Alcune righe riguardo un intervento della polizia di sabato 18 Aprile a Monza

Per le strade deserte di Monza succede che, in un tranquillo sabato sera, un ragazzo venga fermato dalla polizia in strada perché in stato di agitazione. Chi ha assistito alla scena racconta di aver contato, oltre a un’ambulanza, 11 poliziotti intervenuti per fermare un ragazzo che non stava facendo del male e che, evidentemente, non sarebbe stato pericoloso.

Come spesso accade, l’arrivo delle FDO ha peggiorato la situazione: se mentre uno sbirro ti dice di stare calmo e che andrà tutto bene tiene in mano un manganello, è facile mantenere la calma? Quello che è successo sabato, in queste settimane è capitato parecchie volte anche in altre città d’Italia: una persona è stata accerchiata dalle forze dell’ordine, trascinata per terra e ammanettata. Erano in tanti ad assistere e riprendere, ma alla polizia non piace essere ripresa durante un fermo. Infatti una delle persone presenti è stata accerchiata da quattro sbirri che, vedendola riprendere col telefono (fuori dal portone di casa e con mascherina), le hanno intimato di smettere perché, a detta loro, sarebbe vietato. Gli sbirri allora hanno chiesto perché questa persona (tra molte altre) fosse in strada. Il motivo di tutto questo interesse verso una sola persona era il presunto video girato. Non è mancata la classica richiesta immotivata dei documenti. Non avendoli con sé, essendo uscita di casa all’improvviso preoccupata dal trambusto, la persona è stata seguita nel cortile di casa da un agente che ha cercato di entrare nell’abitazione (gli è stato impedito chiedendo di mostrare un mandato che chiaramente non c’era).
Il poliziotto non si è fermato: non potendo entrare in casa, ha iniziato a suonare il campanello (alle 23) agitando gli abitanti ignari di tutto. Ottenuto e fotografato il documento, lo sbirro è andato via continuando a minacciare la persona con frasi del tipo “non fare stronzate con quel video”.

Intanto in strada si sentivano ancora le lamentele del ragazzo verso le FDO. La situazione è durata ancora circa 20 minuti con l’arrivo di nuove volanti, finché il ragazzo non è stato caricato in ambulanza e portato via. Per ora non sappiamo né dove sia stato portato né come stia adesso.

Con sicurezza possiamo dire sulla vicenda che non siamo stupiti dai metodi stronzi e minacciosi delle FDO, anzi altre volte abbiamo visto di gran peggio. Ci interessa sottolineare che questi non sopportino l’aiuto a chi è nelle loro mani, sempre meno abituati alle persone che si mettono in mezzo durante un controllo, un fermo o un arresto. Così cercheranno sempre di intimidire i solidali. Ogni giorno in questa quarantena vediamo comportamenti violenti e immotivati della polizia. Questo è un risultato dell’invocare sempre più polizia, con sempre meno controllo e sempre più con poteri discrezionali.

Sopratutto in un periodo in cui ci è impedito di uscire liberamente e la polizia sembra sentirsi padrona delle strade, è sempre più necessario non girarci dall’altro lato se assistiamo a una violenza in strada o dalle nostre finestre. Non permettiamolo!
Solidali non infami!

Aggiornamenti processo Scripta Manent

Per la data del 1° luglio è stata stabilita la prima udienza di appello del processo Scripta Manent presso l’aula bunker delle Vallette di Torino. Le date fissate per le udienze di appello sono queste: 1, 8, 10, 15, 17, 22, 24, 29 luglio; 9, 11, 16 settembre.

Nonostante la pandemia, il Tribunale di Torino è fra quelli che hanno garantito lo svolgersi di processi “importanti”, e con detenuti, già in calendario per questa estate. Quindi presumibilmente questa data rimane in effetti confermata.

I/le compagni/e imputati/e sono accusati di 270 bis e per varie azioni antimilitariste, contro i CPR, in solidarietà agli anarchici prigionieri, contro caserme, sedi e uomini delle istituzioni a firma FAI e FAI/FRI, dal 2003 ad oggi. Gli imputati prigionieri saranno in videoconferenza, come in tutte le ultime udienze del primo grado.

Infatti durante il periodo delle udienze preliminari non c’era ancora nessuna legge che imponesse la videoconferenza. Poi, all’inizio del primo grado è passata la legge che però concedeva un anno di tempo a carceri e tribunali per adeguarsi, imponendo in quell’anno di adeguamento la videoconferenza solo agli imputati accusati di essere ai vertici delle “associazioni”. Passato l’arco di tempo di un anno, la videoconferenza è stata applicata a tutti/e come previsto.

All’udienza dell’11 febbraio 2019, sempre nell’aula bunker del carcere di Torino, un nutrito gruppo di compagni e compagne ha espresso la sua calorosa solidarietà agli anarchici/e sotto processo. Il PM Roberto Sparagna, è stato impossibilitato a prendere parola per formulare la sua requisitoria. Dopo diversi slogan e la lettura del testo sottostante, la Corte ha interrotto l’udienza. L’aula è stata sgomberata dall’intervento delle squadre antisommossa.

Coerentemente alla strategia impiegata dagli inquirenti fino ad ora, tesa a isolare i prigionieri e minare il sostegno espresso loro, perseguendo le varie manifestazioni di vicinanza e solidarietà, la questura di Torino in seguito alla presenza in aula di febbraio, ha emesso una sessantina di fogli di via dalla città, e sette denunce per interruzione di ufficio ed oltraggio in concorso.

Rimane importante continuare a dimostrare la nostra solidarietà agli/le imputati/e.

«Qui si stanno mettendo sotto accusa 20 anni di storia dell’anarchismo.
Non siamo imputati, ma questa è la nostra storia ed il nostro percorso rivoluzionario.
E proprio a questo percorso appartengono le pratiche oggi sotto processo.
Siamo tutti coinvolti e i boia dello stato non possono definire né comprendere le nostre idee e le nostre vite.
Solidarietà ai prigionieri anarchici e rivoluzionari!
Non un passo indietro, Sempre A Testa Alta.
“Fermamente e senza compromessi verso il nostro obiettivo”.
Per l’Anarchia!».

SOLIDARIETA’ E FORZA AI COMPAGNI PRIGIONIERI DELLA GUERRA SOCIALE!
LIBERTA’ PER ANNA, MARCO, ALFREDO, NICOLA E SANDRO!

Pensiero stupendo

Un fatto di cronaca locale. Non si sa quando, non si sa chi, non si sa perché, si sa solo dove. E ciò basta per aprire il cuore, anche se ciò che è successo pare non abbia avuto molto successo. Ma, come si sa, in certe cose è il pensiero che conta.
Un pensiero come quello che lo scorso fine settimana qualcuno ha lasciato sul muro di cinta di una ditta, alla periferia di Lecce. Non era un manifesto, né una scritta, no, era una pentola piena di benzina con attaccate un paio di bombolette di gas, il tutto corredato da un innesco rudimentale forse difettoso. Una grande fiammata c’è stata, l’esplosione no. Nel darne notizia, gli organi di informazione locali non sanno specificare quando ciò sia avvenuto. Boh, tra venerdì 24 aprile sera a lunedì 27 aprile mattina? Non dicono nemmeno chi possa essere stato, e per quale motivo. Boh, un atto di intimidazione o di ritorsione da parte di qualche malavitoso o squilibrato? In compenso sono stati molto precisi sul dove si sia verificato: in via del Platano 7, nel rione Castromediano, sede della Parsec 3.26.
Ma di cosa si occupa codesta Parsec 3.26? È un’azienda informatica specializzata in tecnologie digitali per la pubblica amministrazione. Ad esempio, ha creato il software usato dalla polizia e dalle banche per il riconoscimento facciale di chi viene ripreso dalle telecamere di videosorveglianza. Ah, tutto qui? Sarà stata presa di mira solo perché, come si apprende scorrendone il sito dall’insopportabile linguaggio tecno-anglo-cretinizzante, la sua «passione è l’E-Government»? Solo perché «ha avviato una divisione denominata Reco 3.26, attiva nella produzione di sistemi software nell’ambito smart recognition… nella ricerca in sistemi biometrici e si avvale di team interdisciplinari che includono Ingegneri e Scienziati… I settori maggiormente nei quali va a impattare questa tecnologia attualmente sono i trasporti, finanza, sicurezza (pubblica e privata). La crescita è spinta soprattutto dalle iniziative dei governi in tema di sicurezza. Le aziende appartenenti a settori come quello del retail e quello bancario stanno adottando sistemi di riconoscimento facciale per l’identificazione dei clienti e il monitoraggio del loro comportamento. Ad oggi le soluzioni prodotte Parsec 3.26 rappresentano lo stato dell’arte delle tecnologie di riconoscimento in Italia per la pubblica sicurezza. Difatti la società si è contraddistinta, per aver realizzato una soluzione di riconoscimento biometrico ad oggi utilizzata dal Ministero dell’interno – Direzione Centrale Anticrimine nell’ambito del sistema SARI»?
È mai possibile che ci sia qualcuno ostile a questa «contraddistinta» società solo perché aiuta lo Stato a riempire le patrie galere e le banche a proteggere le proprie casseforti? Chi lo avrebbe mai detto!
Ecco, il fatto che in tempi di confinamento, posti di blocco, autocertificazioni, tracciamento, sorveglianza coi droni e quant’altro… — roba da far vergognare quelle mammolette dei regimi totalitari del passato — qualcuno abbia avuto un simile pensiero poco prima, durante o poco dopo l’anniversario della Liberazione dal nazifascismo, ci lascia incantati. Sarà anche stata solo una fiammata, ma quanta splendida luce in mezzo alle tenebre dell’odierna servitù volontaria.
Luce di vendetta, luce di dignità, luce di libertà.
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La notizia sui media locali:

Dietro l’angolo pt.4 – Taglio netto

QUALCHE IPOTESI SU COVID 19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO

Trovarsi con l’acqua alla gola è forse una delle immagini che fino a qualche settimana fa poteva rappresentare meglio le condizioni di vita di molti. A queste latitudini, le differenze tra chi occupava i vari gradini nella parte bassa della scala sociale consistevano per lo più nel riuscire a respirare o trovarsi invece a boccheggiare quando la corrente agitava un po’ le acque.

Il Covid19 è arrivato all’improvviso come uno tsunami.

Ad esserne travolti contemporaneamente sono stati tantissimi e non solo quelli che occupavano gli ultimissimi gradini. L’impossibilità di ottenere qualche tipo di salario sta portando sempre più persone ad annaspare, man mano che si esauriscono le scorte. Le briciole elargite dalle autorità, in svariate forme, più che affrontare il problema servono a far loro guadagnare tempo e a cercar di raffreddare un po’ gli animi, in vista di frangenti che si annunciano se possibile ancor più difficili. Il quadro non è infatti destinato a modificarsi granché anche quando le acque man mano si ritireranno.

Il numero dei disoccupati, sia tra chi percepiva un qualche reddito o salario regolare sia tra quanti riuscivano a sbarcare il lunario saltando da un lavoro all’altro all’interno o ai margini del recinto dell’economia formale, è destinato ad aumentare considerevolmente. L’impoverimento generale legato alla contingenza coronavirus si intreccerà a dinamiche già in corso d’opera.

Uno dei principali fattori in grado di espellere porzioni crescenti di uomini e donne dal mondo del lavoro è senz’altro l’ulteriore salto, a livello d’automazione, legato allo sviluppo della robotizzazione e intelligenza artificiale. Un’automazione che, almeno su un piano tecnico, non sembra avere particolari preferenze rispetto ai settori lavorativi in cui svilupparsi. Sembra infatti che robotica e cervelli sintetici siano già in grado di raccogliere verdura e frutta riuscendo anche a selezionare quella già matura, a organizzare i magazzini della logistica e caricare i camion, a guidare gli stessi camion soprattutto su lunghi percorsi al di fuori dei centri urbani, e ancora a sostituire gran parte degli addetti alla vendita al dettaglio o alla grande distribuzione, o a svolgere attività come imbiancare la facciata di un palazzo, ma anche a svolgere attività più d’intelletto sostituendo in molte mansioni chi lavora in banca, negli studi legali, nel mondo della sanità e dell’istruzione…

Tale elenco delle attività in cui le macchine potranno sostituire in parte o totalmente gli esseri umani, seppure parziale, è utile per farsi un’idea della portata del fenomeno. Alcuni studi affermano che, potenzialmente, nei prossimi 10 anni il 47% delle attività lavorative rischia di subire gli effetti di quest’ulteriore automazione. E del resto se i costi di queste innovazioni continuano a ridursi, sostituire degli esseri umani con dei robot non può che essere economicamente conveniente vista la loro produttività, il fatto che non protestano e non si stancano e last but not least non si ammalano e non fanno ammalare.

L’ostacolo principale, almeno in prospettiva, ad una tale diffusione non sembra essere di natura tecnica. A pesar non poco, accanto agli scenari anche inediti destinati a delinearsi a livello macro, ci sarà la vecchia questione del conflitto di classe e l’esigenza, per le autorità, di mantenere un certo livello di coesione e pace sociale.

Un conflitto sociale, ci sia concesso un breve inciso, destinato a pesare non soltanto in una prospettiva luddista, ma in grado di modificare e stravolgere radicalmente il complesso delle dinamiche che stiamo tentando di descrivere. Di sparigliare del tutto le carte in tavola. Ci rendiamo conto che il quadro che stiamo tratteggiando, non solo in questo capitolo ma anche nei precedenti e in quelli che seguiranno, possa risultare quindi eccessivamente piano, privo di una dimensione essenziale. Come se le politiche di oppressione si sviluppassero in un ambiente vuoto, privo di resistenze e asperità. Per una chiarezza d’esposizione abbiamo però scelto di operare questa artificiale separazione tra strategie e dinamiche di esclusione e la dimensione del conflitto, su cui ci soffermeremo alla fine. Torniamo ora a volgere lo sguardo sulle carte in mano al nemico.

Già da tempo lo stesso termine “disoccupato”, che descrive una condizione – almeno a livello teorico – temporanea, appare sempre più inadeguato a descrivere una condizione che si annuncia essere piuttosto permanente o almeno a corrente alternata. Una questione tutt’altro che terminologica o di pura lana caprina perché presuppone per lorsignori la costruzione di retoriche e strategie radicalmente differenti rispetto a quelle adottate negli ultimi tempi.

Nel corso degli ultimi secoli le condizioni di accesso a determinati ammortizzatori sociali in grado di mitigare la miseria sono rimasti simili nel tempo: l’impossibilità di lavorare – che a seconda dei casi poteva essere imputabile al soggetto inabile o a una dimensione sociale -, l’appartenenza del beneficiario a un certo territorio – per cui i mendici all’interno di una determinata comunità erano soggetti a misure, non certo piacevoli come il lavoro coatto, ma comunque volte alla loro reintegrazione, mentre ai vagabondi erano riservate solo misure strettamente punitive – e l’accettazione della loro propria condizione – che è il vero oggetto di scambio tra Stato e chi percepisce questi ammortizzatori.

Partiamo dall’ultima di queste condizioni, e guardiamo più da vicino cosa i governanti hanno chiesto in cambio ai beneficiari di questi sussidi negli ultimi decenni. Dagli anni ’80 in poi il discorso che si è affermato è più o meno questo: in un mondo del lavoro sempre più veloce la quantità e competenze della manodopera cambiano costantemente, chi lavora deve di conseguenza adattarsi a questa situazione diventando disponibile a impieghi temporanei e un continuo percorso di formazione per tentare di stare al passo con le esigenze della produzione e del mercato. La dichiarazione d’immediata disponibilità ad accettare altre offerte di lavoro o un qualche percorso formativo cui è subordinata l’erogazione di Naspi o Reddito di cittadinanza, rispondono a questo impianto teorico. Nella pratica, per caratteristiche proprie all’economia e alla macchina burocratiche nostrane, questa disponibilità, fortunatamente, rimaneva per lo più sulla carta.

Interessante come uno dei primi casi significativi in cui il cerchio di queste politiche workfaristiche sembra riuscire a chiudersi sia quello recente dei braccianti. Per colmare il vuoto lasciato dagli immigrati stagionali che non possono rientrare in Italia causa coronavirus, c’è chi chiede una qualche regolarizzazione degli immigrati presenti in Italia – non certo per un qualche afflato antirazzista ma perché ritenuti più abituati ai ritmi e alle condizioni di lavoro nei campi – e chi propone invece di inviarci i beneficiari di Naspi o reddito di cittadinanza. Accantoniamo in questa sede la questione di come l’aumento del numero di disoccupati andrà a modificare la gestione dei flussi migratori e quali saranno le conseguenti ripercussioni in termini di conflitti tra manodopera indigena e immigrata. Resta da vedere se questo rimarrà un caso isolato, legato a una contingenza extraordinaria e difficilmente preventivabile, o se invece il notevole aumento di persone senza lavoro, beneficiarie o potenzialmente tali di qualche forma di sostegno al reddito, consiglierà a padroni e governanti di trovare un modo per oliare meglio la macchina workfaristica andando così a spingere ulteriormente al ribasso le condizioni lavorative generali. Sembra in ogni caso difficile ipotizzare che quest’attività possa risolvere i problemi di un numero considerevole di disoccupati, specie quando l’imbuto dell’accesso al lavoro sarà reso ancor più stretto dal processo d’automazione cui abbiamo accennato.

Una dinamica che nel ridurre il numero necessario di braccia e cervelli aumenterà la selezione all’ingresso richiedendo competenze sempre più specialistiche a chi dovrà affiancare le macchine nella loro attività. La mera disponibilità richiesta ai beneficiari di Naspi o reddito di cittadinanza ha quindi un’indubbia funzione disciplinare. Rappresenta quell’accettazione esplicita della propria condizione che è requisito fondamentale per poter entrare, pur restandone ai margini, nel recinto dell’inclusione. L’individuo ideale che l’ideologia workfaristica vorrebbe creare ha le sembianze di un Sisifo che non ha altro orizzonte se non quello di una precarietà che – tra un impiego, una collaborazione e un lavoretto – si ripete eternamente come la propria condizione definitiva.

Con l’ulteriore infoltirsi della schiera di disoccupati, il proliferare di nuove misure di selezione nel mondo del lavoro e l’irrompere di esigenze di natura sanitaria, le politiche workfaristiche sono probabilmente destinate a intrecciarsi ed essere affiancate da altri ordini del discorso e strategie. Alla base delle nuove forme di sostegno al reddito cambierà la logica del do ut des, e non sarà più legata principalmente alla sfera lavorativa: non crediamo insomma che attualmente le autorità abbiano bisogno di far costruire torri per poi farle buttare giù come accadeva in Irlanda ai beneficiari di sussidi durante le carestie del XIX sec.

Un buon esempio della direzione verso la quale potranno essere riorientati i criteri di inclusione può essere il credito sociale cinese. Uno strumento attraverso cui lo Stato, in collaborazione con la piattaforma di e-commerce Alibaba, valuta a chi redistribuire determinati beni sociali e in che misura farlo in base all’affidabilità mostrata dai singoli cittadini. Gli elementi alla base di questa valutazione unitamente ad un’affidabilità diciamo creditizia (pagamento di multe, mutui, bollette etc.) si legano ai più variegati aspetti della vita quotidiana: dall’attenzione nella raccolta differenziata, al tempo passato davanti a dei videogiochi, alle caratteristiche dei propri profili social (con particolare attenzione a possibili commenti sull’operato delle istituzioni naturalmente). A rielaborare questa mole di dati per stabilire il grado di inclusione degli uomini e donne monitorati sono degli algoritmi. È di questi giorni la notizia che anche la mobilità, la possibilità di potersi spostare o viaggiare in tempi di epidemia, dovrebbe rientrare nel paniere di beni da redistribuire in base a queste valutazioni. Consapevoli delle differenze sotto vari punti di vista tra l’Italia, e in generale l’occidente, e la Cina, con questo esempio non vogliamo certo dire che lo strumento del credito sociale verrà mutuato in toto e applicato anche a queste latitudini per delineare i contorni dell’inclusione sociale. Sono diversi però i segnali di come anche qui si stiano riconfigurando in maniera simile il concetto di cittadinanza e parallelamente di nemico: dai criteri sempre più stringenti per poter lavorare in quello che è il comparto pubblico, a una retorica sempre più bellica utilizzata da uomini delle istituzioni per descrivere comportamenti illegali, cui corrisponde un attività legislativa volta a ampliare sempre più la sfera dell’illegalità e estendere l’ombra del carcere ben oltre le mura dei penitenziari con l’aumento di misure limitative della libertà oltre a quelle strettamente custodiali, fino ad arrivare alla recente decisione di negare i buoni spesa a chi è ritenuto colpevole di determinati reati (ad esempio l’associazione a delinquere).

Introiettare una mentalità da Sisifo non è più sufficiente: della società salariale e della coesione sociale che quel mondo riusciva in qualche modo a garantire non resta granché. Con il ridursi del perimetro dell’inclusione sociale i criteri di selezione sempre più stringenti tenderanno a concentrarsi sulla vita quotidiana, nelle sue molteplici manifestazioni.

L’epidemia in corso ci ha catapultato in una situazione che ci sembra renda quanto mai chiare le dinamiche e i criteri relativamente nuovi di selezione che si stanno affermando. Se da un punto di vista strettamente sanitario l’intensità dell’emergenza è certamente proporzionale, come un po’ tutti riconoscono, alla riduzione delle capacità del sistema sanitario nel suo complesso, la speranza che quest’evidenza possa da sola far invertire rotta alle politiche statali in materia è con ogni probabilità destinata a rimanere tale.

Per quanto la natura contagiosa di quest’emergenza sembra possedere una certa capacità di convincimento in questo senso, visto che a livello economico non ci si possono permettere altri lockdown di queste proporzioni e durate, le strategie che verranno adottate ci sembra vadano o almeno proveranno ad andare in altre direzioni, specie in prospettiva. E ruoteranno attorno alla possibilità di permettere a chi ci governa di adottare meccanismi di selezione di chi sarà sacrificabile, in maniera quanto più indolore per il resto della popolazione e soprattutto per le esigenze del Capitale. Meccanismi che andranno a braccetto con i tanto sbandierati test sierologici che affibbiando patenti di immunità di durata e gradi ancora dubbi – veri e propri passaporti da pandemia – , contribuiranno a tracciare una linea d’inclusione su basi genetiche di cui è difficile prevedere gli esiti.

Un criterio di sacrificabilità già adottata del resto, in maniera certo molto raffazzonata per l’impreparazione generale, rispetto a strutture chiuse come le carceri, i Cpr o le Rsa. Se per i primi due la selezione dei sacrificabili è stata operata scegliendo scientemente di far ammalare e nel caso lasciar morire chi si trovava ristretto, guardie comprese, senza adottare strategie alternative per l’importanza strategica e simbolica della carcerazione; nel caso delle Rsa gli anziani e gli operatori sono stati abbandonati al loro destino, dopo che queste strutture sono state riempite di positivi provenienti dagli ospedali, man mano che la coperta si faceva sempre più corta e si è scelto quali porzioni di mondo si potevano lasciar scoperte.

Per affinare questi meccanismi di selezione, oltre a misure e dispositivi materiali efficaci riguardo la necessità di isolare e limitare i movimenti di pezzi della popolazione, sarà necessario costruire un discorso in grado di giustificare e rendere quanto più pacifiche le decisioni adottate. E il discorso neoliberale sulla colpevolizzazione dei poveri, funzionale alle politiche workfaristiche, non sembra del tutto adeguato e con ogni probabilità dovrà essere ricalibrato. A livello di digeribilità sociale un conto è limitare l’accesso a determinati beni e servizi arrivando a causare la morte di chi ne è escluso, come è stato fatto in passato con i tagli alla sanità, un conto invece è isolare e lasciar morire deliberatamente, a causa di un male che per di più minaccia contemporaneamente tutti.

Questo non vuol dire che il taglio delle prestazioni sanitarie smetterà di presentare il suo conto, a cominciare dal collo di bottiglia che si sta già incominciando a intravedere nelle regioni in cui l’emergenza Covid19 ha allentato un po’ la pressione. E in cui l’aver trascurato a livello di cura e diagnosi buona parte delle altre patologie minaccia di produrre conseguenze molto gravi, accentuando le differenze di classe tra chi potrà accedere alle corsie della sanità privata. Emblematico il dibattito che in questi giorni contrappone governo e governatori regionali sul tema sanità: continuare a lasciarla in mano alle Regioni o riportarla sotto l’ala del governo centrale? Un bivio che da una parte conduce a una sanità pubblica uniformemente inadeguata a livello di risorse e dall’altra a un modello federalista in cui alla polarizzazione sociale continuerà ad aggiungersi quella geografica, con Regioni che per la loro fiscalità possono garantire uno standard di servizi un po’ più elevato di altre. Come nel caso del Veneto che si è fatto garante con gli istituti di credito, per l’anticipazione delle casse integrazioni in deroga che a livello nazionale tardano ad arrivare.

Abbandoniamo ora l’ambito sanitario per soffermarci brevemente sul settore dei trasporti pubblici di cui avremo modo di assaggiare a breve le novità. Limitandoci all’ambito urbano, l’unica certezza è che autobus, tram e linee della metro dovranno ridurre notevolmente il numero di viaggiatori per garantire una certa distanza di sicurezza e che questo provocherà enormi problemi man mano che aumenterà il numero di viaggiatori. Che la controparte brancoli nel buio rispetto a come farvi fronte è evidente e il ventaglio di soluzioni di cui si sta discutendo risponde piuttosto all’esigenza di ottimizzare il servizio e riempire per quel che si può ogni singola corsa. Una delle proposte è quella di rendere obbligatoria la prenotazione dei posti e filtrare poi con l’installazione di tornelli chi ha diritto a viaggiare. Elaborando poi i dati di queste prenotazioni, oltre a organizzare le singole corse sarà possibile anche riorganizzare nel suo complesso questa nuova mobilità urbana. Le linee da implementare per soddisfare il maggior numero di prenotazioni e quelle invece da ridurre ulteriormente, tagliando fuori delle zone o almeno degli isolati in cui si è tradizionalmente restii a pagare una corsa, figuriamoci a prenotarla. Una dinamica del resto già in atto, a Torino come in altre città, con la raccolta dati sui viaggiatori paganti garantita dai biglietti bippabili. Facile prevedere poi che le aziende di trasporto, già in rosso da tempo, tenteranno di mettere una toppa alla diminuzione di entrate aumentando prima o poi il prezzo dei biglietti. E già da più parti si ventila l’ipotesi di introdurre “leve tariffarie”, ossia tariffe diverse a seconda degli orari, così da ridurre l’affollamento nelle ore di punta con degli sconti su quelle meno frequentate. E chissà che anche al Ministro dei trasporti nostrano non venga in mente di dichiarare, come il suo collega cileno alla vigilia della rivolta di ottobre, che «chi vuole pagare meno può sempre svegliarsi qualche ora prima, per andare a lavorare». Tra aumento dei prezzi, riduzione strutturale dei posti e selezione di chi si potrà spostare è lecito attendersi che il trasporto pubblico sarà un focolaio di forti tensioni sociali.

Ci sembra superfluo, alla luce del quadro che abbiamo tentato di tratteggiare, soffermarci sulla sensatezza del dibattito tornato prepotentemente alla ribalta in questi giorni su un reddito universale. Indipendentemente dalle varie declinazioni di questa forma di sostegno al reddito – che arriva fino ad esser dipinto come un tassello fondamentale di quel “comunismo di lusso completamente automatizzato” sbandierato in maniera imbarazzante da qualche accellerazionista di sinistra –, l’ipotesi che le autorità assicurino la possibilità di vivere o sopravvivere gratuitamente e indistintamente va nella direzione opposta a quella verso cui ci si era da tempo incamminati e verso cui si sta ora correndo.

Il termine universale, perlomeno nella sua accezione positiva, non solo non è contemplato nelle strategie politiche che daranno forma a questo mondo, ma è destinato a scomparire anche dagli stessi vocabolari cui attinge la retorica politica.

Prove di lotta ai tempi del corona

Imparare a lottare ai tempi del Coronavirus. Questa l’esigenza al centro del corteo che questa mattina è partito da corso Giulio Cesare 45. Un’esigenza quanto mai impellente viste le crescenti difficoltà economiche che attanagliano tanti e tante, in una spirale che neanche i più ingenui e ottimisti ritengono possa essere fermata dalle iniziative messe in campo dal governo.

Iniziare ad impare a lottare ai tempi del Coronavirus, a partire dal trovare un modo per stare in strada, sentendosi al sicuro da un punto di vista sanitario, e facendo sentire al sicuro chi volesse avvicinarsi. Tutti i manifestanti indossano quindi una mascherina e mantegnono una certa distanza l’uno dall’altro. Chi distribuisce volantini indossa i guanti, e dei pezzi di stoffa usa-e-getta vengono utilizzati per coprire il microfono quando qualcuno vi parla. Attenzioni che accompagnano anche gran parte degli interventi in cui si descrive come comprensibile la paura nello scendere in strada per il timore di contagiare o essere contagiati, ma si ripete con altrettanta insistenza l’importanza di trovare i modi per affrontarla.

Se non ci sono ricette pronte su come fare, per l’assoluta novità di questi problemi epidemiologici, possiamo però esser certi che restare in casa non può essere la soluzione.

Alla lunga, e si tratta di una lunghezza difficilmente misurabile visto che il rischio contagio non sparirà certo con l’inizio della Fase 2 e potrebbero ripresentarsi misure antiassembramento dure a morire, alla lunga, dicevamo, rinchiudersi in questo isolamento e trovarsi da soli a cercar di capire come pagare l’affitto e le bollette, come mettere assieme i soldi per fare la spesa e per tutte le altre esigenze che abbiamo, non farà che aumentare la disperazione e il senso di impotenza.

Rimandare il problema a un futuro quanto mai indefinito non potrà esserci d’alcun aiuto.

Una notevole attenzione e diversi segnali di condivisione e incoraggiamento hanno accompagnato la prima parte del corteo su corso Giulio Cesare fino all’incorocio con corso Palermo. Non appena la manifestazione si è diretta verso corso Vercelli si è trovata alle calcagna alcune camionette della polizia. Allo stesso tempo, alla testa del corteo, è stato sbarrato il passo da un numero ancor più ingente di blindati: alcuni manifestanti sono riusciti a sfuggire alla morsa della polizia e una trentina sono invece rimasti intrappolati. Una trappola che ha fatto saltare tutte quelle misure di distanziamento messe in campo fino ad allora e che ha attirato l’attenzione di numerosi uomini e donne affacciatisi ai balconi e alle finestre per vedere cosa stava accadendo. Dopo un tentativo tanto goffo quanto inutile di portar via microfono e impianto, la polizia si è limitata ad accerchiare i manifestanti mentre altri celerini davano intanto la caccia alle persone sfuggite al fermo. Una situazione di stasi, durata un paio d’ore, che è stata l’occasione per parlare della situazione che stiamo vivendo con i tanti rimasti affacciati ai balconi e con quelli scesi in strada.

Le sensazioni avute in precedenza si sono ulteriormente consolidate in questo imprevisto presidio in corso Vercelli. Dai pollici in alto mostrati da chi non si sentiva di fare di più, agli espliciti applausi provenienti da diverse finestre e balconi, a quanti in strada hanno sfidato il fare minaccioso dei celerini per lanciare delle bottiglie d’acqua o delle merendine o si sono uniti ai tanti cori che intramezzavano gli interventi al microfono. Una solidarietà palpabile che ha permesso di comprendere un po’ meglio l’aria che tira in quartiere, di cui si era già avuto un assaggio domenica scorsa.

Un’aria di cui devono essersi rese conto anche le forze dell’ordine che dopo un primo approccio muscolare hanno optato per una linea più soft, anche se i continui battibecchi tra i dirigenti di piazza mostrano che evidentemente non tutti erano d’accordo. Non accollandosi di caricare tutti di forza sui furgoni e non sapendo bene che pesci pigliare, i questurini hanno alla fine proposto ai manifestanti di lasciarli andar via a gruppi di cinque, distanziati gli uni dagli altri di qualche metro. Le persone bloccate hanno rilanciato chiedendo il rilascio delle due persone fermate nel trambusto e durante le cariche, condizione accettata. Avuta la sicurezza che i due fermati erano liberi, il presidio è tornato ad essere un lungo serpentone, che si è diretto verso corso Giulio Cesare 45, non prima di aver salutato gli uomini e le donne solidali con cui per qualche ora si è condivisa quest’inaspettata esperienza.

Occorrerà continuare a parlarsi e sperimentare forme di lotta in grado di contrastare la miseria che ci si para davanti senza però incrementare il rischio contagio. La manifestazione di oggi è stato un primo tentativo, di certo non esauriente. Una cosa però si respira nell’aria…il coraggio e la voglia di lottare potrebbero diventare contagiose.

 

Profezie virali

In un sito che non si occupa di medicina né di critica sociale, ma di filosofia ed estetica, è uscito, a marzo, un singolare articolo che, partendo dal film L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gillian, arriva alla gestione dell’attuale epidemia da coronavirus. L’autore sviluppa dei ragionamenti che ci sono sembrati interessanti sulle pretese predittive della scienza e sul loro uso politico. Ve lo proponiamo.

Profezie virali

di Diego Ianiro

(25 marzo 2020, antinomie.it)

1.

Voglio che il futuro rimanga un mistero[1]

(James Cole/Bruce Willis – 12 Monkeys)

12 Monkeys è un’opera che, nella pur complessa produzione di Terry Gilliam, supera Brazil per densità di temi affrontati e per la raffinatezza con cui vengono consapevolmente confezionati per il circuito mainstream. Grande metafora della malattia mentale e dei sistemi preposti al suo riconoscimento e contenimento, il film fa scorrere ed elabora su questo binario principale una serie di problemi a volte antinomici, come l’aleatorietà della rudimentale tecnica del time travel ivi adottata in confronto all’irrimediabile stabilità del principio di autoconsistenza di Novikov, che riescono soprendentemente a intrattenere lo spettatore: senza restare in sottotraccia, tali questioni si incastrano perfettamente nel tessuto narrativo fantastico in cui la minaccia che governa la storia, a ben vedere, non è mai davvero resa visibile. Con ciò viene tra l’altro rispettata, evidentemente, la peculiarità stessa di una minaccia virale, vale a dire il suo essere empiricamente rilevabile, a un livello sensoriale brutalmente immediato, solo a partire dagli effetti del suo passaggio – quindi solo ed esclusivamente dopo il suo effettivo avvenimento.

È in questa stratificazione tematica dei contenuti – dunque non per l’aspetto formale/produttivo – che il film travalica ampiamente i limiti (voluti) dell’opera di Chris Marker da cui trae ispirazione, laddove il non visibile e il non rappresentato non riguardano (solo) la minaccia futura – che infatti non è di natura virale, ma bellica – ma l’intera struttura della pellicola, «un photo-roman» in cui la continuità dell’immagine-movimento, l’effetto di realtà, viene discretizzata in intervalli fotografici che lasciano allo spettatore il compito ermeneutico di “riempire” la storia. Se questo non avviene nel film di Gilliam, se tutte le tematiche – a eccezione, appunto, dello stesso contagio virale – vengono esplicitamente mostrate a incastro, è anche e soprattutto grazie al lavoro di sceneggiatura di David e Janet Peoples, la cui production draft risale al 27 giugno 1994.

Scorrendo la sceneggiatura ci si imbatte in quelle battute della dottoressa Kathryn Railly, riprese poi integralmente nel film, che in modo forse stucchevolmente didascalico richiamano il mito di Cassandra alla platea riunita in occasione della presentazione del suo libro:

Cassandra, lo ricorderete dalla mitologia greca, era condannata a conoscere il futuro ma anche a non essere creduta, e di conseguenza all’angoscia della preveggenza si aggiungeva l’impotenza di fronte agli eventi.[2]

La battuta immediatamente successiva tocca invece al Dr. Peters, il personaggio che solo alla fine del film (qui siamo ancora intorno alla metà) si scoprirà essere il reale responsabile del futuro, apocalittico contagio virale. Nella calca che circonda Railly per farsi autografare una copia del libro, Peters si rivolge all’indaffarata e distratta dottoressa con le seguenti parole:

Il suo discorso ha peggiorato la già cattiva reputazione degli allarmisti. Esistono dati reali che confermano che la sopravvivenza della terra è compromessa dagli abusi della razza umana. La proliferazione dei dispositivi nucleari, i comportamenti sessuali smodati, l’inquinamento della terra, dell’acqua, dell’aria, il degrado dell’ambiente… in questo contesto non le sembra che gli allarmisti abbiano una saggia visione della vita, e il motto dell’homo sapiens “andiamo a fare shopping” sia il grido del vero malato mentale?[3]

La scena si svolge in un ipotetico 1996 ed è stata scritta nel 1994; indipendentemente dal suo presunto quanto volontario profetismo, ex post potenziale pane per le teorie del complotto più ardite, si tratta certamente di una delle battute più importanti del film, quella in cui si svelano le motivazioni ideologiche che hanno fatto agire la mano dietro il contagio, la mano che il protagonista non riuscirà a fermare ma che, come nel più classico degli stilemi tragici, contribuirà indirettamente ad armare.

Quando L’esercito delle 12 scimmie venne distribuito in Italia avevo da poco compiuto diciotto anni, ricordo di averlo visto con un amico in una sala semivuota di provincia, primo pomeriggio, ricordo un senso di disagio che mi restò attaccato addosso per ore. In seguito l’ho rivisto altre volte, sempre tendendo a ridimensionarlo nel suo contesto storico, focalizzando l’attenzione sul montaggio e le inquadrature, tralasciando la storia, ormai nota. In breve, distratto come Reilly mentre le viene rivolta la battuta decisiva. Qualche sera fa, chiuso in casa e a letto, dopo il lavoro e nel rispetto dei decreti emergenziali, ho deciso di rivederlo assecondando il desiderio latente di omaggiare quel particolare settore della fantascienza che da decenni ci intrattiene con il brivido pandemico. E, dopo anni, complice forse la prossimità emotiva con gli eventi narrati nella finzione spettacolare, sono riuscito a seguire nuovamente la storia e ad accorgermi di come la forma con cui Railly richiama il mito di Cassandra sia volutamente didascalica, dal momento che, tra tutti gli altri, il «Cassandra Complex» è il tema centrale del film.

Ciò appare evidente allorquando il protagonista, sopraffatto dall’irrimediabilità degli eventi, tenta di abdicare alla realtà auspicandosi che la sua condizione sia davvero il frutto di una patologia mentale, e che il futuro non sia altro che una proiezione da essa derivata: «I want to become a whole person. I want this to be the present». E l’unico modo per essere una persona intera, l’unica condizione possibile per vivere il presente, è che il futuro rimanga inconoscibile.

2.

Se gli uomini definiscono come reali certe situazioni, esse sono reali nelle loro conseguenze[4]
(William Isaac Thomas e Dorothy Swaine Thomas, The child in America: Behavior problems and programs)

Facendosi interprete della cospicua tradizione greco-latina inerente alla leggenda della profetessa, Igino sintetizza così la maledizione di Cassandra nelle sue Fabulae: «cum vera vaticinaretur, fidem non haberet». Da questa formula appare chiara una questione fondamentale: ciò su cui Cassandra non viene creduta è il vero, non il probabile. La capacità predittiva di Cassandra, in quanto relativa a eventi certi del futuro, eventi la cui certezza non può mutare e non può essere messa in discussione, è potentissima e impotente a un tempo, dal momento che non può essere utilizzata in alcun modo. Del resto a cosa servirebbe, se gli eventi non possono comunque essere modificati in quanto veri nel futuro?

Il genio del mito greco coagula nella figura di Cassandra un paradosso fondamentale: il controllo degli eventi e la loro gestione futura è possibile solo a partire dal probabile e dal verosimile, che necessariamente non è e non sarà mai il vero, il reale. E in occidente per molti secoli l’unico antidoto a questo paradosso, al netto delle indiscutibili verità rivelate dalla successiva tradizione cristiana in pari con la stringente ratio della dialettica, sarà la conoscenza storica, la conoscenza degli eventi passati come faro interpretativo del presente a sostegno delle azioni da compiere per il futuro. Detta nella celebre formula ciceroniana: «historia vero… lux veritatis… magistra vitae» (De oratore, II, ix, 36).

La fede generalizzata nelle capacità predittive delle analisi quantitative e dei modelli matematici nelle scienze della gestione e dell’amministrazione sociale, i cui albori sono rintracciabili nell’aritmetica politica del XVII secolo, finisce per scalzare definitivamente quella nella storia, intesa come catalogo di esperienze teoricamente ripetibili e sempre valide, solo nel contesto tardo-positivista. Un’opera come Das Kapital, per dirne una, sarebbe infatti inconcepibile fuori da questo processo, basti pensare a un concetto chiave come la caduta tendenziale del saggio di profitto. La stessa strategia politica del novecento finisce per adattarsi alla statistica inferenziale indipendentemente dalla sua natura ideologica, anzi, in particolare a supporto di quest’ultima.

Ferma restando la natura del tutto ipotetica di questo folle excursus, che necessiterebbe di tempi e luoghi adeguati, si potrebbe ragionevolmente affermare che alla predittività oracolare e numinosa del mito greco come supporto alle decisioni politiche e amministrative è stata sostituita, nel corso di oltre due millenni, quella della statistica inferenziale. Entrambe sono accumunate dall’idea di probabile e di verosimile, tuttavia entrambe portano inesorabilmente a cedere alla tentazione di appiattirli sul vero, sul reale: da un lato, infatti, la predittività è funzione del sacro, dall’altro essa è funzione della verificabilità empirica, due ambiti ai quali, anche se con modalità diversissime, pertiene l’assenza di fallacia. Ciò invece non accade per la predittività fondata sulla historia, il cui motore analogico è pur sempre umano e, in quanto tale, fallibile.

Succede così che lo scarto tra vero e verosimile, tra probabile e reale tenda ad assottigliarsi fino a sparire nelle analisi predittive basate su modelli matematici, vale a dire in quella che volgarmente chiamiamo scienza e alla quale affidiamo la definizione stessa della realtà. Ciò però non avviene tanto da parte di chi la scienza la fa, da parte degli oracoli che conoscono benissimo il carattere probabilistico della definizione di alcune situazioni, nonché l’eventualità dei mutamenti paradigmatici sempre dietro l’angolo; avviene soprattutto da parte di chi interpreta il dato scientifico per prendere decisioni, affidando acriticamente al primo la responsabilità delle seconde. È in questa dinamica che una situazione definita come reale sarà reale nelle sue conseguenze, come il teorema di Thomas insegna. Contravvenendo al paradosso di Cassandra, nel quale il carattere vero/reale della profezia non può in alcun modo operare nel presente, il carattere probabilistico della predittività scientifica, interpretato come vero/reale da chi prende decisioni operative in base ad essa, diventa reale nelle sue conseguenze sul presente.

3.

L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha [sic] permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane
[Annalisa Malara intervistata da Giampaolo Visetti – la Repubblica, 6 Marzo 2020]

Il 22 Gennaio 2020, con circolare n. 1997 avente come oggetto Polmonite da nuovo coronavirus (2019 nCoV) in Cina, il Ministero della Salute italiano fornisce le prime disposizioni ufficiali sull’epidemia di Wuhan da quando è stata riconosciuta come tale (31 dicembre 2019); l’Allegato 1 del documento indica i tre criteri secondo i quali è possibile segnalare i casi sospetti di infezione; tra questi, solo il secondo lascia aperta la possibilità di considerare infetto un paziente «senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio». Cinque giorni dopo, con nuova e omonima circolare, nella sezione Definizione di caso per la segnalazione questo punto salta completamente; i casi da considerare restano quindi solo due (A e B), entrambi associati a contatti diretti con aree contaminate della Cina o alla frequentazione di soggetti già contaminati[5].

Nella circolare del 31 Gennaio, lo stesso giorno della “Dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, la Definizione di contatto a rischio riguarda solo chi è entrato in contatto con un caso di infezione confermato. Tale definizione resta operativa almeno fino al 20 Febbraio, giorno della conferma del cosiddetto “paziente uno” di Codogno. Ciò significa che, prima di quella data, sarebbe stato possibile somministrare un tampone esclusivamente a chi fosse rientrato nei criteri A e B di cui sopra o a chi fosse stato in contatto con un caso di infezione confermato.

Solo aggirando lo stesso protocollo sanitario è stato dunque possibile effettuare il tampone che ha portato alla scoperta del “paziente uno”, come spiega l’anestesista che lo propose:

Lei non è un’infettivologa: perché il caso è stato affidato a lei?

Il paziente e tutti noi siamo stati salvati da rapidità e gravità dell’attacco virale. Dalla medicina è arrivato in rianimazione. Quello che vedevo era impossibile. Questo è il passo falso che ha tradito il coronavirus. Giovedì 20, a metà mattina, ho pensato che a quel punto l’impossibile non poteva più essere escluso.

Cosa ha fatto?

Ho chiesto un’altra volta alla moglie se Mattia avesse avuto rapporti riconducibili alla Cina. Le è venuta in mente la cena con un collega, quello poi risultato negativo.

Il tampone è stato immediato?

Ho dovuto chiedere l’autorizzazione all’azienda sanitaria. I protocolli italiani non lo giustificavano. Mi è stato detto che se lo ritenevo necessario e me ne assumevo la responsabilità, potevo farlo.

Vuole dire che il paziente 1 è stato scoperto perché lei ha forzato le regole?

Dico che verso le 12.30 del 20 gennaio [in realtà è febbraio, si tratta di una svista] i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva.

Tarati sull’interpretazione dei dati scientifici (che potremmo tradurre con “è altamente improbabile la presenza di un focolaio endogeno senza una fonte infettiva esterna alla quale ricondurlo con chiarezza”), i protocolli sanitari adottati “in stato di emergenza” hanno fallito completamente l’obiettivo, e nei giorni immediatamente successivi alla scoperta del “paziente uno” la macchina procedurale ha continuato sulla stessa strada ricercando spasmodicamente un fantomatico “paziente zero” che confermasse quanto imponeva la predittività di quegli stessi dati – presa per realtà. Mentre con ogni probabilità il virus circolava in soggetti asintomatici e/o con sintomi non gravi già da settimane.

4.

Quello che chiamiamo “paziente uno” era probabilmente il “paziente 200”.[6]

Nella pretesa di controllare l’espansione del contagio sulla base di un modello proiettivo dal quale è stata completamente rimossa la componente probabilistica, il dato percentuale dei pazienti asintomatici – così come fornito dalle rilevazioni effettuate in Cina – è stato trascurato in quanto fuori dal presupposto iniziale (quello di una fonte chiaramente individuabile). Cosa che ha portato in brevissimo tempo a tre conseguenze:

  1. la rapida espansione del contagio, non essendo stato possibile un campionamento degli asintomatici;

  2. un tasso di mortalità decisamente superiore a quello riportato in Cina, in primo luogo perché la percentuale viene calcolata sui tamponi effettuati, la stragrande maggioranza dei quali proveniente da pazienti sintomatici;

  3. l’esposizione al contagio dell’intero personale sanitario, i cui protocolli non contemplavano inizialmente i casi asintomatici e/o lievi e che si è così trasformato in amplificatore involontario dell’infezione.

L’effetto paradossale di questo processo è che lo “stato di emergenza” preventivo su una minaccia considerata più grave di quanto forse non fosse ha avuto come conseguenza la realtà di un’emergenza sanitaria grave alla quale è seguita un’emergenza sociale. A cascata, il tentativo di controllare l’espansione epidemica su una situazione definita come reale – ma che era già ampiamente fuori controllo[7] – ha generato conseguenze reali nella vita dei cittadini attraverso la pesante restrizione delle libertà individuali disposta, de facto in temporanea deroga alla carta costituzionale, dai decreti del Presidente del Consiglio e le ordinanze dei governatori regionali.

Non è tanto nelle singole responsabilità politiche o tra i presunti decisori occulti, quanto nell’illusione di controllo fornita dalla fede nelle proiezioni statistiche che bisognerà andare a indagare quando ci interrogheremo sull’adozione coatta dei dispositivi coercitivi in cui ci troviamo. Senza mai dimenticare, come James Cole, che un futuro sconosciuto è sempre preferibile a un futuro prevedibile o, peggio, già previsto.

PS: per tornare alla historia, si può sempre trarre beneficio dal Consilio contro la pestilentia di Marsilio Ficino:

[175] Non si debbe mangiare o bere con vasi da morbati, né tocchare cosa che tocchino loro. Debbesi viver lieto, perché la letitia fortifica lo spirito vitale; vivere continente et sobrio, perché la sobrietà et continentia del vivere è di tanto valore che Socrate philosopho, con questa sola, si conservò in molte pestilentie extreme che furono nella citta d’Athene.

[25 marzo 2020]

[1] «I want the future to be unknown» (si riporta qui la versione del doppiaggio italiano).

[2] «Cassandra, in Greek legend you will recall, was condemned to know the future but to be disbelieved when she foretold it. Hence, the agony of foreknowledge combined with impotence to do anything about».

[3] «I think, Dr. Railly, you have given your alarmists a bad name. Surely there is very real and very convincing data that the planet cannot survive the excesses of the human race: proliferation of atomic devices, uncontrolled breeding habits, the rape of the environment, the pollution of land, sea, and air. In this context, isn’t it obvious that “Chicken Little” represents the sane vision and that Homo Sapiens’ motto, “Let’s go shopping!” is the cry of the true lunatic?».

[4] «If men define situations as real, they are real in their consequences». [William Isaac Thomas e Dorothy Swaine Thomas, The child in America: Behavior problems and programs, New York 1928, p. 572]

[5] Ivi, Allegato 1: A. Una persona con Infezione respiratoria acuta grave […] (febbre, tosse e che ha richiesto il ricovero in ospedale), E senza un’altra eziologia che spieghi pienamente la presentazione clinica […] E almeno una delle seguenti condizioni: -storia di viaggi o residenza in aree a rischio della Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia; oppure – il paziente è un operatore sanitario che ha lavorato in un ambiente dove si stanno curando pazienti con infezioni respiratorie acute gravi ad eziologia sconosciuta. B. Una persona con malattia respiratoria acuta E almeno una delle seguenti condizioni: -contatto stretto con un caso probabile o confermato di infezione da nCoV nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia; oppure -ha visitato o ha lavorato in un mercato di animali vivi a Wuhan, provincia di Hubei, Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia; oppure -ha lavorato o frequentato una struttura sanitaria nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia dove sono stati ricoverati pazienti con infezioni nosocomiali da 2019-nCov

[6] [Fabrizio Pregliasco in Jason Horowitz, Emma Bubola e Elisabetta Povoledo, Italy, Pandemic’s New Epicenter, Has Lessons for the World, in The New York Times, 21 marzo 2020]

[7] Una ricerca pubblicata il 20 marzo sembra confermare la diffusione del virus in Lombardia già a gennaio.

Profezie virali

Il passato è passato…

“Perché il desiderio di estraneità non diventi mutilazione rassegnata, ma si armi contro ogni forma di autorità e di sfruttamento. Perché dal Potere del dialogo (con cui si pensa di risolvere tutto) e dal dialogo del Potere (che invita tutti ad una ragionevole contrattazione) si passi ad un sentimento di radicale inimicizia verso l’esistente, di distruzione di ogni struttura che aliena, sfrutta, programma e irreggimenta la vita degli individui. Il nero del cane (questo animale cui generalmente si associa l’idea di sottomissione, di servile mansuetudine) è proprio la volontà di uscire dal gregge della servitù volontaria e di aprirsi alla gioia della ribellione. Non il nero in cui tutte le vacche sono uguali (sia pure nel loro essere contro o fuori), bensì quello in cui scompare il confine tra la demolizione e la creazione, tra la difesa oltranzistica di se stessi e la costruzione di rapporti di reciprocità con gli altri.”

Oggi, in questo periodo di emergenza sanitaria, diventa di particolare importanza condividere e approfondire riflessioni sui temi della malattia e della sicurezza della vita. Per questo riproponiamo dei testi di Canenero, scritti tra gli anni ’94 – ’95, che possono aiutarci ad avere uno sguardo più lucido sulla situazione, poiché inseriti al di fuori del flusso mediatico delle notizie in cui invece noi siamo immersi.

Questa pandemia ha trovato impreparati tutti: dall’individuo che non si era mai posto tante domande su questa società a chi ha sempre trovato assurdo accettare di passare l’intera vita a respirare polveri sottili per poi ritrovarsi con un tumore. Ma anche negli ambienti cosiddetti radicali la critica sulla sicurezza della salute è venuta meno. Quello che sentiamo e leggiamo quotidianamente dai media e dai giornali è il costante bombardamento di notizie sui morti e i malati che il Coronavirus ha fatto. Dunque, come viene intesa la malattia e perché questo terrore di essa e della morte? In questa società la medicina è riuscita a creare l’opinione comune – o luogo comune – secondo il quale la salute deve essere necessariamente medicalizzata, ogni malattia o sintomo devono essere nell’immediato curati, spesso senza chiedersi nemmeno troppo l’insieme delle cause che li hanno generati. La maggior parte delle persone, di fronte al rischio di ammalarsi, si affida ciecamente nelle mani dei medici e degli esperti, rassegnandosi all’espropriazione della propria vita in cambio di una esistenza menomata ma garantita.

Infatti, sotto questa coltre di paura collettiva che lo stato e i media hanno creato, in particolar modo riguardo alla diffusione del virus, le persone si fidano del parere degli esperti senza porsi più di tanto la domanda se la distanza di sicurezza, la mascherina e i domiciliari forzati possano davvero essere la soluzione a questa pandemia.

L’idea della sopravvivenza a tutti i costi, l’idea di una vita (sopra)vissuta il più a lungo possibile anche senza goderne intensamente, per quanto qualcuno di noi possa non trovarsi idealmente d’accordo, ci porta comunque ad affidare i nostri corpi nelle mani di chi quei corpi li vede solamente come macchine funzionali alla volontà dello stato di continuare a perpetrare il suo potere.

Nei diversi testi emerge, ad esempio, la critica alla tecnica e alla paura del nulla e dell’ignoto in quanto attraverso la lotta contro il terrore del nulla può essere letta l’intera storia della civiltà della tecnica. Perché, mentre per la società la sopravvivenza è un dovere, c’è chi pensa che la propria vita appartenga esclusivamente a se stessi. Qualcuno, di fronte alla consapevolezza di non voler più continuare ad esistere, decide, senza chiedere permesso a nessuno, di togliersi la vita, qualcun altro, di fronte all’incrollabile speranza di guarire dal tumore, decide di sottrarsi alla medicina e di fuggire dalla paura della morte andandole incontro. E altri spunti, per tentare, ancora un’altra volta, di dare alla ribellione la gioia randagia e l’impulso di una distruzione tanto auspicata da chi si sente straniero in territorio nemico. E questo territorio dicasi mondo intero.

Qui trovate il PDF per leggere e scaricare i contributi di Canenero:

Il tempo è finito

Rileggendo l’editoriale del numero 10 della rivista anarchica “i giorni e le notti” – in cui si accenna al rapporto tra la finitudine dell’esistenza umana e il sogno dell’immortalità – abbiamo trovato degli spunti non inutili, forse, per questi tempi di confinamento e di percezione di qualcosa che incombe. Quanto il sentimento della paura venga alimentato e sfruttato dallo Stato e dai tecnocrati per accelerare la digitalizzazione della società e la macchinizzazione dei corpi, non sfugge ormai a nessuno. E il sogno rivoluzionario di affrontare umanamente i limiti della nostra condizione (sì, possiamo ammalarci, sì, prima o poi moriamo), in che stato di salute è? Ci sembra che nelle analisi circolate finora – e ne abbiamo lette di buone e anche di ottime – manchi proprio il lato soggettivo di quello che stiamo vivendo. Gli scenari che si aprono, gli interventi sovversivi possibili… – tutto questo è necessario quanto urgente. Ma noi, ciascuno di noi, di fronte al rischio di ammalarci e di far ammalare, alla vista delle strade deserte, siamo rimasti esattamente gli stessi di qualche mese fa? Non abbiamo riscontrato, anche fra compagni, un certo disorientamento? E dal lato esistenziale si torna a quello pratico-operativo. Non è detto che in futuro – come stiamo sperimentando anche in queste settimane – potremmo fare affidamento sulla dimensione collettiva (gli incontri, le assemblee, lo scendere in piazza insieme e in modo annunciato). Saper cogliere le occasioni, certo. Approfondire le affinità e affinare la capacità di agire anche in pochi, senz’altro. Ma forse questo tempo ci sta dicendo altro. E a poco valgono le pose con noi stessi e con gli altri. Per cosa siamo disposti a vivere (e a morire)?

Di seguito il testo dell’editoriale

Dedichiamo gran parte di questo numero della rivista all’internazionalismo.

Non esiste oggi questione di una qualche rilevanza che non abbia una dimensione internazionale. Dai salari alla logistica, dalla produzione alle spese militari, dall’estrazione di materie prime agli oggetti di uso quotidiano, dai prezzi delle merci alla repressione, dagli affitti alle pensioni, dal ruolo dei territori alle emigrazioni, dall’urbanistica ai cambiamenti climatici, internazionali sono le cause e gli effetti, i processi e le dinamiche, le lotte e i rapporti di forza.

Di conseguenza non è mai stato tanto necessario avere una prospettiva internazionalista, come sfruttati in generale e come anarchici nello specifico.

Come cerchiamo di far emergere dagli articoli che pubblichiamo, esiste un rapporto sempre più stretto tra lotta di classe e tecnologia, tra Internet ed estrattivismo, tra il mondo virtuale e i suoi rovesci materiali su scala planetaria. I mercati capitalistici oggi in espansione – pensiamo all’agribusiness, alla bio-medicina, alla riproduzione artificiale e alla sperimentazione di nuovi farmaci – seguono precise linee di classe, di genere e di “razza”. Dietro c’è il saccheggio neo-coloniale. Dietro c’è la guerra.

Come dimostrano i casi incrociati dell’attacco da parte dell’esercito turco alle comunità curde e lo stato di emergenza decretato in Cile contro la rivolta seguìta all’aumento dei prezzi dei trasporti, la ristrutturazione economica oggi si impone con i militari e la guerra si rovescia all’interno contro il conflitto sociale. Dietro le mire assassine di Erdogan c’è il capitale internazionale. Più il “Sultano” attacca l’organizzazione dei lavoratori, più gli imprenditori stranieri investono in Turchia; più devasta il territorio, più le banche lo finanziano. E intanto in Siria – dove alleanze e “tradimenti” sono funzionali alla spartizione geopolitica delle zone di influenza – si sperimentano nuove armi, per la gioia dei produttori di mezzo mondo. Dietro i caroselli dei militari in Cile, dietro gli arresti di massa, dietro gli stupri e il fuoco aperto persino sui ragazzini da parte dei carabineros, c’è il capitale nordamericano.

Ma non siamo di fronte soltanto a un gigantesco Risiko fra le grandi potenze. Sullo sfondo, ci sono le lotte, le resistenze, le rivolte. Quella in corso in Cile non ha precedenti, per intensità, negli ultimi decenni in quel Paese: si è sedimentata sciopero dopo sciopero, barricata dopo barricata, molotov dopo molotov, ed ha trovato nei compagni anarchici in carcere una fonte di ispirazione e di incoraggiamento. E mentre i degni successori del neoliberista Pinochet schierano l’esercito, che non riesce a domare le fiamme, continua la rivolta sociale in Ecuador. Ben più complesso – ma necessario – il giudizio sulla guerriglia curda. Se essa è stretta da tempo nelle stesse contraddizioni che hanno segnato la Resistenza al nazi-fascismo in Italia – cercare di essere una forza autonoma dentro uno scontro inter-imperialistico –, la logica della guerra e della diplomazia ne ha trasformato profondamente i lineamenti. Se non ci siamo mai entusiasmati per la costituzione formale del Rojava – con la sua difesa della proprietà privata e i suoi governanti (tali addirittura per volontà divina!) –, abbiamo anche còlto la forza della sperimentazione sociale in corso in diversi villaggi. (Anche se da lì ai paragoni con la Spagna del ’36…). Ma quando dei guerriglieri si prestano a fare da fanteria per l’esercito statunitense (partecipando a operazioni militari ben lontane dal Kurdistan); a gestire campi profughi con migliaia di internati; a farsi carcerieri non solo di miliziani dell’Isis, ma anche dei loro familiari, continuare ad alimentare a livello internazionale il mito di un Rojava libertario è un tragico errore. Un errore figlio del taglio che si è voluto dare da più parti alla solidarietà con la resistenza curda. Averne fatto un avamposto eroico contro lo Stato Islamico (il Male assoluto contro cui ogni fronte comune è giustificato), ha allontanato la solidarietà dall’analisi materiale delle forze capitaliste in campo e allo stesso tempo da tanti proletari arabi, che conoscono per esperienza diretta la politica e la retorica democratiche contro il “fondamentalismo islamico”. Non sono certo, queste, buone ragioni per lasciare lo Stato turco massacrare le comunità curde. E non c’è bisogno che ci si ricordi ogni volta che noi possiamo formulare i nostri giudizi critici comodamente lontani dalle bombe e dai massacri, e che non ci siamo mai trovati ad affrontare una situazione così drammatica. Lo sappiamo. Ma non è certo meno comodo riempirsi la bocca di Kurdistan e poi non danneggiare concretamente gli interessi dello Stato e del capitale turchi. Senza rinunciare mai allo spirito critico, c’è un terreno in cui non si sbaglia mai: quello internazionalista dell’attacco ai padroni di casa nostra, dell’azione contro chi organizza da qui ciò che succede laggiù (basta pensare a Leonardo-Finmeccanica e a Unicredit, tanto per citare i responsabili più diretti).

Internazionalismo è anche conoscere e sostenere le lotte che gli anarchici portano avanti in Paesi lontani dal nostro, dove condizioni di vita, conflitto sociale e forme di repressione non si possono appiattire sul nostro spazio-tempo. Basta leggere la traduzione che pubblichiamo di un testo scritto dai compagni russi sul significato del gesto di Michail Žlobickij, l’anarchico diciassettenne che si è fatto esplodere in una sede dei servizi segreti di Putin. A colpire profondamente non sono solo la brutalità della repressione e il coraggio di quel giovane compagno, ma il linguaggio impiegato dagli anarchici russi. Concetti come sacrificio, eroismo e immortalità sembrano provenire da un’altra epoca, quella dei grandi romanzieri dell’Ottocento o dei proclami anarchici dei primi del Novecento. Concetti che stonano con il nostro materialismo della gioia. Eppure fanno riflettere. Non c’è dubbio che la lotta anarchica richieda grandi sforzi, lontana com’è tanto dalla mistica religiosa quanto dalle sirene del comfort tecnologico. E non c’è dubbio che tanta retorica del piacere – non a caso assorbita dal linguaggio della merce e della pubblicità – abbia contribuito ad infiacchire la disponibilità all’impegno e al rischio. Ma è proprio la falsa dialettica fra le litanie della militanza come sacrificio – invero oggi sempre più rare e fiacche – e le cattive poesie della soddisfazione immediata, che la passione rivoluzionaria dovrebbe far saltare. Eppure. Come diceva il materialista Leopardi, la vita non può fare a meno di illusioni necessarie. La ragione che irride i grandi sogni contribuisce a rimpicciolire gli animi. Un popolo di filosofi, tagliava netto Leopardi, sarebbe un popolo di vigliacchi. Pensiamo agli esordi del socialismo rivoluzionario. A infiammare la gioventù ribelle sono stati i regicidi e le barricate della Comune, ma anche il desiderio di “immortalità” da conquistare con la rivolta. A lungo il linguaggio dell’emancipazione sociale ha attinto al messianismo religioso (pensiamo alla giustizia come redenzione immediata, che prorompe con forza da I tempi sono maturi di un Cafiero, o al titolo Fede! dato a un giornale anarchico). Il sogno della rivoluzione sociale non è stato solo un orizzonte che rovesciava la promessa religiosa mantenendone l’intensità – il paradiso da conquistare sulla Terra –, ma anche la tensione individuale nel corpo a corpo con la finitudine della vita. Di fronte al fatto piuttosto seccante che si deve morire, il materialismo rivoluzionario non ha proposto la gelosa conservazione della vita, ma un sovrappiù di rischio, di gioia, di bontà, di coraggio che proietta nel futuro la memoria del proprio passaggio sulla Terra. Non la fama, che è legata ai corsi fortuiti e meschini del successo, ma la gloria, che è legata alla virtù, cioè alla giustezza delle scelte, indipendentemente dai risultati ottenuti. Concetti antichi, non c’è dubbio. Eppure a quel sogno di immortalità – illusione necessaria, ancorché non confessata – risponde oggi la potenza che ha quasi soppiantato la religione, cioè la tecnologia. Le tre maledizioni che nel racconto religioso seguono la Caduta, cioè dover morire, partorire con dolore e guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, sono proprio le condizioni che l’apparato tecnologico promette di abolire. La riproduzione artificiale dell’umano, la robotizzazione della produzione e la crioconservazione sono i perni dell’utopia totalitaria, il sogno macchinico di superare la finitudine umana. In attesa di eternizzare i corpi, l’intelligenza artificiale promette di conservare nella memoria dei computer i segni di una vita intera. Che tutto ciò non possa prescindere dal saccheggio del pianeta e dalla fatica di qualche miliardo di iloti non intacca, purtroppo, la forza della religione tecnologica. Né deve sorprendere che, a rovescio, per milioni di poveri il riscatto assuma le forme del radicalismo religioso, che è insieme arcaico e perfettamente contemporaneo. O meglio, che fa a brandelli il discorso progressista della contemporaneità, perché rivela che il mondo è attraversato da avvenimenti, tendenze, aspirazioni tra loro non-contemporanei, come se l’epoca attuale racchiudesse numerose epoche co-presenti. Il che non vale solo per il dominio, ma anche per le lotte. Siamo, qui in Italia, contemporanei delle lotte in Cile, in Ecuador o in Libano? Siamo contemporanei della guerriglia curda? Sì, nel senso che le date del calendario sono le stesse. No, nel senso che il nostro spazio-tempo è altro, e così i problemi, i sentimenti, l’urgenza che ci pungola. Altrimenti saremmo di un’indifferenza disumana e potremmo definire la nostra disponibilità al rischio comune come micragnosa. Il tempo – anche quello della percezione e del sentimento, quindi della solidarietà – non è affatto lineare. Essere contemporanei delle rivolte in giro per il mondo non è un dato; è una scelta, uno slancio, una tensione. Una tensione letteralmente utopica e ucronica.

[…]

«Il rischio è un bisogno essenziale dell’anima», scriveva Simone Weil. Da questo punto di vista, la democrazia – che contiene al suo interno le tendenze fasciste – è penetrata negli animi. Svuotandoli di ogni ideale, la cui ispirazione sola rende «a poco a poco impossibile almeno una parte delle bassezze che costituiscono l’aria del tempo che respiriamo». Qualcosa per cui valga la pena vivere, e morire: ecco cosa manca drammaticamente. Mentre una parte crescente dei dannati della Terra vede nel martirio portatore di morte una promessa di riscatto, si fa sempre più suadente e concreta la cattiva immortalità delle macchine, il prolungamento infinito dell’effimero, l’immensità dell’insignificante. Condannati a questa eternità (la domanda di grazia, respinta – chioserebbe Ennio Flaiano). Che forza esprime, di fronte a queste contrapposte narcosi del sentimento di finitudine, il sogno rivoluzionario? Per rispondere, dobbiamo attraversare lo specchio.

A proposito di tempo. Le ultime sentenze contro gli anarchici hanno proiettato nel nostro orizzonte l’ombra di lunghi anni di carcere. Un tempo che fa male. Un tempo che non si scalfisce con gesti effimeri né con fiammate di estasi. Bensì con un ideale, con la tenacia, con una sentita, poco retorica e rinnovata disponibilità al rischio.

La virtualità avanza, le vie di fuga si sprecano. Come ammoniva già il saggio Eraclito, «unico e comune è il mondo per coloro che sono desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare». Stiamo entrando nella notte artificiale dell’idiozia generalizzata (laddove idíotes deriva da ídios – chiuso in se stesso). Tenersi desti richiede e ancor più richiederà un faticoso sforzo di attenzione, la facoltà umana contro cui l’intera organizzazione sociale muove la sua quotidiana guerra.

Il tempo a disposizione di ciascuno di noi è letteralmente finito, cioè limitato. Ciò che non ha limiti, viceversa, ma soltanto delle soglie, è la sua intensità. Che poi è il contenuto della vita. L’intensità non è faccenda di adrenalina, né di muscoli. È una questione etica. Nelle sue soglie si trovano, materialisticamente e fuori da pose superomistiche, nel silenzioso dialogo dell’anima con se stessa, nel confronto sincero con i propri compagni, il senso del giusto, l’eroismo, la nostra finita, umana immortalità.

«L’etica applicata alla storia è la teoria della rivoluzione, applicata allo Stato è l’anarchia» (W. Banjamin).

novembre 2019

 

Il tempo è finito

Libano – Scontri e attacchi alle banche, morto un manifestante

Dopo un periodo di quiete imposto dal lockdown in Libano le persone sono ritornate a protestare in strada.
In un momento nel quale l’inflazione ha praticamente dimezzato il valore della lira libanese e i prezzi del cibo sono aumentati la rabbia di tanti ha portato lunedì ad una manifestazione per le strade di Beirut.
I manifestanti hanno bloccato una strada scontrandosi con l’esercito. Sono state attaccate alcune banche ed è stato bruciato un mezzo dell’esercito.

Nel finesettimana, al di fuori di situazioni pubbliche, diverse banche nel nord e nel sud del Libano sono state danneggiate, alcune con delle molotov e a Sidon con un ‘ordigno esplosivo’.

Altre fonti giornalistiche: Il Manifesto

 

Trento – Segnali di ammutinamento

L’appello a violare le misure di confinamento durante la giornata del 25 aprile è stato raccolto in modo piuttosto variegato e creativo. A Trento, un gruppo di compagni e compagne è sceso in strada nel quartiere di San Pio X, mantenendo le distanze di sicurezza e dimostrando che è possibile ritrovarsi in strada, all’aria aperta, tutelando la propria e altrui salute. Il gruppo – con lo striscione “Responsabili, non ubbidienti. Resistenza ora e sempre” – è rimasto in strada per una buona mezz’ora, con interventi, musica e cori; qualche solidale e abitante del quartiere si è avvicinato, poi è arrivato un ingente quantitativo di forze dell’ordine che hanno provato ad identificare e fermare i presenti. Il tentativo degli sbirri non è andato a buon fine ed il gruppo si è allontanato intonando cori e salutando le persone affacciatesi dai balconi. Sempre in giornata c’è stato un saluto ai detenuti di Spini di Gardolo.
Per quello che abbiamo letto e saputo, diversi striscioni e cartelloni sono apparsi a Rovereto in ricordo dei partigiani, contro fascisti e capitale, in solidarietà con i detenuti in lotta, contro la logica padronale-statale che vuole le fabbriche aperte e le persone chiuse in casa… Diversi parchi sono stati “liberati” dai nastri divisori e i cartelli di divieto sono stati sostituti con altri che invitano a usare collettivamente gli spazi collettivi mantenendo le distanze fra le persone. A Tierno, musica in piazza con i vicini che hanno portato teglie di pizza. A Mori, giro in paese con musica e un cartellone. A Noriglio, striscioni appesi, giro in paese con canti partigiani e lettura di un volantino; a Lizzanella, presenza in piazza con striscioni e musica; alle Fucine, cartelli e interventi amplificati; al Brione, un gruppo di compagni e compagne – con le mascherine e distanziati fra loro – ha attraversato una parte del quartiere con uno striscione (“Organizzarsi per non subire ancora”) e un impianto. Il primo intervento sotto i palazzoni è stato seguìto con molto interesse dalle persone ai balconi, che hanno risposto con un sonoro applauso; una decina di persone si sono unite all’iniziativa. Tra i tanti discorsi (sulle cause strutturali di questa epidemia, sulle responsabilità di Confindustria e governo, contro il controllo tecnologico in nome della salute…), è stato lanciato un invito a chi è in difficoltà economiche a organizzarsi per non pagare l’affitto all’Itea (i cui dirigenti hanno annunciato una moratoria per i negozianti ma non per gli inquilini). Forse per via degli appuntamenti non annunciati e dei diversi orari, le pattuglie di polizia e Digos sono arrivate quando i compagni se ne stavano già andando. In tarda serata, fuochi d’artificio in tre punti nei dintorni di Rovereto.

25 aprile: segnali di ammutinamento. Aggiornato