La pandemia della paura

C’era uno slogan anarchico che mi piaceva particolarmente e che recitava grosso modo così: “Una società che incarcera è essa stessa un carcere”. Questo oggi è più vero che mai e al tempo del Covid-19 si può ben dire che non c’è più alcun dubbio sulla reale natura di tutte quelle strutture della civiltà che oggi si sono dimostrate delle vere e proprie gabbie e dei sistemi oppressivi come la città, lo stato, l’esercito, le tecnologie e la scienza. Nulla si può scindere dall’attuale sistema di dominio, sono tutti tasselli che compongono un unico quadro che oggi si è mostrato in tutta la sua terrificante realtà. Risulta così, ormai evidente, che tutto quello che sta succedendo non è semplicemente un’”emergenza” sanitaria, ma una riorganizzazione in chiave tecnico scientifica delle nostre vite, per costruire quel mondo nuovo che non ha più bisogno di esseri umani, ma di ingranaggi della Megamacchina, un mondo di perfetti ammalati alla continua dipendenza delle droghe
vendute e commercializzate da Big Pharma!

«La piena realizzazione di noi stessi inizia col riconoscere ciò che non siamo»
Laurens Van Der Post

In questi anni l’idea chiara che mi sono fatto è che la civiltà sia un’incubatrice, che la malattia e il deperimento dei nostri corpi siano un sacrificio che dobbiamo compiere sull’altare del progresso e della modernità. Abbiamo imparato, e siamo stati condizionati molto bene in questo, che andare avanti, sognando un futuro migliore, è l’unica cosa che conta, ma nessuno ci ha mai detto che per fare ciò dobbiamo immolare la nostra sanità mentale, la nostra felicità e tutte quelle capacità umane che da sempre ci hanno  contraddistinto come specie e che ci hanno permesso di apprezzare le piccole cose della vita e di essere felici, nonostante tutto.
I Boscimani, che erano una tribù indigena di cacciatori-raccoglitori (parlo al passato perché ciò che di loro è rimasto oggi non fa onore alla storia millenaria di questo popolo), diceva con ostinazione che la verità, il bello e le più grandi risposte della vita andavano ricercate nel piccolo, in ciò che appariva “inutile” o “di poco conto”. Ecco allora come Laurens Van Der Post, ispirato dai tantissimi anni trascorsi con i boscimani, potè scrivere le seguenti parole: «le loro azioni [degli uomini sulla terra] erano come luce delle stelle, si
concretavano al momento in cui erano compiute, ma il loro significato, la luce che consisteva nel loro scopo, la loro essenza, richiedeva anni per affiorare alla coscienza, per non parlare poi di attingere la chiarezza nello spirito umano. Era impossibile vivere, quindi, senza mostrare una grande reverenza nei confronti di ciò che era piccolo. […] Il significato di ciò che è grande poteva inverarsi solo in quanto era significativo nel
piccolo» i .
Ecco allora che oggi, al contrario dei Boscimani che guardavano al piccolo per godere della vita e assaporare la semplicità della loro esistenza, siamo costretti a guardare al nostro passato, ad analizzare ogni piccolo segno, ogni passo fatto, per renderci conto che tutto quello che viviamo oggi non è altro che il prodotto di errori su errori, di devastazioni dopo devastazioni, di pezze messe su ferite che non sono mai riuscite a rimarginarsi, ma che noi abbiamo creduto di poter curare con sempre nuove tecnologie, nuova scienza,
nuove forme di governo non riuscendo a capire, nella nostra cecità, che il problema era un altro, che questi non erano che i sintomi di una malattia molto più profonda e lacerante.

«Un’occhiata alle città tutte identiche che stiamo costruendo dappertutto nel mondo
dovrebbe essere sufficiente a dimostrare che questo genere di progresso è come il
proliferare di una singola cellula a spese di tutte le altre, la cellula che produce il cancro
che poi uccide l’intero corpo».
Laurens Van Der Post

Il passaggio probabilmente cruciale nella nostra storia è rappresentato dallo stanziamento e da tutto quello che questa “scelta” ha comportato in termini di dominio, potere, addomesticamento, controllo, sfruttamento e mercificazione della natura. Indubbiamente, al di là del pensiero con la quale ognuno può valutare se sia stata una scelta secondo lui giusta o meno, è da questo momento che fanno la comparsa gli stati, gli eserciti, il potere e cioè tutte le forme patologiche di dominio, ma non solo. È sempre da questo momento e cioè da quando abbiamo deciso, di ammassarci in città, di vivere a diretto contatto con gli animali addomesticati, di coltivare e disboscare zone sempre più vaste, che sono insorte quelle che oggi chiamiamo malattie!Tutto questo non è sempre esistito e bisogna dirlo e urlarlo a gran voce soprattutto oggi che questa è la causa della prigionia forzata di tutta la specie umana civilizzata, dall’Italia agli Stati Uniti, dalla Corea ad Israele, dalla Spagna al Libano. Indipendentemente dalle cause di quella che oggi viene definito Covid-19, che ieri si chiamava SARS e che domani avrà necessariamente un altro nome per le stesse paure, non cambia ciò che è sotto i nostri occhi e cioè il fatto che è la civiltà, il nostro stile di vita, la causa di tutto ciò.
Jared Diamond sotto questo punto di vista, in “Armi, Acciaio e Malattie”, l’ha spiegato in maniera molto chiara scrivendo che: «i peggiori killer dell’umanità nella nostra storia recente (vaiolo, influenza, tubercolosi, malaria, peste, morbillo e colera) sono sette malattie evolutesi a partire da infezioni animali» ii . Diamond continua poi dicendo: «gli insediamenti agricoli attirarono i roditori, che sono notori veicoli di malattie. Il disboscamento, infine, rende l’habitat ideale per il prosperare della zanzara anofele che porta la malaria. Se la nascita dell’agricoltura fu una festa per i nostri microbi, l’arrivo delle città fu addirittura la manna dal cielo: in città c’erano molti più ospiti potenziali, e in condizioni igieniche ancora peggiori. […] Un altro momento di gloria nella storia dei germi fu l’apertura delle rotte commerciali, che trasformarono i popoli d’Europa, Asia e Nord-Africa in un gigantesco banchetto per microbi» iii .
Che forse tutto questo non possa essere trasposto qui, oggi, per analizzare il “cattivo” virus del Covid-19? Forse che i più grandi focolai non sono le zone più densamente abitate e più inquinate dei paesi colpiti? Forse che il veicolo attraverso il quale tutto ciò ha assunto caratteri planetari non sia dovuto al fatto che la globalizzazione dell’economia è arrivata a colonizzare ogni angolo di questo mondo? È davvero tutta colpa della “natura cattiva” come da sempre dicono?
Quella che viene combattuta (per usare il gergo militare e scientifico che piace tanto ai lor signori) oggi negli ospedali è una battaglia persa. Non si potrà mai risolvere un problema partendo dall’effetto e quello che in questi giorni viene ripetuto ovunque è che “andrà tutto bene” e che “tutto si risolverà per il meglio”, ma perché dovrebbe essere così?
Quello che sta succedendo sembra avere più a che fare con un progetto politico che con un’emergenza sanitaria. Sembra che qui a voler essere estirpata sia l’umanità piuttosto che una malattia che, nata in seno a questa civiltà, non ha fatto altro che approfittare del terreno fertile sul quale si è posata per diffondersi in tutto il globo.

«…mio caro Bernard, penso che abbiate ragione. Il terreno è ben più importante del
microbo. Il terreno è tutto, il microbo è nulla…»
(lettera di L. Pasteur a C. Bernard)

Quando però parliamo delle malattie non dobbiamo dimenticarci che se esse hanno avuto un terreno politico- sociale, che ha reso estremamente facile la diffusione delle epidemie, con le città e i grandi assembramenti urbani, questo però è stato reso possibile anche e soprattutto dall’influenza che l’agricoltura, attraverso il suo percorso di millenni, ha avuto nel rendere la specie umana più debole e di salute cagionevole.
Innanzitutto bisogna ricordare, e qui possiamo citare John Zerzan, che «l’agricoltura rende possibile una divisione del lavoro molto più marcata, fissa le fondamenta materiali della gerarchia sociale e dà inizio alla distruzione dell’ambiente. Sacerdoti, sovrani, corvè, discriminazione sessuale, guerre sono solo alcune delle immediate conseguenze specifiche» iv . Indipendentemente dal fatto che se ne voglia prendere atto o meno,
l’agricoltura (e l’allevamento), come dominio dell’uomo sulla natura, opera un profondo cambiamento non solo in termini di devastazione ambientale, ma agisce anche ad un livello inconscio e psicologico modificando il nostro modo di rapportarci sia con l’ambiente che ci circonda (trasformandolo in una merce dal quale trarre il massimo del profitto) sia influenzando i rapporti con gli altri che da quel momento non saranno più di cooperazione, ma si trasformeranno in rapporti coercitivi di potere e di conflittualità (la proprietà privata, diretta conseguenza dell’agricoltura e dello stanziamento, è emblematica a spiegare ciò).
La grande varietà di cibo, viene ripetuto come un mantra ormai addirittura anche dai medici, è fondamentale per mantenere un corpo in salute. Infatti una cosa è usare integratori, naturali o sintetici, di vitamine come surrogati dei cibi naturali (in questi giorni, ad esempio, i medici hanno scoperto l’acqua calda e viene consigliato di assumere vitamina D sintetica per rafforzare il sistema immunitario, quando basterebbe  invece violare questa stupida quarantena ed esporsi al sole primaverile!), un’altra è attraverso l’alimentazione fornire tutte le sostanze nutritive di cui il nostro corpo necessita.
Parlando così di alimentazione e di “terreni fertili” per lo sviluppo della malattie, bisogna notare che «se gli esseri umani del paleolitico godevano di una dieta estremamente varia, cibandosi di alcune migliaia di specie di piante, la coltivazione ha ridotto drasticamente queste risorse.» v e Zerzan continua, «la fine della vita del raccoglitore-cacciatore determinò un calo di taglia, statura e robustezza dell’apparato scheletrico e favorì il
diffondersi della carie dentale, delle carenze alimentari e di gran parte delle malattie infettive» vi . Se mettiamo quindi insieme queste conoscenze che ci derivano da molte fonti antropologiche e ascoltiamo ciò che ormai da due secoli ci dicono gli Igienisti, e cioè i rappresentanti della corrente dell’Igienismo Naturale, ci possiamo rendere facilmente conto di quanto fondamentalmente non sbagliano affatto quando essi dicono «il
virus è niente, il terreno è tutto».
Sì perché tutto dipende dal terreno bio-chimico sul quale i batteri si poggiano, se una persona è sana infatti, e per sana si intende una persona non stressata, che svolge attività fisica, che prende il sole, non assume droghe e farmaci vari e che si alimenta in maniera naturale e quindi senza cibi industriale e pieni di pesticidi, non si ammalerà. E questo non lo dico io, ma basta guardare alla storia dell’Igienismo che è piena di esempi e
dimostrazioni pratiche al riguardo. Bisogna poi ricordare anche che di batteri noi siamo fatti e che siamo da essi praticamente circondati in ogni momento della nostra vita convivendoci in maniera armoniosa e simbiotica.
Quindi oggi non si nega l’esistenza di persona ammalate e ricoverate negli ospedali, ma si vuole porre l’accento sul fatto che se ci sono così tante persone malate (e il Covid-19 probabilmente è solo l’ultimo dei problemi) è perché il nostro modo di vivere, di alimentarci, e di delegare la nostra salute a specialisti ci ha resi dei malati cronici incapaci di essere padroni delle nostre vite e di decidere della nostra salute.
Sempre citando Jared Diamond: «alla fine ci accorgiamo che solo una dozzina di specie vegetali costituisce più dell’80 per cento del raccolto annuo sulla terra: sono cinque cereali (grano, mais, riso, orzo e sorgo), un legume (la soia), tre tuberi (patata, manioca e patata dolce), due piante zuccherine (la canna e la barbabietola da zucchero) e una pianta da frutto (banana). I cereali forniscono da soli più della metà delle calorie consumate dalla popolazione mondiale».
Possiamo trovare altre conferme di questo degrado costante nella nostra alimentazione, che dagli albori dell’agricoltura ci ha portato fino ad oggi, nei resoconti di, ad esempio, Rooney che ci dice come i popoli preistorici trovavano sostentamento in più di 1500 specie di piante selvatiche; di Wenke che ci parla di come tutte le civiltà si sono basate sulla coltivazione di una o più specie di queste sei piante: grano, orzo, miglio, riso, mais e patata; e infine abbiamo Pyke che, senza tanti giri di parole, ci dice come nel corso dei secoli il numero dei diversi cibi commestibili che venivano e vengono mangiati è costantemente diminuito.
È evidente quindi come l’alimentazione moderna sia non solo costituita da cibi morti, inscatolati, conservati, edulcorati e colorati, ma anche molto poco varia e scarsissima di frutta, verdura, semi e soprattutto cibi selvatici (animali e vegetali) che da un punto di vista alimentare sono, senza ombra di dubbio, molto migliori rispetto ai loro discendenti addomesticati e resi più “appetibili” dopo anni di selezioni. Ci si ingozza poi prevalentemente di cereali e legumi alimenti che il nostro corpo molto spesso digerisce poco e male causando infiammazioni all’apparato digerente, fermentazioni e costipazioni che sono la causa di moltissimi mali odierni.
Non è stata però solo l’alimentazione a subire un processo di degradazione nel passaggio da uno stile di vita essenzialmente nomade di raccolta e caccia ad uno stanziale civilizzato, ma si potrebbe parlare a lungo del notevole calo di attività fisica fondamentale per il corretto funzionamento del nostro organismo, della minore esposizione ai raggi del sole che faticano ad entrare nelle città e ancor di più nelle nostre case, dello stress e
della paura che si sono impadroniti delle nostre vite e infine come non ricordare della degradazione spirituale dovuta ad una vita che impone la prevaricazione come mezzo per rapportarsi all’altro/a. Tutto ciò ha fatto di noi una specie perennemente ammalata, perennemente alla rincorsa di una felicità e di un benessere che non possono essere ottenuti se non attraverso la messa in discussione di tutto ciò che ci circonda. Tant’è vero che è sempre Zerzan che ci dice come «DeVries ha citato un’ampia serie di paragoni che permettono di constatare la superiorità dei raccoglitori e cacciatori in materia di salute, tra cui l’assenza di malattie degenerative e di infermità mentali, nonché la capacità di partorire senza difficoltà e dolore. Ha anche rilevato che tali caratteristiche tendono a deperire in seguito al contatto con la civiltà» vii e, continua Zerzan,«nel complesso, la dieta dei raccoglitori è migliore di quella dei coltivatori, l’inedia è molto rara e lo stato di salute è generalmente migliore, con molte meno malattie croniche» viii .
E proprio oggi, a conferma del fatto che Big Pharma non ha alcun interesse alla nostra salute, i diktat emessi a gran voce dagli altoparlanti del potere invocano la segregazione in casa, l’isolamento, la quarantena, l’astinenza dal sole e dall’aria pulita, il non contatto con gli altri. Ironico o grottesco?
Forse ci sarebbe bisogno di riflessioni maggiormente approfondite su ognuno dei punti sopra citati, ma come non fa a saltare subito all’occhio che in simili condizioni di isolamento e di allontanamento dai nostri bisogni fisiologici naturali e sociali, l’essere umano è perduto? Il contatto umano di un abbraccio, di un bacio o di una carezza, l’incrociare un viso sorridente (invece che coperto da una stupida e inutile mascherina), sono indubbiamente degli antidolorifici naturali che ci permettono, o per lo meno ci permettevano, ancora di vivere nonostante i disastri che attanagliano il nostro tempo. Per troppo tempo è stato sottovalutato questo aspetto, per troppo tempo abbiamo fatto finta di credere che quantità significhi qualità, quando invece i nostri antenati raccoglitori-cacciatori hanno sempre preferito la complicità di pochi individui, l’egualitarismo di
una piccola comunità, ai grandi numeri dei popoli civilizzati, e così oggi ci troviamo a questo disastroso punto, soli e isolati, in balia di chi specula sulla nostra vita e in preda ad una disperazione esistenziale e irrazionale.
Proprio a questo proposito forse basterà ricordare il fatto, narrato molto bene da Van Der Post, in cui i Boscimani del deserto del Kalahari, dopo aver passato tutta la vita dormendo sotto il cielo stellato del deserto e aver vissuto in totale libertà e comunione con gli altri membri della banda, una volta che subivano lo stanziamento forzato in comodi alloggi donati dal governo, essi si lasciavano morire non sopportando le privazioni di quel nuovo stile di vita. Preferivano la morte ad una vita in cattività! Tutto questo è indicativo del processo di addomesticamento e di deprivazione che anche noi ogni giorno subiamo, quando a causa di misure dittatoriali subiamo il confinamento in case che, per quanto siano confortevoli e sfarzose, sono pur sempre prigioni dalle quali non possiamo vedere le stelle, non possiamo toccare il prato e non possiamo stare a diretto contatto con i nostri conoscenti e amici più cari. A riguardo risultano laceranti e forse più chiare, perché arrivano direttamente al cuore, di molte vane parole, la descrizione che Van Der Post fa del suo amico, e guida, Boscimana Dabè: «le regole di comportamento europee che gli erano state imposte […] lo avevano solo reso profondamente triste, e aveva dato ai suoi occhi, quando non era occupato in qualcosa, un’espressione che non riuscivo a sopportare. […] Però, quando fu di nuovo con la sua gente aveva cominciato lentamente a cambiare. […] Il cambiamento si era dapprima manifestato con un aumento di fiducia. […] Poi cominciò a punzecchiarmi un po’, finchè un giorno rise» ix .
Ecco, la domanda da porci è: noi saremo ancora in grado di tornare a ridere dopo tutto questo? Saremo in grado di toglierci quella mascherina dalla bocca, di abbracciare i nostri cari, di non temere di contagiarci facendo l’amore e smetterla di avere paura l’uno dell’altro?
«La verità», recitava una vecchia canzone, «è che vorremmo innamorarci e non ammalarci». Ecco perché penso che l’umanità risulta evidentemente essere ammalata, questo è verissimo, ma non di Covid-19, non di obesità, non di cancro o chissà cos’altro, ma di civiltà, è lì che vanno ricercate le cause dei nostri mali odierni!

«La dimensione umana viene cancellata dai grattacieli, la deprivazione sensoriale si fa più
profonda e gli abitanti sono assaliti dalla monotonia, dal rumore e dalle altre nocività.
Anche il mondo dal cyber-spazio è un ambiente urbano, che accelera il declino radicale
della presenza e del contatto fisico. Lo spazio urbano è il simbolo, in continua progressione (verticale e orizzontale), della sconfitta della natura e della morte della comunità.»
John Zerzan

Si potrebbe citare Kai W. Lee che «alla domanda se fosse immaginabile il passaggio a una città sostenibile: La risposta è no.» x oppure citare James Baldwin che «disse a proposito del ghetto [ma che] può valere pienamente per la città: si migliora soltanto in un modo: radendolo al suolo». Da qualsiasi angolazione la guardiamo, non solo la città ma la civiltà tutta, è un cancro in continua espansione, è un abominio pronto e bisognoso di divorare qualsiasi cosa e che va fermato ad ogni costo.
Sicuramente uno dei pilastri fondanti della civiltà e della nostra società tutta è la paura. La dipendenza che abbiamo instaurato con essa ha scavato dentro di noi mettendo il seme di una paura profonda che coincideesattamente con quella che ha un tossicodipendente di rimanere senza la sua dose giornaliera. Bisogna avere il coraggio di mettere in discussione e affrontare questa paura, ma prima è necessario capire che di quella
sostanza, della civiltà, possiamo fare benissimo a meno come d’altronde la nostra storia ce lo ricorda bene.
Oggi risulta ancora più evidente il fatto che tutto è stato plasmato per fare in modo che questo terrore si impadronisse delle persone, perché fossero portate a stare in casa di fronte ai propri dispositivi tecnologici in attesa della loro dose giornaliera di notizie che deve essere somministrata da parte del governo e dai suoi lacchè.
Oggi questi lacchè hanno il camice bianco, parlano un linguaggio forbito e sono sui libri paga di Big Pharma e per questo pensano di potersi arrogare il diritto di dire a tutti come ci si deve comportare e cosa si può o non si può fare.
Con pochi decreti questi signori, che ora sappiamo essersi uniti nel “Patto trasversale per la Scienza” (che si descrive in maniera abbastanza buffa e emblematica come: “uno strumento di progresso e di civiltà nelle mani dei cittadini”), hanno imposto misure da stato di polizia, hanno limitato ogni libertà, stanno condizionando la nostra esistenza e, dalle ultime notizie di denunce ai dissidenti, vuole farsi portavoce dell’unica verità assoluta che può essere divulgata e guai a chi la contesta. La nuova caccia alle streghe è iniziata e di questo passo i vaccini obbligatori a 7,5 miliardi di persone sarà solo un ovvio e logico step
successivo per questa “razionale” e “scientifica” dittatura!
Le comunità, non è più un segreto, non esistono più, i grandi agglomerati urbani le hanno da tempo fatte a pezzi. Nessuno conosce più nessuno, tutti si guardano con non-curanza e indifferenza, ognuno prova repulsione al contatto con un altro essere umano e tutti provano orrore e paura al solo pensiero di uno starnuto che possa infettarli…è ovvio che quindi sotto questo punto di vista questa “emergenza” ci ha solo reso (o forse ce lo sta solo palesando) più soli, più vulnerabili, più estranei alla realtà fuori dalla nostra porta
e maggiormente pronti a rivalutare entusiasticamente la vita online, la vita sui social-network, insomma quella non-vita alla quale purtroppo sempre più persone fanno affidamento e sulla quale puntano tutte le proprie aspettative di rivalsa.
È vero, la gente non ne può più di stare in casa, non servono a nulla le minacce di carcere o di multe salatissime a fermare i “furbetti” (!) che hanno bisogno di stare all’aria aperta, ma penso che non si possa non constatare che questo alla fine dei conti non sia un valido motivo per non guardare in faccia la realtà e non esserne turbati. In fondo quanti alla fine di tutto ciò non tireranno un sospiro di sollievo e diranno “meno male che c’era la tecnologia”? Eccola la trappola, la nostra amata civiltà non è in grado di sorreggersi senza
tutta questa tecnologia e ci vuole far credere che invece siamo noi essere umani a non poterne fare a meno.
Come sempre, la storia tragicamente si ripete e i problemi tecnologici ancora una volta vorrebbero essere superati con nuova tecnologia, i problemi scientifici con nuova scienza e i problemi di malattie con nuove medicine e veleni che causeranno nuove malattie…in un loop infinito che ci porta dritti verso la morte!
La tecnologia non ci ha salvato, essa ha salvato l’economia da una crisi ancora più profonda, ha salvato i governi che tramite tutta questa tecnologia hanno potuto indirizzare l’opinione pubblica, controllarla e punirla (più o meno) efficacemente (siamo arrivati, per adesso, a 190mila denunce per aver violato i domiciliari); ancora una volta dobbiamo smetterla di pensare che il problema sia il Covid-19, perché qui in ballo c’è molto di più.
Tutto questo credo che rappresenterà ovviamente un momento che farà da spartiacque nella storia, perché probabilmente sarà da questa “emergenza” che la quarta rivoluzione industriale (quella dell’automazione, della robotica, delle scienze convergenti e del transumanesimo) e i suoi sostenitori trarranno nuova linfa, ed è chiaro che qui si deciderà il destino della specie umana.
Ovviamente i piccoli o grandi passi fatti negli ultimi anni nella direzione della riproduzione artificiale dell’umano, della clonazione, delle bio e nanotecnologie erano già un importante incipit, ma non bastavano.
Oggi con la scusa dell’emergenza Covid-19, come di ogni altra “emergenza” nella storia, si stanno ponendo le basi non solo politiche, ma anche sociali per un’acclamazione totale della realtà aumentata, del 5G e di tutto ciò che ci potrà in futuro far sembrare più protetti e sicuri nei confronti non solo di altre possibili epidemie, ma anche della natura malvagia e per tenerci a distanza da quei pericolosi, sporchi e malaticci esseri umani.È così che il pericolo più grande oggi, la reale posta in gioco, è quella di smarrire la nostra umanità (intesa come l’insieme delle capacità umane, empatia in primis). Tutto questo deve essere messo in discussione perché i nostri figli, o comunque le nuove generazioni, in futuro possano ancora avere la possibilità di stupirsi, innamorarsi e godere delle piccole cose, da un tramonto ad un fiore che sboccia, da un abbraccio forte e vigoroso ad una stella cadente.
Da sempre siamo stati schiacciati dal peso delle nostre catene, sono millenni che lavoriamo, viviamo e moriamo alla mercé di un meccanismo che ha come unico scopo la propria riproduzione e il consumo di ogni bene che la natura ci ha donato. Ishmael, il gorilla protagonista del romanzo omonimo di Daniel Quinn, direbbe che stiamo recitando la storia sbagliata e che questa non è assolutamente l’unica storia o la storia, ma
è solo quella che Madre Cultura ci ha insegnato a recitare da 12mila anni a questa parte. L’incantesimo quindi può e deve essere svelato e lo potremo fare solo mettendo da parte la nostra cultura predatrice e prevaricatrice, per lasciare spazio a quell’istintualità che da sempre ha guidato gli uomini non civilizzati nel corso di 3 milioni di anni e che ancora oggi gli permette di vivere in pace e armonia con il proprio ambiente e in una guerra permanente con la civiltà.
Questo forse è l’aspetto che più ci deve colpire, non c’è nulla di ineluttabile nulla è già stato scritto, tutto questo quindi può essere messo in discussione, passo dopo passo, perché l’essere umano è naturalmente Anarchico!
Quindi usciamo all’aria aperta, oggi pulita più che mai per lo meno in pianura padana, e riprendiamoci non solo la nostra salute, ma anche il piacere di una passeggiata in compagnia, del sole che scalda la pelle e l’animo e del vento che ci fa sbattere le palpebre, insomma il piacere di una vita che va vissuta non da dietro
uno schermo, ma nella realtà di tutti i giorni mettendo in discussione ogni verità che ci vorrebbero vendere a buon mercato e costruendo qualcosa di nuovo. La vita può essere molto meglio di questa triste e banale caricatura, la vita è tutta un’altra cosa e come diceva Valery: «Si alza il vento. Bisogna tentare di vivere» xi .

Selvaggia-mente

Per ogni tipo di osservazione, per un confronto o una semplice chiacchierata è attivo il seguente indirizzo
mail: rennaincattivita@insiberia.net
Note:
L. Van Der Post, Oltre l’orizzonte, TEADUE, Milano, 1998.
J. Diamond, Armi acciaio e malattie, Einaudi, Torino, 2014.
iii
Ibid.
iv
J. Zerzan, Futuro primitivo, Nautilus Edizioni, Torino, 2001.
v
Ibid.
vi
Ibid.
vii
Ibid.
viii
Ibid.
ix
L. Van Der Post, Il cuore del cacciatore, Adelphi, Milano, 2019.
x
J. Zerzan, Il crepuscolo delle macchine, Nautilus Edizioni, Torino, 2012.
xi
P. Valery, Il cimitero marino, Cahiers de “Dante”, Parigi, 1935.

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