Alcuni spunti di riflessione

Si potrebbe dire che l’esplosione della pandemia legata al Covid-19 abbia reso più evidenti le contraddizioni di un modo di vita che, lo diciamo da anni, non è più praticabile. La situazione che si è venuta a creare in Italia e nel Mondo negli ultimi due mesi ha infatti mostrato degli aspetti coerenti con tante analisi e critiche prodotte nel tempo. Si potrebbe dire, senza il rischio di sbagliare, che il problema è il sistema che abbiamo di fronte, che il problema è il capitalismo.
Ma limitandoci a questo assunto non avanzeremmo di un centimetro né nell’analisi né nella proposta di lotta.
Quanto avvenuto infatti, seppure in teoria prevedibile, ci ha colto tutti materialmente impreparati.
La pandemia si è diffusa durante una delle crisi più profonde che i movimenti rivoluzionari (in Occidente) si siano mai trovati ad attraversare. La pioggia sul bagnato insomma.
In questo contesto sembra proprio che sviluppare delle strategie, ma anche solamente capire quali siano i margini di agibilità, sia una faccenda complicata.

Tra le varie possibilità prese in considerazione finora, quello della solidarietà e del mutuo appoggio è un ambito d’azione che ha convinto e coinvolto molte realtà di lotta, ma non solo. Concretamente, in molti luoghi, questo ha determinato la nascita di gruppi e organizzazioni che si sono adoperati nella consegna e/o raccolta e distribuzione gratuita di cibo e generi di prima necessità per rispondere ai bisogni venutisi a creare data la crisi economica, oltre che sanitaria.
Al di fuori del mondo dei compagni nessuno si sognerebbe di mettere in discussione la giustezza di una distribuzione gratuita di cibo. Tanto che, con molta sagacia, anche governo e istituzioni varie non si sono risparmiati nel lodare, senza fare troppe distinzioni, le molteplici attività di questo tipo. Al massimo si può essere indifferenti, ma chi mai obietterebbe su un’iniziativa di tal genere?
Tra compagni e compagne è giusto invece che la questione venga affrontata e che non si dia niente per scontato…
Ma un dibattito, ragionato solo in teoria, sui pro e i contro produrrebbe di sicuro due lunghi elenchi, probabilmente anche poco interessanti.
Questo perché il dibattito teorico, seppur utile e necessario, per come spesso viene impostato non è in grado di cogliere i molteplici aspetti di un contesto.
Quando ciò non accade per divergenza di vedute, spesso accade per un abituale vizio interpretativo molto comune negli ambienti militanti, ovvero quello di porre, oltre l’azione “criticata”, anche la critica stessa fuori dal tempo e dallo spazio, rinunciando quindi a cogliere non solo l’ambito specifico, ma anche le prospettive a cui una singola iniziativa guarda, ponendola spesso impropriamente in antagonismo o in competizione con metodi e proposte differenti.
Per cui con superficialità vengono trascurati gli aspetti centrali che rendono una distribuzione alimentare fatta da compagni/e, diversa da quella organizzata da un ente caritatevole.
Questa forma mentis rende complicato studiare e tracciare una rotta quando si naviga in acque sconosciute ed agitate, come questi tempi ci costringono a fare.
Ci sembra necessario dunque entrare un po’ nel merito di uno specifico contesto, il nostro, per tentare di aggiungere pezzi utili al dibattito e fare un po’ di luce su alcuni passaggi che spesso sembrano oscuri e confusi.
Un contesto, in questo caso, vissuto e costruito, pezzo dopo pezzo, a partire dall’idea che in una metropoli la prossimità territoriale sia un perno centrale attorno al quale tentare di delineare una comunità solidale, disposta a supportarsi e a lottare.
La vicinanza fisica come parte della soluzione al problema della dispersione data dalle enormi distanze.
La condivisione e il confronto, in uno stesso quartiere, delle esigenze, i problemi e i desideri di chi si incontra.
È necessario qui fare una puntualizzazione, dato che non tutti i quartieri sono uguali. Quelli a cui ci si riferisce sono territori identificati, anche se sommariamente, come quartieri popolari o comunque dove sopravvive e si
percepisce (anche di questi tempi) l’esistenza di una certa forma di socialità e di vita reali. Elementi marginali e residuali in una metropoli, ma pur sempre condizioni necessarie perché dei compagni suppongano utile e possibile lo sviluppo di un intervento e una presenza costanti nel tempo.
È alla luce di tutto ciò che auto-organizzarsi per far fronte a un problema collettivo, riconoscendo e riconoscendosi in una comunità che condivide una simile condizione sociale mostra aspetti, seppur complessi, interessanti in termini di prospettiva.
Abituati ad interrogarci severamente sul nostro agire spesso disordinato, dipendente dall’onda emotiva, al limite dell’assistenzialismo, capita che attraverso un’attività del genere ci si chiariscano, nel corso dell’esperienza pratica, i motivi per cui queste sono occasioni in cui cogliere i frutti di lotte passate e piantare nuovi semi per l’auto-organizzazione di quelle future.
Questo non avviene in modo lineare e progressivo, ma neanche per caso. Ciò avviene grazie al patrimonio accumulato in anni in cui si è agito, seppur in maniera inorganica, cercando di tenere insieme – cioè evidenziandone le strette relazioni (attraverso l’agitazione, la costruzione di reti solidali, l’attacco, la propaganda e la denuncia), il piano locale del quartiere con quello cittadino, con quello nazionale, con quello globale delle guerre e dello sfruttamento. Il piano della rivolta, con quello dell’autogestione e della creazione di comunità resistenti. Relazioni che oggi più che mai producono effetti e irrompono nella vita di tutti/e noi. Oggi come sempre la questione si incentra sul tentativo di creare un moto che ci porti gli uni verso gli altri, piuttosto che viaggiare paralleli nell’indifferenza di una situazione che colpisce, prima o dopo, tutti allo stesso modo. Piuttosto che vittime passive, tutte e tutti consapevoli attori nello scenario di guerra sociale.
Il campo si sgombera allora da ogni dubbio. Non c’è ambiguità in una iniziativa di questo tipo. E difficilmente si viene scambiati per Caritas, o ciò che identifichiamo come associazionismo della sinistra borghese. Se così non sarà, la responsabilità sarà anche nostra.
Altra questione: siamo ben consapevoli che il cibo dovremmo andare a prendercelo. Ma affermarlo in maniera retorica ci avvicina forse di un centimetro al farlo praticamente? Sbandierare questa affermazione in modo
assertivo ci aiuta ad organizzarci in numero per tutelarci da clienti zelanti, vigilantes eroi o da una polizia molto, troppo, rapida negli interventi? Crediamo di no.
Al di fuori di un bell’immaginario, la realtà che ci circonda ci sembra purtroppo distante da quella nella quale si producono gli assalti ai forni. Il capitalismo ha lavorato fin troppo bene in termini di controllo tecnologico, repressione, propaganda legalista e disgregazione sociale.
Allora, sempre rimanendo nell’ambito della progettualità e non in quello del fatalismo, questa cosa va creata. Non perché sia bello. Ma, banalmente, perché è giusto, in quanto una redistribuzione della ricchezza e dei beni è l’unico modo per far sì che non siano i poveri a pagare le crisi dei ricchi. Sanitarie, economiche o sociali che siano.
Certo, arriva il momento in cui c’è bisogno di uno strappo necessario, della volontà, del coraggio, anche al costo di rischiare di sbagliarsi e prendere cantonate. Ma se non vogliamo proporre il lancio della monetina come
strumento decisionale, dobbiamo provare a ragionare in prospettiva, partendo dallo stato attuale.
Ci sembra corretto ribadire, riprendendo le parole che dei compagni greci hanno usato recentemente, che: “l’uscita senza ostacoli del capitalismo dalla sua crisi sanitario-economica, lascerà dietro di sé le condizioni per un cimitero sociale. Silenzio, paura e miseria”. E che “La scelta, quindi, sorge nuovamente con enfasi: O NOI O LORO.” Ma se questi tempi e i prossimi che verranno mostreranno come LORO siano in grado di difendere i propri interessi con sempre più efficacia e violenza, NOI, nei luoghi dove abitiamo, siamo disgregati, sconosciuti, disillusi. Noi oggi abbiamo bisogno di ricostruire e organizzare forza e fiducia.
La volontà che ha motivato questo contributo trascende dal desiderio di raccontare e condividere un’esperienza che, nonostante sia appena abbozzata, crediamo possa aprire possibilità interessanti.
Ma dietro ogni esperienza ci sono un’analisi specifica ed un metodo.
È nella cura, nello sviluppo e nel legame di questi due elementi che, a parer nostro, si sviluppa un agire rivoluzionario puntuale.
Aprire interrogativi attraverso esperienze reali ci sembra una modalità efficace e coerente per arricchire quel dibattito che in questa fase un movimento rivoluzionario deve affrontare con rinnovata e crescente vitalità.

Maggio 2020, Roma.
NED-PSM

https://roundrobin.info/2020/05/alcuni-spunti-di-riflessione/

Considerazioni sulle Applicazioni di tracciamento dei contatti

Voilà, il piatto è servito.

Nella gestione poliziesca di questa dichiarata pandemia Covid-19, arriva l’app per il tracciamento dei contatti. Se avevamo dubbi sulla distopia che ci aspetta, questo piccolo parassita che da qualche tempo monopolizza l’attenzione mediatica e ha saputo fermare per qualche settimana interi continenti, lancia un bagliore di luce sul futuro che ci attende.

La retorica messa in campo da subito dalle autorità e dai mass-media è stata quella di guerra, con tutto l’armamentario che porta con sé di richiamo ai valori patriottici, all’unità, al sacrificio e, grande classico, all’individuazione di eroi e di martiri. Ma un virus non può chiaramente essere il vero nemico nella dichiarazione di guerra di uno Stato. Un virus è un virus, ovvero, insieme a tutti i microrganismi, è quanto di più diffuso e di intimo, ma allo stesso tempo di intangibile, ci si possa immaginare nella nostra coabitazione con tutte le altre specie su questo pianeta. Non è materia di Stato. Lo Stato si occupa della gestione delle città e de* cittadin*. E se il nemico non è un altro Stato o un’entità politica rivale, ma un’entità biologica che si annida nei corpi, ben si può intuire chi allora sia il vero nemico non detto: la cittadinanza, le persone, i corpi stessi. Tutt* diventiamo i/le sospettat* in questa guerra a un nemico che non c’è. Ma la retorica da guerra messa in campo è piuttosto un’ottima via per lo Stato per cercare un compattamento dei ranghi, deresponsabilizzarsi e inculcare nelle persone il ruolo che si aspetta da ogni buon* cittadin*: non di capire ma di concentrarsi sui comandi pervenuti, di spiare e diventare delatori gli/le un* contro gli/le altr*, quegli “altri” che con il semplice non rispettare gli ordini porrebbero in pericolo le vite di tutt*.

Tendenza abbastanza comune in tutti i paesi in cui c’è stato un boom di contagi è la risposta statale, fatta di confinamento, sorveglianza e repressione, con varie sfumature. Non solo militari e polizia a pattugliare le strade, droni ed elicotteri a scovare qualche pericoloso assembramento o una qualche grigliata dall’alto dei cieli, ma anche strumenti prêt-à-porter grazie alla pervasività che stiamo accettando/subendo delle tecnologie informatiche nel nostro quotidiano. Ispirandosi alle scelte dei governi dei paesi orientali (Cina, Corea del Sud, Singapore,..) piano piano anche nella maggior parte dei paesi occidentali si sta facendo largo l’idea di introdurre un controllo più stringente sugli spostamenti delle persone attraverso l’uso degli smartphone.

In questa logica non è un caso che molte compagnie informatiche che sviluppano software ad uso militare e d’intelligence hanno saputo presentare, in questo periodo, a molti paesi soluzioni tecnologiche: aziende come la Palantir Technologies (azienda specializzata nell’analisi di Big Data e che offre i suoi servizi al ministero della difesa statunitense oltre che a CIA, NSA e FBI), NSO Group (azienda che sviluppa e vende a governi di tutto il mondo sistemi di spionaggio e Trojan), o l’italiana CY4GATE (azienda romana che opera nella Cyber Electronic Warfare, Cyber Intelligence e Cyber Security) che avrebbe proposto al governo l’utilizzo, a titolo gratuito, (dopo il green e il pink washing, stiamo già vedendo svilupparsi una corsa frenetica a un “Covid-washing”) di una sua “piattaforma software capace di raccogliere, elaborare e aggregare dati di geolocalizzaizone provenienti da molteplici dispositivi mobili”. Così come in Italia, Germania e Austria diverse compagnie telefoniche hanno volontariamente passato i dati raccolti dalle varie celle mobili per permettere allo Stato di controllare l’osservanza del coprifuoco e fare analisi sui flussi di movimento all’interno delle città e delle regioni. Anche se in questi casi i dati forniti non sono individuali ma dati aggregati, ovvero medie statistiche, bene chiariscono l’immediatezza con cui è possibile trasformare le tecnologie di comunicazione in tecnologie per la profilatura di massa.

In generale, a livello europeo, ogni paese si sta muovendo in maniera autonoma, chi accettando offerte di gruppi privati, chi incaricando università di sviluppare applicazioni e chi temporeggia aspettando di vedere cosa fanno gli altri. La direzione complessiva, oltre ad applicazioni di “telemedicina”, ovvero di assistenza sanitaria tramite cellulare, sembra essere quella definita di “tracciamento dei contatti”: tramite l’aggancio dei cellulari alle celle telefoniche e ai punti WI-FI, piuttosto che la geolocalizzazione mediante GPS o ancora, l’utilizzo dello standard bluetooth per fare comunicare tra loro automaticamente i telefoni che si incontrano nel rispettivo raggio di propagazione di questo segnale (generalmente pochi metri) e sembra quest’ultimo caso quello prevalente. In questo modo i singoli cellulari si ricorderanno quali altri cellulari avranno incrociato nell’ultimo periodo e potranno trasmettere queste informazioni ad un centro dati.

Nel tentativo di dare un quadro comune alle iniziative dei singoli Stati, la Commissione Europea ha emanato delle direttive affinché le singole app sviluppate o adottate dai singoli Stati possano comunicare a loro volta tra loro a un livello europeo, permettendo quindi potenzialmente di arrivare ad un tracciamento continentale, e richiamando l’attenzione su alcuni requisiti quali la garanzia di una privacy e la volontarietà ad accettare l’installazione dell’app sul proprio apparecchio. Per realizzare questo ha promosso nel giro di pochissime settimane la creazione di standard informatici comuni in cui due principali scuole di pensiero si stanno contendendo la gara: PEPP-PT , basato su un’archiviazione dei dati centralizzati e promosso dall’Università di Fraunhofer (Germania), contro DP-3T, creato dai politecnici di Losanna e Zurigo (Svizzera) e basato su un’archiviazione decentralizzata. In questo scontro tra tech-nerds a fare la differenza sembra sarà la scelta fatta da Google e Apple di unire le forze e accettare un’interoperabilità delle app sui rispettivi diversi sistemi operativi (che insieme costituiscono il 99,29% dei sistemi operativi usati a livello mondiale) ponendo come condizione non negoziabile l’archiviazione decentralizzata. DP-3T sembra dunque in pole-position e uno dopo l’altro i vari Stati stanno andando in questa direzione.

In Italia, nonostante alcune regioni abbiano già autonomamente incentivato lo sviluppo di proprie applicazioni (come Lazio, Umbria e Lombardia), a livello nazionale il ministero dell’Innovazione, in collaborazione con quello della Salute e con l’Istituto Superiore di Sanità, ha proposto un concorso per selezionare una app che possa fornire sia soluzioni tecniche per la teleassistenza sanitaria, sia per patologie legate al Covid-19, sia per altre patologie, come anche “tecnologie e soluzioni per il tracciamento continuo, l’alerting e il controllo tempestivo del livello di esposizione al rischio delle persone e conseguentemente dell’evoluzione dell’epidemia sul territorio”. A questa “fast call” hanno risposto in due giorni 823 fra aziende, centri di ricerca e università e la scelta, come abbiamo potuto apprendere in questi giorni, è caduta sull’applicazione “Immuni”, sviluppata da un’azienda milanese con sede in Corso Como 15 e che risponde alle richieste del ministero attraverso una sorta di diario in cui la persona puo’ aggiornare il suo stato di salute e annotare eventuali sintomi (parte di telemedicina) e un sistema di tracciamento dei contatti decentralizzato1.

L’azienda in questione si chiama Bending Spoon ed è stata fondata nel 2013 da cinque giovani presi bene, moderni yuppies dell’era delle startups, ex-cervelli in fuga rientrati, con ricavi per 31,9 milioni di euro nel 2018 e premio “Best workplace in Italy” nella categoria delle imprese tra i 50 e i 149 dipendenti assegnatoli dalla organizzazione internazionale Great Place To Work nel 2019….che dire, un’azienda che non può che far commuovere giornalisti e politici dell’”eccellenza italiana”.

Bending Spoon negli ultimi tre anni ha scalato le vette come sviluppatrice di tutte quelle app che concorrono alla nostra alienazione quotidiana da smartphone: “30 Days Fitness”, “Berry Calorie Counter”, conciliatore del sonno “Sleep”, contapassi, modificatore per foto e video e ovviamente giochi basic per continuare a rintronarsi anche quando non si ha nulla da fare.

E, sostanzialmente, l’applicazione “Immuni” va esattamente in questa direzione, ovvero nel recidere sempre più la capacità di immaginarci un qualsiasi momento, attività o aspetto delle nostre vite senza il supporto di un’applicazione digitale “che ci aiuti e ci stimoli”. Dal canto loro gli sviluppatori sorridono e rassicurano i giornalisti che l’azienda non farà nessun tipo di profitto su questa applicazione, deresponsabilizzandosi a loro volta all’insegna del “facciamo solo quello che sappiamo fare, sviluppare applicazioni. Se saranno utili per combattere il Covid-19 ne saremo orgogliosi”.

L’affidarsi ad un’applicazione per smartphone nel prevenire futuri focolai di contagi è un modo al passo coi tempi per dire alle persone che non c’è bisogno di usare la testa quando c’è l’intelligenza artificiale che può decidere per noi, ed è perfettamente in linea con l’approccio da guerra attuato dal governo, ora in cerca di un sistema che gli permetta di avere un radar sul campo, capace di trasmettere in tempo reale i movimenti del nemico (le persone che contraggono l’influenza) e poter intervenire con dispositivi repressivi (quarantena “volontaria”) in cui la voce in capitolo della singola persona semplicemente sparisce.

Allo stesso tempo rientra incantevolmente bene anche nella direzione tanta agognata da governi e pubbliche amministrazioni di ogni paese di rendere i/le propr* cittadin* trasparenti ai loro occhi, collezionando dati e statistiche sempre più accurate e precise, anche oltre al dato aggregato, abbindolando le persone con la favola del “più comodo, più efficiente, più sicuro”. In questo senso, la richiesta esplicita di un governo alla propria popolazione di installare sui propri dispositivi telefonici un’applicazione per il tracciamento è in qualche modo un salto di qualità nella realizzazione dei rispettivi piani nazionali di industria 4.0 e smartificazione urbana.

Una direzione, quella della gestione smart delle città così come dei posti di lavoro, che si basa – e può realizzarsi solo – attraverso la raccolta e l’elaborazione di quanti più dati possibili, e per ottenere questo è necessario una massa critica sufficiente di smartphone e di altri sensori, connessi ad una rete ad alta velocità (la centralità del 5G!) e delle specifiche applicazioni capaci di trasformare i dati grezzi in analisi che guidino le decisioni. Ma, sopprattutto, che la gente smetta di avere timori o remore sulla privacy e decida di usarle, dimodoché possano davvero essere efficaci. Servono dunque argomenti convincenti – e la salute solitamente lo è – perché l’attuale ecosistema digitale è già perfettamente compatibile con un controllo esteso della popolazione, in quanto è stato plasmato dalle stesse aziende che sfruttano tali forme di controllo a fini di profitto, e i governi semplicemente scalpitano per avere la loro fetta di Big Data.

Chi semmai sembra non essere tecnologicamente ancora pronto è lo Stato italiano, con la sua mastodontica e flemmatica pubblica amministrazione e il suo evidente ritardo digitale, così come anche l’argomento privacy è ancora un forte deterrente per molte persone. Questa applicazione potrebbe pure facilmente rivelarsi un flop totale che velocemente passerà nel dimenticatoio della storia, e tanto meglio! Allo stesso tempo, però, rimane il fatto che abbiamo raggiunto il momento in cui governi “democratici”, e l’Unione Europea stessa, mettono apertamente sul piatto la possibilità di un contact tracing digitale di massa, e se non sarà questa l’occasione per riuscirci davvero, lo sarà la prossima emergenza. Perché una volta implementata una tecnologia difficilmente si cancella.

Il punto che sento sarebbe importante si riuscisse a cogliere non è tanto la questione della “privacy lesa”, come sembra sia invece ciò che più accende i toni della critica, soprattutto nel momento in cui tantissim* di noi hanno già volontariamente abdicato accettando l’uso di WhatsApp, Facebook, Instagram e quante altre applicazioni abbiamo sui nostri telefoni Android o iOS. Piuttosto come il “corona virus” – la nuova scusa per l’eterna emergienzialità – ci ha messo di fronte al poter tastare con mano il significato più denso e intrinseco di Stato e di potere, quindi, la volatilità dei cosiddetti diritti acquisiti assunti come inalienabili. Da un giorno all’altro un intero paese si è ritrovato semplicemente confinato ai domiciliari senza spazio alcuno per esprimere una contrarietà (l’importanza del non precludersi l’agire illegale!) e con unicamente la fede nel progresso tecnologico e scientifico come sola speranza presentata per riacquisire la odiosa “normalità”.

La tecnologia, una volta di più, appare come strumento tutto tranne che neutrale ma, anzi, come uno strumento storico – dalle macchine a vapore alla costruzione delle vie ferrate – che concorre al rafforzamento del potere costituito.

In atto è una tecnologizzazione della questione sociale, in questo caso specificamente sanitaria, che rivela tutta la sua incompatibilità con la tensione di coloro che immaginano un mondo diametralmente diverso, lontano dallo sfruttamento e dall’oppressione capitalista che si aggiorna e si riafferma nel paradigma tecno-scientifico. Ovvero cogliere piuttosto come, per il potere, lo sviluppo tecnologico abbia assunto un ruolo centrale attraverso il quale tramutare la questione sociale in una questione meramente tecnica. La povertà, per fare un esempio, non è più una questione che ha che fare con la proprietà privata, il neocolonialismo e le discriminazioni, ma con una gestione “intelligente” delle risorse e con una regolamentazione maggiormente inclusiva. O, similmente, la devastazione ambientale non porta più con sé una critica agli Stati, alle multinazionali e, più precisamente, al capitale, al progresso e agli interessi che dietro vi si celano e hanno determinato il saccheggio e la distruzione degli ecosistemi, ma ad un banale piano di soluzione tecnica “ecosostenibile” da ricercare, che nulla davvero risolve e che unicamente e ulteriormente radica un’idea di pianeta e di biosfera da spremere, solo con maggiori attenzioni. E, nello specifico di questa emergenza sanitaria, come una dichiarata pandemia non ha relazione con la perversa condizione di accalcamento urbano globale, piuttosto che la segregazione sistematica di persone anziane in strutture fondamentalmente di confinamento – le case per anziani – come risultato delle esigenze produttive imposte, ma bensì dal non disporre ancora di una profilazione di massa per tenere la situazione sistematicamente sotto controllo, oppure di non avere ancora una produzione di vaccini realmente on demand, per contenere le inevitabili nuove crisi che ci aspettano.

Nell’attuale ristrutturazione del sistema capitalista e statale esperti, colossi informatici, software, hardware ed algoritmi assumono un ruolo immenso in quanto agenti di potere. Lo sviluppo tecnologico, ancora una volta, assume quindi la funzione di ottimizzazione e stabilizzazione dei rapporti di dominio, e i piani nazionali di industria 4.0 e smartificazione urbana e delle nostre vite vanno esattamente in questa direzione, attraverso l’implementazione di un’intima digitalizzazione del nostro quotidiano.

Toglierci per un attimo dalla testa l’ossessione civica della privacy lesa e rimettere piuttosto il focus nel SENSO che la realtà in cui ci troviamo a vivere sta assumendo. Se sono percorsi di autodeterminazione quelli che vogliamo costruire, lo Stato, la neutralità della tecnologia e lo sviluppo tecno-scientifico sono i capisaldi da dinamitare.

b.

1 ovvero i dati rimangono sul cellulare invece che essere inviati automaticamente ad un server centrale, cosa questa cambiata in un secondo momento probabilmente considerata la summenzionata decisione di Google e Apple.

Spagna – Ribellione, repressione e lotta collettiva nella sezione di isolamento del carcere di Villena

Ribellione, repressione e lotta collettiva nella sezione di isolamento del carcere di Villena (Alicante, Spagna)

Fin dall’inizio dello “stato di emergenza”, i detenuti rinchiusi nel reparto di primo grado (NdT: regime d’isolamento) del carcere di Villena si sono autolesionati, tagliandosi con delle lamette – uno, per esempio, si è sfregiato tutto il corpo, le braccia e il viso – ed hanno ingoiato lame ed altri oggetti, come batterie, accendini e pezzi di metallo. Hanno dato fuoco ai materassi, distruggendo le celle, spaccando vetri e tutto ciò che potesse essere rotto. Molti sono stati brutalmente picchiati e sono stati sottoposti a “contenimento meccanico” e almeno due sono stati portati via in trasferimenti speciali. Sembra che la tensione sia aumentata a causa della mancanza di comunicazione con l’esterno e poiché quasi nessuno ha i soldi per telefonare ai propri parenti. Circa dodici compagni presenti nella sezione erano disposti a partecipare allo sciopero della fame collettivo iniziato il 1° maggio, ma sono stati trasferiti, alcuni in altre carceri e altri in diverse sezioni del carcere di Villena, e sono stati sottoposti a continui controlli e pressioni. Il compagno Peque si è autolesionato, ed è stato portato in ospedale per aver ingoiato oggetti, inoltre è stato minacciato dai funzionari. È stato messo in isolamento in una sezione del carcere assieme ad un compagno rumeno di nome Cristian, e sono stati privati di tutti gli oggetti personali. Cristian è finito in isolamento per aver affrontato più volte le guardie carcerarie — che gli hanno spaccato la testa, lo hanno picchiato brutalmente quindici contro uno, e lo hanno legato al letto per ore — . Abbiamo ricevuto diverse lettere lo stesso giorno, la maggior parte delle quali molto in ritardo, in cui Peque ci informa riguardo alla sua partecipazione allo sciopero della fame collettivo e ci racconta la situazione nell’isolamento di Villena. Riportiamo qui la lettera più recente. Al termine abbiamo inserito un frammento di una lettera di Alfonso Martí Aracil, dove parla della sua partecipazione allo sciopero della fame. Tutti e due i compagni hanno inviato delle comunicazioni ufficiali in cui fanno presente la loro posizione alle autorità carcerarie.

Sezione di isolamento del carcere di Villena, 30 aprile 2020.

Ciao, compagni! Sono Peque e vi dò le ultime notizie da questo bunker di Villena dove sono sequestrato secondo l’articolo 91.3 RP1, prima fase del regime più restrittivo per i detenuti catalogati come estremamente pericolosi e applicato al regime FIES con l’intervento di ogni tipo di comunicazione.

I mezzi di disinformazione non menzionano gli episodi che si verificano nelle prigioni e nelle sue sezioni di isolamento (carceri dentro le carceri) e i detenuti che si lamentano vengono presi come capri espiatori, isolati e sottoposti al trattamento di primo grado. In quest’isolamento, nell’ultimo mese, diverse celle sono state bruciate, quattro detenuti hanno rotto i vetri e le strutture delle finestre. Gli stessi quattro compagni hanno ingoiato accendini, batterie, molle e altri oggetti come conseguenza dell’isolamento stesso e poiché non avevano i soldi per chiamare i propri cari. Noi, un altro compagno in lotta ed io, abbiamo già inviato la comunicazione e inizieremo domani, 1° maggio, lo sciopero della fame, io fino al 14 maggio, e il compagno i giorni 1, 3, 5, 7, 9, 11, 13 e 15, cioè otto giorni senza mangiare. Abbiamo inviato le lettere al garante di nessuno2 e al Ministro dell’Interno Grande-Marlaska informandolo di quanto sta accadendo nelle carceri. A seguito di queste lettere ci hanno aumentato il numero di telefonate da 8 a 13: pura facciata, chi può fare 13 o 15 telefonate a settimana, al costo di due euro e mezzo a chiamata? Sarebbero 40 euro a settimana o 160 euro al mese. Abbiamo, quelli che possiamo permettercelo, giusto il necessario per comprarci il tè e il tabacco, e molti nemmeno quello, non abbiamo i soldi mensili per le chiamate. I primi due mesi ci hanno dato una carta telefonica da 10 euro, quanto basta per fare quattro chiamate al mese, ma, siccome sono stati messi a disposizione dei telefoni di merda, ci hanno permesso alla fine di fare solo una videochiamata settimanale – registrata, se hai le comunicazioni sotto controllo – di 10 minuti, nemmeno 40 minuti, che è ciò che corrisponderebbe ad una normale comunicazione settimanale attraverso le finestre.

Hanno vietato i trasferimenti, ma i due compagni che una settimana fa hanno cercato di evadere da Fontcalent sono stati portati attraverso un viaggio speciale, già in primo grado di trattamento. In questa fottuta prigione ci sono solo due sezioni di dieci celle per il primo grado, otto per la seconda fase e due per la prima, più la terza sezione per la “zona di progressione”, dove nessuno si lamenta di nulla, e la quarta sezione con sei celle, una per la contenzione meccanica e altre cinque per i detenuti che hanno appena fatto casino e stanno aspettando che inizino le procedure per farli uscire da questa prigione. Quasi nessuno dei detenuti aveva un televisore, quindi il modo per farli stare tutti zitti è stato darne uno nuovo (con la sua scatola) a ciascuno di loro. Il 1° maggio, stavamo per iniziare lo sciopero della fame collettivo di 15 giorni, con la partecipazione di circa una dozzina di compagni, ma qualcuno ha fatto uscire l’informazione e li hanno portati tutti ad altre sezioni o fuori. Diversi detenuti hanno preso i miei scritti come modello e li stanno inviando per 15 giorni consecutivi al garante di nessuno2 e al ministro dell’Interno.

Intanto, nelle sezioni di secondo grado, da quanto mi è stato detto, i funzionari continuano con gli affari della droga, in modo che i ragazzi non abbiano crisi di astinenza. Molti detenuti non si preoccupano di nient’altro, tranne che della droga, non si preoccupano di vedere i loro cari. Mi vergogno persino di dover raccontare la realtà di quelle che chiamano prigioni e presto “centri di riabilitazione”. Altri, per non alienarci o seguire il gregge, passiamo anni e anni rinchiusi 21 ore al giorno in cella, perdendo la salute, in una guerra continua per non farci togliere la nostra dignità, perché, come ho detto oggi al direttore: “ci avete già tolto, e continuate a farlo giorno dopo giorno, la vita. Ci rimane solo la nostra dignità”. Il giorno in cui finiranno di ucciderci, quel giorno, finalmente, saremo liberi.

Voglio ricordare una persona, una compagna di Madrid, che ha appena compiuto un atto, lei sa quale, per il quale le sono estremamente grato, e anche per avermi scritto a Picassent. Compagna, ti ho scritto a Madrid, ma mi hanno restituito la lettera… tu ne conosci le ragioni. Salute e grazie, compagna. Voglio anche ringraziare tutti i gruppi di supporto che con le vostre lettere e i vostri movimenti rendete visibili i nostri atti e ci fatte sentire un po’ vivi. Senza tutti voi, le nostre lotte non avrebbero quasi nessuna luce o significato. Voi fate si che, dalla solitudine e il buio, possiamo vedere un po’ di luce alla fine del tunnel. Forse voi pensate di poter fare di più, ma anch’io penso lo stesso di noi: “potremmo fare di più”. Sarebbe però ingiusto chiedere ai compagni di fare lo stesso che farei io, perché ognuno ha i suoi limiti e non tutti abbiamo le stesse condanne.

Senza ulteriori dilunghi, compagni, vi saluto per oggi con un bacio fraterno e un grande abbraccio libertario da questo vostro compagno e, per alcuni di voi, un amico, un fratello, uno della famiglia.

José Ángel Martins Mendoza, del gruppo COLAPSO

Villena, 20 de abril de 2020

[…] Parteciperò al digiuno, il mio sarà un po’ più debole, per i problemi allo stomaco che ho ancora, a seguito di altri scioperi della fame, come sapete, quello a Puerto III e quello a Villena.

La ragione dello sciopero è tutto quello che sta succedendo qui: non possiamo vedere la famiglia e gli amici e, come sapete, veniamo torturati e i maltrattati.

Qui nella mia sezione una cella è già stata distrutta, le finestre ed altre cose sono state rotte ed il ragazzo è stato legato al letto e lo hanno bucato. Hanno anche bruciato una cella nella sezione di Peke e diverse persone hanno ingoiato batterie, ecc. per andare in ospedale.

Il mio digiuno sarà i giorni 1, 3, 5, 5, 7, 9, 11, 13 e 15 e vedremo se, essendo tanti di noi che lo facciamo, riusciremo a fare pressione su tutti e vincere di avere di nuovo le comunicazioni di nuovo e tutto il resto che c’è nell’elenco di richieste. […]

Alfonso Martí Aracil

1 NdT: “Reglamento Penitenciario”. Il regolamento specifico delle prigioni in Spagna.

2 NdT: Si riferisce al garante dei detenuti, che viene solitamente chiamato così dai detenuti in lotta.

 

Spagna: Ribellione, repressione e lotta collettiva nella sezione di isolamento del carcere di Villena

Arresti a Bologna – Indirizzi detenut*

DA BOLOGNA:

Dopo diverse ore, si è avuta qualche notizia un po’ più precisa sull’operazione “Ritrovo” a Bologna, coordinata dai Ros. I compagni arrestati sono 7: Elena, Leo, Zipeppe, Stefi, Nicole, Guido e Duccio.
Sotto i loro nomi e indirizzi di destinazione delle carceri in cui li stanno portando.

A 5 compagne/i (Martino, Otta, Angelo, Emma e Tommi) è stato dato l’obbligo di dimora a Bologna con obbligo di firma quotidiana.

L’accusa di 270bis è per chi ha la misura cautelare in carcere. Gli altri reati contestati sono poi 414cp, 639, 635 e a una sola persona incendio (423cp), aggravati dalla finalità eversiva.

LIBERTÀ SUBITO PER LE COMPAGNE/I

Indirizzi a cui scrivere lettere e telegrammi

Elena Riva e Nicole Savoia:
Str. Delle Novate, 65, 29122, Piacenza.
Duccio Cenni e Guido Paoletti:
Via Arginone, 327, 44122, Ferrara.
Giuseppe Caprioli e Leonardo Neri:
Strada San Michele 50/A, 15121, Alessandria.
Stefania Carolei:
Via Gravellona, 240, 27029, Vigevano, PV

 

Arresti a Bologna

Italia – Arresti a Bologna

Custodia cautelare in carere per * compagn* di Bologna: Elena e Nicole a Piacenza, Guido e Duccio a Ferrara, ZiPeppe e Leo ad Alessandria, Stefania a Vigevano.

Quì gli indirizzi a cui scrivere lettere e telegrammi.

Obbligo di dimora con obbligo di firma a Bologna per Emma, Martino, Ottavia, Tommi e Angelo.

L’accusa di 270bis è per chi ha la misura cautelare in carcere. Gli altri reati contestati sono 414, 639, 635 e a una sola persona incendio (423cp), aggravati dalla finalità eversiva.

Dall’Agi:

I Carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Bologna impegnati nell’operazione “Ritrovo” hanno eseguito una misura cautelare nei confronti di 12 anarco-insurrezionalisti, accusati di un attentato incendiario commesso a Bologna e di “atti di violenza con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico dello Stato”

Le indagini, coordinate dalla Procura di Bologna, hanno accertato come gli autori si fossero organizzati “promuovendo un’associazione terroristico eversiva tesa anche alla predisposizione e diffusione di materiale istigatorio al compimento di azioni riconducibili ad una generale ‘Campagna di lotta antistato’.

Il blitz, oltre a Bologna, ha riguardato Milano e Firenze.

Da Bologna Today:

Raffica di arresti all’alba, per una operazione antiterrorismo che ha riguardato Bologna. Circa 12 persone sono state colpite da misure cautelari nel capoluogo emiliano. L’operazione, denominata ‘Ritrovo’ è estesa anche a Firenze e Milano. Sette misure di custodia cautelare in carcere, cinque sottoposizioni all’obbligo di dimora nel comune di Bologna, di cui quattro con dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

Alla base dell’inchiesta gli incendi dolosi e i considerevoli danni, riscontrati tra il 15 e il 16 dicembre 2018, alle antenne dei ripetitori locali di Monte Donato. Sul posto i carabinieri trovarono anche alcune scritte inneggiati alla lotta contro la detenzione a firma anarchica.

Le accuse sono pesantissime e relative ad atti con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico dello stato. L’inchiesta è condotta dal pm Stefano D’Ambruoso della procura di Bologna, con la collaborazione del Ros e dei carabinieri di Bologna.

La tesi dell’accusa parla di “una associazione finalizzata al compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico dello Stato italiano, con l’obiettivo di affermare e diffondere l’ideologia anarco-insurrezionalista, nonché di istigare, con la diffusione di materiale propagandistico, alla commissione di atti di violenza contro le Istituzioni politiche ed economiche dello Stato impegnate nella gestione dei Centri Permanenti di Rimpatrio e nella realizzazione di politiche in materia migratoria”.

Perquisiti tutti i domicili dei destinatari dei provvedimenti, oltre al circolo ‘Il Tribolo’ di via Donato Creti, ma il quadro potrebbe allargarsi. L’operazione è estesa anche a Firenze e Milano. Sempre secondo gli inquirenti, che per le indagini si sono avvalsi anche di intercettazioni ambientali, si parla di “una articolata trama di rapporti tra gli attuali indagati e diversi gruppi affini, operanti in varie zone del territorio nazionale” con lo scopo di “contrastare, anche mediante ricorso alla violenza, le politiche in materia di immigrazione e, in generale, le istituzioni pubbliche ed economiche, con indicazione di obiettivi da colpire e le modalità di azione”.

Tra le azioni prese in considerazione per la formulazione della tesi accusatoria della sezione antiterrorismo della procura ci sono anche cortei non autorizzati, danneggiamenti ad edifici pubblici, la campagna anticarceraria e quella contro la Banca popolare dell’Emilia-Romagna, tutto con il supporto della “realizzazione e diffusione, anche con l’uso di strumenti informatici, di opuscoli, articoli e volantini dal contenuto istigatorio, tesi ad aggregare nuovi proseliti impegnati nelle loro “campagne di lotta””.

Altro articolo sugli arresti:

PROCURA REPUBBLICA BOLOGNA *INDAGINE ” RITROVO “: « 12 MISURE CAUTELARI 12 PER ASSOCIAZIONE CON FINALITà DI TERRORISMO ED EVERSIONE DELL’ORDINE DEMOCRATICO DELLO STATO ITALIANO »

Seguiranno aggiornamenti

Bonafede e i PM antimafia per calpestare la vita di migliaia di persone detenute

Tratto da https://www.ondarossa.info/

A due mesi dalle rivolte nelle carceri italiane, mentre migliaia di persone detenute continuano a vivere in condizioni inaccettabili, cambiano i vertici del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), prendendo un piega autoritaria e sviando l’attenzione dai veri problemi della popolazione detenuta. Ne parliamo con un compagno in collegamento telefonico.

Bonafede e i PM antimafia per calpestare la vita di migliaia di persone detenute

Cronache dallo stato d’emergenza (Numero8)

Sulla china

È proprio lì che ci troviamo. Persino economisti tutt’altro che radicali cominciano a ipotizzare quattro vie d’uscita dalla situazione attuale: uno scivolamento verso la barbarie; il capitalismo di Stato; il socialismo di Stato; una diversa società basata sull’aiuto reciproco. Il quotidiano on line «Milano Finanza» titolava, il 6 maggio: Perché il sistema capitalistico è praticamente morto. La tesi – sbagliata, ma indicativa – sostenuta dal capo di un importante fondo di investimento è che un sistema in cui le imprese non possono realizzare profitti senza l’intervento dello Stato non è più un sistema capitalistico. Ma il pezzo forte era la conclusione: se certi cambiamenti non saranno diretti dall’alto, ben altri saranno imposti dal basso. Chi lo avrebbe detto, anche solo qualche mese fa? Il problema è che per il momento l’iniziativa è quasi interamente nelle mani degli Stati e dei tecnocrati, il che ci avvicina a una delle prime tre soluzioni e ci allontana dall’ultima, l’unica che può salvare allo stesso tempo la sopravvivenza dell’ecosistema e la libertà degli individui.

A conferma

Il 6 maggio, Vito Crimi, viceministro dell’Interno e capo politico dei 5 Stelle, propone di “consentire” (troppa grazia!) a chi percepisce reddito di cittadinanza o Naspi di andare a lavorare in agricoltura per sopperire alla carenza di manodopera straniera “senza perdere il diritto a quel reddito”. Come se niente fosse, il pentastellato (ma era stato preceduto in questo dal presidente PD dell’Emilia Romagna Bonaccini: «Chi prende il reddito di cittadinanza può andare a lavorare lì così restituisce un po’ di quello che prende») dice le cose come stanno. È ora di fare piazza pulita dell’arcaica idea ottocentesca che il padrone debba pagare, e che ad un certo lavoro corrisponda un relativo salario, determinato dai rapporti di forza tra padrone e lavoratori. D’ora in poi il lavoro sarà una concessione (una concessione obbligatoria, cioè un’imposizione), così come lo sarà il reddito (sempre più misero), che potrà essere tolto su decisione del governo – abbiamo avuto un assaggio, di questi tempi, di cosa possono fare con un semplice decreto – e soprattutto che non sarà in alcun modo commisurato al lavoro svolto, né potrà essere oggetto di contrattazione e conflitto. 600 euro al mese per lavorare 12 ore sotto il sole ti sembrano pochi? Perdi il sussidio. Vorresti contrattare una paga adeguata? Avanti il prossimo. Vorresti un contratto con paga oraria, straordinari, malattia, ferie, permessi, giorno libero, contributi, possibilità di scioperare? Crimi e Bonaccini non ne parlano, altri politici nemmeno, probabilmente per loro è roba da museo. Una svolta non da poco per affrontare la “crisi che verrà” (o che è già qui?): i percettori di sussidi sarebbero una riserva di manodopera letteralmente a costo zero per i padroni, e senza alcun costo aggiuntivo per lo Stato, visto che si tratta di fondi (ma sarebbe meglio dire briciole) già stanziati e la cui erogazione è già prevista dalla legge. Una proposta simmetrica al rifiuto di regolarizzare i lavoratori immigrati senza documenti, una manodopera a costi ridottissimi per le aziende, a costo zero per lo Stato. Un motivo in più per lottare insieme, italiani e stranieri, contro un nuovo schiavismo, che non ha nulla di emergenziale: visti i profitti che garantiscono, non c’è alcun dubbio che queste condizioni, una volta imposte, diventeranno permanenti e sempre più estese.

Coscientemente, o per forza

Il nodo del degrado delle condizioni di vita e di lavoro e quello di una società sempre più artificiale stanno venendo al pettine contemporaneamente. Ben difficilmente riusciremo a fermare questa economia della sciagura, senza creare degli spazi collettivi in cui organizzarci contro la crescente miseria e in cui formulare, allo stesso tempo, un giudizio complessivo su un sistema apertamente in guerra con il Pianeta e tutti i suoi abitanti. La resistenza contro l’introduzione del 5G sarà probabilmente una di queste occasioni. Un altro terreno di incontro potrebbe diventare quello relativo alla salute. Perché possa trovare sostegno nel resto della popolazione per le proprie battaglie, il personale sanitario critico dovrà cominciare a esprimersi non solo contro tagli e privatizzazioni, ma anche contro le cause strutturali (inquinamento e adulterazione del cibo, ad esempio) che assicurano sempre più pazienti all’industria per cui lavora. È proprio un simile giudizio che manca – in quel settore come in tutti gli altri –, schiacciato sotto il peso della sopravvivenza. Solo degli spazi di comunicazione diretta e delle lotte comuni possono allentare quel peso. D’altronde, se non avverrà attraverso il blocco cosciente di una produzione sempre più demente, sarà «sotto il giogo di disastri ecologici ripetuti che gli uomini dovranno imparare a separarsi da un mondo di illusioni».

Linee di principio

In attesa – o in sostituzione – dell’applicazione per il tracciamento dei contatti, l’Istituto Italiano di Tecnologia (il cui direttore Roberto Cingolani fa parte della task force istituita dal governo per programmare il “ritorno alla normalità” dopo la quarantena) ha già elaborato e messo in commercio un braccialetto digitale che suona se non si rispetta la “distanza di sicurezza” e che incamera i dati sui contatti con eventuali contagiati. Il governatore della Liguria vuole renderlo obbligatorio a partire da quest’autunno. Intanto, il ministero dell’Istruzione progetta di mantenere la “didattica on line” anche per settembre (metà degli studenti “in presenza”, metà collegati a internet). «Non ci sono mai ostacoli per coloro che non hanno princìpi», è stato scritto di recente. E quali sono questi princìpi? Che idea di libertà, di “natura umana” e di relazioni sociali contrapporre alla macchinizzazione di noi stessi e del mondo? L’affermazione di certi valori è forse la necessità etica e pratica più imperiosa di questa fase storica. Attorno agli insegnanti recalcitranti, ai genitori che si rifiuteranno di mandare i figli a scuola, agli studenti che non forniranno l’“email istituzionale” necessaria per la “didattica a distanza”, è fondamentale che si crei una rete di appoggio, di riflessione e di resistenza. Probabilmente gli elementi di rifiuto sono più diffusi di quanto non si creda, benché dispersi e timorosi.

Un inizio

Una prima discussione su tutti questi temi è avvenuta domenica 10 maggio al terreno no tav di Acquaviva e Resistente. Per diverse ore, una cinquantina di persone provenienti da varie località del Trentino si sono raccontate come hanno vissuto questi due mesi di confinamento, abbozzando, in vista di altri incontri, idee e proposte per far sì che non si torni alla normalità.

Versione pdf: Cronache8

Cronache dallo stato d’emergenza (Numero8)

La Nave dei Folli – Episodio 6

Episodio 6

Hiroshima e Aushwitz – la conquista dell’energia atomica e delle sue potenzialità distruttrici e la possibilità di trasformare in genocidio il programma progressista dell’eugenismo – sono solamente due tra le molte ferite che nel dopoguerra stanno lacerando le carni e gli spiriti di così tante persone nel mondo, anche quelle non coinvolte.

La funzione della cibernetica, pensata come farmaco, è anestetica e cicatrizzante. Con false o quantomeno ipocrite rassicurazioni umanistiche il suo compito è indirizzare il grande pubblico e gli addetti ai lavori verso un’accettazione entusiasta e acritica delle sue scoperte e innovazioni. Considerandosi un Secondo Rinascimento, vuole riunire tutte le discipline separate al fine di migliorare l’Uomo, sotto l’occhio vigile e il governo bonario della macchina pensante, il calcolatore.

Intanto l’esercito statunitense, in seguito al primo esperimento nucleare russo del ’49, avvia il progetto SAGE, un sistema di radar collegati ai computer che scruta lo spazio aereo per organizzare e attivare la risposta automatica. È il primo sistema non umano adoperato per analizzare le informazioni e orientare le decisioni in tempo reale, embrione del pianeta intelligente che IBM e i suoi alleati stanno impiantando al posto del pianeta vivente.

Riferimenti Episodio 6

• Neil Young, Guitar Solo n° 4 (dal film Dead Man di Jim Jarmush, 1996)
• Lina Wertmüller, Io speriamo che me la cavo (1992)
• Yann Tiersen, La Valse D’Amelie, Comptine D’Un Autre Ete – L’Apres Midi, La Noyee, Le Moulin, Soir De Fete (Le Fabuleux Destin D’Amelie Poulain Soundtrack, 2001)
• Hayao Miyazaki, Conan, il ragazzo del futuro (episodio 23, La Torre Del Sole. Vers. Ita. 1981)
• Michel Houellebecq, intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 5/5/2020
• Parpaing, Valse au Parquet Raballand (Poule d’oeuf, 2009)
• Amestoy Trio, Espina (Le fil, 2003)
• La nuova chiesa universale (Survivre… et vivre n° 9, 1971)
• Tony Allen, Progress (1977)
• Wally Pfister, Transcendence (2014)
• Utopia ou pas?, L’un et le multiple (2002)

 

la nave dei folli

Bentruxu / 27 Aprile – 6 Maggio

tratto da: Bentruxu

27 Aprile
Fase 2
Il 4 Maggio giorno tanto sospirato da tutti o quasi si avvicina.
E come ci si poteva aspettare è iniziato il balletto mediatico e politico su cosa accadrà, cosa sarà permesso e cosa ci sarà ancora proibito in questa fantomatica Fase 2.
Un’analisi dettagliata è impossibile da fare, in quanto forse per volontà forse per incapacità i vertici politici non sono precisi, ne tanto meno chiari.
A noi non resta che attendere, cosa alla quale ci siamo ormai abituati, e sperare che le concessioni siano più delle restrizioni.
Pare sicuro che rimarrà in vigore l’obbligatorietà dell’autocertificazione, che non è altro che un modo per mantenere la capillare presenza di sbirri sul territorio e per continuare a farci vivere con l’ansia di essere fermati in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo.
Vedremo nei prossimi giorni cosa accadrà, ma sembra che la tanto sospirata e ammirata unità nazionale si stia frantumando sotto le pressioni della Confindustria e delle necessità primarie ormai impossibili da procrastinare. I governatori regionali mordono il freno, Conte ha la fronte sudata, l’estate è alle porte. Sarà un Maggio particolare.

28 Aprile
La conclusione di Aprile si porta con se alcune giornate di memoria storica, ormai completamente assorbite dalle istituzioni e svuotate del carattere conflittuale che hanno contraddistinto i momenti che ricordano. È stato così per il 25 Aprile, cavallo di battaglia persino del PD, e sarà così per il primo Maggio, celebrato da quello stesso Stato che va a braccetto con Confindustria, responsabile delle migliaia di contagi nelle fabbriche del Nord Italia.
Anche oggi, 28 Aprile, è una giornata particolare per chi vive in Sardegna. Nel lontano 1794 a Cagliari, un moto insurrezionale scacciò momentaneamente i piemontesi e il loro viceré, dando dimostrazione della forza del popolo.
Per noi che viviamo nel nuovo millennio, non ci sono più tiranni piemontesi ne viceré, la democrazia, vera protettrice della libertà individuale, ha scalzato il vecchio mondo, facendosi portatrice di un sistema più giusto ed egualitario.
Qui in Sardegna non subiamo più i soprusi dei conquistadores d’oltremare, godiamo addirittura di una specie di autonomia governativa! Ad amministrare l’isola ci pensano dei veri difensori della terra e della cultura locale, possiamo star tranquilli che finché ci sono loro nessuno arriverà a depredare terre e comunità, la Sardegna ha finalmente la dignità che si merita!
La cosa peggiore non è tanto il contenuto di queste menzogne, bensì che la gente ci crede.
La realtà è veramente molto lontana, e ci parla di tutt’altro. Ci parla di un partito che si spaccia come difensore dell’interesse dei sardi ma preferisce allearsi con chi ha sempre denigrato l’isola e le sue genti. Un partito capeggiato da un fantoccio, Solinas, che in questi giorni sta dimostrando quanto poco vale la sua parola e l’autonomia che vanta. Di un partito che continua ad agevolare chi sfrutta la gente e devasta il territorio.
Ma che cerca di redimersi parlando in limba oggi, come se questo bastasse a cancellare la vergognosa condotta italianista e servile con cui si contraddistingue.
Autonomia, dicono. Non ci sembra proprio che questa ci abbia resi liberi di scegliere per noi.
L’esperienza di questi mesi ci ha costretto ad affrontare difficoltà, rinunce, sacrifici e in alcuni casi anche grandi sofferenze. Ha però avuto anche il merito di mostrarci alcuni aspetti che la politica istituzionale tende a nasconderci, come la fragilità e la dipendenza della magra economia di sfruttamento con cui a fatica sopravviviamo. Per noi quindi la vera sfida sarà provare a creare una nostra fase 2 e poi 3 e 4 e così via, cercando e proponendo spiragli di autogestione all’interno dei territori che viviamo, smascherando gli ascari che fanno gli interessi dei padroni e sperimentando nuove forme di convivenza fra noi e la nostra terra, più equilibrate e rispettose dell’ecologia e della libertà.

29 – 30 Aprile
Pubblichiamo una riflessione extraredazionale:
Le relazioni pericolose
Mai quanto questi due lunghi mesi potrebbero rivelarsi un esame collettivo sulla tenuta e sullo spessore delle relazioni che ci scegliamo e di cui ci circondiamo.
Anche i giornali da qualche settimana hanno iniziato a pubblicare articoli di psicologi, sessuologi, terapeuti di coppia, per parlare delle possibili conseguenze che l’arrivo imprevisto di questa forzata clausura potrebbe causare nelle relazioni. Alcuni nei loro articoli si sono sentiti anche di dedicare un paragrafo al che fare, per prevenire malumori o crepe difficili da riparare. Devo dire che leggendoli li ho trovati tristi e noiosi, e non perché non mi ci ritrovassi o perché i suggerimenti fossero inutili o inadatti, ma perché l’approccio era tristemente superficiale e banale.
Ad esempio solo raramente è stata considerata con uguale importanza la possibile crisi di coppia con la crisi del single, che chiuso in casa da mesi sta impazzendo dalla voglia di un contatto fisico intimo, oppure la mancanza di un amico.
Non che io mi voglia sostituire a questi illustri scienziati, ma mi piacerebbe piuttosto provare a raccogliere nelle ultime – speriamo – pagine di questo diario dell’epidemia, delle considerazioni sui vissuti.
Dopo le impressioni e le preoccupazioni dei primi giorni, le analisi della fase centrale credo che sarebbe interessante condividere i pensieri di questa parziale fase finale.
Visto che – come ampiamente prevedibile – le istituzioni si stanno prendendo gioco di noi con numeri e numeretti, fasi e mascherine, tanto vale che parliamo di noi. O almeno ci proviamo. Io ci provo.
Credo che la scelta presa all’inizio di non sottostare all’imposizione domestica si sia rivelata giusta, uscire almeno una volta al giorno mi ha insegnato poco per volta a prendere le giuste precauzioni per stare in giro, provare ad adattare le mie abitudini diurne e notturne al lockdown è stata un’esperienza che mi porterò dietro, molto formativa e stimolante. Frequentare delle persone mi ha messo nella condizione di scoprire i miei limiti, le mie paure, ma anche quelle altrui.
Non è un giudizio verso altri, ma un’impressione raccolta, mi è parso che chi si sia imposto autoquarantene o varie altre misure di sicurezza sanitaria l’abbia fatto più per serenità psicologica che per ricerca di sicurezze scientifiche o reale pericolo di contagio, tant’è che conosco solo due persone o tre che hanno passato le fatidiche due settimane da sole in casa, senza contatti se non con l’unica persona che è necessaria alla sopravvivenza.
Cioè mi sembra che i rischi li abbiamo corsi tutti o quasi, che però si sia diffusa la scelta che per essere più sereni ci si autodichiarava comunque in quarantena, quasi per imbrogliare il virus che viene a suonare il campanello. Ma nella realtà quella campanello è stato negato agli amici in carne e ossa, e si è scelto quindi di affrontare i problemi da soli o quasi.
Scelta che può essere non condivisibile ma che va assolutamente rispettata.
In generale ho percepito una scarsa attenzione verso le necessità altrui, da questo punto di vista mi sembra che purtroppo l’egoismo abbia permeato le nostre vite più di quanto vogliamo ammetterci e di quanto ci rendiamo conto.
Alcuni racconti (di scelte prese in questi mesi) che mi sono arrivati sforano nell’assurdo, assunto acriticamente come se oggi non fosse attaccato a ieri e domani, comportamenti che collocati nelle nostre abitudini ci avrebbero lasciato a bocca aperta e lingua asciutta.
La cosa triste, dal mio punto di vista, di questo egoismo sta nel fatto che non prendersi cura degli altri vuol dire anche non prendersi cura di se stessi, perché reiterare in questo atteggiamento alla lunga porta a creare delle distanze faticose da ricucire e quindi al logoramento dei rapporti.
Penso a chi ha patito in questo periodo sofferenze completamente esterne all’epidemia, per le quali – per abitudine ma anche convenzione sociale – siamo abituati a starci vicini e darci manforte, in alcuni casi forse non è stato neanche possibile condividere l’accaduto, perché con molti amici i rapporti si sono ibernati (come Han Solo), in attesa che Conte li scongelasse.
Ma non solo, anche chi invece ha patito proprio i mali causati da questa situazione, le coppie che sono esplose perché non abituate a convivere h24, chi ha sofferto di solitudine nel vuoto del suo monolocale, chi del sovraffollamento famigliare in una casa di 50mq, chi ha finito i soldi e li ha dovuti chiedere in famiglia, chi ha patito della distanza dalla persona amata rimasta oltremare e via dicendo.
Quanto ci siamo presi cura di questi casi? Quanto ci siamo presi cura anche solo di scoprire se queste cosa avvenivano?
E’ triste, sempre a mio modo di vedere, che quindi abbiamo pensato che di fronte alle imposizioni dello stato fossimo tutti uguali. Ve lo ricordo, non è così.
Una cara amica qualche settimana fa riconosceva la sua fortuna nell’avere una casa grande, accogliente, ben attrezzata tecnologicamente e capiva quanto grande fosse il suo privilegio. Capire questo vuol dire capire meglio chi reagisce in modo diverso.
Come chi lavorava in nero. Ci abbiamo pensato, abbiamo fatto qualcosa per aiutarli?
Come ho scritto all’inizio, quest’esperienza potrebbe essere un’esame – non voluto e non cercato – sulla tenuta delle relazioni di cui ci circondiamo. L’esame andrà avanti a lungo, perché il ritorno alla normalità non sarà veloce, per ora se posso esprimere un parere critico – ma che vorrebbe essere stimolante – direi che siamo rimandati a settembre.
Il mio immaginario idilliaco e sempre fervido come quello di Pumba (per chi sa cogliere la citazione) sogna che in una situazione nuova e grave come questa ci si avvicini – non per forza fisicamente, ma nemmeno solo con le videochiamate – per darsi manforte, per offrire sostegno, ognuno come può. Per quello che ha o sa fare.
Altrimenti le istituzioni – stato e famiglia in primis – prenderanno il sopravvento nelle nostre vite e nella società, come se ce ne fosse bisogno.
Ammettere le proprie difficoltà è tanto difficile quanto dimostrarsi in grado di accogliere quelle degli altri. Però questa è l’amicizia e la complicità.
Vogliono fare App per tutto, per sostituire anche i nostri rapporti di amicizia, sembra un’esagerazione distopica? Esistono già da molto le App per conoscere le persone, per innamorarsi, per tenere il conto dei cicli mestruali, usiamo la tecnologia ma non perdiamo l’umanità.
Appena possiamo usciamo di casa, andiamo a suonare senza preavviso il citofono di un caro amico o una cara amica e godiamo del sorriso che ci farà, e subito dopo azzardiamo un abbraccio forte, che le emozioni fanno bene.
Bentruxu ha ospitato in questi mesi svariate riflessioni personali che non sono per forza condivise integralmente dai redattori, ma che a vario titolo sono state considerate interessanti all’approfondimento e all’allargamento dell’analisi sullo smottamento sociale, economico e intimo causato dall’epidemia. Per questo continuiamo a caldeggiare nuovi contributi, sotto ogni forma, lunghi, corti, audio, anonimi, in prosa o in altre lingue.

1 Maggio
Il futuro è già qui
Come abbiamo scritto nelle pagine precedenti, e come viene confermato dagli avvenimenti, stiamo assistendo ad una ristrutturazione tecnologica delle nostre vite. Avevamo iniziato con la diffusione dello smart-working e la scuola digitale, per arrivare adesso alle proposte di app come Immuni e a tutto ciò che è necessario perché essa possa funzionare.
In Cina vantano di aver sconfitto il contagio proprio con l’aiuto della tecnologia: per circolare è necessario essere dotati di smarthphone e ogni ingresso-uscita dal proprio distretto, così come dai negozi o mezzi pubblici, è vagliato tramite QR code, che ormai è diventato onnipresente nella vita dei cinesi. In parole povere vengono registrati tutti gli utenti che frequentano lo stesso luogo nello stesso momento in modo tale da venire avvisati se si viene in contatto con persone che hanno rischiato il contagio. Il proprio profilo viene riconosciuto tramite un codice: verde se si sta bene, giallo se si presentano sintomi sospetti e rosso se si viene contagiati. Tutto ciò è accompagnato da check-point che misurano la temperatura e si assicurano che i cittadini non stiano in giro più del concesso (inizialmente si aveva il permesso di stare in giro esclusivamente 2 ore al giorno).
In Italia per adesso il dibattito verte sull’utilizzo dell’applicazione Immuni e sulla sua funzionalità e soprattutto sulla questione della volontarietà e della privacy. È come se lo Stato stesse facendo un doppio gioco: da una parte sostiene l’adesione volontaria all’applicazione, come per mostrare il proprio spirito profondamente democratico a differenza dei paesi come la Cina, dall’altra ne promuove massicciamente il suo utilizzo, facendo leva sulla paura del contagio. Se ci dovesse essere un utilizzo ampio dell’applicazione non sarà difficile prevedere come verranno trattati tutti coloro che, per scelta o necessità, non aderiranno.
Ma il problema non è solo questo. Nello stivale non è ancora presente una rete di infrastrutture 5G capillare, anche se le prime antenne sono già state installate, perciò adesso si fa leva su questa fantomatica arretratezza del sistema tecnologico per nascondere l’arretratezza dal punto di vista sanitario.
Giuseppe Pignari, cyber security officer di Huawei Italia (una delle aziende che si occupa di infrastrutture 5G), sostiene che l’Italia è molto più arretrata della Cina perciò avrà una difficoltà maggiore ad affrontare il pericolo del contagio e ciò che ne comporta. Per esempio in Cina molte visite mediche avvengono virtualmente, oppure la consegna del cibo è in molti casi robotizzata, così come la rete 5G è già ampiamente diffusa perciò le applicazioni sulla prevenzione del contagio possono permettersi un circolo di dati molto maggiore.
In poche parole farci sostituire dalle macchine così evitiamo di essere contagiati…
Ma non c’è da sorprendersi, il progresso tecnologico è ormai diventato uno dei capisaldi di ogni Stato, e le telecomunicazioni ne costituiscono la sua ossatura principale, basta vedere da chi è composta la task force per la fase 2 nominata dal governo Conte. A capo troviamo l’ex amministratore delegato di Vodafone, Vittorio Colao, accompagnato da gente come Roberto Cingolani, direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia e responsabile dell’innovazione tecnologica di Leonardo (ex Finmeccanica, la principale produttrice di armi in Italia).
Ancora una volta assistiamo ad un meccanismo già visto e rivisto: facendo leva sulla paura vengono presentate delle soluzioni inevitabili…vogliamo rendercene conto troppo tardi pure questa volta?

2 Maggio
riceviamo e pubblichiamo un contributo:
NON DIMENTICHIAMOCI LE NOTTI
SI SGOMBERANO BALCONI, CUCINE, APPARTAMENTI E SI RIOCCUPANO STRADE, PIAZZE E TETTI
ASTENERSI SANTI ED EROI
Siamo statx buonx per ben 45 lunghi giorni e notti prendendoci la nostra responsabilità di cura per le nostre Sfamiglie, cosa che tra l’altro facevamo già.
Stiamo approfittando di questo DSO (Distanziamento Sociale Obbligatorio) per provare a mettere in pratica ciò che abbiamo imparato dai laboratori su consenso e relazioni.
Ci siamo presx cura soprattutto della paura all’interno di queste Sfamiglie.
Paura alimentata dalla mancanza di un’informazione diretta, chiara e corretta e da limitazioni prima penali e poi pecuniarie, reinterpretabili da sbirro a sbirro, da comune a comune, da provincia a provincia, da condominio a condominio, da manganello a manganello, che criminalizzano la nostra sanissima esigenza di perdere tempo e continuare a stringere quelle relazioni umane che escono dal nostro nucleo e si nutrono di spontaneità.
Chiuderci a chiave in casa e controllarci mirava a prendere due piccioni con una scusa, sappiate invece che siamo tantx e stiamo tubando!!!
Aggiravamo mancanze e obiezioni di coscienza già prima della quarantena e da tempo diffidiamo di chi non è in grado di divulgare corrette informazioni sulle malattie sessualmente trasmissibili, figuriamoci per ciò che riguarda un virus che si trasmette per via aerea!!
Sarà stato questo il motivo di tanta confusione per cui in Sardegna si esercita la contraerea?
Non siamo ancora tuttx veganx ma ci fa ribrezzo l’idea di mandare al macello il personale ospedaliero, la carne da macello non ci piace come concetto di base, a fine mese potremmo però riflettere sul mangiarci i ricchi, quasi quanto riflettiamo sulla voglia di festa che abbiamo.
I giorni e le notti sono concetti relativi, questo scritto vale per oggi, per ieri e per domani, la resistenza è uno stato mentale.
Non ci piacciono le cosiddette feste comandate cosi come le imposizioni.
Non vogliamo più giocare, bruciamo il gioco, il comandante, la frontiera, la prigione, la bandiera e saccheggiamo il supermercato!
Farsi dire dai padroni le modalità con cui dissentire pare quanto meno illogico.
Sgomberiamo il nostro balcone e manifestiamo come più ci piace per il bisogno stesso di manifestare.
Non ci accontentiamo della strada, vogliamo i mari, i boschi e tutta la campagna.
ANTIFASCISTX ANARCOTRANSFEMMINISTX ANTIPATICX
D’OGNI GENERE E DEGENERE E PIUMAGGIO

3 Maggio
Regolarizzare lo sfruttamento
Mentre continua imperterrita l’ossessione dell’“iorestoacasa”, persino in vista della fase 2, c’è chi non può prendere alla lettera i decreti governativi perché deve cercare di sopravvivere.
Non ci si pone il problema che quando si va al supermercato e si comprano prodotti agricoli a basso prezzo, anche perché la crisi da Covid ci ha impoveriti, si sta ingrassando la domanda di lavoratori sfruttati nei campi.
Quando si vedono i mezzi pubblici, le strade delle città e delle campagne piene di migranti ad ogni orario e si pensa “ma come, noi chiusi in casa e questi in giro a fare ciò che vogliono? Vergogna! Se ne tornino a casa loro”, non ci si pone il problema che ci sono interi settori che basano il proprio profitto sulla ricattabilità di queste persone, anche in piena emergenza sanitaria.
In questi giorni è piuttosto vivace il dibattito sulla questione degli immigrati.
Quest’anno, in Italia, si sta vivendo un importante diminuzione di lavoratori che accettano di essere sottopagati per le raccolte e le manutenzioni nei campi, circa 200 mila unità in meno, si ipotizza a causa dell’emergenza Covid, dell’erogazione del reddito di cittadinanza e, chi lo sa, forse pure per la chiusura dei porti.
Prontamente risponde la ministra dell’agricoltura Bellanova, proponendo una sanatoria per la regolarizzazione dei 600 mila migranti senza permesso di soggiorno per 6 mesi (mentre la ministra del lavoro rilancia al ribasso per un mese solo) al termine del quale, possono sperare nel rinnovo se hanno trovato un lavoro (certificato), oppure essere certi di essere rimpatriati o spediti in un Cpr.
Ricapitolando, servono persone da sacrificare per salvare l’industria alimentare italiana, perciò si promettono i permessi di soggiorno in cambio di buone braccia per l’agricoltura. Che cosa ne sarà di questa massa di braccianti quando la crisi sarà finita e il permesso scaduto? Verrà regolarizzato anche il contratto di lavoro o continueranno ad essere pagati 3 euro all’ora (se va bene)?
Attendendo la risposta del governo, non mancano certo i commenti fascisti o populisti delle varie figure istituzionali che condiscono la patetica discussione tipica di uno Stato che campa sulla guerra ai poveri come quello Italiano.
In Sardegna è la solita solfa, gli sbarchi continuano e ci si indigna per chi arriva, non per chi non riesce a sopravvivere al mare. In tanti chiedono a Solinas di fare ciò per cui è stato votato, evitare che “questi arrivino a impoverirci”, “dare dignità agli Italiani” e “mandare via chi non rispetta le nostre regole”.
Lui e lo Stato che rappresenta hanno mantenuto la promessa anche in questo periodo di pandemia: porti chiusi per gli immigrati, ma allo stesso tempo si spera di riaprire il prima possibile per i turisti.
Le strutture per la reclusione e l’espulsione, veri e propri lager, sono in piena funzionalità, difatti il nuovissimo CPR di Macomer in questo periodo è stato riempito, nonostante l’opposizione del governatore a ospitare immigrati nell’isola.
E’ di questi giorni la notizia che ha come protagonista il ventottenne del Benin rinchiuso da 3 mesi nella struttura, prelevato per strada senza motivo, e che alla notizia del terzo respingimento alla sua domanda di rilascio è salito su una ringhiera di 5 metri per protesta e ha cercato di togliersi la vita buttandosi giù (il secondo tentato suicidio dall’apertura della struttura a fine Gennaio). Evidentemente non era abbastanza “produttivo” per lo Stato, faceva il muratore e il giardiniere, lavori occasionali e poco redditizi, costretto prima a lasciare i suoi cari in Africa e poi gli amici che gli hanno dato solidarietà in Sardegna. Dopo il ricovero di pochi giorni all’ospedale di Sassari si ritrova di nuovo in quell’inquietante galera, l’incubo che l’ha portato a non voler più vivere.
Per molti di noi un esistenza all’interno di quelle strutture maledette non è nemmeno immaginabile.
Lo si dica a lui di avere pazienza e di restare a casa, nel lager dove sta ora…

4 Maggio
Fase 2
4 Maggio, Cagliari torna a vivere, improvvisamente in un lunedì di mezza primavera una città sul mare, al centro del mediterraneo, sembra stata svegliata da un incantesimo o forse da un brutto sogno.
L’impressione vedendo le persone e parlando con alcune di esse è proprio quella che qualcosa sia finito, passato. Come un brutto temporale, una tempesta o un rigido inverno.
Ma sappiamo bene, pur non essendo illustri dottori, che con un virus le cose non vanno proprio così… non si debella da un giorno all’altro, e non potendolo vedere non possiamo sapere quanto sia presente intorno e in mezzo a noi.
Possiamo sempre e solo fidarci dei soliti numerini che appaiono negli schermi e sui giornali, e che ci dicono che i contagi sono in calo, ma qualcosa non torna, cosa è cambiato tra domenica e lunedì? Sono cambiate solo le regole del gioco a cui ci stanno facendo giocare, da oggi abbiamo delle carte in più da giocarci per la nostra autocertificazione, ci sono i congiunti, gli sport, i parchi il mare (solo se vai a pescare) e via dicendo.
Le mascherine e i guanti sono ancora sui volti e nelle mani di tutti, ma la paura sembra meno forte, audaci individui azzardano un abbraccio all’amico che non vedono da settimane, altri scorrazzano in due in scooter ben stretti fra loro, nel piazze compaiono sparuti palloni.
Sembra quindi che almeno a Cagliari, si temano più le istituzioni che il contagio.
Ci viene da riproporre quanto detto in pagine precedenti e cioè che il grande senso di unità dell’ #iorestoacasa o dell’ #andràtuttobene fosse tenuto insieme solo dalla più che comprensibile – e condivisa – paura delle multe.
Non siamo profeti perciò non sappiamo se questa lenta ricomparsa dell’assembramento ci porterà ad una nuova fase di contagi e lockdown, quello che ci sembra possibile è il rischio che la società si spacchi in due, tra chi rispetta le norme di prevenzione, per timori e maggiori rischi sanitari, e chi sceglie o è costretto a non farlo.
Una sanità indecente come quella offertaci dallo stato italiano ovviamente non ci mette tutti sullo stesso piano, ci costringe a dividerci. Farsi carico delle esigenze di tutti sarebbe la cosa più bella, ma probabilmente impossibile, perché così come non abbiamo tutti le stesse condizioni di salute non abbiamo tutti le stesse condizioni lavorative ed economiche.
Ma non solo, ci divide anche il fatto che non usciamo tutti allo stesso modo da questi due mesi, per alcuni la conta dei danni è salata, sia essa di natura economica o di salute. Le reazioni saranno scomposte e imprevedibili, di sicuro per molti la paura del virus non può continuare ad essere la priorità nella vita di tutti i giorni, ne vedremo delle belle.
Una prima lezione che abbiamo imparato è che lo spirito di adattamento a decreti, sanzioni, virus e distanziamenti la sta facendo da padrona, dimostrando un’altra volta quanto sia veloce la capacità dell’essere umano di adattarsi alle novità, belle o brutte che siano, imposte o no.

5 Maggio

6 Maggio
Per quanto riguarda il diario e il suo scopo iniziale crediamo che sia venuta meno l’esigenza di scrivere ogni giorno. È ora di stare fuori e guardarsi attorno, di capire quali crepe produrrà questa crisi, forse più economica e sociale che sanitaria, e di viverci le contraddizioni. Per quanto ci sia piaciuto ragionare passo per passo su ciò che è accaduto, crediamo che sia fondamentale ri-trovarsi là fuori, superare l’osservazione e sporcarsi le mani, a partire dalle problematiche delle nostre vite e delle nostre condizioni.
Per questo primo periodo proveremo a scrivere settimanalmente, affinché anche i ragionamenti possano essere più ricchi e interessanti, si spera.
A questo proposito vi invitiamo a condividere con noi i vostri pensieri, mandateci contributi vostri o che ritenete a vario titolo interessanti.