Iran – Rivolte nelle prigioni

Il 26 marzo 2020, dopo alcuni scioperi della fame avvenuti in diverse prigioni iraniane, a causa delle pessime condizioni detentive, della diffusione del coronavirus e perfino della morte di più detenut*, i prigionieri di alcune sezioni della prigione centrale di Tabriz, una città del nord-ovest del paese, si sono ribellati.

Secondo i rapporti ufficiali delle agenzie di stampa dello Stato, le forze di polizia hanno assediato il settore intorno alla prigione e si sono sentiti degli spari.

Il califfato islamico sciita, ipocrita e oppressivo, ha attaccato i prigionieri indifesi con gas lacrimogeni e a colpi di arma da fuoco, così come ha ferito molti di loro.

Nota di Attaque [ndt: da cui è tratta questa notizia, a sua volta dall’inglese qui]: anche se i media parlano di decine di migliaia di prigionier* liberat* “provvisoriamente” dal regime a causa della pandemia di coronavirus, molto più numeros* sono coloro che restano rinchius*. La scorsa settimana, ci sono state delle rivolte nelle prigioni di Khorramabad e di Aligurdaz (due città nella parte occidentale del paese) e dei/delle ribelli sono stat* uccis* dalla polizia e dai secondini, ma altr* sono riuscit* ad evadere.

Segnali

Se nessuno, goveno in primis, sembra sapere quando arriverà il tanto atteso picco dei contagi, sembra stia invece avvicinandosi quello dell’insofferenza verso una situazione che giorno dopo giorno diventa per tanti, sempre più invivibile. All’impossibilità di uscire di casa senza sentire il fiato sul collo di polizia, carabinieri e militari, alla sensazione di essere diventati tutti dei comodi capri espiatori utili da additare come untori per coprire le incapacità mostrate dalla macchina statale, inizia ad aggiungersi, pressante, il problema di come mangiare. E sì, perchè dopo diverse settimane ormai in cui son venuti meno gli abituali modi per mettere qualche soldo in tasca, per molti, e sono numeri destinati a crescere, emergenza sanitaria e economica iniziano a intrecciarsi in un mix esplosivo. E poco o niente contano le balbettanti misure prese a riguardo dal governo. casse integrazioni in derogafondi speciali di 9 settimane e assegni di 600 euro sono destinati solo ad alcune categorie e non si sa bene con che tempi arriveranno. Anche il reddito di quarantena di cui si sente parlare da più parti, a sinistra, comporterebbe gli stessi problemi, qualora si riuscisse a ottenerlo raggiungerebbe infatti soltanto le tasche di una parte di chi se la passa peggio e ci vorrebbero comunque tempi notevoli dalla sua approvazione a che venisse stanziato.

Soluzioni parziali, tortuose e quanto mai lente insomma, cui sembra stiano iniziando a sostituiris misure ben più pragmatiche, all’insegna di una parola d’ordine universale, alla portata di tutti e immediata: gratuità. C’è chi si organizza in maniera più accurata e accorta e assalta un tir di generi alimentari saccheggiandolo; chi promuove, a quanto pare, una pagina su facebook per poi ritrovarsi in un supermercato a riempire i carrelli e provare, ahinoi senza successo, ad uscire senza pagare. Salvo poi costringere di riffa o di raffa il supermercato, in accordo coi Carabinieri, a distribuire nei giorni seguenti buoni da 50 euro per la spesa, così da sedare i bollenti spiriti. E ci saranno poi tanti, c’è da esserne certi, protagonisti di fatti simili di cui non siamo venuti a conoscenza. Di certo le autorità non hanno alcun interesse a che si pubblicizzino questi fatti, con l’aria che tira ci vuole poco che si crei un effetto domino una volta che esempi di questo tipo salissero alla ribalta, un po’ come acccaduto nelle carceri, del resto. E un simile scenario creerebbe non pochi problemi a lorsignori visti i compiti extraordinari di controllo del territorio in cui sono impegnati militari e forze dell’ordine, e con la crescente tensione nelle carceri che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Ben difficilmente si potrebbero allora schierare preventivamente, come a Palermo, reparti mobili davanti a tutti gli ipermercati….

Segnali significativi poi, di quello che potrà accadere più in là, quando la situazione sanitaria rientrerà, almeno per un po’, in una certa normalità, arrivano dalla regione dell’Hubei focolaio iniziale del Covid19, dove ieri è scoppiata una rivolta contro le autorità e le forze dell’ordine che continuano a imporre rigidi controlli sugli spostamenti.

Macerie

Utopia della città perfettamente governata

Mai come oggi il governo si regge sulla collaborazione dei propri cittadini, mai come oggi il potere si regge sull’obbedienza dei propri sudditi. Questo rapporto tra governanti e governati, al di là delle favole di una visione contrattualistica e pacificata, in cui i governati rinunciano volontariamente alle loro libertà in cambio di sicurezza, è in realtà una lunga storia di conflitti. La storia di questo rapporto non andrebbe letta come un patto sociale ma come quello che materialmente è, una guerra sociale.

Eppure oggi, in pieno stato di emergenza, lo Stato chiede collaborazione (ovviamente dietro la minaccia della punizione,nel liguaggio da boia che più gli si confà) e senza troppi fragori, la ottiene.

Come si è potuta produrre una tale coincidenza di interessi tra governati e governanti? Una tale corrispondenza di intenti tra oppressi e oppressori?

C’è chi sostiene che ciò sia avvenuto per cause di forza maggiore, il coronavirus, ovvero per spingerla all’estremo, è la minaccia dell’estinzione che fa saltare ogni differenza e ci riconcilia coi nostri nemici di classe per far fuori un nemico esterno, comune..

Non mi convince molto questa narrazione, non credo che sia stato fondamentalmente questo a generare “l’utopia della città perfettamente governata”, che è poi l’utopia di ogni governante. Piuttosto qui c’è in ballo qualcosa di più di una mera obbedienza, che di fatto diverrebbe insopportabile sul lungo periodo, c’è una logica gratificante che il neoliberalismo mette in campo da circa quarantanni senza sosta su tutti i piani, dal privato al pubblico, che è quella della performatività e della meritocrazia.

In una situazione come quella attuale, la responsabilizzazione di massa che è di fatto una obbedienza di massa può essere vissuta come performatività della propria condotta, sempre in chiave competitiva (stavolta a chi e’ più obbediente, normalmente a chi è più produttivo).

Il buon cittadino è colui che partecipa volontariamente al governo attraverso l’autogoverno, e si fa portatore dello sguardo dello stato, basti pensare alla sorveglianza generalizzata che trasforma ogni cittadino, ogni vicino, ogni persona in un poliziotto, pronto a denunciare, a segnalare, se non a picchiare chi infrange le regole sempre più pericolosamente restrittive (ormai i runner sono considerati gli untori ma c’è chi ancora va a lavorare sfuttato e senza mascherine senza che nessuno si scomponga). Forse perchè il lavoro, e quindi la produttività, è l’altra faccia della performatività dell’obbedienza (produttivi oltre che docili).

Questo significa che chi si ammala, chi non sa come organizzare la propria vita, chi rimane senza lavoro, senza casa, senza via d’uscita, non ha che da prendersela con se stesso, perché non ha curato bene la propria “impresa individuale”, e gli si dirà, non ha obbedito abbastanza.

Sono anni che la governamentalità neoliberale scarica sui singoli la responsabilità delle nefandezze prodotte da un sistema energivoro, estrattivista e predatorio. Per esempio ha fatto credere, con un ambientalismo pret a porter, che chi non differenzia o chi non si compra una macchina ibrida, è il responsabile del cambiamento climatico. Tutta la politica di riduzione di emissioni viene giocata secondo la stessa logica, incolpando i più poveri di utilizzare automobili più inquinanti di quelle di ultima generazione, per loro chiaramente inaccessibili. Incolpandoli di fatto di essere poveri. Non performativi quindi non meritevoli, vite di scarto, vite sacrificabili.

L’autogoverno, che oggi in tempo di virus, si traduce letteralmente in autoreclusione, risolve nell’immediato due ordini di problemi:

1- la crisi di legittimità del governo → che da apparato tecnocratico di controllo e gestione iniqua delle risorse, si immedesima ora sempre più nella bandiera, nell’ordine simbolico nazionalista carico di paternalismo di Stato, che lo riveste di una nuova legittimità, quella di dover combattere contro un nemico esterno, il virus (retorica dell’all around the flag in tempo di guerra). Quindi l’appello all’unità nazionale è funzionale non a combattere il virus ma a rinforzare lo stato, non appena la fase emergenziale sarà dichiarata finita.

2- l’ineguaglianza sostanziale dei rapporti sociali → le misure restrittive emanate dai vari governi sono rivolte a tutti indistintamente ma di fatto sonoo idealmente indirizzate a un uomo appartente alla classe-media,

*che ha un lavoro che può sospendere o meglio praticare come tele-lavoro (perciò non perde la sua produttività e dimensione soggettivante di lavoratore),

*che ha un automobile o un mezzo autonomo per muoversi (perciò può rispondere più agilmente a tutte le restrizioni di movimento, non dipendendo da mezzi pubblici o da una dimensione non individualistica delle relazioni -vedi i più poveri che tendono a organizzare più collettivamente i propri bisogni, spostamenti o altro),

* che ha generalmente una piccola unità familiare e non troppe relazioni significative all’infuori da quella (perciò può ritirarsi nell’isolamento del privato senza cambiare di molto la qualità dei propri rapporti)

per questo soggetto ideale, cittadino ideale, collaboratore ideale del governo dell’emergenza, il disagio personale sarà accettabile, ma e’ evidente che non per tutti il disagio sarà tale, e non per tutti sarà accettabile, anzi per molti evidentemente non lo è e non può essere diversamente.

I più vecchi, i più precari, i più poveri, i senzatetto, i migranti, i reclusi, i disabili,i lavoratori senza tutele-protezioni sono tutti coloro per i quali le misure di contenimento del virus possono significare letteralmente morire più facilmente, dato che non dispogono di un salvagente privato o pubblico (di un qualche residio di welfare familiare o di stato). Per loro, il disagio sarà inaccettabile, o meglio sarà un dramma.

Per cui si ammaleranno maggiormente i più ricattabili, chi lavora senza protezioni adeguate inizia a scioperare (vedi Amazon), per molti non sarà neanche possibile astenersi da un lavoro a rischio dato che l’alternativa è la fame,lo sfratto, l’abbandono totale. Se sopravviveranno poi saranno comunque quelli che pagheranno maggiormente i costi di questa emergenza.

Ci serve innanzitutto rigettare questa stucchevole retorica da unità nazionale, ci serve una narrazione di parte e un’azione di parte.

Berlino – La catastrofe si chiama capitalismo, ed è la regola – Un comunicato (e un appello)

Noi occuperemo…

…finché non dovremo più farlo”, scrivevamo. Abbiamo spesso occupato case a Berlino, molte sono state di nuovo sgomberate. Ma ora la situazione è diversa. In tempi di “crisi”, questa frase può trasformarsi in un appello: “Unitevi a noi, facciamo in modo che succeda ovunque!”

Il COVID-19 si sta diffondendo in sempre più aree del mondo evidenziando che il cosiddetto stato di catastrofe è la regola. Perché laddove gli stati costringono paternalisticamente e rigorosamente a “rimanere a casa”, non tutti ne hanno una. Come se non bastasse, lo stesso stato ha aumentato il numero dei senzatetto sfrattandoli, sta chiudendo tutti i dormitori e anche le mense dove i senzatetto potevano racimolare quantomeno un tozzo di pane, dell’acqua, del sapone. Ma, sempre lo stato, con il suo moralismo contraddittorio, ci esorta patriarcalmente a fare “attenzione all’igiene”

Anche “evitare il contatto sociale” è ciò che i governi ci chiedono di fare. Ma dove dovrebbero rincasare i rifugiati quando sono ammassati nei campi di deportazione e nelle prigioni che si trovano nelle frontiere esterne dell’Europa e nelle periferie in Germania? Oltre a togliere loro ogni diritto umano – come l’asilo, la libertà di movimento e di alloggio – sono stati anche privati della possibilità di una protezione efficace contro il COVID-19. La catastrofe in questo paese è che nemmeno le ultime macerie che restano di questo sistema sanitario sono accessibili a tutti. È una farsa sociale il fatto che i medici, i paramedici e gli infermieri che hanno dichiarato questo stato di emergenza molto prima della pandemia da COVID-19 siano stati ignorati. E per questo motivo meritano tutta la nostra solidarietà. Presto dovranno decidere, come in Italia, chi può vivere e chi deve morire. Questo di per sé è catastrofico. La catastrofe si chiama capitalismo. Ed è la regola. Da giorni affittuari, associazioni sociali e i partiti socialdemocratici chiedono la confisca delle case di vacanza e dei posti liberi per metterli a disposizione dei senzatetto e dei richiedenti asilo. Mentre ambiguamente i governi dichiarano che rimanere a casa e isolarsi è la protezione più efficace contro il coronavirus, la città di Berlino ha creato 350 posti in un ostello della gioventù e un impianto di raffreddamento. Spacciare questa mossa per solidarietà è puro cinismo. Nella situazione attuale, la confisca degli alloggi è un dovere sociale. Ecco perché occuperemo.

Unisciti a noi!

Saluti da Berlino a tutti coloro che stanno lottando!

In ostaggio

Mai come in questi giorni la realtà ha preso in ostaggio l’immaginazione. I nostri desideri e sogni più folli sono sovrastati da una catastrofe invisibile che ci minaccia, ci confina, legandoci mani e piedi al capestro della paura. Qualcosa di essenziale si gioca oggi attorno alla catastrofe in corso. Ignorate le poche Cassandre che da decenni lanciavano i loro avvertimenti, ora siamo passati dall’idea astratta al fatto concreto. Come dimostra l’odierna emergenza con tutti i suoi divieti, ad essere in ballo non è la mera probabilità di sopravvivere, ma qualcosa di ben più importante: la possibilità di vivere. Ciò significa che la catastrofe che oggi ci perseguita non è tanto l’imminente estinzione umana — da evitare, ci viene assicurato sia in alto che in basso, solo con una completa obbedienza agli esperti della riproduzione sociale — quanto l’onnipresente artificialità di un’esistenza la cui pervasività ci impedisce di immaginare la fine del presente.
«Catastrofe»: dal greco katastrophé, «capovolgimento, «rovesciamento»; sostantivo del verbo katastrépho, da kata «sotto, giù» e stréphein «rovesciare, girare».
Sin dall’antichità questo termine ha conservato fra i suoi significati quello di un avvenimento violento che porta con sé la forza di cambiare il corso delle cose, un evento che costituisce al tempo stesso una rottura e un cambiamento di senso, e che di conseguenza può essere sia un inizio che una fine. Un evento decisivo, insomma, che spezzando la continuità dell’ordine del mondo permette la nascita di tutt’altro. L’immagine facile ed immediata dell’aratro che spacca e rivolta una zolla di terra seccata ed esausta, rivivificando e preparando il terreno a una nuova semina e ad un nuovo raccolto, rende bene l’aspetto fecondo presente in un termine solitamente associato al solo epilogo drammatico.
Da qui l’ambivalenza di sentimenti umani suscitati in un lontano passato dalla catastrofe, che vanno dal timor panico al fascino estremo. Al di là e contro ogni paura della morte, per lunghi secoli gli esseri umani hanno percepito l’infinito attraverso la distruzione catastrofica, cercando al suo interno la folgorante rivelazione fisica di ciò che non erano. Dal Caos primordiale all’Apocalisse, dal Diluvio universale alla Fine dei tempi, dalla torre di Babele all’anno Mille, numerosi sono stati gli immaginari catastrofici attorno ai quali l’umanità ha cercato di definirsi, nella sua relazione con la vita ed il mondo sensibile, sotto il segno dell’accidente. Il sentimento di catastrofe è stato con ogni probabilità la prima intima percezione della dirompenza dell’immaginario, una fessura permanente nella (presunta) uniformità della realtà. Avvicinarsi ai bordi di questa fessura, seguirne la linea, significava cedere alla tentazione di interrogare il destino, non ostentare la presunzione di rispondervi. Immaginaria o reale, la catastrofe possedeva la forza prodigiosa di emergere in quanto oggettivazione di ciò che eccede la più triste condizione umana.
È solo verso la metà del XVIII secolo, dopo la scoperta dei resti di Pompei nel 1748 ed il grande terremoto di Lisbona del 1755, che la parola catastrofe ha cominciato ad essere usata nel comune linguaggio per definire un disastro improvviso di enormi dimensioni. Slittamento di significato facilitato dal fatto che, dopo il 1789 e la presa della Bastiglia, sarà un’altra la parola impiegata per indicare un ribaltamento, una rottura irreversibile dell’ordine pre-esistente in grado di preparare l’avvento di un mondo nuovo. Nato nel secolo dei Lumi, il concetto di rivoluzione non poteva però che avere un carattere intenzionale, fortemente legato alla ragione, e perciò lo si è legato al compimento di un processo, all’evoluzione di un’idea, al risultato di una scienza. È questa la profonda differenza che ha con la catastrofe che l’ha preceduta, e che in un certo senso l’accompagna. Laddove la rivoluzione è un’incarnazione della Storia, la catastrofe è una sua interruzione. Tanto la prima viene programmata nelle strutture, progettata negli scopi, organizzata nei mezzi, quanto la seconda è inaspettata nei tempi, imprevista nelle forme, inopportuna nelle conseguenze. Non innalza uomini e donne soddisfacendoli nelle loro aspirazioni e convinzioni, originali o indotte che siano, li fa precipitare al di fuori delle loro misure comuni e delle loro rappresentazioni, fino a ridurli ad elementi insignificanti di un fenomeno senza alcuna legge.
Ancor più della rivoluzione, l’esplosione catastrofica del disordine spazzava via il vecchio mondo, aprendo la strada ad altre possibilità. Dopo che si è materializzato l’impensabile, gli esseri umani non possono più rimanere gli stessi poiché non hanno visto con i loro occhi crollare solo le case, i monumenti, le chiese o i parlamenti. Anche le fedi, le teorie, le leggi —  tutto è finito in macerie. L’antico fascino della catastrofe nasce da lì, da quell’orizzonte caotico irriducibile ad ogni calcolo, nel momento in cui uno sconvolgimento senza precedenti spezza bruscamente ogni riferimento stabile, ponendo brutalmente la questione del senso della vita le cui infinite ripercussioni richiedono, in risposta, un eccesso d’immaginazione. La catastrofe è servita all’individuo, nella drammatica scoperta di qualcosa che va al di là della sua identità, per confondersi nuovamente con la natura, il suolo primordiale o la fonte della creazione.
Ma a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, contrassegnata dalla prima esplosione atomica, cosa è accaduto? Che la prospettiva rivoluzionaria è andata via via spegnendosi, cancellata dai cuori e dalle menti. Così al loro interno è rimasta incontrastata una sola forma possibile di sconvolgimento materiale, per di più in possesso di ulteriori formidabili mezzi tecnici per manifestarsi. Ma la catastrofe odierna ha ben poco in comune con quella degli evi trascorsi. Non è più la folgore della natura o l’opera di un Dio che pone l’essere umano davanti a se stesso — è un mero prodotto dell’arroganza scientifica, tecnologica, politica ed economica. Se mettendo a soqquadro l’ordine stabilito le catastrofi del passato incitavano a guardare in faccia l’impossibile, le catastrofi moderne si limitano a scavare ulteriormente nel possibile. Invece di aprire l’orizzonte e condurre lontano, lo chiudono ed inchiodano a quanto di più vicino ci sia. L’immaginazione selvaggia lascia il passo al rischio calcolato, per cui non si desidera più vivere un’altra vita, si ambisce a sopravvivere gestendo i danni.
Una dopo l’altra, le catastrofi verificatesi in questi ultimi decenni sfilano davanti ai nostri occhi come se fossero state semplicemente una conseguenza della miopia tecno-scientifica e del cattivo governo, da superare con tecnici e politici più attenti e lungimiranti. Le catastrofi del presente e del futuro diventano perciò evitabili, o per lo meno riducibili, solo e soltanto con un controllo sempre maggiore delle attività umane, poste in condizioni di perenne emergenza. Effetto di questa logica, i disastri «naturali» vengono subito dimenticati e rimossi in un contesto distante, quasi fossero eventi minori, mentre i soli disastri «umani» occupano il centro della scena in una narrazione che ci invita ad accettare l’inaccettabile. Se ci terrorizzano, è solo perché la nostra sopravvivenza fisica come specie è minacciata. Ed è questo che andrebbe temuto più di ogni altra cosa, la catastrofe invisibile della sottomissione sostenibile, dell’amministrazione del disastro, quella che incatena e paralizza la nostra smisurata voglia di vivere imponendole distanze e misure di sicurezza.
[28/3/20]

Note sparse sul morbo che infuria

Il testo che segue è il contributo di una strega. Qui potete trovarlo in versione pdf.

I.
La verità non sta nel mezzo, né di lato.

In momenti di grande incertezza si tende a ricercare più che mai la “verità”, nel tentativo di aggrapparvisi per dare un senso ad una situazione che non si riesce più a comprendere e a controllare. Sotto la lente di questa banale considerazione si può guardare a gran parte delle disposizioni e degli atteggiamenti messi in atto recentemente, ovunque sembra dilagare il coronavirus SARS-CoV-2 che può sviluppare la malattia del Covid-19.                 Medici e ricercatori di ogni risma tentano di ricostruire gli scenari del primo contagio, alla ricerca del paziente “zero”, dicendo tutto e poi il contrario di tutto; opinionisti da strapazzo descrivono nel dettaglio i sintomi della malattia (chiaramente di chi presenta gravi sintomi, tralasciando spesso di ricordare che esiste tutta una schiera di persone con sintomi simil-influenzali o asintomatiche che sono i vettori per eccellenza) ed invocano il vaccino o l’ennesima terapia panacea di tutti i mali.
Se da un lato è indubbio che vi siano grandi numeri di persone che hanno bisogno di essere ospedalizzate – il Covid-19 aggraverebbe situazioni cliniche già precarie o per l’età o per altre patologie, anche se non mancano eccezioni in questo quadro –, dall’altro è altrettanto indubbio che lo Stato stia reagendo a questa situazione inedita nell’unico modo che conosce e che gli è più congeniale, con l’autorità e il castigo. Insomma, alla situazione percepita come incerta, grazie anche alla martellante fanfara mediatica degli specialisti del “progresso”, segue prevedibilmente la certezza della repressione facile: divieti di spostamento – con l’eccezione di lavoro-salute-spesa, quanto di più ordinario e funzionale al capitale –, pattugliamenti massicci per le strade, tracciamento delle persone per mezzo delle celle telefoniche o del GPS, droni che sorvegliano i sentieri e le cime di montagna alla ricerca di refrattarie al morbo dell’autorità.

Se non fosse che è a prezzo della propria indipendenza (la “libertà” in fondo non l’abbiamo mai potuta assaporare in questo mondo) e del proprio benessere che si pagano queste disposizioni, verrebbe da ridere a crepapelle mentre si assiste allo spettacolo dell’insensatezza, alla ricerca di soluzioni facili che non esistono. Perché se secondo alcune questa epidemia poteva essere prevista, imprevedibili – non in assoluto, ma nella loro entità e nella loro imminenza – sono invece le conseguenze della devastazione ambientale, degli ecosistemi e della natura selvaggia, che quotidianamente viene portata avanti dagli stessi tecnici del disastro (da cui ora si cercano risposte) e da tutte coloro che hanno creduto fino ad ora, o credono ancora, di vivere nel migliore dei mondi possibili, tanto da volerlo preservare a qualsiasi costo.                                                            Oltretutto, riconoscere che la riduzione della complessità del reale alla dicotomia problema-soluzione o causa-effetto è figlia di una certa mentalità può aiutarci a scorgere il carattere sempre più dogmatico e incontestabile della parola scientifica. Ora più che mai, sembra che la conoscenza scientifica sia sicura, vera in assoluto, non più perfettibile (ciò che è vero lo è fino a prova contraria); il monopolio del sapere è in mano agli specialisti in camice bianco e in questa situazione di “vera emergenza” è bene che le comuni mortali, prive di competenze, non mettano in dubbio le affermazioni di chi pensa di avere in tasca la verità del momento. Ma fra l’oscurantismo – inteso come l’atteggiamento di chi si oppone ad ogni cambiamento e, in senso più ampio, non volontà di conoscere, assenza di curiosità – e lo scientismo – l’atteggiamento di chi pretende di applicare il metodo scientifico ad ogni aspetto della realtà – esiste altro. È in questo spazio grigio che possono insorgere le passioni, la sensibilità e la sensazione, il corpo riscoperto e padrone di sé, i desideri più profondi e selvaggi di chi aspira a com-prendere l’esistente, senza aver la presunzione di riuscirci appieno. È in questo interstizio che potremmo far nascere la nostra critica radicale all’esistente.


II.
Il tempo della roulette russa.

Perché questa pandemia? Da dove è arrivato questo virus? E ora, che fare? Lo sbigottimento ha la meglio, rafforzato dal clamore mediatico e favorito dalla spiacevole sensazione di sentirsi in trappola, perfino nel caso in cui si decida consapevolmente di non rispettare l’isolamento coatto.
Per alcune persone la sensazione di essere in trappola, o meglio di aver già raggiunto un punto di non-ritorno, è qualcosa di latente e viscerale che emerge con prepotenza ogni volta che magari si fa una passeggiata in montagna e si scorgono l’ennesimo traliccio che squarcia l’orizzonte, la cava che sventra la roccia e un altro ghiacciaio che si ritira, facendosi meno imponente dell’anno prima. Ogni volta che si vede scomparire sotto gli occhi una parte sempre più ampia di spiaggia, perforata e scavata dalle ruspe che devono far posto a portuali o turisti, ossia ad una fetta più grande di profitto. Ogni volta che sentiamo il nostro stesso sguardo abituarsi alla vista di una centrale nucleare o di un
bosco raso al suolo e magari sostituito da una piana disseminata di ecomostri per il parco eolico (ah, la svolta green del capitalismo!). Ogni volta che si tocca con mano quanto il mondo in cui viviamo sia artificioso, del tutto innaturale, mentre osserviamo l’orso, il pitone, il delfino o la leonessa di turno al di là di una gabbia, di un recinto o di una teca di vetro, viventi non più selvaggi e rinchiusi nell’ennesimo parco faunistico o tracciati nella riserva naturale.

Ma se a questo sbigottimento seguisse una messa in discussione totale e profonda del mondo che conosciamo… Ecco, allora esisterebbero altri orizzonti e le domande che verrebbero poste sarebbero certamente ben diverse, ad esempio, dalla questione sollevata diversi giorni fa: “esiste una correlazione fra la diffusione del Covid-19 e l’inquinamento dell’aria?”. Diserteremmo, così, la battaglia dialettica fra coloro che si accorgono della devastazione solo o soprattutto dai gradi della temperatura media della superficie terrestre o, ancora, dalle tonnellate di emissioni di Co2 – che, in questa particolare circostanza, diminuiscono per il temporaneo blocco di molte attività produttive, nonché per la riduzione dei trasporti, dello smog e del traffico.
Ignoreremmo le considerazioni di chi risponde a questa domanda avendo in testa sempre e solo numeri e tendenze: “a febbraio le misure adottate dalla Cina hanno provocato una riduzione del 25 per cento delle emissioni di anidride carbonica rispetto allo stesso periodo del 2019 (…). Tra l’altro, secondo una stima questo ha evitato almeno cinquantamila morti per inquinamento atmosferico, cioè più delle vittime del Covid-19 nello stesso periodo”. Allo stesso modo, non ci lasceremmo ingannare da chi invece ha la presunzione di sembrare lungimirante, appellandosi alla cosiddetta transizione energetica, destinata al fallimento: “(…) l’andamento delle emissioni non dipende solo da quello dell’economia globale, ma anche dalla cosiddetta intensità di emissione, cioè la quantità di gas serra emessa per ogni unità di ricchezza prodotta. Normalmente l’intensità di emissione si riduce con il tempo per effetto del progresso tecnologico, dell’efficienza energetica e della diffusione di fonti di energia meno inquinanti. Ma durante i periodi di crisi questa riduzione può rallentare o interrompersi. I governi hanno meno risorse da investire nei progetti virtuosi e le misure di stimolo tendono a favorire la ripresa delle attività produttive tradizionali. Se come molti temono la Cina dovesse rilanciare la costruzione di centrali a carbone e altre infrastrutture inquinanti nel tentativo di far ripartire l’economia, a medio termine gli effetti negativi potrebbero cancellare qualunque miglioramento dovuto al calo delle emissioni.” (*)                                                                                                                 La lista potrebbe anche fermarsi qui, ma fra i tecnocrati che si sono affannati nell’indagine di questa misteriosa correlazione, c’è un’altra dichiarazione che merita di essere presa in considerazione perché, più di tutte le altre, è emblematica dell’insensatezza e della più radicata disperazione (nel senso etimologico di “assenza di speranza”) che alcune ormai ripongono nel genere umano. Perché se, da un lato, non è accertato che le cosiddette polveri sottili abbiano agito da vettori del coronavirus, favorendone la diffusione, e se dall’altro è noto che vivere in zone particolarmente inquinate incide sulla presenza di malattie respiratorie o cardiovascolari croniche, “la covarianza fra condizioni di scarsa circolazione atmosferica, formazione di aerosol secondario [che comprende particelle derivate da processi di conversione, ad es. solfati, nitrati e altri composti organici], accumulo di Pm [il particolato, ossia l’insieme delle sostanze sospese in aria] in prossimità del suolo e diffusione del virus non deve, tuttavia, essere scambiata per un rapporto di causa-effetto”. E quindi, venendo a mancare l’unica possibile chiave di interpretazione della realtà, segue la conclusione che sembra uno scherzo di pessimo gusto: “si ritiene che la proposta di misure restrittive di contenimento dell’inquinamento come mezzo per combattere il contagio sia, allo stato attuale delle conoscenze, ingiustificata, anche se è indubbio che la riduzione delle emissioni antropiche, se mantenuta per lungo periodo, abbia effetti benefici sulla qualità dell’aria e sul clima e quindi sulla salute generale” (**). In parole povere, perché limitare le emissioni se non è scientificamente provato che il particolato atmosferico ha favorito in maniera diretta la diffusione del virus, in un legame di causa-effetto? Perché limitarle in generale se sappiamo che la loro riduzione incide “solamente” sulla qualità dell’aria, sul clima e sulla salute del corpo? Sia chiaro che non intendiamo chiedere a nessuno di ridurre le emissioni perché non troviamo nessun interlocutore né fra gli specialisti da strapazzo, né fra i politicanti delle conferenze sul clima. Ci diamo invece ad una risata di cuore, quando non ci ricordiamo che buona parte della devastazione ambientale dipende da questi ricercatori-kamikaze; quando ci scordiamo di scorgere in questa mentalità un fondamento del dominio della tecnoscienza, insieme al vil denaro e ai rapporti di potere-oppressione. Lasciamo un attimo questi pensieri da parte, che se no la nostra risata rischia di farsi ghigno amaro. E d’altro canto sbagliamo pure noi, non dovremmo stupirci così davanti a tutto questo, perché come qualcuno scrisse qualche tempo fa: “la civilizzazione è monolitica ed il modo civilizzato di concepire tutto ciò che è osservabile è anch’esso monolitico” (***). E purtroppo torna: in questo mondo tecno-scientifico la complessità del reale non può che essere appiattita fino alla parodia di se stesso per legittimare la progressiva (auto)distruzione del pianeta e del vivente.

In tempi passati, molte streghe hanno sfidato l’esistente, tramandando antichi saperi sulla natura e sul corpo non demonizzato, rifiutando la legge del padre, del prete, dell’erudito e del re, e crediamo che in salsa contemporanea disconoscerebbero la legge scellerata di questi tecno-stregoni. Con buona probabilità non ammetterebbero nemmeno la validità delle domande riportate all’inizio di questo testo, dato che non possono esserci risposte assolute, ma solo ragioni concomitanti, dubbi e interrogativi. Vogliamo seguire le orme di quelle streghe nelle nostre ultime riflessioni.
Consideriamo i primissimi focolai di diffusione del Covid-19 – la provincia industriale dello Hubei in Cina e la Pianura Padana in Italia (fra bassa Lombardia ed Emilia: Lodi, Codogno, Piacenza, Bergamo e Brescia): se pure non confermano la misteriosa correlazione, alludono al fatto che zone simili, così densamente popolate, industrializzate ed inquinate, sono terreno fertile per agenti patogeni, sia perché ne favoriscono in qualche modo la proliferazione, sia perché la salute fisica di chi ci vive è già indebolita. Soprattutto l’una o l’altra o entrambe le ragioni insieme, in quale misura si combinano fra di loro o con ulteriori ragioni non è dato sapere. Asma, diabete, obesità, tumori, malattie (neuro)degenerative, malattie respiratorie e cardiocircolatorie croniche – oltre all’età avanzata – sembrano essere ulteriori fattori di rischio per chi dovesse soffrire di Covid-19, dato che questo potrebbe sviluppare gravi sintomi (fra i più noti, le crisi respiratorie acute). Alcune di queste patologie, peraltro, sono altrimenti dette “malattie della civilizzazione”, la cui comparsa sembra essere legata al consumo di cibi raffinati, fra cui rientrano di certo i prodotti industriali delle coltivazioni e degli allevamenti intensivi.                                                        E ancora: questa epidemia si inserisce nella lunga serie di quelle che si sono susseguite nei secoli, che si sono fatte più frequenti in presenza di agglomerati urbani o di viaggi intercontinentali e che, in ogni caso, hanno rimesso in questione il contatto fra l’animale umano e il non umano. Solo per citare le epidemie di malattie zoonotiche (cioè che si trasmettono dall’animale non umano a quello umano, attuando il “salto di specie”) degli ultimi 50 anni: la Sars e la Mers (entrambe sindromi respiratorie, nel secondo caso è detta del Medio Oriente), l’Hiv/Aids, l’influenza suina e l’aviaria, la febbre Dengue, l’ebola ed ora il Covid-19. Le ultime due sembrano, tra l’altro, avere in comune il pipistrello come animale non umano da cui poi si sarebbe originato il primo passaggio del virus all’umano di turno, che si guadagna il titolo di “paziente zero”. Nel caso di questo coronavirus, a parte le tanto millantate zuppe di pipistrello o di serpente (il più becero esotismo non è ancora morto in Occidente!), sembra che il contatto possa aver avuto luogo nei mercati neri in cui vengono commerciati animali selvatici o ai margini delle periferie urbane, in cui i pipistrelli si muovono in cerca di cibo. Quale che sia il caso in questione, ci sembra importante riconoscere lo sconfinamento di uno dei protagonisti del contagio nella sfera vitale dell’altro: che piacere trarrebbe, infatti, il pipistrello dallo stare in mezzo alle persone, se non fosse che il suo habitat di sempre è diventato adesso parte della città? Di certo gran poco, a maggior ragione se pensiamo che rischia di essere inserito a forza nel contrabbando di animali selvatici come merce di scambio, accanto ad altri di ogni specie. Si tratta, d’altronde, di una florida attività mondiale a cui spesso partecipano anche sparute comunità indigene che, vedendosi spossessate di buona parte dei propri territori (a causa della deforestazione o delle multinazionali agroalimentari), ripiegano sul bracconaggio e talvolta sul contrabbando di legname per poter sopravvivere. Così facendo la mercificazione è davvero totale: perfino i rapporti di coesistenza simbiotica e secolare fra queste comunità, il vivente e ciò che restava del selvaggio attorno a loro devono scomparire per far spazio all’autodistruzione dettata dal profitto. Nulla può resistere all’inarrestabile avanzata del progresso, nessun luogo può sfuggire alla contaminazione umana di chi crede nella validità della “civilizzazione”.                                                     Infine, a cascata: l’urbanizzazione e le malsane concentrazioni demografiche, gli allevamenti intensivi dell’orrore, le immense monocolture legate a doppio filo coi cicli di carestie e l’impoverimento della terra, l’incessante flusso di merci e di persone in movimento in ogni parte del globo, la devastazione ambientale di ogni ecosistema e la scomparsa del selvaggio, l’ennesima nocività giustificata dal sistema energivoro, il crollo della biodiversità, gli OGM a buon mercato e tutti i processi di manipolazione genetica del vivente promossi dalle biotecnologie… Quando fermare l’enumerazione dei misfatti della devastazione? Non c’è modo, perché ci sono troppi equilibri che sono stati spezzati; in alcuni casi abbiamo già constatato le conseguenze nefaste di questa rottura, in altri casi avremo presto modo di scoprirlo. La partita sembra già persa in partenza (e forse lo è per il genere umano, ma non per gli altri viventi) ma varrebbe comunque la pena fare
almeno un ultimo tentativo. Last shot.
Al posto di fare eco al vicolo cieco delle domande iniziali (“perché questa pandemia? da dove è arrivato questo virus?”) quelle streghe si darebbero alla possibilità e, per come ce le immaginiamo, rischierebbero il tutto per tutto pur di aprire altri orizzonti. Azzardando così domande diverse: “Dove troviamo la devastazione? Chi la porta avanti e in che modo? E ora, che fare?” – ma senza chiederci quanto tempo fa è cominciata questa devastazione totale, perché il rischio è di perderci nei meandri della storia e delle interpretazioni, ma soprattutto di farci perdere quella sensazione di pancia che fa sentire sotto scacco e che alimenta la nostra rabbia. Ci basta sapere che la devastazione esiste ed è continua. Non pensiamo che sia una catastrofe perché non è un evento inaspettato, bensì è la prevedibile (anche se non in assoluto) conseguenza di una guerra al vivente che viene perpetrata quotidianamente da persone, aziende, ricerche ed istituzioni – tentacoli di questo mortifero dominio tecno-scientifico.

Addì, 28 marzo 2020

una strega nemica di ogni corona


P.S. L’espressione, presente nel titolo, “morbo che infuria” non intende avere nessuna attinenza coi versi di qualche nazionalista italiota. E il morbo di cui scriviamo non è di certo il Covid-19.

(*) https://www.internazionale.it/opinione/gabriele-crescente/2020/03/19/coronavirus-clima  (**) https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2020/03/22/coronavirus-studio-legame-con-lo-smognon-e-provato_de96c12d-6813-4702-9cdc-a7cbdcc73e69.html
(***) Cit. dal testo tradotto “Nature as spectacle. The image of wilderness vs. wildness” (1991) e contenuto nella raccolta “Saggi e polemiche” (Hoka Hey! Ed.) di Feral Faun / Wolfi Landstreicher

Coronavirus: in Sardegna non si fermano le industrie della guerra

Qui di seguito, una breve diretta di Radio Onda Rossa sulla mancata chiusura delle industrie di guerra nel quadro del ridimensionamento delle attività produttive non essenziali, con un commento del collettivo A Foras rispetto al caso della Sardegna.

Coronavirus: in Sardegna non si fermano le industrie della guerra

 

Coronavirus: in Sardegna non si fermano le industrie della guerra

Emergenza Coronavirus nella base Usa che ha ospitato i piloti dell’Aeronautica italiana

Salgono a quattro i militari delle forze armate Usa che nelle ultime ore sono risultati positivi al Coronavirus (COVID-19) nella base aerea di Nellis (Nevada) dove si è appena conclusa l’esercitazione Red Flag a cui hanno partecipato migliaia di uomini di Stati Uniti, Germania, Spagna e Italia.

“Tutti i membri in servizio sono stati sottoposti a controlli sanitari e posti in isolamento”, riferisce il Comando di US Air Force.  “Uno di essi appartiene ad un’unità geograficamente seprata del 57° Wing di stanza nella base aerea di Fairchild, Washington. Il Comando dell’Aeronautica militare di Nellis lavora in stretto contatto con le autorità sanitarie federali, statali e locali per assicurare il coordinamento nella prevenzione e nelle necessarie risposte da dare. Si monitorerà costantemente la situazione e si forniranno ulteriori informazioni appena possibile”.

L’allarme nella grande base aerea del Nevada era scattato giovedì 19 quando i test avevano accertato il contagio da coronavirus di “uno dei militari Nato” partecipanti a Red Flag 20-02. “Le operazioni aeree dell’esercitazione si sono appena concluse e il personale partecipante sta per rientrare nelle rispettive basi di appartenenza”, aveva dichiarato il portavoce di US Air Force”. Tra essi ci sono anche i piloti e i tecnici dell’Aeronautica italiana provenienti dalle basi di Pisa, Grosseto, Gioia dl Colle, Amendola, Pratica di Mare e Trapani-Birgi. “Il nostro deployment operativo e logistico in Nevada è stato portato avanti come pianificato, nonostante i concomitanti sforzi organizzativi in campo nazionale nell’ambito delle attuali azioni di contrasto e gestione dell’emergenza COVID-19”, aveva irresponsabilmente dichiarato lo Stato maggiore alla vigilia delle esercitazioni negli Usa.

“Gli assetti italiani, nelle due settimane di esercitazione, hanno realizzato circa 200 ore di volo in un environment addestrativo unico al mondo, implementando l’attività di integrazione di assetti eterogenei dell’Aeronautica Militare in scenari non replicabili su territorio nazionale”, riporta invece la nota di stamani della Difesa che non fa riferimento alcuno all’epidemia scoppiata nella base di Nellis. “Per l’Aeronautica Militare ha rappresentato il più importante evento addestrativo del 2020, per la prima volta in assoluto con tre tipologie di velivoli: gli F-35 del 32° Stormo, gli Eurofighter del 4°, 36° e del 37° Stormo ed il CAEW del 14° Stormo di Pratica di Mare”. L’Aeronautica non ha comunicato eventuali provvedimenti di quarantena per i reparti che rientrano in Italia da Red Flag. Al contrario sono state resi noti nei particolari tutti gli interventi che vedono protagonista la forza armata nella campagna nazionale di contenimento anti-coronavirus. “Sono undici ad oggi le missioni di trasporto effettuate per trasferire in sicurezza pazienti da un ospedale all’altro” scrive lo Stato Maggiore. “Per fronteggiare l’emergenza è stato creato un hub temporaneo presso la base aerea di Cervia, dove sono sempre pronti al decollo elicotteri HH-101 ed equipaggi del 9° e del 15° Stormo, nonché team di medici ed infermieri della Forza Armata specializzati in trasporti in alto bio-contenimento. Sono sei i trasporti effettuati dai velivoli C-130J della 46^ Brigata Aerea per il trasporto di pazienti di Bergamo. In ognuno degli interventi, il velivolo, in stato di allerta sulla base di Pisa, ha prelevato sull’aeroporto di Cervia il team di bio-contenimento, per poi dirigersi verso l’aeroporto di Orio al Serio per l’imbarco dei pazienti.  Nelle ultime due settimane, inoltre, sono stati effettuati altri cinque trasporti di questo genere con gli elicotteri HH-101 del 15° Stormo, con il supporto anche di equipaggi del 9° Stormo di Grazzanise”. Il 19 marzo sono pure atterrati nell’aeroporto di Pratica di Mare il velivolo KC-767 del 14° Stormo ed un C-130J della 46^ Brigata Aerea di Pisa, partiti entrambi all’alba da Colonia, in Germania, con un carico di circa sette tonnellate di attrezzature per l’assistenza respiratoria ed altri apparati di supporto e materiale sanitario.

 

Emergenza Coronavirus nella base Usa che ha ospitato i piloti dell’Aeronautica italiana

Non tutto può essere militarizzato

“Basta spioni sui balconi – abbiamo già abbastanza polizia”

Non serve più raccontare territorio per territorio l’arrivo dei militari.
Sui media locali si può leggere come ogni governatore regionale utilizzi pretesti più o meno ufficiali, decreti legge, DPCM, appigli legislativi di ogni tipo per far sì che le proprie decisioni non cozzino con la famosa Costituzione – e che nessuno metta in dubbio l’utilità di ogni singola decisione che superi a destra i provvedimenti del Governo! I più accaniti sono i governatori leghisti, che non vedevano l’ora di poter utilizzare a piene mani i loro “piccoli” poteri locali per ottenere un territorio come lo hanno sempre sognato.

Da più parti d’Italia compagni e compagne segnalano l’evolversi della situazione con il passar dei giorni, l’utilizzo da parte del potere di espedienti più o meno nuovi. Quel servizio creato da radio come Radio Blackout a Torino, dove da anni gli ascoltatori segnalano quotidianamente i posti di blocco o i controllori sui tram in città, risulta oggi ancora più importante nel momento in cui tutti siamo sottoposti a controllo: ci troviamo a cogliere l’ utilità (in senso stretto) di uno strumento come una radio. Di fronte a veri e propri check-point di militari armati di mitra che non chiedono documenti e basta, ma puntano le pile in faccia, tutta la popolazione diviene criminale appena si trova fuori casa senza un motivo che rientri nelle ordinanze.
Ma accanto ai controlli dei militari sulle strade, o ai droni che sorvolano città e spiagge, lo Stato sta utilizzando anche vecchi metodi per controllare ogni anfratto del territorio; ecco allora che si spolverano i vecchi anfibi di ex carabinieri e gli scarponi della Forestale per controllare i sentieri dove le persone, di solito, si sgranchiscono le gambe. Luoghi in cui, fino a qualche giorno fa, in molti disobbedivano agli ordini allungando magari la strada nell’andare a fare la spesa ed evitando così incontri non voluti con mimetiche o divise di ogni ordine e grado.

Ci stiamo trovando in un territorio militarizzato da Nord a Sud, ma siamo convinti che non tutto può essere tenuto sotto controllo. Chi è abituato a non volersi far notare troverà altri e nuovi accorgimenti nella corsa ad ostacoli per andare a trovare la propria amata o il proprio amato. Escogiterà il modo per non sentirsi il fiato sul collo nelle città programmate al controllo totale tramite non solo le telecamere pubbliche o private, ma anche attraverso tutti quegli aggeggi che conteggiano il passaggio dei pedoni, i lampioni “intelligenti”, i sensori. E troverà il modo di aggirare anche gli sguardi che vengono da balconi e finestre, dai volti di coloro che purtroppo, in questo momento, si trasformano in spioni. Volti di individui che non capiscono che questo stato di cose sarà la normalità e che presto, magari, non avranno più un soldo in tasca perché banche e governi decideranno che saranno ancora una volta gli sfruttati a pagare il terremoto finanziario in atto.
Forse, in quel momento, si ricorderanno che il proprio comportamento era dannoso alla propria e altrui libertà. Comprenderanno che esiste un reale scarto tra padrone e lavoratore, fra l’etica degli uomini e donne liberi e quelli di Stato, e che non saranno solo i cosiddetti sovversivi o untori ad aver bisogno di trovare qualche porta aperta quando ci sarà dà agire in modo illegale per portar a casa la pagnotta.

Legalità e illegalità: questo è un annoso problema su cui forse in un futuro non lontano in tanti si interrogheranno, e che ora è molto difficile da far penetrare nel dibattito pubblico o anche in una semplice discussione al supermercato. Se non rispetti le regole imposte sei prima di tutto un’irresponsabile e meriti una punizione, anche qualora tu riduca i rischi di contagio al minimo e agisca secondo principi di precauzione e responsabilità, fermamente decisa a non barattare in blocco la tua libertà in cambio di una sicurezza immaginaria.
E saranno sempre loro, gli uomini e le donne in uniforme, a stringerci il braccio per portarci nei luoghi dove ora si contano i lividi e le bare, in quei luoghi su cui, nel mondo dei social e sulla carta dei pennivendoli, un sacco di saliva è stata sputata con le parole più indegne. Le carceri si affolleranno ulteriormente con l’ingrossarsi della schiera degli esclusi e con il dilatarsi della presenza militare.

Ciononostante, oggi c’è chi trasgredisce a questo mondo di controllo, e non perché se ne freghi degli altri o dell’influenza Covid-19, bensì perché intravede già che l’oggi sarà il futuro che ci aspetta come norma, e perché essere privati della libertà venendo rinchiusi in una casa-galera non è cosa per tutti. Non è una questione di irresponsabilità.
Non c’è anfibio, drone, telecamera che fermerà chi vede nella mimetica il proprio oppressore e si sa che in questo paese gli sfruttati e le sfruttate hanno sempre trovato modi nuovi, con sorprendenti astuzie, per illudere il controllore di turno.

Non tutto può essere militarizzato