Protesta anche nel carcere Don Bosco di Pisa nel tardo pomeriggio di lunedì 9 marzo
12 Marzo 2020 : Incendiato un furgone della polizia penitenziaria
Protesta anche nel carcere Don Bosco di Pisa nel tardo pomeriggio di lunedì 9 marzo
12 Marzo 2020 : Incendiato un furgone della polizia penitenziaria
Cari amici,
vi scrivo dopo aver letto le lettere dalla quarantena circolate di recente sul sito della rivista Ill Will Editions, che tentano di riflettere a partire dalla crisi attuale. Mi è sembrato che molte di queste lettere rivelassero una asimmetria, una frattura tra due linee di pensiero, che sono distinte ma finiscono per sovrapporsi: da un lato, c’è il comprensibile timore che le forme di controllo introdotte recentemente vengano mantenute al di là dell’emergenza sanitaria (com’è successo dopo l’11 settembre) – una preoccupazione che si concentra sul potere dello Stato; dall’altro, la forza dirompente del virus, come una potenza non-umana che si diffonde attraverso di noi, e agisce al di sotto e al di là delle misure economiche e sociali con cui le élite politiche si sforzano di mantenere un’autorità e un controllo sempre più sbiaditi. Orion, per esempio, descrive nella sua lettera il virus come una forza che ha “istituito la sua temporalità e che ha immobilizzato tutto”, una potenza “capace di andare al di là di quello che le insurrezioni sono state capaci di fare, e di bloccare realmente l’economia”. Due tipi di potere, due linee di forza asimmetriche. Noi che non siamo mai stati amici della loro normalità, come possiamo analizzare questa sovrapposizione?
Vi scrivo dal Cile. L’arrivo della pandemia nel bel mezzo di un’insurrezione che non è ancora finita offre l’occasione di riflettere sulle forme che prendono oggi il controllo sociale e le crisi politiche. La situazione qui potrebbe sembrare la stessa che altrove: il governo cileno ha seguito l’esempio dei governi di tutto il mondo e ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale. Questo stato di eccezione è il terzo che il governo ha decretato nell’ultimo decennio, dopo quello contro la rivolta di ottobre e quello decretato in seguito al terremoto del 2010. Per due volte quest’anno, il mantenimento dell’ordine pubblico è stato conferito all’esercito, che non ha esitato a imporre un coprifuoco notturno e a istituire alcuni posti di controllo per limitare e sorvegliare i movimenti.
Siamo forse passati da una forma di crisi a un’altra? Se questo è vero, la distinzione da fare non è tanto tra stati di normalità e di eccezione, o tra il ruolo della legge e quello delle misure d’urgenza. Quello che dobbiamo chiederci, alla luce di questa trasformazione, è chi controlla il territorio e come lo abitiamo. Quali sono le condizioni che rendono difficile dare una risposta a questa domanda? Possiamo vedere la continuità o le differenze, solo considerando l’esperienza dei territori che abitiamo insieme. Vorrei condividere con voi qualche ritratto della vita quotidiana, qualche esempio della miriade di risposte che le persone e le istituzioni hanno dato alla pandemia.
Applicazione modulata
Il 15 marzo 2019, durante una conferenza stampa trasmessa in diretta nazionale, il Collegio dei medici del Cile ha criticato il ministro della sanità cileno per aver applicato impropriamente le direttive del Collegio. I medici, di fronte al fallimento del governo nel tentativo di circoscrivere l’epidemia alla città di Santiago, hanno chiesto a tutti gli abitanti di cominciare una quarantena totale di 14 giorni: niente più lavoro, niente più scuola, niente più uscite. Molte persone hanno seguito le loro indicazioni – i proprietari dei bar e dei locali hanno interrotto le loro attività, in nome della responsabilità civile, e i lavoratori dei centri commerciali si sono messi in sciopero, hanno organizzato dei picchetti e hanno manifestato in città fino a che i centri commerciali non sono stati chiusi.
Soltanto a partire dal 20 marzo il governo cileno ha decretato una quarantena totale nelle zone della città più colpite dal virus, cioè i quartieri più ricchi e il centro città. Gli abitanti delle zone in quarantena devono compilare un formulario sul sito del commissariato e dichiarare la loro destinazione per poter uscire di casa.
Intorno alle zone in quarantena ci sono soltanto una dozzina di posti di controllo. Abbiamo capito molto presto che era facile evitare la manciata di carabinieros appostati agli incroci principali. Chi ha deciso di rimanere in casa, l’ha fatto per rispettare le raccomandazioni dei medici piuttosto che le misure ufficiali.
D’altro canto, le misure di quarantena non sono state estese alle combattive “poblaciones”, dalle quali provengono la maggior parte dei partecipanti alle giornate di ottobre. Questi quartieri alla periferia della città sono nati da un movimento di occupazione negli anni ‘50-’60. Gli occupanti hanno costruito insieme le loro case, si sono difesi dagli sgomberi, e hanno negoziato con il governo per ottenere infrastrutture, scuole, ospedali. Se vi è capitato di vedere un video degli scontri del 29 marzo, per il Dia del joven combatiente (Giorno del giovane combattente), sicuramente viene da uno di questi quartieri.
In ottobre le tradizioni ribelli delle poblaciones non erano rimaste confinate ai quartieri di periferia, ma si erano riversate in tutta la città. La gente aveva invaso il centro, la metro, i supermercati, le farmacie, i centri commerciali. Non erano stati presi di mira soltanto i simboli del potere statale – la polizia e la metro –, ma anche quelli dell’economia formale.
Quest’anno, nonostante il coprifuoco e la pandemia, gli abitanti delle poblaciones hanno celebrato il Giorno del giovane combattente scendendo per strada e scontrandosi con la polizia. Nelle poblaciones, diversamente che nel centro città, le persone invadono ancora lo spazio pubblico. Se la rivolta si affievolisce e la vita sociale si riduce al minimo, la pandemia non è però riuscita ad interrompere totalmente la vita in questi quartieri. All’inizio, i manifestanti che avevano l’abitudine di ritrovarsi a Plaza de la dignidad temevano che il governo utilizzasse le misure ufficiali di quarantena per riprendere il controllo della vita sociale, dopo mesi di rivolta. Per ora il governo non ha fatto molti sforzi per applicare le misure nei quartieri in cui la presenza della polizia non è ben accetta, come ai confini delle zone di quarantena e nei territori ribelli delle poblaciones.
Controllo dello spazio pubblico
Al contrario, nei quartieri intorno a Plaza de la Dignidad, dove io vivo, le nuove norme di quarantena e di distanziamento sociale hanno messo fine alle esperienze collettive, alla protesta nelle strade e agli incontri nelle piazze. La rivolta scandiva il nostro quotidiano, e aveva reso i nostri progetti di quartiere allo stesso tempo possibili e necessari. Avevamo dato vita a delle assemblee facendo eco alle proteste nella Plaza, con la speranza di incontrare i vicini di casa e di dare forza alle gente che manifestava per strada. Le assemblee organizzavano mercati rossi, spettacoli per i bambini, concerti per strada, pranzi collettivi. Le riunioni, che si tenevano nei parchi, erano costantemente interrotte dalla vita del quartiere: i cani si mettevano a giocare al centro del cerchio, i passanti chiedevano sigarette, si sedevano con noi e davano la loro opinione, e i vecchi militanti ci dicevano di smetterla di parlare e di andare a dare fuoco a una barricata.
La pandemia ha bruscamente messo fine a tutto questo. Ora le assemblee di quartiere non si riuniscono più. L’aiuto reciproco, le riunioni e i laboratori virtuali si coordinano e si annunciano nei gruppi Whatsapp. Chi non è stato espressamente invitato non può più imbattersi per caso nelle nostre assemblee.
Le interruzioni davano senso anche al mio lavoro di scrittura nei café intorno alla Plaza, che si trattasse di un vecchio amico che arrivava con una nuova persona da incontrare, o dei manifestanti che si rifugiavano nel bar per sfuggire al getto d’acqua del guanaco (l’idrante della polizia). Forse nessuna attività ha senso se non è svolta in mezzo alla gente e alle proteste. Ci sbagliavamo quando pensavamo che le interruzioni fossero solo un fastidio e una distrazione. Le nostre attività diventano più significative quando si mescolano alla vita di coloro che abitano il nostro mondo. La quarantena significa la fine di questa sensibilità collettiva.
Chi ha imposto le restrizioni di movimento?
E nonostante tutto, qualcosa sta ancora succedendo in Cile: in alcune regioni, gli abitanti continuano a bloccare le imprese che devastano i loro territori. In Patagonia, per esempio, molti villaggi sono implicati in un conflitto decennale contro l’industria del salmone. Riversando antibiotici e rifiuti nei fiumi, gli allevamenti di salmone hanno distrutto la fauna, e i bacini dai cui dipendono i pescatori del luogo, mentre i trasporti industriali rendevano inutilizzabili le strade di campagna che collegano un villaggio all’altro.
In ottobre, abbiamo percepito chiaramente la profondità e il respiro della rivolta quando abbiamo saputo che, mentre Santiago bruciava, le comunità rurali costruivano delle barricate sulle strade di campagna, bloccando l’accesso ai lavoratori delle industrie di salmone, e sabotavano le più grandi imprese del paese. In quei giorni, per farsi un’idea della situazione a Santiago, bastava scendere per strada, ma era molto più difficile avere delle notizie delle proteste nel resto del paese. Nonostante le difficoltà di comunicazione, le scritte “Free Chiloe” ricoprivano i muri di Santiago.
Quando l’epidemia ha oltrepassato i confini di Santiago, gli abitanti dell’isola di Chiloe, in Patagonia, hanno bloccato i traghetti che portavano sull’isola i lavoratori dell’industria del salmone. In seguito, il governo ha ridotto i collegamenti con l’isola per prevenire la diffusione del virus; ma quando ha attraccato sull’isola un traghetto che trasportava nuovi effettivi di polizia, per assicurare il rispetto della quarantena, gli abitanti hanno tentato allo stesso modo di rispedirlo indietro.
Una ambiguità determinata
Gerard Munoz, nel suo ultimo intervento sul modello cileno di stato di eccezione, ci suggerisce una possibile spiegazione del fallimento delle misure di emergenza prese per contrastare la rivolta di ottobre:
“Il dibattito cileno si trova nella posizione migliore per cercare di arrivare ad una comprensione matura e globale dello stato di eccezione, inteso non come una formula astratta, ma come un fenomeno latente alle democrazie. L’esercizio della politica occidentale in materia di sicurezza e di eccezione non è un orizzonte concettuale di quello che la politica potrebbe essere; è quello che l’ontologia del politico rappresenta, una volta che i limiti interni dei principi liberali sono collassati (la separazione tra consumatori e cittadini, tra Stato e mercato, giurisprudenza e sussunzione reale).”
Lo stato di emergenza riposa sulla distinzione liberale tra mercato e Stato, tra cittadini e criminali. Il successo della sua applicazione dipende dall’operatività di queste distinzioni. In ottobre, quando il governo ha fatto appello alla “sicurezza dello Stato”, la rivolta aveva già rifiutato i principi liberali della post-dittatura. Le vecchie distinzioni erano state spazzate via, a tal punto che un capovolgimento della situazione era impensabile.
Nei mesi della rivolta, nessuna violenza della polizia, nessuna assemblea costituzionale iper-publicizzata, nessuna crisi finanziaria avrebbe potuto persuaderci della necessità di un ritorno all’ordine. Non potevamo immaginarci una forza esterna capace di mettere un freno all’esplosione sociale.
Eppure eccoci qui: dalla prima settimana dell’epidemia, Plaza de la dignidad è silenziosa. Qualche commerciante comincia a togliere le lamiere che proteggevano le vetrine, perché non ci sono più stati saccheggi. Gli scontri con la polizia restano confinati alle poblaciones.
Chi detiene un tale potere? La pandemia ha sospeso la rivolta, perché è apparsa come una forza esterna. Se l’epidemia possiede una potenza con la quale nessun provvedimento del governo può rivaleggiare, è perché la sua presenza neutralizza le separazioni sulle quali si basa l’amministrazione di questo mondo: il virus non conosce differenza tra Stato e mercato, consumatori e cittadini, giurisprudenza e sussunzione. Il risultato è che non sappiamo più se ci stiamo prendendo cura di noi stessi resistendo allo stato, a prescindere dallo stato o obbedendo allo stato. La pandemia, attraversando questo mondo, ha fatto a pezzi le relazioni sulle quali il nostro mondo si basava. In assenza di questi contatti, siamo lasciati soli di fronte alle esigenze opposte di obbedienza e di contestazione, di resistenza e di auto-affermazione. Non è questo il luogo per ricordare quanto gli ideali della democrazia liberale dipendano da una frattura sempre più profonda tra il pubblico e il privato: ragione pubblica e obbedienza privata, fede e confessione, coscienza morale e diritti politici, etc. Là dove una volta c’era un mondo ricolmo di legami, eresie, alleanze, non resta che un soggetto – un cittadino padrone di sé e autonomo. Non era forse questo il progetto della gestione economica moderna?
L’esperienza dello spazio è stata re-liberalizzata, cosi come il modo in cui ci prendiamo cura degli altri. Una volta che l’insurrezione si è spenta, e con lei l’attenzione reciproca, che era un elemento fondamentale della rivolta, un’altra forma di solidarietà l’ha rimpiazzata; una forma che porta in sé l’impronta di un’assenza al mondo che è la definizione stessa del soggetto liberale moderno. Anche se la situazione ci spinge a preoccuparci dei più vulnerabili tra noi, non possiamo confondere la nozione di cura che il distanziamento sociale determina con le pratiche che avevamo inventato insieme prima della pandemia, e che diventano possibili solo quando abitiamo davvero un territorio condiviso. Ci hanno detto che questa crisi minacciava i più vulnerabili, i malati, i vecchi; e che prendendoci cura di noi stessi, ci saremmo presi cura degli altri; che il nostro ruolo, in quanto cittadini di un unico mondo, era quello di non confondere il distanziamento sociale con l’isolamento. Però la fine della vita sociale e dell’uso dello spazio pubblico ci priva delle esperienze che danno un senso ai concetti di cura, aiuto e azione collettiva. Facciamo l’esperienza di un mondo comune quando prendiamo parte a delle attività che lo rendono non solo possibile, ma reale; è solo grazie alle combinazioni e agli incontri che le nostre capacità singolari ci rivelano quello che va al di là di noi, che appartiene a ciascuno e a tutti. Rinchiusi nelle nostre case, rischiamo di lasciare che si cancellino le condizioni che rendono possibile la consapevolezza di abitare lo stesso mondo.
Emilio, Santiago de Chile, 24 aprile 2020
https://illwilleditions.com/quarantine-letter-6-empty-plazas/
Apprendiamo dai giornali locali che nella notte tra giovedì e venerdì un’azione anonima ha messo fuori uso 5 cabine per l’interscambio della linea telefonica e web. Il risultato è stato un “blackout” di una parte della città (si parla di 2000 utenze). Sul luogo sono state ritrovate le scritte: “LIBERIAMOCI DALLE GABBIE TECNOLOGICHE”, “SOLIDARIETA’ AI COMPAGNI DI BOLOGNA” e “LIBERARE I DETENUTI”.
https://ilrovescio.info/2020/05/16/rovereto-sabotaggio-delle-linee-in-solidarieta-agli-arrestati-di-bologna/
Indymedia Nantes / jueves14 mayo 2020
Tra di noi, a volte, c’è il dubbio. Alcuni, certo, ne hanno un po’. Altri, per niente.
Ci assumeremmo le conseguenze di un blackout su larga scala? Le morti, il caos che causerebbe? Saremmo in grado noi stessi di sopravvivere a una tale trasformazione del mondo? Forse no.
Ma è più insopportabile lasciare il mondo così com’è, essere ricattati per credere che sarebbe ancora peggio se le istituzioni umane e tecnologiche non fossero lì a gestire le nostre vite per noi, piuttosto che accettare i rischi dell’agire.
Non si tratta di mettere a tacere i nostri dubbi. Si tratta di agire comunque. Si tratta di capire che se le nostre azioni hanno un impatto, se possono causare danni a persone che non abbiamo preso di mira, la nostra passività è altrettanto letale.
Anchhe i famosi ospedali, i formicai di cemento dove si ammucchiano i corpi devastati e i buoni sentimenti, che dovrebbero essere protetti a tutti i costi perché “salvano vite umane”, hanno bisogno di una fornitura di energia elettrica e di altre materie prime per funzionare, ed indubbiamente anch’esse uccidono.
La pace tecnologica infusa nell’infusione di massa è una menzogna. Il mondo connesso viene costruito su una fossa comune, nutrendosi di morte e distruzione. E le belle immagini delle tavolette nelle scuole e degli efad non cambieranno questo fatto. Gli antipasti su skype sanno di sangue. I dubbi che si sentono, sono le tracce della mascherata umanista e statale che ci dice che questo sistema ci è indispensabile. Che tutto va bene nel migliore dei mondi possibili e che sarebbe intollerabile e irresponsabile per gli individui agire egoisticamente e danneggiare l’uomo comune. Non è il momento di discutere di egoismo. Il nostro desiderio è quello di rompere il mito che non ci sono conseguenze, per lasciare che ciò accada. Non ci interessa il comune, ma è giusto ricordare che il comune è limitato ad una certa categoria della popolazione umana e certamente non riguarda tutti gli esseri che vivono su quella grande roccia chiamata Terra.
Ci sembrerà sempre meglio agire con possibili dubbi, piuttosto che lasciare che si alimenti una sensazione di impotenza.
Perché dalla nostra impotenza deriverebbe la nostra morte, e ciò che vogliamo soprattutto è vivere. Vivere restituendo i colpi che ci vengono inflitti. Vivere senza la mediazione umana e tecnologica che si interpone tra noi e il resto del mondo. E quando ci rendiamo conto del nostro condizionamento, quando pensiamo a tutto l’orrore che questo mondo suscita, ogni dubbio ci fa impallidire.
Abbiamo attaccato la rete elettrica perché senza di essa, oggi, questa civiltà crolla. Non vogliamo tornare indietro nel tempo. Non ci illudiamo che le civiltà siano state costruite senza elettricità. Tutto ciò che sappiamo è che ne sono diventate troppo dipendenti per poterne fare a meno. E che questo è uno dei punti deboli. E anche se siamo noi i bambini, e non potrebbe essere altrimenti, stiamo lottando per uccidere qualsiasi germe che possa aver lasciato in noi. Lottiamo contro il nostro addomesticamento, contro la nostra sottomissione alle norme, contro la nostra codardia e il nostro gusto per la sicurezza.
Ma usiamo alcuni degli strumenti che ci fornisce. Perché non è più possibile comunicare tra i ribelli facendo segnali di fumo, e ci interessa ancora mettere parole alle nostre azioni, che possano toccare chi le leggerà, e che anch’esse possano essere una componente significativa dei nostri attacchi alla docilità, a chi la crea e a chi la difende. Ci sono stati molti atti di distruzione intorno a noi negli ultimi tempi.
Grazie alle mani coraggiose che rifiutano di essere confinate in questi tempi in cui anche alcuni ambienti “radicali” vorrebbero vederci restare a casa, perché è più importante essere sicuri che cercare di essere liberi.
Grazie a coloro per i quali la scrittura ha un senso, perché è necessario condividere le nostre riflessioni, che le nostre azioni risuonino con le intenzioni che ci animano. Perché la lettura di testi che invocano l’attacco, le analisi acute o le richieste aiutano a plasmare i nostri pensieri, a progettare nuove strategie di attacco. Per questo vogliamo inscrivere il nostro attacco nella chiamata al conflitto lanciata dal testo “A maggio, fate quello che volete: una chiamata al conflitto“, di cui abbiamo fatto nostre molte domande e alle quali abbiamo cercato, attraverso il nostro attacco, di fornire elementi di risposta. Perché, checché se ne dica, questi scritti nascono dall’orrore smaterializzato di internet, per alimentare dibattiti, riflessioni e dare forza ai vivi.
Facciamo dei tentativi, a volte senza sapere esattamente cosa stiamo per colpire. L’unica cosa che sappiamo è che con le nostre azioni, le cose non rimarranno intatte.
Abbiamo scelto di attaccare un trasformatore elettrico, senza sapere quali danni avremmo causato, ma sperando in bellissimi archi, molto fumo, e qualche luce in meno, in modo da poterla fare franca quando c’è la luna piena. Non abbiamo bisogno di altre luci, e le luci artificiali sono un insulto alla bellezza della notte.
Portavamo dentro di noi il ricordo fantastico di tutte le anime tormentate che si ribellavano alle civiltà che cercavano di distruggere le loro vite selvagge; quando ci siamo avvicinati al sito, nei pressi di Aubenas. Abbiamo acceso sei fuochi, principalmente su cavi raccolti sotto lastre di cemento, rumorose ma facili da sollevare. Siamo stati attenti a non toccare le strutture metalliche e, a parte un leggero disagio, una sensazione di ronzio nel cranio, non ci è successo nulla di spiacevole mentre camminavamo attraverso questo terminale di tre linee ad alta tensione. Quando abbiamo lasciato il sito, i nostri corpi si sono tesi con l’adrenalina, e i sorrisi nascosti sotto gli scaldacolli: i fuochi erano cominciati. Purtroppo le luci artificiali intorno a noi non si sono spente. Probabilmente non sapremo mai quanti danni sono stati fatti alla rete perché i media non ne hanno parlato. Una ragione in più per farlo, per non dare loro la possibilità di ignorare quello che stiamo facendo. Presumibilmente, né la città né le valli circostanti hanno subito danni significativi. Tanto peggio. E’ stato un tentativo. L’unico modo concreto per sapere dove è opportuno attaccare è provare ovunque. Non abbiamo dubbi che ci saranno ulteriori tentativi.
I nostri cuori bruciano per spegnere una volta per tutte questa macchina mostruosa. Perché l’odio e il disgusto per la massa umana civilizzata trasuda da ogni poro della nostra pelle. Perché le uniche luci che amiamo di notte sono quelle delle fiamme e del chiaro di luna.
Rejectons du desastre
Solidarietà e cassa resistenza
Mercoledì 13 maggio l’operazione “Ritrovo”, coordinata dalla procura di Bologna, ha incriminato diverse persone tra Bologna, Firenze e Milano: 7 di loro sono state arrestate in custodia cautelare e senza processo, altre 4 hanno ricevuto misure cautelari alternative. Si tratta di compagne e compagni che, come noi, si oppongono a frontiere e CPR e credono che attraverso l’azione si possa creare un mondo solidale, senza più persone oppresse e sfruttate.
Al Tribolo, spazio bolognese preso di mira dall’operazione, ci siamo state anche noi e lì, come in tanti altri luoghi, abbiamo potuto conoscere compagne attive nella lotta ai CPR di altre città.
L’operazione repressiva che ha portato alle misure cautelari, condotta dal Ros (!) e dalla procura antiterrorismo di Bologna (!!) è atroce, di una franchezza inaudita e pericolosa per la libertà di tutte e tutti.
È atroce perché utilizza le leggi antiterrorismo per terrorizzare la società, criminalizzando chiunque tenti di reagire alle ingiustizie. Rappresenta il quinto tentativo in poco più di un anno di raggruppare sotto il pesantissimo 270bis CP (associazione con finalità di terrorismo o di eversione), ormai sventolato con una disinvoltura preoccupante, iniziative, manifestazioni, diffusioni di critiche e azioni. Portare solidarietà e supporto agli/le ultim* con costanza e determinazione è diventata ragione sufficiente per essere accusate di “terrorismo”: ormai viene accusat* chiunque porti avanti pratiche coerenti di pari passo con analisi di critica radicale dell’esistente.
Le compagne e i compagni, tra le altre cose, vengono accusat* “di contrastare anche mediante ricorso alla violenza le politiche in materia di immigrazione”, di mettere in atto azioni volte a “contrastare e impedire l’apertura dei Centri Permanenti [?] di Rimpatrio”: ma noi sappiamo bene che chi pratica davvero violenza e terrorismo è chi rinchiude le persone in strutture come i CPR, imprigionate per mesi in attesa della deportazione, ammassate in condizioni intollerabili, spesso picchiate, talvolta lasciate morire o ammazzate.
L’operazione è inoltre spudoratamente franca, tanto che nelle stesse carte compare la ragione dell’operazione: “l’intervento [..] assume una strategica valenza preventiva volta ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturiti dalla particolare descritta situazione emergenziale possano insediarsi altri momenti di più generale “campagna di lotta antistato […]”. In breve, lo Stato rinchiude coloro che potrebbero partecipare attivamente ad atti di ribellione contro di esso.
E perciò diventa estremamente pericolosa per la libertà di tutte: se basta questo, ci chiediamo, chi saranno le prossime e i prossimi?
Approfittando del totalitarismo di fatto creato “per la nostra salute”, lo Stato di diritto si è tolto la mascherina democratica per attaccare apertamente i suoi oppositori politici; la famigerata libertà di espressione e di opposizione con la quale, fino a ieri, si è riempito la bocca, viene messa da parte senza fatica. Se non reagiamo, ciò che è successo ieri potrebbe rappresentare uno spaccato dei prossimi tempi; potrebbe risuccedere a chi deciderà di scendere in strada per opporsi alle ingiustizie, per non far pagare la crisi che verrà alle fasce più povere o per creare legami solidali.
Esprimiamo solidarietà e calore alle compagne e ai compagni, repress* per aver lottato senza delega e mediazioni contro le istituzioni e le strutture dello sfruttamento e dell’oppressione.
Elena, Leo, Zipeppe, Stefi, Nicole, Guido, Duccio, Martino, Otta, Angelo, Emma, Tommi liber* subito!!!
Stiamo raccogliendo in una cassa comune contributi da inviare per le spese legali cui dovranno far fronte le persone coinvolte in quest’ultima operazione: chiunque voglia e possa contribuire ci contatti sulla pagina facebook “no cpr e no frontiere – fvg”!
Assemblea no CPR no Frontiere
https://www.facebook.com/nocprfvg/photos/a.510550989419235/886889491785381/
Alcuni slogan funzionano meglio di altri. Soprattutto quando racchiudono un indiscusso fondo di verità. A confermarlo le presenze sotto le carceri di Alessandria e Vigevano all’indomani dell’operazione “il Ritrovo” che ha portato all’arresto di 7 compagni/e e ad altre 5 misure cautelari.
Giovedì a Vigevano erano in tanti e tante a portare il loro saluto solidale a Stefania e tutti i detenuti e le detenute lì rinchiusi. Il giorno dopo lo stesso copione si è ripetuto ad Alessandria dove un nutrito gruppo di solidali si è recato sotto le mura del carcere di San Michele per far sentire il proprio calore a Leo e Zipeppe nonché ovviamente a tutti gli altri reclusi. In entrambe le occasioni la risposta dall’interno non si è fatta attendere e se le voci che hanno risposto ai cori e alle urla non erano quelle dei compagni e delle compagne poco importa. Anzi.
Proprio alla luce di questa ennesima operazione repressiva che nuovamente prova a minare le reti di solidarietà intorno a chi si ribella, ci sembra fondamentale continuare a dare supporto a tutti i detenuti e le detenute che in questi due mesi non hanno abbassato la testa e hanno mostrato cosa si è in grado di fare quando ci si organizza insieme.
Fuori non possiamo che provare a seguire il loro esempio.
Poco dopo le 2 di notte del 13 maggio 2020 scatta a Bologna l’ennesima operazione anti-Anarchica. Anche questa volta si contesta un’associazione sovversiva (art. 270bis).
In 7 finiscono in carcere per altr* 5 scattano l’obbigo di dimora a Bologna con rientro notturno; 4 di quest* hanno anche l’obbligo quotidiano di firma.
Lo spazio anarchico di documentazione “il Tribolo” e svariate case vengono perquisite da
200 tra Carabinieri e agenti del ROS.
L’inchiesta, firmata dal Pm Dambruoso, parte a seguito dell’incendio di un ripetitore di telecomunicazioni accompagnato dalla scritta “spegnere le antenne risvegliare le coscienze solidali con gli anarchici detenuti e sorvegliati” avvenuto sui colli bolognesi nel dicembre 2018, ma rimane abbandonata in un cassetto della procura dal luglio 2019 fino a maggio 2020.
Il perché ciò avvenga gli inquirenti lo ammettono senza pudore: in epoca in cui le carceri bruciano occorre che lo stato si sbarazzi di chi ha sempre manifestato il proprio appoggio ai detenuti in lotta. Non solo a parole. E occorre farlo perché coi tempi che verranno è meglio mettere le mani avanti. Arrestare preventivamente.
Così, per il d.a.p., le rivolte nelle carceri – in cui solamente in Italia, sono morti 14 detenuti- sono il frutto dell’ “istigazione anarco-insurrezionalista” o in alternativa “opera della mafia” ma non certo delle condizioni invivibili in cui versa chi è rinchiuso.
Per i carabinieri ed i loro “firma-carte”, le mobilitazioni che hanno portato parenti e solidali sotto le carceri durante il lockdown non sarebbero altro che una “strumentalizzazione anarchica volta a compiere reati”. L’esistenza di cuori decisi a frantumare la coltre d’indifferenza dietro cui, solo nel carcere bolognese della Dozza, 2 prigionieri sono morti di coronavirus è per un servo dello stato un opzione incontemplabile.
Non sono le ingiustizie e le disuguaglianze di una società basata sulla sopraffazione a generare lotte e ribellione, ma l’opera del prosiletismo di qualche blog.
Sotto accusa nell’operazione dei Ros sono apertamente le idee antiautoritarie, la difesa delle pratiche d’attacco, l’appoggio ai prigionieri anarchici, la non dissociazione dalla violenza rivoluzionaria, il partecipare a cortei, il redigere manifesti, lo stampare fogli murari, ma anche paradossalmente la volontà di evitare che un corteo di cui si è parte venga caricato, così come lo sbattersi a trovare una casa in cui dei compagni possano scontare gli arresti domiciliari,
il frequentarsi o l’abitare assieme.
Accertare le responsabilità indiviudali diventa per i carabinieri superfluo e lo dicono apertamente.
Partecipano a cortei in cui vengono danneggiati i bancomat di una banca che è proprietaria della struttura che avrebbe dovuto ospitare il cpr di Modena. Non è rilevante accertare se abbiano preso parte al danneggiamento, sono individui che avversano queste strutture ma c’è di più qualcuno avrebbe addiruttura detto di preferire l’azione diretta alla mera testimonianza e infatti acquistavano torce da stadio.
In questo accrocchio nel quale solo i carabinieri possono ritrovarsi, ci pare che ogni ragionamento logico sia fuoriluogo….
E’ chiaro, tuttavia, l’intento di colpire le lotte e la solidarietà. Non lasciarglielo fare sta a tutt* e a ciascuno.
COMPLICI E SOLIDALI CON ELENA, DUCCIO, NICOLE, ZIPEPPE, STEFI, GUIDO E LEO anarchic* e solidal*
riceviamo da chi ha ricevuto la lettera e pubblichiamo su richiesta di Mauro
Lettera di Mauro Rossetti Busa del 20 aprile dal carcere di Agrigento
….la mia aspirazione è sempre stata fondata sull’ideale sul “comunismo anarchico” soprattutto negli anni addietro dove sono sempre stato convinto che il vero nostro nemico è sempre stato il capitalismo anche se devo dire che il capitalismo non è mai stato l’unico nemico ma il suo affidabile stato.
Lo stato l’ho sempre considerato un’idea, un forte alleato del capitalismo dove allo stesso momento trae da esso le proprie forze. Fino a quando continuerà ad esserci/esistere il capitalismo e il suo alleato stato continueranno ad opprimere il proletariato, gli oppressi, i disoccupati, gli operati.
Per queste ragioni il “comunismo-anarchico” è anche un anarchismo rivoluzionario che dovrebbe portare azioni individuali e di conseguenza violenta perché a mio avviso sarebbero importanti e necessarie.
Le azioni compiute individualmente comprese quelle compiute dalla masse dovrebbero rafforzare attraverso la violenza con azioni individuali l’intero movimento e si cesserebbe di aspettare.
Devo anche dire che gli oppressi, disoccupati e operai continuando ad accettare di stare sottomessi non hanno sempre fatto altro che formare sempre più una classe distinta e nemica.
….anche se non posso nascondere che sono sempre stato favorevole a ricorrere alla violenza….lotta armata.
Forse miei cari compagni molti di voi non condivideranno questo mio contestuale pensiero ideologico politico, mi riferisco a quanto ho espresso sulla lotta armata.
Il corso degli anni mi ha portato a credere con pieno convincimento che attuare/ricorrere alla lotta armata è l’unico modo per contrastare il capitalismo e il suo alleato…stato.
Vi ringrazio delle vostre attenzioni e della vostra solidarietà politicamente abbracciando tutti-e quei compagni-e che mi hanno conosciuto di persona e chi mi ha conosciuto per corrispondenza.
Questo non vuol dire addio al mio passato presente e futuro, è per comunicarvi che ho intrapreso un altro percorso, quello del “comunismo anarchico” e che l’anarchia in generale è sempre stata rivoluzionaria e ha sempre praticato la lotta armata fino dagli anni della sua nascita.
Mi scuso con tutti-e voi di questo mio silenzio che non è dovuto a me ma alla censura.
Carcere di Agrigento
20-04-2020
Rossetti Busa Mauro
Allargo i miei saluti ai miei amici compagni in regime AS2 a Terni.
https://roundrobin.info/2020/05/lettera-di-mauro-rossetti-busa/