davanti a 130 ospedali in 13 Stati per l’assunzione di nuovo personale, contro la mancanza di dispositivi di protezione e contro i tentativi di mettere a tacere chi protesta. Denominatore comune di queste e tante altre manifestazioni, l’opposizione alle spese e agli interventi militari a stelle e strisce. Da marzo sono stati documentati almeno 140 scioperi selvaggi in tutti gli Stati Uniti. Nel frattempo in California, nello Stato di New York, in Missouri e in diverse grandi città si allarga lo sciopero dell’affitto.

Congiunti”

Chiedersi quale finalità pratica abbiano per il contenimento del contagio le norme che da più di un mese ci vengono imposte si è rivelato fino ad ora un esercizio fondamentale di spirito critico. Dal 4 maggio, data di inizio della famigerata “fase 2”, le restrizioni alle nostre libertà (soprattutto quelle di associarsi e di manifestare) non cambieranno, ma sarà possibile andare a visitare… chi? Nella prima versione erano i congiunti. Proteste. Avete capito male, volevamo dire gli affetti stabili. Questo balletto rivela una volta di più che certe misure c’entrano ben poco con la salute. Quale utilità pratica ha rispetto al contenimento del contagio poter incontrare solo i parenti? I legami familiari ci proteggono forse dalla possibilità di contagiarci? Esiste una sorta di immunità di gregge legata al cognome? La risposta ci sembra ovvia.

Nei prossimi giorni molte attività riapriranno i battenti (tralasciando quelle, non certo essenziali, che non li hanno mai chiusi, come le aziende che producono armi); si tornerà a produrre e consumare quasi a pieno regime. Non torneremo però ai nostri legami sociali significativi, alle nostre amicizie, alle nostre complicità: quelle, sulla carta, valgono meno di un attestato di parentela. Pazienza per chi una famiglia non ce l’ha o con essa ha chiuso i rapporti perché altrove ha trovato affetto, comprensione, reciprocità.

Lavoro, patria, famiglia: questo è l’essenziale!

Ma se vogliamo farla finita con l’organizzazione sociale che crea le pandemie, dobbiamo anche rivendicare a gran voce l’importanza di tutti i nostri legami, specie di quelli più disinteressati e autentici – che spesso, con la famiglia, non hanno niente a che fare.

Similitudini

Catturare attraverso il Diritto tutte le espressioni della vita umana è un’utopia totalitaria. Totalitaria, perché la sua realizzazione renderebbe gli esseri umani simili alle macchine; utopia, perché lo Stato non potrà mai controllare tutto quello che facciamo. Vi si può avvicinare, però, e parecchio, sfruttando le occasioni più propizie. Cos’hanno di particolare i Decreti emanati in nome dell’emergenza Coronavirus rispetto alle innumerevoli leggi liberticide che hanno costellato la storia di questo Paese? Non solo e non tanto l’estensione di massa delle restrizioni, ma il fatto che – capovolgendo le basi dell’ideologia liberale – questi Decreti definiscono come consentito non ciò che non è espressamente vietato, ma ciò che è espressamente permesso. Ebbene, qual è l’unico luogo in cui le attività si dividono tra quelle espressamente permesse e quelle espressamente vietate? Il carcere.

Mentre non incassa ancora il consenso necessario a introdurre l’applicazione “Immuni” per il tracciamento digitale dei contatti sociali, lo Stato ha iniziato a prevedere per alcuni detenuti semi-liberi l’obbligo di possedere uno smartphone per la geolocalizzazione. In sostituzione di cosa? Dei braccialetti elettronici, la cui costruzione è affidata a una delle compagnie di telefonia mobile (Fastweb).

L’avanzata della tecnologia digitale permette ciò che i regimi totalitari del passato non hanno nemmeno osato immaginare.

Versione pdf: Cronache7

La Nave dei Folli – Episodio 5

Episodio 5

Uno degli obiettivi della cibernetica è quello di tenere sotto controllo la macchina umana per poterla governare nel migliore dei modi. Il corpo degli individui come il corpo sociale nel suo complesso devono sottostare alle medesime leggi di funzionamento degli apparecchi tecnologici, e iniziano perciò a sfumare i confini tra fisica e biologia, tra vivente e non vivente.

Le prime basi del nuovo paradigma della biologia molecolare, e del suo modello meccanicista basato sullo scambio d’informazioni, sono gettate nel 1944 da Erwin Schrödinger nel suo testo Che cos’è la vita?, e saranno riprese e approfondite, tra gli altri, da Watson e Crick, scopritori ufficiali del DNA, e da Jacob e Monod, questi ultimi Nobel per la medicina nel 1965 per «le scoperte riguardanti il controllo genetico della sintesi di virus ed enzimi».

Il tentativo di ibridazione tra bios e techné porterà ai primi esperimenti di organismi geneticamente modificati, all’inizio batteri, poi piante e ben presto anche animali ed esseri umani; fino alla nascita del post (o trans) umano con le sue assurde idee e pratiche di ingegnerizzazione del vivente, fabbricazione in laboratorio di bebè, sconfitta della morte.

Riferimenti Episodio 5

• Nurse With Wound, Two Golden Microphones (Second Pirate Session – Rock’n Roll Station Special Edition, 1998)
• Lettura radiofonica di un brano dal volume di Ivan Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, contenuta nel programma Lo spunto (Radiotre, 2 marzo 1977) tratto da Wikiradio del 04/09/2015 – http://www.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-341b7fe7-c393-4cf9-8537-0523101437d9.html
• Wolf in the Throne Room, Dea Artio, (Two Hunters, 2007)
• Terry Gilliam, L’esercito delle 12 scimmie (1995)
Blowzabella, The New Jigs e Death in a Fen/Bruton town/Our captain cried (A Richer Dust, 1988)
• Soft Machine, Joy of a Toy (The Soft Machine, 1968)
• Bill Gates, The Next Outbreak? We’re not Ready (2015) – https://youtu.be/6Af6b_wyiwI
• Delirium, Subvert/Wired Archives/Sieg of Atrocity (Faces, Forms & Illusions, 1989)
• David Fincher, Fight Club (1999)
• Le Tormenta, Amore Nero (L’unico elemento 2004)

https://lanavedeifolli.noblogs.org/

Grecia – Chiamata per il sostegno alla Cassa di solidarietà per i militanti imprigionati e perseguitati

La “Cassa di solidarietà per i militanti imprigionati e perseguitati” è stata fondata nel 2010, un periodo in cui, da un lato, veniva effettuata una forte ristrutturazione capitalistica compiuta sotto il paravento della “crisi economica” e in cui, dall’altro lato, il movimento radicale, avendo ricordi molto recenti dall’esperienza della rivolta sociale del dicembre 2008, era in piena fioritura. In queste circostanze, la repressione si fece ancora più intensa, portando a un numero sempre crescente di prigionieri politici. È proprio in questo contesto che si è formata la Cassa di solidarietà, inizialmente con l’obiettivo di fornire un sostegno regolare e coerente a quanti sono perseguitati o imprigionati per il loro agire sovversivo o per la partecipazione alle lotte sociali.

L’obiettivo fondamentale della struttura è di garantire dignitose condizioni di vita ai compagni imprigionati attraverso un processo che si svolga in seno al movimento politico; permettendo alla dimensione materiale della solidarietà di compiere un passo ulteriore rispetto alle più strette relazioni tra compagni, familiari e amicali, oltre a contribuire alla copertura immediata delle emergenze (come le spese processuali e le cauzioni per i perseguitati). Contemporaneamente, gli interventi di solidarietà pratica e la costruzione e lo sviluppo di ponti comunicativi e di lotte congiunte tra chi è dentro e chi si trova fuori dal carcere, rimangono le priorità delle persone che formano e sostengono la struttura.

Dal 2010 a oggi, la Cassa di solidarietà ha cercato di ottenere un regolare e coerente sostegno politico, morale e materiale per la raccolta di fondi, un fatto che deriva principalmente dalla partecipazione consapevole di ognuno di noi, oltre che di gruppi e collettivi, che contribuiscono alla prosecuzione di una solidarietà fattiva. La continua repressione statale, tuttavia, si traduce in un numero elevato di prigionieri politici e spese legali e, conseguentemente, in esigenze materiali particolarmente elevate. In questo momento, la Cassa di solidarietà sostiene 24 prigionieri con una regolare base mensile (Kostantina Athanasopoulou, Dimitra Valavani, Konstantinos Yagtzoglou, Giannis Dimitrakis, Dimitris Koufontinas, Iraklis Kostaris, Giannis Michailidis, Savvas Xiros, Giorgos Petrakakos, Kostas Sakkas, Marios Seisidis, Vangelis Stathopoulos, Spyros Christodoulou e 11 militanti provenienti dalla Turchia e dal Kurdistan). In molti casi cerchiamo anche di coprire – per quanto consentito dalle nostre capacità (finanziarie) – le spese legali e le cauzioni dei compagni perseguitati per la loro identità politica, per le loro azioni o anche per i propri legami familiari o il loro rapporto di amicizia con i militanti imprigionati.

Durante questi dieci anni di attività, ci siamo rivolti ai compagni e ai collettivi in molte occasioni, siccome assicurarsi le risorse finanziarie è sempre stato un processo difficoltoso. La solidarietà e la partecipazione dei compagni sia dalla Grecia che dall’estero è la ragione principale per cui siamo stati a fianco dei nostri compagni imprigionati in maniera coerente. Nella situazione attuale, soprattutto alla luce dei nuovi fatti riguardanti la diffusione del virus e delle misure restrittive imposte dallo Stato in questo contesto, è ancora una volta estremamente difficile assicurare le risorse volte a sostenere i bisogni materiali di coloro che si trovano all’interno delle carceri. Probabilmente è più difficile che mai. Purtroppo, tutto ciò si deve aggiungere ai tempi già difficili che i nostri compagni prigionieri, così come la popolazione carceraria nel suo complesso, stanno affrontando, e per tale motivo ancora una volta ci stiamo rivolgendo ai nostri compagni.

Il sovraffollamento delle carceri greche, con l’accatastamento forzato dei prigionieri in celle e sezioni che ricordano degli alveari, l’assistenza medica inadeguata (e in alcuni casi inesistente), il rifiuto di fornire misure di protezione personale (quindi il divieto di forniture mediche, come gli antisettici) e il fatto che anche i più vulnerabili (anziani o malati) siano ancora incarcerati, tutto ciò pone le condizioni per una ondata pandemica con tassi di mortalità significativamente più alti di quelli presenti nella società fuori dalle mura. Questo può equivalere alla pena di morte per molte persone in carcere. Tale problema ha indotto a una serie di mobilitazioni nelle carceri, con le fondamentali richieste di decongestionamento e attuazione delle misure di protezione di base per i detenuti. Il punto di partenza di queste mobilitazioni è stato il carcere femminile di Korydallos, seguito dalle carceri di Chania (nell’isola di Creta), Agios Stefanos (a Patrasso) e Larissa, mentre 856 detenuti da tutte le sezioni del carcere maschile di Korydallos hanno firmato e pubblicato una dichiarazione.

In queste particolari circostanze, lo Stato e i suoi meccanismi repressivi stanno seguendo una strada già battuta. Mentre non vengono prese efficaci misure per proteggere la popolazione carceraria, vengono bloccate le comunicazioni con il mondo esterno, sospese le visite con i parenti e gli avvocati, attuate rappresaglie e misure di ritorsione in caso sorgano proteste: come accaduto per i sequestri-trasferimenti di compagni a seguito della mobilitazione avvenuta nel carcere femminile di Korydallos, con il sequestro di due prigioniere e il loro trasferimento nel carcere di Eleonas a Tebe, dove sono state poste in quarantena (una tra loro, Pola Roupa, è prigioniera politica e membro di Lotta Rivoluzionaria [Επαναστατικού Αγώνα], e al suo trasferimento, dopo pochi giorni, è seguito il violento trasferimento di Nikos Maziotis, anch’egli prigioniero politico e membro di Lotta Rivoluzionaria, nel carcere di Domokos), come accaduto con la rimozione dell’ora d’aria nel carcere di Chania, con le pequisizioni poliziesche, le indagini e la devastazione delle celle nel carcere di Patrasso. Allo stesso tempo, mentre la pandemia è ancora in corso, i compagni stanno affrontando false accuse, vengono perseguitati e imprigionati, ricordandoci le costanti priorità dello Stato, le cui dichiarazioni sul decongestionamento delle carceri riguardano solo un ridotto numero di prigionieri (considerando la totalità della popolazione carceraria), in quanto il numero di prigionieri interessati non eccede le 1500 persone.

Come Cassa di solidarietà, in questo momento, annunciamo la nostra decisione di sospendere tutte le nostre azioni pubbliche previste per l’immediato futuro, ma non sospendiamo la nostra solidarietà con i prigionieri politici. In questa difficile situazione che stiamo attraversando, ci troviamo nella difficile posizione di dichiarare una temporanea riduzione del sostegno materiale ai compagni imprigionati, in modo da poterli sostenere con coerenza nei mesi che seguiranno.

Compagni in Grecia e all’estero, la Cassa di solidarietà si trova attualmente ad affrontare un grave problema riguardante la vitalità e la funzione di una delle sue componenti fondamentali, il sostegno economico dei militanti imprigionati. A causa delle condizioni oggettive determinate dall’attuale situazione, l’incapacità della cassa di ottenere risorse a partire dalle iniziative pubbliche porterà, durante la stagione estiva, ad una situazione di stallo e allora il sostegno dei prigionieri politici sarà praticamente impossibile. L’unico modo per evitare questa situazione è il sostegno materiale e finanziario da parte del movimento antagonista più ampio presente in tutto il mondo. Da parte di tutti gli individui e di tutti i collettivi che considerano i militanti imprigionati come parte di chi lotta, una lotta che tutti noi ingaggiamo – per come ci è possibile – contro il barbaro mondo dell’autorità.

Oggi più che mai sta diventando cruciale e tangibile il motto “nessuno è solo nelle mani dello Stato”. Vi invitiamo a difenderlo ancora una volta nella pratica. La solidarietà concreta sarà di nuovo la nostra arma.

FINO ALLA DEMOLIZIONE DELL’ULTIMO CARCERE NESSUNO DI NOI E’ LIBERO
SOLIDARIETA’ CON I PRIGIONIERI POLITICI

Cassa di solidarietà per i militanti imprigionati e perseguitati

Contattaci via e-mail per supportare la campagna a sostegno dei prigionieri: tameio[at]espiv.net

A questo link il testo in inglese: https://actforfree.nostate.net/?p=37044
A questo link il testo in tedesco: https://athens.indymedia.org/post/1604303/
A questo link il testo in greco: https://athens.indymedia.org/post/1604134/

 

(it-en) Grecia: Chiamata per il sostegno alla Cassa di solidarietà per i militanti imprigionati e perseguitati

Imola, Italia: E se le parole si trasformassero in pietre?

Nel mese di marzo 2020, nella città di Imola (BO), sono apparse diverse scritte che inveivano contro lo Stato di Polizia e contro l’obbligo a restare chiusi in casa, agli arresti domiciliari democraticamente “volontari”.

Qualche settimana dopo che sui social e sui giornali bravicittadini ed esponenti vari della politica locale si struggevano per la rabbia e la violenza espressa da quelle scritte nonché per il deturpamento dei preziosi muri della città, siamo statx fermatx (in maniera abbastanza ridicola, tipica delle forze dell’ordine imolesi) nelle consuete passeggiate in barba ai divieti e quel giorno, oltre all’ennesima multa son saltate fuori le notifiche.

Le indagini, ancora aperte, ci appioppano, in merito alle scritte di cui prima, istigazione a delinquere, istigazione a disobbedire alla legge, deturpamento e imbrattamento, vilipendio della repubblica e delle forze armate, violenza o minaccia a corpo politico e l’avvio di un procedimento per foglio di via.

Al di là di chi può aver fatto le scritte, al di là della nostra colpevolezza o meno, non possiamo che sorridere pensando a chi continua ancora, e speriamo indisturbatx, a infrangere la quiete. Non ci sembra assurda l’accusa di Istigazione per questi fatti, anzi, in fondo cos’altro mai dovrebbero fare delle scritte che esprimono odio nei confronti di tutto ciò che rappresenta Ordine?

Non ci sentiamo quindi preoccupatx od offesx davanti a simili accuse perché ogni volta che ci esprimiamo, in testi scritti o sussurrandoci burlesquamente idee nell’orecchio, ci sentiamo e siamo Delinquenti. E se qualcunx, parlando con noi o assaporando un testo da noi prodotto, dovesse mai sentirsi istigatx, beh, propaganda ben fatta!

Tra l’altro, dopo pochi giorni dalla notifica, hanno continuato ad apparire manifesti di saggia manodopera (di questi tempi senza copisterie, immaginiamo) che recitavano più o meno: OBBEDIENZA NON È RESPONSABILITÀ stanno distruggendo le nostre vite con la tecno socialità e la militarizzazione delle strade facciamo sì che non manchi la rivolta. Sicuramente il leit motiv dell’andrà-tutto-bene, gli arcobaleni e il restiamoacasa non hanno attecchito su tutta la popolazione della città, forse l’ondata di multe e denunce, intimidazioni, inseguimenti non hanno spento la voglia di esprimersi.

Come non eravamo ligi al Dovere prima, non lo siamo adesso e mai lo saremo.
Ci vediamo al mare, fase due, tre o sticazzi!

due viandanti in tempo di covid, cofàtt, coddèt?

 

(it) Imola, Italia: E se le parole si trasformassero in pietre?