Berlino (Germania) – 4 bancomat bruciano contemporaneamente

[Il Berliner Zeitung riferisce che nel giro di poco tempo sono stati dati alle fiamme tre bancomat in diversi luoghi. Ormai fuori uso, si trovavano nei distretti di Mitte, Friedrichshain e Kreuzberg. Secondo la polizia è senza dubbio un sabotaggio coordinato. Di seguito la traduzione della rivendicazione, che parla di quattro bancomat in fiamme].

Fiamme per il Liebig34 – Contro la città dei ricchi!

Il 2 giugno abbiamo dato fuoco a quattro distributori della società “Euronet” (nei distretti berlinesi di Mitte, Kreuzberg, Friedrichshain e Neukölln) in solidarietà con la Liebig34 e per inviare un segnale di avvertimento allo Stato, al capitale e ai suoi complici su cosa sarebbe successo se avessero tentato di sfrattare Liebig34.

In qualità di proprietario dell’edificio Liebig34 e di molti altri in tutta Berlino, Padovicz affitta i lotti del suo terreno a Euronet per scopi commerciali. In ogni caso, i distributori di Euronet fanno parte delle infrastrutture capitalistiche e dei piani del capitale per la gentrificazione totale dei distretti. Stanno lavorando per costruire una città che abbia come priorità il miglior sfruttamento possibile del turismo di massa e che fornisca quartieri per le persone che non si preoccupano delle tariffe per il prelievo di denaro.

In questo tipo di città, naturalmente, non c’è spazio per luoghi aperti, non gerarchici e autogestiti, come il progetto abitativo anarco-femminista Liebig34 , che Padovicz, lo Stato e il capitale, vogliono sostituire con una macchina del denaro che serve il capitale e crea ricchezza.

Naturalmente non ci aspettiamo alcuna salvezza dai tribunali e sappiamo che il sistema giudiziario serve gli interessi del capitale.

Quello che vogliamo sono case occupate e azioni decentralizzate in solidarietà con Liebig34 per contrattaccare lo Stato e il capitale.

Siamo stufi dei piani di Padovicz e di tutti gli altri squali del settore immobiliare!
Ci ritroveremo per le strade in preda alla rabbia!
Il Liebig 34 continuerà ad esistere!
Un saluto di solidarietà agli insorti di Minneapolis e di altre città degli Stati Uniti!
Vendetta per George Floyd!

[Tradotto dal tedesco da indymedia, 2. Juni 2020]

 

https://sansattendre.noblogs.org/archives/13744#more-13744

 

Valence (Francia) – Incendio degli uffici dell’Agglo e della stazione di polizia (forse) in risposta ad un’arresto

Aggiornamento, 4/6/20: i poliziotti e la stampa regionale sono stati attenti a non dimenticare che anche la stazione di polizia municipale, anch’essa attaccata dalle Molotov, si trovava nello stesso sito chiamato “Jacques Brel” (povero Jacques appunto)… chiuso da allora, almeno fino al 15 giugno. Ecco cosa dice la Direzione Dipartimentale della Pubblica Sicurezza (DDSP26): “le perizie effettuate non consentono di riaprire l’edificio nell’immediato futuro”. La stazione di polizia situata in questo edificio rimarrà quindi chiusa fino al 15 giugno, soprattutto a causa dell’aria irrespirabile. Gli agenti di polizia sono stati temporaneamente trasferiti alla stazione di polizia centrale di Valence e alla stazione di polizia di Bourg-lès-Valence”. (Le Dauphiné, 3/6/2020).

La notte tra il 28 e il 29 maggio è stata molto frenetica nel quartiere Fontbarlettes di Valencia. Verso mezzanotte sono stati appiccati numerosi incendi nelle strade del quartiere, la stazione di polizia municipale e gli uffici di Valencia Romans Agglo sono stati dati alle fiamme. Per decisione della Prefettura, il quartiere è stato posto sotto l’occupazione del CRS per almeno quattro giorni a partire da questo venerdì (29 maggio).

“Verso l’1.30 del mattino, diverse persone sono entrate nell’edificio di Valence Romans Agglo, sul sito di Jacques Brel. Hanno dato fuoco a una sala riunioni. Il principale sospettato dell’incendio è stato arrestato. Per riportare la calma nel quartiere, gli agenti della polizia di Valence sono stati raggiunti dai colleghi di Montélimar e Lione, ma anche dai gendarmi del Psig (plotone di sorveglianza e intervento della gendarmeria). In totale sono stati mobilitati una trentina di uomini. “(FranceBleu)

Secondo LeDauphiné, il danno sarebbe minore. “Solo una sala di addestramento è stata distrutta. Le persone hanno lanciato una molotov che ha dato fuoco alla stanza”, ha spiegato venerdì mattina presto il sindaco di Valence e il presidente della comunità dell’agglomerato urbano Nicolas Daragon.
Ora è necessario effettuare un’importante operazione di pulizia per riportare i locali riempiti dal fumo e dalle tracce di fuliggine al loro stato originale. I 400 dipendenti pubblici del sito Jacques Brel de Fontbarlettes, quelli dell’agglomerato e parte della città di Valence, dovrebbero poter riprendere i lavori sul posto all’inizio della prossima settimana.

I vigili del fuoco della Drôme erano stati chiamati alle 19 per un incendio di rifiuti sulla strada pubblica. Altri bidoni dell’immondizia sono stati incendiati poco dopo in rue Guisseppe Verdi e utilizzati come barricate.

I poliziotti e i media suppongono che questo scoppio di violenza sia una risposta ad un video che sta girando sui social network. Sarebbe stato girato nel quartiere di Fontbarlettes la sera prima, tra mercoledì e giovedì. Si tratta di due poliziotti che arrestano un minorenne di 17 anni che oppone resistenza. I poliziotti dicono che il giovane arrestato aveva colpito un’autopompa prima di fuggire a piedi.

https://sansattendre.noblogs.org/archives/13600

Condrò (Italia) – Incendiato un ripetitore: due comuni senza internet e telefono

03 maggio, dai giornali locali:

Potrebbe esserci la psicosi da 5 G che si sta scatenando fra la popolazione, all’origine dell’incendio che ha mandato in tilt un’antenna WindTre nel comune di Condrò, in contrada Serro. 

L’incendio ha causato disservizi in tutta la zona, anche nella vicina Gualtieri Sicaminò e Barcellona lasciando da tre giorni, in un momento così delicato di isolamento per le misure previste anticoCovid, gran parte della cittadinanza senza possibilità di collegamento, neanche telefonico.

I  tecnici wind-tre hanno effettuato subito un sopralluogo volto a verificare lo scempio a un normale ripetitore 2G/3G/4G. Ingenti – secondo le dichiarazioni del Comune di Condrò – i danni riscontrati.

Ci vorrà tempo per ripristinare l’impianto. La preoccupazione è ora che il gesto possa essere anche emulato in un momento in cui si alimentano una serie di paure legate alle nuove tecnologie che vedono anche sindaci firmare ordinanze per bloccare le antenne della nuova rete cellulare costringendo gli operatori a rivolgersi ai Tar. Gli ultimi a vietare l’installazione di impianti 5G, il sindaco di Messina edi Patti.

Sull’incendio indagano i carabinieri.

La nave dei folli – Episodio 9

Altro tassello fondamentale del puzzle cibernetico è un saggio di John Von Neumann e Oskar Morgenstern, Teoria dei giochi e comportamento economico (1944), dove si mira ad analizzare e prevedere matematicamente le azioni umane tenendo conto di determinati aspetti psicologici.

Erede del liberalismo economico anglosassone, la teoria dei giochi offre una visione puramente operativa della razionalità umana. In base al postulato semplicista secondo cui il soggetto razionale è alla ricerca costante del massimo di soddisfazione, Neumann e Morgenstern sviluppano un modello matematico che presuppone l’utilizzo di strategie comunicative da parte dei giocatori, che devono prevedere le proprie azioni seguendo le regole prestabilite e le informazioni ricevute.

L’immagine dell’homo oeconomicus assume le sembianze del “soggetto-giocatore che sceglie” che, all’interno di un universo probabilistico, deve prevedere strategicamente il comportamento degli altri giocatori. Secondo questa logica la razionalità umana si riduce a un insieme di regole strategiche di calcolo e trattamento dell’informazione, motivo per cui sottomesso all’imperativo dell’efficacia operativa, il soggetto si muove attraverso un gioco di ruoli prevedibili e misurabili.

Proprio come il cittadino del mondo globalizzato di oggi, disposto a trasferire e delegare la propria esistenza, la propria libertà, ad application di cui Immuni rappresenta soltanto un grezzo prototipo.

Riferimenti Episodio 9

• Fire At Work, traccia 1 (Total Audio Resistance)
• Bonzo Dog Doo-Dah Band, Doctor Jazz (Tadpoles, 1969)
• Sam Peckinpah, La Ballata di Cable Hogue (1970)
• Letture a mezza voce – Divieto di socialità, diario da un carcere del 2020. (Edizioni sprofessori). Massimo Ferrante, A’Nuvella (Ricordi, 2006); Henryk Górecki, Symphony No. 3 [Symphony of Sorrowful Songs], Op. 36 (1976)
• Sandman, Nothin’ to Say (The Long Walk Home, 2004)
• Intervista della Nave dei Folli a John Zerzan
• Albert Ayler, Masonic Inborn, Pt. 1 (Music Is The Healing Force Of The Universe, 1969)
• Andrej Tarkovskij, Stalker (1979)
• L’ASTRONAVE DEI FOLLI – (Sigle: Katyusha Cosmowave Remix e Kalinka Remix). Prima puntata: Inno CCCP e Duo LyubAnya, Pirati dei Caraibi; Anton Arkhangelsky/Nikolay Ikonikov, Bolshevik Funeral March, You Fell Victim to a Fateful Struggle (1878);Lev Trotskij, Letteratura e rivoluzione (1924)
• Jacques Marchais e Vanessa Hachloum, Les Journées de mai (Guy Debord), Pour en finir avec le travail (1974), disco prodotto da Jacques Le Glou (testo)

https://lanavedeifolli.noblogs.org/

È uscito “Contro lo scientismo” di Pierre Thuillier – S-edizioni, 2020

Dalla quarta di copertina: “In partenza, vi era il mondo della vita, nel senso banale e ingenuo che i non-scienziati danno all’espressione. Un mondo a volte allegro a volte triste, in cui gli uomini provano dei sentimenti e delle emozioni, dove cercano la loro strada, amano, lottano, ecc. Poi arriva la “scienza”, neutrale e oggettiva: non restano che atomi, ancora atomi, soltanto atomi. Ed esperti di atomi, che ci insegnano, sempre neutrali e oggettivi, che noi dobbiamo vivere “scientificamente”; vale a dire come dei conglomerati di atomi, come dei grossi edifici molecolari di cui sono i soli a conoscere la vera natura. Curiosamente i nuovi maestri spirituali ci fanno tornare alla vecchia affermazione biblica: l’uomo è polvere e tornerà polvere…”

Una copia singola cinque di vile denaro (quattro sopra le 5 copie).

Per ricevere copie e per spunti critici: s-edizioni@logorroici.org

Dall’introduzione del libro:

Un incontro inaspettato

Il nome di Pierre Thuillier, filosofo, epistemologo della scienza, di cui viene qui proposto il saggio breve “Contro lo scientismo” (1980), per la prima volta tradotto in italiano, risulterà sconosciuto ai più, anche a quelle lettrici e a quei lettori familiari con le opere di altri grandi critici della tecnica come Lewis Mumford, Jacques Ellul e Günther Anders. Eppure quella proposta da Thuillier, in questo come in altri suoi scritti (l’unico libro pubblicato finora in Italia è “La grande implosione. Rapporto sul crollo dell’Occidente 1999-2002”, introvabile da tempo), è una critica spietata alla traiettoria della civiltà occidentale e alle conseguenze disastrose verso cui ci sta portando. Se ne “La grande implosione” Thuillier affonda il coltello nelle radici culturali dell’odierno sistema di dominio tecno-scientifico, andando a ripercorrere i processi di urbanizzazione, lo sviluppo tecnico, l’ascesa dell’economia capitalista e il cambio di visione portato dalla scienza moderna che ne sono i prodromi, in “Contro lo scientismo” l’accusa è in particolare contro quest’ultima, la scienza, di cui vengono analizzati il percorso storicamente condizionato e l’ideologia mortifera di cui si fa portatrice. Spesso si tende a considerare scienza e tecnologia come due sfere distinte: se la tecnologia, in particolare nelle sue applicazioni più nefaste, è talvolta sottoposta a critica (ma più spesso la colpa dei suoi mali è imputata ai suoi cattivi usi), la scienza ancora di più tende a conservare nell’immaginario comune un’aura di purezza, di neutralità. La scienza non rappresenta d’altronde l’amore per il sapere fine a sé stesso, il nobile compito di svelare i segreti della natura per il puro amore della conoscenza? Il pregio principale del libro di Thuillier sta nella forza con cui distrugge questa retorica così radicata, questo mito della neutralità della scienza, mostrando come essa in realtà sia sempre stata, sia e non possa che essere connivente con il potere; anzi, come essa stessa sia diventata nella società odierna un vero e proprio totalitarismo: nella sua pretesa di essere l’unica forma legittima di produzione della verità, nella pervasività con cui la sua logica sta invadendo ogni campo dell’esistenza, e negli strumenti tecnologici sempre più devastanti che vengono prodotti grazie alle conoscenze da essa fornite. La scienza moderna – ovvero ciò che si intende comunemente per “scienza”, poiché tutti i saperi elaborati da altre culture sono stati relegati al rango di superstizioni – è sempre stata, allo stesso tempo, anche tecnica, non contemplazione estatica della natura ma volontà di potenza. “Sapere è potere”: Bacone, all’alba della nuova era scientifica, aveva espresso quello che è il progetto della scienza in maniera cristallina. Andando a braccetto con lo sviluppo tecnologico e con l’ascesa della classe dei mercanti e degli imprenditori, la scienza moderna in tutte le sue caratteristiche (dall’orientamento delle ricerche ai presupposti sul mondo su cui si fonda il suo metodo) riflette gli interessi e la visione di questi ultimi: utilitarista, meccanicista, riduzionista, orientata alla pratica, integrata al complesso economico-militare-industriale, il suo progetto è sempre stato quello di renderci “padroni e possessori della natura”. Il suo metodo sperimentale, il suo modo di guardare al mondo, sfrondandolo dei suoi aspetti qualitativi, di ciò che costituisce la ricchezza e la bellezza delle esperienze, delle relazioni, delle emozioni, consiste nel liquidare la poesia, le passioni, l’inafferrabile complessità e unicità degli individui e tutti gli aspetti irrazionali della vita, in favore soltanto di ciò che è misurabile, ponderabile, quantificabile, classificabile, elencabile, numerabile. E’ questa la logica dei tecnocrati, degli economisti, dei politici, dei tecnici e degli esperti di ogni tipo, che con le loro “scienze” fisiche o sociali (perfino “rivoluzionarie”) invadono sempre di più ogni aspetto delle nostre vite e pretendono di porsi a guida (anche morale) della società, di determinare quello che dovrebbe essere il funzionamento corretto dei singoli e della loro somma. La stessa produzione della conoscenza scientifica è un’impresa tecnica: non si tratta di posare uno sguardo attento sulla natura per interrogarla e trarne un sapere, ma di isolare e riprodurre i fenomeni naturali in laboratorio tramite l’uso di apparecchiature tecniche, di imparare a smontarli e rimontarli, allo scopo di rifare la natura, di sostituire tutto ciò che di organico esiste con dei surrogati artificiali o degli ibridi, dei meccanismi. Il primato della logica razionalista promosso dall’Età dei Lumi e condotto all’estremo dallo scientismo ha portato a considerare il mondo intero come un meccanismo regolato da leggi matematiche: e come un meccanismo, grazie alle conoscenze offerte dalla scienza e agli strumenti prodotti dalla tecnica, esso può essere manovrato e manipolato a piacimento da chi detiene le redini del potere. L’universo-macchina di Galileo, l’animale-macchina di Descartes, la mente-macchina di Hobbes, l’uomo-macchina di La Mettrie, per finire con la società-macchina, sono tutte tappe di un unico processo di scientifizzazione riduzionista del mondo. Gli organismi viventi (umano compreso, nonostante l’antropocentrismo dominante) vengono considerati dalla biologia alla stregua di complessi macchinari molecolari composti da geni, atomi, particelle, “tubi, pompe, molle, congegni” – niente di così diverso da quanto aveva descritto Descartes diversi secoli fa – assemblabili, modificabili e ricomponibili attraverso il taglia-incolla dei geni, l’inserimento di nanorobot nel sangue, l’ingestione di psicofarmaci che vanno ad agire sulle connessioni neuronali, la fusione di gameti in provetta, la clonazione cellulare, la produzione di fabbriche di batteri sintetici, i trapianti interspecie e l’innesto di protesi tecnologiche di ogni tipo fuori e dentro i corpi. Anche i comportamenti animali, umani e non umani, trovano una spiegazione “scientifica” e un conseguente tentativo di normalizzazione grazie agli sforzi delle cosiddette scienze sociali, come la psicologia e la sociologia. Allo stesso tempo, siamo nell’epoca della società-macchina: sistemi di sorveglianza sempre più sofisticati, raccolta dei dati, software di gestione, modelli predittivi di comportamento, oggettistica e urbanistica smart forniscono preziose istruzioni ai governanti su come gestire la macchina sociale e fare in modo che i suoi ingranaggi scorrano ben lubrificati, efficienti, produttivi e senza intoppi. Thuillier ci mette in guardia con senso di urgenza sulla natura totalitaria della scienza, sul suo progetto di dominio totale, sulla sempre maggiore presa di potere della tecnoscienza sulla società, processo che sta avvenendo sotto gli occhi di un’umanità sempre più cieca, priva di immaginazione e assuefatta ai sacerdoti in camice bianco, un’umanità che non riesce nemmeno più a vedere le proprie stesse catene. Pensare di produrre conoscenza rispetto a cos’è un essere vivente facendo correre dei ratti in un labirinto o dissezionando un coniglio, come immagine, mi pare riflettere bene quella che è l’ideologia scientista e la sua idea carceraria di mondo, la miseria esistenziale ed emotiva di cui si fa portavoce, l’oggettivazione e la mercificazione di ogni elemento del pianeta che logicamente ne conseguono. Un’ideologia di potere che Thuillier ci invita a contrastare e arrestare al più presto, senza ulteriori tentennamenti.

 

È uscito “Contro lo scientismo” di Pierre Thuillier – S-edizioni, 2020

Columbia Britannica (Canada): Sabotato mezzo dentro cantiere di un oleodotto

Tradotto da https://earthfirstjournal.news/2020/05/25/truck-torched-at-trans-mountain-pipeline-worksite-in-b-c/

Columbia Britannica (Canada): Sabotato mezzo dentro cantiere di un oleodotto

I Mounties ( Règia polizia a cavallo canadese) sta indagando dopo che un macchinario pesante in un cantiere di espansione del gasdotto Trans Mountain nella Columbia Britannica è stato trovato bruciato dagli operai tornati al lavoro dopo il fine settimana.

Il macchinario, un camion a fune Peterbuilt, veniva utilizzata per tendere il filo atto a creare una linea di trasmissione verso una stazione di pompaggio come infrastruttura per la condotta.

L’incendio è avvenuto nella boscaglia tra Kingvale e Aspen Grove vicino a Merritt, B.C.

In un comunicato stampa la polizia ha dichiarato che stanno cercando di individuare un gruppo di persone che campeggiava in zona durante il fine settimana.
La polizia sta contattando gli automobilisti in transito sulla Highway 5a e Tillery Road, fuori Merritt, durante la notte tra il lunedì e martedì, in modo da poter visionare le registrazioni delle telecamere da cruscotto.

Lo stesso veicolo è stato preso di mira con un danneggiamento e un furto di carburante all’inizio del fine settimana, secondo la polizia non è noto se gli atti siano stati pianificati o semplicemente sono crimini di opportunità.

I lavori di costruzione si sono intensificati con l’ampliamento dell’oleodotto per l’esportazione della Trans Mountain, compresa la messa in posa di tubi nella Columbia Britannica, dove l’opposizione al progetto è più forte.

Il progetto da svariati miliardi di dollari è di proprietà del governo federale e trasporterà petrolio da Edmonton nell’area di Vancouver.

Lettera di un padre sulla violenza psichiatrica

Riceviamo e diffondiamo:

LETTERA di DENUNCIA di un PADRE CHE CHIEDE GIUSTIZIA per la FIGLIA

Raccogliamo la lettera di denuncia di un padre che chiede giustizia per sua figlia. Ci sembra importante raccontare questa storia di abusi che va avanti da troppo tempo. È necessario attenzionare maggiormente ciò che avviene all’interno di alcune strutture psichiatriche private convenzionate, che in Italia sono più di 3.500, spesso veri e propri luoghi di reclusione in cui è difficile entrare e verificare quali pratiche e terapie vengano attuate.

Ci preme sottolineare inoltre come il ruolo degli Amministratori di Sostegno diventa sempre più invasivo e determinante per la vita di persone vittime della psichiatria che di fatto non hanno commesso alcun reato. Vi chiediamo di pubblicare la storia di Antonio e sua figlia sui vostri canali e sui vostri siti, di inoltrarla il più possibile nella speranza che altri si uniscono alla sua battaglia per la liberazione di Alice.

Collettivo Antipsichiatrico Antonino Artaud

antipsichiatriapisa@inventati.org
www.artaudpisa.noblogs.org 335 7002669

Racconto la mia storia e quella di mia figlia nella speranza che possiate aiutarmi a tirar fuori mia figlia da una situazione di oppressione fisica e psicologica che è costretta a subire da tre anni a questa parte a causa di malasanità e mal gestione della sua condizione da parte delle istituzioni.

Attraverso le vie legali non sono riuscito a cambiare la condizione di mia figlia. Il caso ha anche una valenza più generale, perché ritengo che possano esserci anche tante altre persone in questa situazione.

Il mio nome è Antonio Di Vita, sono residente a Montevarchi (AR) e mia figlia si chiama Alice Di Vita e ha 26 anni. Tre anni fa Alice a seguito di un presunto arresto cardiaco fu ricoverata nel Reparto di Rianimazione di Careggi a Firenze. Dopo circa dieci giorni di coma indotto le viene eseguita una tracheotomia e le viene applicata una cannula a scopo precauzionale. Dopo gli esami strumentali (RM,TC e ECC) ripetuti ad otto giorni di distanza, le condizioni di Alice sono definite “incredibilmente ottime”. Nessuna conseguenza cerebrale, nessuna conseguenza motoria e psico-reattiva. I responsabili del Reparto di Terapia Intensiva danno disposizione al trasferimento di mia figlia da Careggi di Firenze al reparto di Riabilitazione dell’Ospedale del Valdarno (Alice era residente a Montevarchi). La prognosi indicata è di circa dieci giorni. Affermano anche che la cannula della tracheotomia dovrebbe essere rimossa entro tre giorni.

Inaspettatamente, per ragioni non chiare, Alice è invece trasferita all’Istituto Don Gnocchi di Firenze, dove rimarrà per più di un anno subendo le pene dell’inferno. Legata al letto o alla sedia, imbottita di psicofarmaci, con infezioni e piaghe causati degli escrementi non rimossi adeguatamente e frequenti attacchi di panico. La cannula della tracheotomia non viene rimossa e genera aderenze alle corde vocali, paralizzandole e granulomi all’interno della trachea (di natura incerta, benigna o maligna). Da subito, a mia insaputa, viene nominato un amministratore di sostegno (ADS) nella persona del fratellastro. A seguito di mia opposizione l’ ADS viene sostituito da un’avvocatessa la quale però si disinteressa totalmente di mia figlia. Avendo constatato di persona la mal gestione e le atrocità subite da mia figlia ho presentato diversi esposti alla Procura della Repubblica di Firenze. L’ADS, probabilmente spinto dall’Istituto Don Gnocchi stesso, presenta due istanze per trasferire Alice in altri istituti, prima Villa Le Terme dove la maggioranza dei degenti sono in stato vegetativo, e poi un altro nel quale avrebbe dovuto passare tutta la vita . Io richiedo al giudice di trasferire mia figlia in una struttura pubblica specializzata in otorinolaringoiatria e di sostituire l’ADS con la mia persona. Il giudice non acconsente che sia io ad occuparmi di mia figlia ma sostituisce la l’ADS con un altro avvocato.

Il nuovo ADS fa trasferire Alice dal Don Gnocchi all’Ospedale del Valdarno in un reparto chiamato Modica, dove viene scoperto che le diagnosi del Don Gnocchi non sono corrette o sono addirittura false. Viene verificato che, a dispetto di quanto affermato dal Don Gnocchi, Alice può deglutire e può essere alimentata in modo naturale e non più attraverso Peg allo stomaco. Si predispone un piano di recupero psico-fisico attraverso fisioterapia e riduzione/eliminazione degli psicofarmaci somministrati dal Don Gnocchi. Mia figlia ha da subito un grande recupero di forza e vitalità, anche espressiva. Riprende a camminare da sola, sente i bisogni fisiologici e tutto sembra finalmente andare per il meglio. Addirittura sembra che debba essere dimessa, ritornare a casa con me (essendo residenti nella stessa abitazione di Montevarchi) e proseguire la fisioterapia come paziente esterna. Mi viene detto che con venti sedute di tre ore e mezzo di riabilitazione. Alice recupererebbe completamente la postura e la tonicità muscolare. Però questo apparente lieto fine della storia viene bruscamente cambiato dal fatto che l’ADS per motivi non chiari predispone il trasferimento di Alice in un’altra struttura, stavolta privata, l’Istituto Agazzi di Arezzo. Perché?

Alice entra nell’Istituto Agazzi il 2 ottobre 2018. Fin dalle prime settimane mia figlia regredisce, sia fisicamente che mentalmente. Non sente più i bisogni fisiologici e non ricorda più le cose recenti. Da questi fatti e dalla sua espressione mi accorgo presto che le stanno dando di nuovo psicofarmaci. Probabilmente gli stessi del Don Gnocchi. Alice perde di vitalità ed autonomia di giorno in giorno mostrandosi sempre stanca e assente. Io ho faccio presente questa situazione all’ADS il quale non mostra alcun interesse al riguardo. Faccio notare che il principale problema di mia figlia, la rimozione della cannula della tracheotomia, non è stato minimamente affrontato. Richiedo e sollecito di far visitare mia figlia in centri specializzati per questa patologia, alcuni di essi da me stesso contattati e disponibili a visitare Alice. L’ADS mi risponde testualmente così “Decido io, dove, come e quando far visitare Alice”. Il problema che l’ADS non si pone è il fatto che in quelle condizioni Alice è sempre ad alto rischio di arresto respiratorio, come è poi avvenuto per almeno tre volte. L’ADS non ha provveduto neanche a far visitare mia figlia dal Reparto Otorino di Arezzo dove da anni ci sono eccellenti risultati per questo tipo di patologie. Perché???

A seguito dei rifiuti e dell’arroganza mostrata dall’ADS e a causa del continuo peggioramento di mia figlia scrivo al giudice tutelare facendo presente quanto accade e richiedendo espressamente di provvedere per far visitare mia figlia da medici e strutture competenti in materia a cominciare da ospedali di terzo livello dove ci sono reparti specializzati. Verbalmente la giudice dispone per queste visite e l’ADS fa ricoverare Alice a Volterra dove è sottoposta a broncoscopia (inutile perché già fatta e già a conoscenza della diagnosi). Da Volterra Alice è trasferita ad Empoli per visita, dove viene espresso timore nel sottoporre mia figlia ad operazione, ma si afferma anche che la cosa si potrebbe risolvere con multipli interventi in sette -otto mesi.

Io ricontatto quei centri specializzati per problemi alle corde vocali con i quali avevo già discusso, i quali mi richiedono prima di tutto la stessa cosa. “Sua figlia è capace di deglutire?” Alla mia risposta affermativa, a seguito di accertamento diagnostico in mio possesso che ho letto telefonicamente a loro, dicono che l’intervento operatorio sarebbe molto più semplice e rapido di quanto invece era stato affermato dall’Ospedale di Empoli. Mi chiedo perché Alice non viene fatta visitare in uno di questi centri specializzati, a partire proprio dall’Ospedale di Arezzo. Alice da Volterra è di nuovo riportata all’Istituto Agazzi dove nel mese di febbraio va incontro a due arresti respiratori con ricoveri immediati al Pronto Soccorso di Arezzo e con ripetute ostruzioni della cannula dovuti al muco (meccanismo di difesa per rigetto naturale della cannula). A seguito di questi eventi e del fatto che Alice è in pratica parcheggiata in questo istituto senza essere curata per il suo principale problema faccio un ulteriore esposto attraverso la Guardia Di Finanza di San Giovanni Valdarno nel 2019.

A inizio maggio 2019, ho richiesto tramite istanza al giudice tutelare di Arezzo di autorizzare la nomina di un CTP (Consulente Tecnico Di Parte) e la revoca dell’ ADS, in più di prendere atto della volontà di Alice di essere collocata presso la mia abitazione. In subordine chiedevo di poter disporre di nuove perizie mediche su Alice in merito alla possibile rimozione della canula. Ulteriore istanza è stata presentata con simili richieste il 6 febbraio 2020.

Il fatto principale è che a mia figlia viene negato il diritto alla cura. Come tutti i cittadini di uno stato democratico mia figlia ha il diritto di essere visitata non da uno, ma da quattro, cinque, dieci venti specialisti per cercare di risolvere il suo problema. Mi chiedo anche come può una persona recuperare da un problema se si tiene internata in un istituto, privata della propria libertà, delle amicizie, degli affetti e di tutti gli stimoli positivi che si hanno quando ci possiamo muovere nella natura e nei colori delle stagioni. Neanche se fosse una criminale pericolosa avrebbe un trattamento simile.

Richiedo gentilmente a Voi un aiuto per salvare la vita di mia figlia, in quanto ritengo che in pratica si tratti di una morte annunciata, e per portare alla luce questi fatti gravissimi che potrebbero accadere a chiunque di noi in un paese che si ritiene democratico, civile e di diritto. Vi ringrazio sentitamente.

Nell’attesa di un vostro interessamento, cordiali saluti

Antonio Di Vita

Lettera di un padre sulla violenza psichiatrica

Saint-Affrique (Francia) – Incendio al municipio

Un incendio è scoppiato al municipio di Saint-Affrique nella notte tra martedì 2 e mercoledì 3 giugno. Verso l’una del mattino, un residente ha avvertito i vigili del fuoco quando ha visto la porta d’ingresso in fiamme. L’incendio è stato appiccato utilizzando dell’olio usato. E’ stato gettato sulla porta e si è diffuso nell’atrio attraverso la cassetta della posta.

I giornali nella cassetta delle lettere hanno preso fuoco. Le due porte di vetro erano oscurate e una di esse è crollata per il calore.

Il municipio è stato riaperto già alle 8 di questa mattina, non senza essere stato arieggiato tutta la notte. È stata aperta un’indagine per far luce su questo attacco che, secondo le immagini riprese dalle telecamere a circuito chiuso, è stato commesso da un individuo incappucciato. L’attacco è avvenuto intorno alle 12.30, mentre le luci erano ancora accese.

[Dal Midi Libre e dal Progress Saint-Affricain, 3/06/2020]

 

https://sansattendre.noblogs.org/archives/13759

Parigi, Marsiglia, Lione – Corteo contro la violenza della polizia diventa manif sauvage

Martedì 2 giugno si è svolta una manifestazione contro la “violenza della polizia”, che era stata vietata dal prefetto di Parigi, Didier Lallement, poche ore prima, e che ha riunito quasi 20.000 persone davanti al tribunal de Grande Instance a Porte de Clichy. Due ore dopo l’inizio di questa manifestazione, che fa eco all’attuale movimento di rivolta negli Stati Uniti, il rumore delle finestre rotte ha cominciato a coprire il rumore degli slogan dei cittadini che chiedono giustizia. Durante le dimostrazioni selvagge, le finestre di una stazione di polizia municipale, delle filiali di banche e dei supermercati sono state distrutte, macchine edili e gli scooter elettrici sono stati dati alle fiamme. Le autorità hanno stimato il danno nel 17° arr. a più di un milione di euro. 18 persone sono state arrestate, principalmente per “danni intenzionali, partecipazione a un raduno dopo essere state convocate, porto d’armi proibite e lancio di oggetti”.

I manifestanti hanno risposto all’appello del comitato “Verità per Adama”, un giovane ucciso dai gendarmi durante il suo arresto nel 2016. Dopo due ore trascorse davanti al famigerato palazzo dello Stato, alcuni manifestanti hanno invaso la periferia: il traffico è stato bloccato e sono state erette barricate. Poco dopo, i poliziotti hanno gasato in massa e hanno caricato la folla. Un migliaio di persone sono partite per una manifestazione selvaggia sul Boulevard Berthier (Maréchaux). Molte vetrine sono distrutte in Avenue de Clichy.

Intorno alle 22.30, una manifestazione selvaggia cresce nel 18 arr., passando da Max Dormoy e dirigendosi verso La Chapelle: “et tout le monde déteste la police !” Mentre gli outfielders (BRAV) si illuminano al LBD avenue de Clichy, 200 persone si aggirano selvaggiamente vicino a La Chapelle, diverse centinaia di persone sono più a sud, in Place du Dr Lobligeois.

A Clichy, la stazione di polizia municipale di rue Martre è attaccata da diversi rivoltosi.
Alcuni dei manifestanti si disperdono a Barbès dopo un grande utilizzo di lacrimogeni da parte della polizia, mentre un gruppo di 300 persone conclude questa serata infuriata alla stazione della Gare du Nord.

In un articolo che ripercorre questa serata, Le Parisien fa una breve lista delle aziende attaccate durante questa manifestazione selvaggia: “Gli agenti della città si stanno muovendo per evacuare i resti di biciclette, scooter e motorini bruciati, al fine di sgombrare la zona. I negozianti, dal canto loro, stanno cercando di riparare i danni della serata. …] Intermarché, la banca del CIC, che ha visto il suo bancomat distrutto è ora protetta da una squadra di sicurezza, Burger King ha perso una vetrina.

A Marsiglia, 1.900 persone hanno partecipato alla manifestazione. Cinque persone sono state arrestate e prese in custodia con l’accusa di aver gettato rifiuti, di aver lanciato oggetti.

A Lione, dove 1.200 persone hanno manifestato, la polizia ha contato circa 150 facinorosi. Due persone sono state arrestate e prese in custodia.

[Da parigi-luttes.info e notizie sui media]

https://sansattendre.noblogs.org/archives/13769

Un respiro profondo

«Non andartene docile in quella buona notte
Infuriati, infuriati contro il morire della luce»
Dylan Thomas
 
No, questa volta no. L’ennesimo omicidio di un nero da parte della polizia, avvenuto lo scorso lunedì 25 maggio a Minneapolis (Minnesota), nel «paese più libero del mondo», non passerà inosservato, non finirà anch’esso a fare numero in qualche statistica. Schiacciato sotto il peso di tre poliziotti, uno dei quali col ginocchio premuto sul suo collo, George Floyd ha inutilmente invocato pietà. Le sue ultime parole sono state: «non riesco a respirare, non riesco a respirare, per favore, signore, per favore, per favore, per favore, non riesco a respirare». Ma ai signori che compongono il braccio armato dello Stato, di qualsiasi Stato, è inutile chiedere favori. È il loro lavoro non fare respirare, calpestare e soffocare ogni slancio vitale. Si arruolano appositamente per questo, per godere del potere di togliere il respiro a chi sta sotto di loro. Vengono addestrati e pagati appositamente per questo, per impedire ogni movimento di chi sta sotto di loro. E poi, se una tale richiesta proviene per di più da un poveraccio nero ed è rivolta a sbirri bianchi, allora l’esito finale è quasi sempre scontato. Talmente scontato che l’omicidio da parte della polizia è un fatto quotidiano negli Stati Uniti, considerato quasi endemico (secondo alcune statistiche, sarebbero almeno 400 le persone finora uccise dalla polizia statunitense nel 2020). È un fatto assodato, deplorato, criticato, con la stessa prontezza con cui viene metabolizzato e dimenticato.
No, questa volta no. Non è stato possibile. Se la morte di George Floyd ha suscitato ben più delle abituali polemiche sulle «tensioni razziali» che allignano negli Stati Uniti o sul razzismo dilagante fra le forze dell’ordine, se ha provocato il più ampio sollevamento che si ricordi nel paese, ciò è dovuto fondamentalmente a due motivi. Il primo è quasi banale: questo atroce omicidio è stato ripreso e il video ha fatto immediatamente il giro del mondo (proprio come accadde nel 1991 a Los Angeles con il pestaggio di Rodney King). Davanti a quelle immagini che rimbalzavano ovunque, sbattute in faccia nella loro brutalità, non è stato possibile limitarsi a scuotere la testa, a bestemmiare, a sospirare, a stringere i pugni… e rassegnarsi. 
È questa la differenza fra la morte di George Floyd e quella di Breonna Taylor, crivellata di pallottole lo scorso 13 marzo nel suo appartamento di Louisville (Kentucky) da tre agenti in borghese che vi avevano fatto irruzione senza mandato, o quella di Mike Ramos, ucciso da un poliziotto ad Austin (Texas) lo scorso 24 aprile mentre si trovava in un parcheggio a bordo della sua macchina. Lontani dagli occhi, è stato più facile tenere i loro omicidi lontani dal cuore. Già, terrificante tautologia — nella società dell’immagine è l’immagine a fare la differenza. Lo scorso 23 febbraio, mentre stava facendo jogging in un sobborgo di Brunswick (Georgia), Ahmaud Arbery è stato ucciso da un ex-poliziotto da poco andato in pensione e da suo figlio, che lo avevano inseguito scambiandolo per un ladro. Per oltre due mesi i due responsabili di quell’omicidio non sono stati infastiditi finché il 5 maggio è stato diffuso un video che riprendeva la loro prodezza; padre e figlio sono stati arrestati 48 ore dopo. Gli uomini dell’ordine possono ben uccidere chi non ha santi in paradiso, difficilmente verranno perseguiti, ma è meglio che prestino qualche attenzione a non farsi riprendere.
Il secondo motivo che ha impedito al fatto di cronaca avvenuto a Minneapolis di venire archiviato in una triste contabilità ordinaria, rendendolo viceversa dirompente, è del tutto casuale. Non c’è nulla che si assomigli più di due gocce d’acqua, ma è solo l’ultima a far traboccare il vaso. Anche se non era diverso da altri che l’hanno preceduto, l’omicidio di George Floyd  — quest’uomo qualunque, che aveva appena perso il lavoro e che cercava solo di sopravvivere, in cui è così facile riconoscersi — ha fatto da evento catalizzatore in grado di scatenare una serie di reazioni a catena che fino ad ora niente è riuscito a fermare e che stanno rendendo sempre più incandescente la situazione sociale negli Stati Uniti.
 
Dunque, cosa è successo? Nella notte di quel tragico lunedì 25 maggio è stato postato su Facebook un video ripreso da una passante che mostra gli ultimi minuti di vita di George Floyd. Si odono i suoi lamenti, si vede lo sguardo vuoto e indifferente del suo carnefice in uniforme. Sono bastate poche ore perché quel video diventasse assai più «virale» del Covid-19, indignando milioni di persone e facendo precipitare nell’imbarazzo le autorità locali. Il sindaco della città Jacob Frey, membro del DFL (un partito vicino al Partito Democratico, ma su posizioni ancora più «liberal»), esprime il proprio cordoglio alla famiglia di George Floyd e licenzia in tronco i quattro poliziotti coinvolti nella sua morte. Un provvedimento urgente più che raro, reso necessario per allontanare dall’amministrazione ogni sospetto di complicità ed abbassare così la tensione in vista delle manifestazioni di protesta previste per quel martedì 26 maggio. Per tutto il giorno in molte zone della città si terranno infatti iniziative per denunciare quanto accaduto. L’incrocio dove è morto Floyd diventa punto di ritrovo, di discussione, ed il traffico viene più volte interrotto. Cortei partono da vari quartieri della città per confluire tutti davanti al commissariato del terzo distretto, quello a cui appartenevano i poliziotti licenziati, che viene circondato da migliaia di manifestanti in preda ad una rabbia crescente. La vetrata d’ingresso va in frantumi mentre c’è chi traccia scritte sulle volanti e sui muri, e chi lancia uova e sassi contro l’edificio. Quando alcuni manifestanti cercano di infrangere le finestre del commissariato scatta la reazione dei poliziotti che si trovano all’interno, i quali respingono la pressione della folla usando gas urticanti. Ne nascono tafferugli che si spostano nel parcheggio del commissariato, i cui mezzi vengono danneggiati. Inferocita, la polizia carica i manifestanti sommergendoli di gas lacrimogeni e sparando proiettili di gomma, ma i manifestanti si difendono e daranno battaglia per tutta la notte (saccheggiando un negozio di liquori per rifornirsi di spirito). Sempre nel corso di quel martedì altri manifestanti stanno tenendo un presidio davanti alla casa di Derek Chauvin, l’ormai ex-poliziotto che nel video preme il proprio ginocchio sul collo di George Floyd.
 
La mattina di mercoledì 27 maggio la notizia del giorno in tutto il paese è la violenza impiegata dalla polizia di Minneapolis contro i manifestanti. Qua e là cominciano a venire organizzate le prime iniziative di solidarietà. A Portland (Oregon) viene occupato il Justice Center, mentre le strade di Los Angeles sono invase da un corteo che blocca la superstrada. Una volante della polizia investe la folla dei manifestanti, che reagiscono attaccandola prima di andare a presidiare il quartier generale della polizia. L’indignazione generale è tale che lo stesso presidente degli Stati Uniti tenta di cavalcarla, scagliandosi contro il sindaco di Minneapolis accusandolo di essere un «estremista di sinistra» che reprime giuste proteste. Intanto nella città del Minnesota viene eretto un recinto di protezione attorno al commissariato del terzo distretto, mentre altre manifestazioni e presidi di protesta prendono il via. Sebbene all’inizio sia la calma a prevalere, col passare delle ore la rabbia monta, aumenta, fino a dilagare incontrollabile. Il commissariato del terzo distretto viene nuovamente attaccato e, dopo essersi scontrati con la polizia disposta anche sui tetti, i manifestanti si disperdono per la città. Decine e decine di negozi vengono saccheggiati, palazzi interi dati alle fiamme. Un manifestante sorpreso all’interno di una gioielleria viene abbattuto dal proprietario.
 
Giovedì 28 maggio gli Stati Uniti si svegliano sotto shock per quanto accaduto. A Minneapolis viene inviata la Guardia Nazionale e sulla città si alzano gli elicotteri della polizia. Se da un lato il sindaco Jacob Frey cerca di calmare i manifestanti invitandoli ad essere «migliori di quanto lo siamo stati noi», dall’altro il procuratore Mike Freeman butta benzina sul fuoco dichiarando di non intendere procedere contro gli agenti licenziati (Freeman è noto per la sua grande comprensione e la mano leggera nei confronti dei poliziotti dal grilletto facile). Le proteste si diffondono in entrambe le «città gemelle» che sorgono sulle sponde contrapposte del fiume Mississippi, Minneapolis e Saint-Paul, dove migliaia e migliaia di persone scendono in strada. Tafferugli fra polizia e manifestanti scoppiano fin dal pomeriggio. Ma è la notte, è soprattutto la notte a scatenare i rivoltosi, i quali sanno bene dove darsi appuntamento per dare battaglia. Il commissariato del terzo distretto viene nuovamente attaccato e questa volta i manifestanti riescono a penetrarvi all’interno. Davanti alla pressione di una folla furibonda, i poliziotti capiscono di avere un’unica via d’uscita e sono lieti di obbedire ad un ordine senza precedenti: abbandonano l’edificio e scappano via a bordo delle loro volanti. Il commissariato è ora vuoto, alla mercé dei rivoltosi. Prima viene saccheggiato e devastato, poi viene dato alle fiamme, da cima a fondo. Un rogo che durerà per ore, salutato da urla di gioia in una vera e propria festa di liberazione. Non soddisfatti, i manifestanti devastano, saccheggiano e incendiano negozi di ogni genere: di elettrodomestici, di alcolici, di abbigliamento, di ristorazione, di telefonia mobile, supermercati… anche qualche banca e molti uffici postali finiscono in fiamme. Secondo la polizia di Saint-Paul sarebbero oltre 170 i negozi attaccati a partire dall’inizio delle sommosse. La stessa sera alcuni autisti di autobus rifiutano di guidare i propri mezzi per trasportare poliziotti o manifestanti arrestati, esempio di non-collaborazionismo che nei giorni seguenti si estenderà ad altre categorie di lavoratori.
Non pare un’esagerazione affermare che la notte fra giovedì 28 e venerdì 29 maggio resterà nella storia. La brutale e iper-equipaggiata forza di sicurezza del paese più ricco e potente del pianeta, barricata in una sua sede, è stata letteralmente sbaragliata da migliaia di manifestanti, neri incazzati ed incazzati neri, armati con mezzi di fortuna, per lo più giovani, privi di una consapevolezza politica, provenienti dalle fasce più povere della popolazione, ma tutti uniti dall’odio per il nemico più comune, più palese e più onnipresente: la polizia.
Non solo, ma proprio mentre nell’epicentro raggiunge il suo culmine, la rivolta contro la polizia e la società che difende inizierà a divampare in altri punti del paese. Quello stesso giovedì 28 vengono infatti organizzate iniziative in solidarietà a Portland (Oregon) ed Olympia (Washington). A Phoenix (Arizona) un corteo selvaggio finisce con una sassaiola contro il commissariato locale. In California, ad Oakland viene bloccato l’ingresso di una superstrada, a Sacramento le strade vengono bloccate dai cortei, a Fontana un presidio nei pressi di un commissariato si trasforma in un blocco stradale prima di terminare con danneggiamenti e lanci di pietre contro il municipio. A Denver (Colorado) viene occupata una superstrada e scoppiano scontri fra polizia e manifestanti. A Columbus (Ohio) i tafferugli sfociano in atti di vandalismo contro il palazzo del governatore. Scontri fra manifestanti e polizia avvengono anche a Louisville (Kentucky) ed a New York.
 
L’alba di venerdì 29 maggio spunta su un paese che non sembra essere più lo stesso. Qualcosa sta accadendo, qualcosa di imprevisto fino a pochi giorni prima e che nessuno sa dove potrebbe portare. E di questo i politici si rendono ben conto, tant’è che al risveglio si ode subito il cinguettio notturno di Trump, che da simpatizzante non può che diventare avversario della protesta. Preoccupato per la fine del rispetto verso la proprietà privata, annuncia la mobilitazione della Guardia Nazionale e lancia il suo avvertimento ai rivoltosi: «quando iniziano i saccheggi, si inizia a sparare». Parole che non otterranno l’effetto desiderato, al contrario — più che scoraggiare, ecciteranno gli animi. Il procuratore di Minneapolis, travolto dagli avvenimenti, gioca il suo asso nella manica per tentare di spegnere i disordini che si stanno diffondendo incontrollabili. Dopo aver visto bruciare un commissariato di polizia della sua città assieme a decine di altri edifici, dopo che il suo ufficio è stato bombardato da migliaia di quotidiane telefonate ed e-mail di protesta, dopo che la scintilla scaturita nella sua città ha attecchito in altre parti della nazione, ordina l’arresto immediato di Derek Chauvin con l’accusa di omicidio di terzo grado (è il primo caso di un poliziotto bianco incriminato per la morte di un cittadino nero nella storia del Minnesota). Forse, se fosse stato preso subito, questo provvedimento avrebbe dato i risultati disinnescanti sperati. Ma dopo quattro giorni di sangue agli occhi, si rivela del tutto inutile. Anzi, in un certo senso peggiora pure la situazione. Perché è evidente che si tratta di un’ipocrita pezza da esibire (assieme ai risultati dell’autopsia di George Floyd, secondo i quali l’uomo non sarebbe affatto morto per asfissia ma per proprie patologie pregresse) nel disperato tentativo di coprire le vergogne istituzionali (per altro, proprio quella mattina la polizia di Minneapolis aveva arrestato in diretta un giornalista della CNN reo di avere la pelle troppo scura). La tensione non si spegne affatto, tutt’altro, è destinata ad esplodere in maniera incontrollabile ovunque quel venerdì 29, primo giorno del week-end. In tutti gli Stati Uniti sono innumerevoli le persone che scendono in strada per protestare contro la violenza poliziesca, sfidando il coprifuoco notturno.
A Minneapolis vengono erette barricate in alcuni incroci stradali per bloccare la circolazione del traffico. È la quarta notte consecutiva di scontri (almeno quattro i poliziotti rimasti feriti), saccheggi ed incendi (di una banca e di esercizi commerciali). Un altro commissariato di polizia viene assaltato e devastato, su un muro viene lasciata un’ironica domanda: «ci ascoltate adesso?».
A Washington si verifica l’incredibile: i manifestanti circondano la Casa Bianca e tentano di assaltarla. L’edificio viene chiuso in stato di massima allerta, il suo celebre inquilino viene trasferito in un bunker sotterraneo, ed il servizio di sicurezza (composto da agenti dei servizi segreti) respinge i manifestanti ricorrendo al gas urticante.
Ad Atlanta (Georgia) si apre una specie di caccia allo sbirro, diverse pattuglie della polizia vengono attaccate. Le volanti sono danneggiate e incendiate. La sede della CNN viene presa di mira dai manifestanti, che ne sfondano le vetrate.
A New York hanno luogo violenti scontri durante i quali vengono feriti almeno una decina di poliziotti. Un loro furgone viene dato alle fiamme, e si registrano centinaia di arresti. Fra questi, una manifestante accusata di tentato omicidio ai danni di quattro poliziotti per il lancio di una molotov contro il furgoncino sul quale si trovavano. La molotov non è esplosa e la ragazza viene arrestata, assieme alla sorella, dagli stessi agenti presi di mira (uno dei quali viene accolto a morsi).
A Los Angeles alcuni manifestanti attaccano un poliziotto, che riesce a fuggire. In serata viene bloccato il traffico nel centro della città e saccheggiato uno Starbucks.
A San Jose (sempre in California) i manifestanti erigono barricate con cassonetti della spazzatura poi dati alle fiamme, si scontrano con la polizia e infrangono diverse vetrine dei negozi.
A Portland (Oregon) i manifestanti danno l’assalto alla prigione e al commissariato centrale. Una galleria commerciale è saccheggiata e incendiata.
Scontri e disordini si verificano anche a Dallas (Texas), Houston (Texas), Las Vegas (Nevada), Denver (Colorado), Memphis (Tennessee)… Ma è in altre due città che avviene l’irreparabile, ciò che contribuisce ad alimentare ed estendere ulteriormente le sommosse in corso.
Ad Oakland (California) è stata una giornata di manifestazioni di protesta. In serata migliaia di persone invadono l’autostrada, bloccando il traffico. Alle 21.45 la polizia annuncia il divieto della manifestazione. I manifestanti si disperdono per la città; c’è chi incendia cassonetti della spazzatura, chi devasta e saccheggia negozi, chi penetra dentro una banca per appiccarvi il fuoco, chi fa una rude visita a qualche concessionario d’auto… davanti al municipio si può leggere la scritta «non abbiamo nulla da perdere, solo le nostre catene». Ma proprio poco dopo le 21.45, da un’auto che transita davanti al tribunale federale vengono esplosi alcuni colpi d’arma da fuoco che raggiungono due agenti di guardia, uno dei quali muore. Che il modo migliore di «stop killing black people» sia quello di «start killing white pigs»? Questa notizia viene data solo il giorno dopo e all’inizio le autorità ne enfatizzano i toni, annunciando che si tratta di un atto di «terrorismo domestico». Poche ore dopo, forse accortisi che così rischiano di indicare il cattivo esempio, gli inquirenti si affrettano a negare che ci siano collegamenti con le proteste in corso.
Invece a Detroit (Michigan) una manifestazione di protesta contro la brutalità poliziesca, iniziata nel pomeriggio nella maniera più pacifica, finisce con scontri notturni fra manifestanti e forze dell’ordine. In mezzo alla baraonda, verso le 23.30, anche qui alcuni colpi di arma da fuoco vengono sparati da un Suv. Ma questa volta contro i manifestanti, ed un ragazzo di 19 anni viene colpito a morte.
 
Con simili presupposti, è inevitabile che anche sabato 30 maggio sia una giornata infuocata in una nazione dove in almeno 25 città di 16 Stati è stato imposto il coprifuoco, e la Guardia Nazionale mobilitata in una decina di Stati. Il ministero della Difesa ordina all’esercito di prepararsi a schierare in tutto il paese le unità di polizia militare. Nel corso della giornata hanno luogo manifestazioni pacifiche (a Eureka, Des Moines, Tacoma e Geneva, dove viene chiusa la superstrada, Santa Rosa, Modesto, Houston, Bloomington, Louisville, Miami, Durham, Montgomery, Atlanta, davanti alla casa del governatore, Burlington), altre che generano scontri fra manifestanti e forze dell’ordine (a Salem, Portland, dove il sindaco ha decretato il coprifuoco dalle 20 alle 6, Salt Lake City, Oakland, Phoenix, Denver, Dallas, Oklahoma City, Columbus, Milwaukee, Tampa, Jacksonville, Little Rock, Boston, Pittsburgh).
Nell’epicentro della rivolta, Minneapolis, il governatore Tim Waltz lancia un appello ai manifestanti: «Capisco la rabbia ma tutto questo non riguarda la morte di George Floyd, né le disuguaglianze, che sono reali. Questo è il caos». Le sue parole non devono apparire molto convincenti, considerato che migliaia di manifestanti sfideranno ancora il coprifuoco e la Guardia Nazionale per andare a devastare la casa di Derek Chauvin, incendiare banche, uffici postali, ristoranti e una pompa di benzina, prima di cercare purtroppo inutilmente di bruciare il commissariato di un altro distretto.
A Washington ennesima manifestazione davanti alla Casa Bianca, protetta dalla Guardia Nazionale e — a detta del fulvo settantaquattrenne bimbominkia che vi risiede — da cani cattivissimi. Un sempre più massiccio servizio d’ordine usa nuovamente il gas urticante per disperdere la folla, ma questa volta i manifestanti resistono ed alcuni di essi riescono perfino a contrattaccare con una sassaiola. Un’auto dei servizi di sicurezza parcheggiata all’esterno viene danneggiata, così come il Ronald Regan Presidential Foundation and Institute.
A New York scoppiano ancora violenti scontri, il cui bilancio ufficiale parla chiaro: 350 manifestanti arrestati (fra cui la figlia del sindaco della città, la quale stava partecipando ad un blocco stradale), 33 agenti feriti, 47 mezzi della polizia danneggiati. Un Suv della polizia investe una barricata, ferendo alcuni manifestanti.
A Seattle (Washington), oltre a scontri con la polizia durante i quali vengono date alle fiamme alcune volanti, si verificano dei saccheggi e viene chiusa una strada interstatale.
A Reno (Nevada) la polizia fa uso di gas lacrimogeni scatenando l’ira dei manifestanti che assaltano e devastano un commissariato.
A Las Vegas (Nevada) i poliziotti vengono attaccati con bottiglie molotov mentre vengono danneggiate automobili e saccheggiati negozi.
A Jackson (Florida) durante gli scontri restano feriti diversi poliziotti, uno dei quali pugnalato al collo.
A Sacramento (California) ci sono saccheggi e scontri con la polizia. Nel pomeriggio molti manifestanti attaccano il carcere della contea, infrangendone i vetri.
Ad Emeryville (California) vengono saccheggiati grandi magazzini in diverse aree.
A San Francisco sono bloccate strade e saccheggiati negozi. Il sindaco invoca la Guardia Nazionale.
A Los Angeles scoppia una vera rivolta di massa, con negozi saccheggiati a Berverly Hills e sulla Rodeo Drive al grido di «Eat the rich!», volanti attaccate, commissariati incendiati. Viene decretato lo stato d’emergenza e mobilitate tutte le forze di polizia. 
A La Mesa (California) si verificano saccheggi e incendi di banche.
A Scottsdale (Arizona) un centro commerciale è saccheggiato.
Ad Austin (Texas) viene chiusa un’autostrada, si saccheggiano negozi, si vandalizzano i commissariati.
A San Antonio (Texas) dopo un pacifico corteo viene attaccato ed incendiato l’ufficio della libertà vigilata.
A Lincoln (Nebraska) in mezzo a proteste, blocchi stradali, scontri con la polizia, viene dato alle fiamme l’edificio delle Poste.
A Madison (Wisconsin) la protesta sfocia in scontri e saccheggi.
A Grand Rapids (Michigan) e a Kansas City (Missouri) i manifestanti riscaldano l’aria con numerosi roghi.
A Rockford (Illinois) hanno luogo scontri e saccheggi.
A Chicago i poliziotti vengono bersagliati con oggetti di ogni genere e le loro volanti fracassate.
A Cleveland (Ohio) si verificano scontri, saccheggi e molte volanti sono date alle fiamme.
A Charleston (West Virginia), Columbia (South Carolina) e Raleigh (North Carolina) le manifestazioni terminano con scontri e saccheggi, alcune volanti prendono fuoco.
A Richmond (Virginia) molti negozi vengono saccheggiati, la sede delle Daughters of the Confederacy viene incendiata. Si inizia a vandalizzare i monumenti confederali, celebrazione dello schiavismo.
A Ferguson (Missouri) viene danneggiato e fatto evacuare un commissariato, dopo che i suoi agenti sono subissati dal lancio di petardi, mattoni, sassi, bottiglie.
A Nashville (Tennessee) i manifestanti, dopo essersi scontrati con la polizia, riescono ad incendiare il tribunale.
A Syracuse (New York) viene attaccato il commissariato centrale di polizia.
A Philadelphia (Pennsylvania), dopo scontri con la polizia e incendi di volanti, alcuni manifestanti si arrampicano sulla statua di Frank Rizzo (commissario di polizia nel 1968 e successivamente sindaco della città) e le danno fuoco.
Ad Indianapolis (Indiana) viene ucciso un altro manifestante, il terzo dall’inizio delle sommosse.
 
Domenica 31 maggio la protesta contro la polizia si internazionalizza. A Rio de Janeiro si tiene una grande manifestazione contro la polizia che solo lo scorso anno in quella città ha commesso circa 1800 omicidi — una media di 5 al giorno. Sfidando le norme antipandemia, diverse manifestazioni di protesta sono organizzate anche a Londra (dove si registrano arresti), Berlino, dove l’ambasciata statunitense viene circondata dai manifestanti, Toronto e Auckland (Nuova Zelanda).
Nel frattempo le agitazioni continuano inarrestabili anche negli Stati Uniti. In una Minneapolis blindatissima tutto sembra procedere nella calma, quando un’autocisterna cerca di investire la folla di manifestanti su un ponte. Un atto che per fortuna non provocherà nessun ferito (a parte l’autista del mezzo, che viene quasi linciato sul posto).
A Washington per tutta la giornata nei pressi della Casa Bianca, soprattutto nel parco antistante, scoppiano violenti e ripetuti scontri, durante i quali rimangono feriti una cinquantina di agenti dei servizi di sicurezza. Lo scantinato della chiesa di Saint-John (chiamata «Chiesa dei Presidenti»), che si trova all’ingresso del parco, viene dato alle fiamme. Ancora una volta all’interno del palazzo governativo viene decretato lo stato di allerta e il Presidente condotto in un bunker. Altrove per la città alle manifestazioni si risponde con gas lacrimogeni e granate stordenti. La sede dell’AFL-CIO, la più potente organizzazione sindacale del paese, viene devastata e incendiata. Sul suo muro viene lasciata la scritta «il silenzio è complice». Banche e gioiellerie vengono attaccate. Molti monumenti sono vandalizzati.
A Los Angeles la polizia fa uso di gas lacrimogeni contro i manifestanti che bloccano una via commerciale nel quartiere di Santa Monica. Numerosi palazzi commerciali e negozi sono saccheggiati. Sono oltre 20 le città della California in cui avvengono saccheggi.
A New York migliaia di manifestanti invadono le strade di Manhattan per raggiungere Union Square. Scoppiano nuovamente scontri con le forze dell’ordine, sulla Broadway. In cinque quartieri della città si verificano saccheggi.
A Boston (Massachusetts) centinaia di manifestanti si scontrano con la polizia, danneggiando ed incendiando volanti. Si saccheggiano alcuni negozi.
Anche ad Atlanta (Georgia) la polizia ricorre ai lacrimogeni. Viene dato l’annuncio che due poliziotti sono stati licenziati e altri tre sospesi per «uso eccessivo della forza» durante le manifestazioni del giorno precedente.
A Philadelphia (Pennsylvania) molte volanti della polizia vengono attaccate e distrutte, e alcuni negozi saccheggiati.
Poco dopo mezzanotte un manifestante viene ucciso dalla Guardia Nazionale a Louisville (Kentucky), città che in tutto il week-end è stata teatro di violenti scontri anche perché brucia ancora il ricordo della morte di Breonna Taylor. Altri due manifestanti rimangono uccisi a Davenport (Iowa). Il capo della polizia di questa città dichiara che anche tre agenti hanno subito un agguato, e che uno di loro è rimasto ferito.
 
Oggi è lunedì 1 giugno. È trascorsa una settimana dalla morte di George Floyd e tutta l’opinione pubblica statunitense è concorde nel ritenere di trovarsi di fronte «ai peggiori disordini civili dai tempi dell’assassinio di Martin Luther King». Il che è un elegante modo di fare buon viso a cattivo gioco. È infatti evidente che non è più la «questione razziale» a scaldare gli animi, come dimostra non solo la componente multietnica dei rivoltosi (Samantha Shader, la ragazza newyorkese arrestata venerdì notte per il lancio di una molotov contro la polizia, non è nera, né nativa americana, e nemmeno latina; è bianca, il colore della pelle giusto per essere lasciati in pace dal razzismo poliziesco, cosa che non le ha impedito di rischiare oggi l’ergastolo per aver cercato di vendicare George Floyd e tutte le altre vittime degli assassini in divisa), ma anche gli stessi slogan che scandiscono le manifestazioni in corso. L’appello alle Vite nere che contano ha lasciato sempre più spazio agli universali Nessuna pace senza giustizia e Non riesco a respirare. Da sgherri quali sono, i poliziotti non fanno altro che difendere il mondo dei loro padroni. Ed è proprio questo mondo che da Los Angeles a New York, passando per Minneapolis, viene dato alle fiamme. Un incendio divampato quasi con naturalezza, con rapidità impressionante, che ha sorpreso gli abituali pompieri-recuperatori lasciandoli attoniti davanti al fatto compiuto, senza più molte possibilità di intervenire. Quando un’attivista nera avvocata dei diritti civili difende apertamente i saccheggi, quando una celebre pop-star si dichiara pronta a fare qualsiasi cosa pur di buttare fuori l’inquilino dalla Casa Bianca, significa che le classiche riluttanze stanno venendo meno.
Fra le autorità cosiddette «responsabili», quelle più attente a non far precipitare la situazione, non si sa più cosa fare per calmare le acque (agitate anche dalla nuova autopsia sul cadavere di George Floyd, che ha indicato nell’asfissia provocata dalla pressione sul collo la causa effettiva della morte). Ecco quindi salire oggi alla ribalta niente meno che i poliziotti buoni, come quelli che a New York, Washington, Miami (Florida) e Santa Cruz (California) si sono messi in ginocchio in solidarietà con i manifestanti, o quelli che a Genesee (Michigan) e Norfolk (Virginia) si sono uniti ai cortei di protesta. Spettacolo mediatico più che reale defezione, senz’altro, ma avvenimento comunque indicativo e destinato ad essere presto sovrastato dall’arroganza di un governo che sputa sul fuoco nella certezza di riuscire a spegnerlo. Questa mattina l’ex-sindaco di New York, nonché consigliere di Trump sulla sicurezza, Rudolph Giuliani, ha dichiarato: «sono 7 giorni che la teppa comanda nelle città con i sindaci più democratici, è ovvio che questi sindaci sono incapaci di proteggere i loro cittadini. Danno forza ai rivoltosi abbandonando commissariati e ordinando alla polizia di stare ferma e di farsi aggredire senza procedere ad arresti» (sebbene siano migliaia gli arrestati nel corso delle sommosse). Poche ore dopo, il suo tracotante superiore, stanco di venire rinchiuso nel bunker di una Casa Bianca da giorni sotto assedio, ha annunciato che considererà «terroristi» i militanti Antifa (che considera i fomentatori dei disordini) e sollecitato governatori, sindaci e commissari a riportare Legge & Ordine usando le maniere forti contro i manifestanti: «Se non dominate le vostre città e i vostri Stati, vi spazzeranno via… A Washington stiamo per fare qualcosa che la gente non ha mai visto».
Appellandosi all’Insurrection Act del 1807, vuole inviare l’esercito nelle strade. Successe già nel 1967 o nel 1992, dopo le rivolte di Detroit e Los Angeles. Ma quelle rivolte erano circoscritte ad una singola area, qui è tutta la nazione che andrebbe pattugliata militarmente. Una simile decisione cosa può provocare? Riporterà la pace sociale o scatenerà la guerra civile? Trattare da insurrezione una protesta generalizzata costellata da sommosse non è forse il modo migliore per materializzare ciò che si è evocato? Senza dimenticare che con somma ipocrisia è la stessa Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti a proclamare il diritto, anzi, il dovere di rovesciare un governo dispotico.
Tanto più che — qualora politici e miliardari non se ne siano ancora accorti — in tutti gli Stati Uniti sta già accadendo qualcosa che alla Casa Bianca di Washington non avevano mai visto: la diffusione della consapevolezza che sotto il peso dell’autorità non si riesce né a muoversi né a respirare, ovvero a vivere. Che è inutile chiedere favori a chi ci tiene, più o meno premuto, il piede sul collo. Che quando la sola scelta lasciata da questa società è quella fra obbedire in silenzio o venire schiacciati, non resta che rifiutare entrambe le alternative e armare questa consapevolezza con la rivolta. Sfidando coprifuoco e forze dell’ordine, gas urticanti e pallottole. Sfidando la paura e la rassegnazione, il senso di impotenza ed il realismo. Scendere in strada e battersi, con furia, senza moderazione, scoprendo che non si è affatto soli, che non si è affatto deboli, e che è possibile, è sempre possibile rovesciare la situazione. 
Cominciare a respirare, nella sola maniera possibile: non facendo più respirare l’autorità.
 
Finimondo.org [1/6/2020]