Prove di lotta ai tempi del corona

Imparare a lottare ai tempi del Coronavirus. Questa l’esigenza al centro del corteo che questa mattina è partito da corso Giulio Cesare 45. Un’esigenza quanto mai impellente viste le crescenti difficoltà economiche che attanagliano tanti e tante, in una spirale che neanche i più ingenui e ottimisti ritengono possa essere fermata dalle iniziative messe in campo dal governo.

Iniziare ad impare a lottare ai tempi del Coronavirus, a partire dal trovare un modo per stare in strada, sentendosi al sicuro da un punto di vista sanitario, e facendo sentire al sicuro chi volesse avvicinarsi. Tutti i manifestanti indossano quindi una mascherina e mantegnono una certa distanza l’uno dall’altro. Chi distribuisce volantini indossa i guanti, e dei pezzi di stoffa usa-e-getta vengono utilizzati per coprire il microfono quando qualcuno vi parla. Attenzioni che accompagnano anche gran parte degli interventi in cui si descrive come comprensibile la paura nello scendere in strada per il timore di contagiare o essere contagiati, ma si ripete con altrettanta insistenza l’importanza di trovare i modi per affrontarla.

Se non ci sono ricette pronte su come fare, per l’assoluta novità di questi problemi epidemiologici, possiamo però esser certi che restare in casa non può essere la soluzione.

Alla lunga, e si tratta di una lunghezza difficilmente misurabile visto che il rischio contagio non sparirà certo con l’inizio della Fase 2 e potrebbero ripresentarsi misure antiassembramento dure a morire, alla lunga, dicevamo, rinchiudersi in questo isolamento e trovarsi da soli a cercar di capire come pagare l’affitto e le bollette, come mettere assieme i soldi per fare la spesa e per tutte le altre esigenze che abbiamo, non farà che aumentare la disperazione e il senso di impotenza.

Rimandare il problema a un futuro quanto mai indefinito non potrà esserci d’alcun aiuto.

Una notevole attenzione e diversi segnali di condivisione e incoraggiamento hanno accompagnato la prima parte del corteo su corso Giulio Cesare fino all’incorocio con corso Palermo. Non appena la manifestazione si è diretta verso corso Vercelli si è trovata alle calcagna alcune camionette della polizia. Allo stesso tempo, alla testa del corteo, è stato sbarrato il passo da un numero ancor più ingente di blindati: alcuni manifestanti sono riusciti a sfuggire alla morsa della polizia e una trentina sono invece rimasti intrappolati. Una trappola che ha fatto saltare tutte quelle misure di distanziamento messe in campo fino ad allora e che ha attirato l’attenzione di numerosi uomini e donne affacciatisi ai balconi e alle finestre per vedere cosa stava accadendo. Dopo un tentativo tanto goffo quanto inutile di portar via microfono e impianto, la polizia si è limitata ad accerchiare i manifestanti mentre altri celerini davano intanto la caccia alle persone sfuggite al fermo. Una situazione di stasi, durata un paio d’ore, che è stata l’occasione per parlare della situazione che stiamo vivendo con i tanti rimasti affacciati ai balconi e con quelli scesi in strada.

Le sensazioni avute in precedenza si sono ulteriormente consolidate in questo imprevisto presidio in corso Vercelli. Dai pollici in alto mostrati da chi non si sentiva di fare di più, agli espliciti applausi provenienti da diverse finestre e balconi, a quanti in strada hanno sfidato il fare minaccioso dei celerini per lanciare delle bottiglie d’acqua o delle merendine o si sono uniti ai tanti cori che intramezzavano gli interventi al microfono. Una solidarietà palpabile che ha permesso di comprendere un po’ meglio l’aria che tira in quartiere, di cui si era già avuto un assaggio domenica scorsa.

Un’aria di cui devono essersi rese conto anche le forze dell’ordine che dopo un primo approccio muscolare hanno optato per una linea più soft, anche se i continui battibecchi tra i dirigenti di piazza mostrano che evidentemente non tutti erano d’accordo. Non accollandosi di caricare tutti di forza sui furgoni e non sapendo bene che pesci pigliare, i questurini hanno alla fine proposto ai manifestanti di lasciarli andar via a gruppi di cinque, distanziati gli uni dagli altri di qualche metro. Le persone bloccate hanno rilanciato chiedendo il rilascio delle due persone fermate nel trambusto e durante le cariche, condizione accettata. Avuta la sicurezza che i due fermati erano liberi, il presidio è tornato ad essere un lungo serpentone, che si è diretto verso corso Giulio Cesare 45, non prima di aver salutato gli uomini e le donne solidali con cui per qualche ora si è condivisa quest’inaspettata esperienza.

Occorrerà continuare a parlarsi e sperimentare forme di lotta in grado di contrastare la miseria che ci si para davanti senza però incrementare il rischio contagio. La manifestazione di oggi è stato un primo tentativo, di certo non esauriente. Una cosa però si respira nell’aria…il coraggio e la voglia di lottare potrebbero diventare contagiose.

 

Prove di lotta ai tempi del corona

Dietro l’angolo pt.3 – Nord sud ovest est

QUALCHE IPOTESI SU COVID 19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO

Saranno innumerevoli gli effetti, i riverberi e gli echi che la presente epidemia di Covid-19 lascerà in seno al consorzio umano, tanto attesi e prevedibili quando impensabili e inauditi. Nelle righe che seguiranno si proverà a seguire una prospettiva che potremmo definire macroscopica. Riteniamo che una mappatura, pur abbozzata, di questo tipo possa essere utile per inquadrare le dinamiche con cui, su un piano più direttamente osservabile, avremo a che fare in un futuro prossimo.

I

L’epidemia ha evidenziato i nervi scoperti del modello di produzione postfordista.

Quello che sembrava il momento più avanzato del capitalismo, non ulteriormente perfettibile, è entrato in profonda crisi dopo appena un mese di blocco pur parziale del mondo. La produzione snella, il sistema just-in-time e gli enormi apparati logistici e comunicativi che sottendono le due principali caratteristiche degli odierni modelli produttivi hanno mostrato inquietanti crepe e debolezze poco prevedibili. Un tale sistema si è dimostrato rivoluzionario in un funzionamento ordinario ma incapace di affrontare battute di arresto indipendenti dal mercato:

  • i famosi colli di bottiglia – gli snodi cruciali dei vari modelli produttivi – sono esplosi;
  • le lunghissime supply chains – che, ironia della sorte, convogliavano innumerevoli linee produttive in Cina – si sono spezzate;
  • la politica no stock si è rivelata tragica (si pensi ad esempio al caso della mancanza di materiale sanitario);

L’impatto sulle economie nazionali già da dieci anni impantanate nelle sabbie mobili della recessione globale sarà devastante. Ci saranno da ripensare a livello locale obiettivi, strategie e modelli produttivi, dal ritorno al settore primario al riavvicinamento del settore secondario. La logistica e il terziario, i cui stati di salute nella crisi e al suo indomani, si trovano agli antipodi, dovranno affrontare implementazioni e sfrondature inimmaginabili.

II

L’epidemia ha colpito soprattutto i modelli economici votati all’esportazione – non più capaci di trovare sfogo alle proprie merci causa lockdown – e quelli votati alla trasformazione di beni prodotti altrove – ritrovatisi con flussi di filiere produttive non più regolari –.

Con uno scenario a medio termine caratterizzato da grande incertezza riguardo a futuri blocchi generali, ad esempio per affrontare contagi di ritorno, sembra plausibile che gli Stati tenteranno da una parte di ricercare nuove alleanze commerciali basate più sulla sicurezza delle supply chains che sul profitto immediato e si focalizzeranno sull’economia interna cercando di mitigare la dipendenza da un mercato internazionale troppo fragile. Tali strategie comporteranno una ridefinizione della competizione intercapitalistica.

Il rafforzamento del settore primario acquisterà un nuovo e antichissimo valore strategico. È bastata qualche settimana di lockdown, con i grandi Paesi produttori che hanno fermato il flusso di molte merci destinate all’esportazione, per vedere schizzare ad esempio il prezzo del grano: e se si pensa che l’Italia importa circa il 62% del suo fabbisogno di grano tenero, non è difficile capire l’importanza del ripensamento strutturale del settore.

Ma la presente emergenza ha portato alla penuria di un’altra merce non banale, il lavoro, perlomeno in quei settori, come l’agricoltura, impreparati o impossibilitati all’adempimento delle direttive anticontagio. Coldiretti già a fine marzo lamentava il fatto che con le frontiere chiuse non sarebbero arrivati gli stagionali che ogni anno garantiscono il raccolto made in Italy. Le soluzioni al vaglio sono un buon prototipo del mondo che verrà, tra proposte di regolarizzazione di massa dei braccianti – che però toglierebbe la possibilità del lavoro nero, sede principale della competitività dei prodotti nazionali – o l’ipotesi di accordi internazionali con Paesi esteri per garantire corridoi sanitari per la forza lavoro straniera, o ancora la mozione di fare lavorare nei campi chi percepisce il reddito di cittadinanza.

Risulta dunque certo che il settore, finora tenuto in piedi da aiuti statali ed europei e basato su forza lavoro migrante e irregolare, sarà costretto a rinnovarsi. Altrettanto sicuro è che l’inevitabile aumento dei prezzi dei prodotti agricoli in un frangente in cui molte persone affronteranno la crisi innescata dal virus potrebbe condurre a conseguenze facilmente immaginabili.

III

Le lunghe catene del valore sono state messe a dura prova: interi comparti hanno dovuto rallentare la produzione a causa della mancanza di questo o quel componente. Il lockdown cinese, ad esempio, ha portato i colossi globali dell’elettronica a ridurre della metà la produzione di laptop per il mese di marzo. Lo stop durante l’istituzione della prima zona rossa dell’italianissima MTA di Codogno, che produce componentistica di precisione per molti grandi marchi automobilistici, ha rischiato di compromettere seriamente il funzionamento delle catene di montaggio di Fiat, Renault, Bmw, Peugeot. Di esempi come questi se ne potrebbero trovare a bizzeffe.

La necessità di accorciare le filiere produttive al fine di evitare shock come questi si unirà alla necessità di incorporare alle aziende madri quelle funzioni che in questi anni sono state esternalizzate a una costellazione di piccole e medie aziende ultra-specializzate, dato che molte di queste, già pesantemente indebitate, non vedranno la luce alla riapertura.

Queste tendenze verosimilmente creeranno spazio per investimenti importanti sul versante tecnologico e innovativo, dando il via libera definitivo ad una ristrutturazione profonda: modelli organizzativi e strumentazioni che, pur al netto della propaganda di stato sulla rivoluzione industriale 4.0, sembrano ancora avveniristici potrebbero plasmare ogni piano della struttura economico-sociale in un futuro prossimo.

Le strategie di gestione della crisi saranno variegate e a tratti contraddittorie. Una possente corsa verso l’automazione sembra far rima con una inferiore richiesta di lavoro vivo. Eppure proprio il lavoro umano sarà, per le sue inimitabili caratteristiche, un ulteriore e conseguente campo sottoposto al ridisegnamento dei margini di sfruttamento. Già da oltralpe un chiarissimo e lucido Geoffroy Roux de Bézieux presidente dell’unione degli industriali francese ha dichiarato che «sarà necessario porsi la questione del tempo di lavoro, delle ferie e dei congedi retribuiti, per accompagnare la ripresa economica». Ma in questi giorni prossimi alla cosiddetta Fase 2 non si fa fatica a trovare dichiarazioni affini da ogni frangia dello sciocchezzaio politico italiano.

IV

Un po’ in tutto il mondo, in queste ultime settimane, sono stati presi d’assalto gli uffici atti alle richieste di disoccupazione, notevole il caso statunitense con più di sessanta milioni di richieste in pochi giorni. L’italianissimo INPS, fiore all’occhiello di un welfare state in via d’estinzione, è andato in panne per la richiesta di buoni spesa goffamente decretati da un governo sempre più simile ad una unità di crisi.

Scene che saremo destinati a rivedere. E con attori inaspettati.

Per ora, nel mezzo della crisi, assistiamo a formule molto creative di assistenza al reddito della popolazione lavoratrice (nei casi migliori, forme di cassa integrazione rispolverate da ere economiche di un passato prossimo eppure lontanissimo).

Ma molte imprese medie e piccole – che sono la carne del tessuto produttivo italiano ma anche la pancia della Confindustria nazionale –, sia nel settore industriale che in quello dei servizi, già pesantemente indebitate prima dell’epidemia, faranno fatica a riattivare macchinari e computer dopo l’arresto inatteso, nonostante i tentativi statali di agevolare prestiti – misura che, senza essere economisti esperti, puzza di malasorte e disgrazia per cosa si è visto in anni passati –.

All’indomani di una stagnazione forzata chi aveva capitali sicuri potrà facilmente ripartire, magari inserendosi nei nuovi spazi di economia produttiva e distributiva (dal tessile alla cosmetica, dal settore automobilistico all’alimentare sono diverse le aziende che sono riuscite a commutare la produzione in brevissimo tempo).

D’altra parte, crescerà la porzione di lavoratori dequalificati o più propriamente espulsi dall’enorme crisi del settore dei servizi (ristorazione, accoglienza, cura della persona). Come ogni crisi, anche questa sarà un’inattesa occasione di ottimizzazione e specializzazione delle dinamiche produttive: al prevedibile calo dei consumi post-epidemia si aggiungeranno quindi misure atte a rendere i servizi più funzionali, all’altezza dei nuovi parametri di consumo, erogazione e sicurezza (d’ora in poi con un occhio anche a quella biologica) che riconfigureranno drasticamente tutto il settore. E il nostro modo di fruirne.

Il celebre e abusato concetto di esercito industriale di riserva assumerà come protagonisti molti di coloro i quali fino a ieri ne erano minacciati. Ma ancora peggio, probabilmente si ingrosseranno le fila di coloro i quali non vi saranno neanche più arruolabili, in quanto incapaci di leggere i rapidissimi mutamenti di paradigma dei modelli produttivi.

Non osiamo immaginare quali saranno le formule con cui si combineranno i rapporti di lavoro a crisi terminata, o meglio, a crisi stabilizzata; da una parte, per quello che riguarda la inclusione forzata, riteniamo piuttosto preciso il concetto, per ora eminentemente sociologico, di working poor. Masse di lavoratori a cui il salario non garantisce gli strumenti di pianificazione minima dell’esistenza.

Per ciò che concerne tutto il resto, beh, i concetti non ci saranno d’aiuto per inquadrarne lo spettro insieme tragico e minaccioso.

V

Il comportamento degli Stati in questa epidemia evidenzia come essi siano indispensabili al funzionamento del capitalismo: un esempio su tutti, lo Stato in caso di pericolo può decidere di sospendere le leggi di mercato, con buona pace del mantra sulla famigerata mano invisibile. Si pensi ad esempio alle misure varate dalle varie banche centrali per tenere bassi gli interessi su prestiti ricevuti dai vari Stati nazione dai vari BCE o FMI. Un neo keynesismo che arriva da voci disparate, anche inaspettate.

Ad ogni modo, è opportuno ricordare che prestiti ed aiuti non sono mai emessi gratis et amore Dei, ma evidentemente come garanzia di profitti futuri soprattutto per chi li eroga. Ogni prestito dovrà essere rimborsato, e al di là delle valutazioni più o meno populiste sul ruolo dei vari fondi monetari, possiamo essere discretamente sicuri che i costi di tale montagna di operazioni parafinanziarie verranno accuratamente socializzati, in maniera diretta o indiretta. I famosi tagli alla sanità e all’istruzione, alla previdenza sociale non sono forse da catalogare in un riassetto dei conti statali? Uno Stato con i conti in ordine di questi tempi non è altro che uno Stato che ha tagliato i rami secchi nei settori non direttamente produttivi, di cui quelli appena citati non sono che l’apice.

VI

L’impatto della disoccupazione di massa su una società fortemente neoliberale in cui le forme di welfare sono state erose negli ultimi trent’anni si tradurrà in un potente attacco alle condizioni di vita di una fetta sempre più grande di popolazione. La transizione dal consumo di massa alla inoccupazione come status normale non sarà semplice né priva di conflitti.

La tenuta degli Stati si misurerà nell’elaborazione di metodi gestionali delle sacche di esclusione in continua espansione.

Un interessante testo risalente a più di dieci anni fa sosteneva, in uno studio di caso, che saranno due le principali strategie di tale contenimento: da una parte il vecchio mercanteggiare sui diritti, che prenderà la forma specifica e inedita della contrattazione di un reddito universale. Dall’altra, l’ancora più vecchia ricetta della reclusione, ovvero la criminalizzazione della miseria e la sua logica conseguenza, la galera.

Tale dicotomia, pur sbrigativa, sembra tuttavia capace di rendere conto di ciò che ad oggi è in cantiere da tempo. L’idea di un reddito d’esistenza è stato un cavallo di battaglia non solo di uno dei partiti attualmente al governo in Italia, ma anche di una certa sinistra con addosso gli ultimi cenci della radicalità. Per non citare una certa produzione accademica genericamente critica.

Balza subito agli occhi come tale strumento, a partire da una banale analisi nominale – reddito di cittadinanza, reddito di sussistenza, reddito minimo universale – porti già nella sua concezione accurate linee di demarcazione e precise relazioni di potere. Riprendendo quindi l’ipotesi delle due strategie di contenimento sociale di cui sopra, vediamo come in realtà non siano due opzioni definitivamente alternative, ma siano una il margine di definizione dell’altra, due misure strettamente intrecciate. Da qui, e lo si vedrà a breve, i destinatari di reddito di base e di restrizioni a vario titolo non saranno persone diverse, piuttosto gli stessi soggetti che, di volta in volta, riceveranno o l’una o le altre.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Torino – IN AGGIORNAMENTO – 4 Compagn* arrestati in strada

DIRETTA RADIO QUI

14.30

Da Facebook:

La polizia ha fermato una persona in corso Giulio Cesare con i consueti modi oltre il vessatorio. Tanta gente è scesa in strada, tanti stanno urlando dal balcone in strada contro le FDO.

Sono arrivate altre volanti di rinforzo e quattro compagni sono stati portati via come bestie e ammanettati.

Chi può e nei modi che ritiene opportuni provi ad avvicinarsi a Corso Giulio Cesare 45

Guarda il video su facebook

oppure

https://www.youtube.com/watch?v=nqzdwZdInfQ&fbclid=IwAR2yOm7Ole_S5vYxvi_tgPmoFQ0Y1CFzLhJSI-dRlQyoKEmbfgH2tO3d62Q&app=desktop

15.15

La celere ora blocca tutto l’isolato e il dispiegamento è variegato tra Polizia e mezzi dell’Esercito

17.24

Verniciati un monumento, una sede della Randstadt e la fermata della metro di Piazza Nizza, bloccato il tram numero 4

Appuntamento alle 18.30 in via Cibrario

Appuntamento alle 18.00 in via Monginevro (non verificato)

Appuntamento alle 17.30 in Largo Saluzzo

Da Radio Blackout

Nel primo pomeriggio la polizia ha fermato due persone in corso Giulio Cesare.

Il fermo, di cui non sappiamo i motivi ma ci sentiamo di poter affermare che non sono quelli riportati dai giornali generalisti, è stato estremamente violento tanto da richiamare l’attenzione delle persone chiuse in casa per il virus. la brutalità delle forze dell’ordine ha portato molte a lasciare l’isolamento casalingo e scendere in strada. Tra le persone che hanno mostrato solidarietà sono state ammanettate e portate via 4 compagn*, ovviamente non tradendo la vocazione al sopruso.

Attualmente tutta la zona risulta bloccata dalle camionette che non accennano ad andarsene.

Aggiornamento delle 17.30:

In strada non c’è più nessuno, attendiamo aggiornamenti sui compagni portati via.

18.00

Da Facebook:

La violenza ormai a briglia sciolta della polizia si è manifestata oggi in maniera esemplificativa in un fermo che aveva il sapore di un’aggressione. Così chiara che in interi isolati di c.so Giulio Cesare a Torino le persone vedendo la scena non sono rimaste zitte e molte sono scese in strada. Tra loro anche quattro compagni buttati a terra, trascinati e portati via da un esercito velocemente giunto a reprimere la situazione. Decine e decine di individui in strada e centinaia dalle finestre hanno inscenato una vera e propria protesta nonostante le difficoltà perché c’è un limite di sopportazione all’ingiustizia e ciò che è accaduto questo pomeriggio lo dimostra.
Ora in strada non c’è più nessuno.
Ciò che è accaduto non passerà però in sordina.
Presto aggiornamenti sui compagni portati via dalle fdo.
Giordana, Marifra, Samu e Daniele liberi!
Tutti liberi, tutte libere!

18.10

Solidarietà anche da Milano

18.50

Blindati su corso Brescia

22.10

In c.so Giulio Cesare è solo l’inizio

10.00

Le persone arrestate hanno l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e favoreggiamento. Attualmente si trovano alle Vallette, il carcere di Torino.

Dietro l’angolo Pt.2 – Qualche ipotesi su covid 19 e sul mondo in cui vivremo

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Cablaggi di Stato

Nella crisi sociale attuale la domanda che maggiormente sembra assediare milioni di individui asserragliati è quella su cosa accadrà dopo che la fase più acuta di emergenza sanitaria sarà finita. Il talismano naïf dell’andrà tutto bene non convinceva neppure all’inizio del domiciliamento, figurarsi dopo settimane in cui alla vecchia e nota miseria si sono aggiunte in un sol colpo le esistenze precarie di coloro che non hanno risparmi e le incertezze sul futuro dei “garantiti”, certamente ammaccati da anni di stagnazione ma finora mai privati del fine settimana in centro e delle ferie.

Un pensiero insidioso si è palesato sin da subito: l’affaire coronavirus non prevede un ritorno alla ‘normalità’ che lo ha preceduto. Se questa constatazione ormai radicata non può che essere foriera di una serie di inquietudini comprensibili e umane, non fosse altro per i piccoli sprazzi di bellezza che ciascuno tratteneva nella propria mesta quotidianità o per le rodate tattiche di sopravvivenza, i sovversivi non possono che tentare di vedere delle possibilità nella breccia inferta al Moloch che fino qualche mese fa sembrava non poter essere scalfito. Del resto la consapevolezza che la normalità pre-pandemia sia stata il problema primario non è più appannaggio di sparuti gruppi di sognatori.

Per far sì che non ci si fermi alle consapevolezze sarà però necessario fare i conti con la velocità con cui lo Stato potrebbe riorganizzare la sua riproduzione o di alcune sue propaggini “strategiche”, adattarsi ai nuovi scenari e affinare i propri strumenti. In questo senso, per rispondere alla domanda su cosa avverrà dopo, già si sono tenute numerose tavole rotonde tra governo e amministrazioni locali per la concessione di poteri extra-ordinari e la ridiscussione degli ambiti politici. Contrattazioni politiche, negoziazioni e redistribuzioni di potere, elementi complessi già da tempo sul piatto del federalismo fiscale, ora assumono la dimensione di vera e propria frizione tra alcuni presidenti di regione e il governo centrale. In una disputa su chi applica misure maggiormente adeguate, molti amministratori locali hanno imposto per il contenimento del virus più restrizioni o persino dettami diversi rispetto a quelli dei decreti-Conte, basti pensare alle zone rosse comunali o sistemi di lockdown più ferrei in alcuni territori. Se questo modus operandi si presenta a un primo livello come mossa di governance necessaria nell’emergenza che ha coinvolto in misura differenziata il paese, non si può pensare che non avrà ripercussioni politiche durature e di vasto campo. La richiesta di “pieni poteri” fatta dal piemontese Alberto Cirio, esautorata in lungo e in largo come un’esagerazione, è sicuramente più di un’esternazione mal riuscita. La forte rilocalizzazione politica avvenuta negli ultimi anni, specie per quanto riguarda le principali città, è stata già normata dagli ultimi decreti legge sulla sicurezza. Al ruolo dei sindaci-sceriffo o ai poteri aggiuntivi dati ai prefetti potrebbero presto aggiungersi quelli alle Regioni per far fronte alle varie “calamità naturali”. Poteri che, come ci insegna questo virus, saranno sempre meno basati sulla prevenzione generale per volgersi verso il governo del rischio. In un mondo di incertezza fisica ed economica, il contenimento e lo spostamento straordinario di masse umane per ragioni non più presentate come politiche e con cause rintracciabili, ma di forza maggiore e con un certo fatalismo (malattie, terremoti, crolli, valanghe, innalzamento dei mari), potrebbero entrare come strumento indispensabile nella cassetta degli attrezzi degli amministratori dei territori considerati particolarmente a rischio.

La ridefinizione degli ambiti di governo si inserisce in ristrutturazioni di altro livello in nuce già da tempo. I cambiamenti nel campo della cittadinanza e missione etica dello Stato non tarderanno a evidenziarsi infatti come il più grande sconvolgimento sul lungo periodo e la definitiva fine della modernità.

Negli ultimi anni abbiamo già intravisto un riposizionamento dei confini dell’universalità della tutela dello Stato rispetto a qualche decennio fa. Sappiamo bene come l’accessibilità ai diritti ha sempre risposto a criteri immanenti al ruolo che gli individui svolgono nella valorizzazione del capitale e all’esigenza che ne consegue di interiorizzazione di un sistema di norme basato sulla dicotomia inclusione/esclusione, tuttavia non si può negare come in buona parte del‘900 lo stato sociale sia stato una coperta ampia. Da lì tutta la retorica sull’universalità del diritto al benessere e alle pari opportunità di riuscita sociale garantite da uno Stato finalmente nel suo ruolo di padre di famiglia. Retorica questa che nello stesso momento in cui veniva sbandierata dalla sinistra, era già in procinto di essere spaccata pezzo a pezzo attraverso riforme, riformine e riformette.

L’apoteosi di questa sottrazione inesorabile si è avuta nel passato recente quando i vari diritti raccontati come conquiste si sono trasformati in ambiti di sempre maggior esclusività il cui ingresso, che sia in un’università, in una clinica o in una casa di proprietà, non è che la soglia che divide i cittadini che contano qualcosa, perché profittevoli o particolarmente devoti, dalle masse di individui che accedono ai servizi di welfare ormai solo occasionalmente. L’esempio più lampante è giustappunto quello della sanità pubblica, in cui la possibilità di riuscire a prenotare visite specialistiche è così ridotta da costringere le persone a utilizzare, in caso di aggravamento, i servizi d’emergenza del pronto soccorso.

Questo dimostra che lo Stato nelle sue compagini non è un risultato definitivo, come l’immaginario da fine della storia ha imposto a lungo, ma un continuo scontro di forze reali di cui la democrazia liberale degli ultimi quarant’anni è solo un risultato che ha incluso anche il contentino modestamente generoso dato ai vinti dell’assalto al cielo. Generoso proporzionalmente al rischio sventato di un sovvertimento generale. Non ci porterebbe molto lontano farci cullare dalla retorica dei diritti sociali negati. Non è che una preghiera lamentosa recitata a un dio che ha concesso la manna dal cielo solo quando il rapporto di forza strappato coi denti dagli sfruttati rischiava di mordergli anche il culo. Non essendosi riproposto per decenni quel pericolo alle calcagna, sventato lo scontro sovversivo, lo Stato ha semplicemente riposizionato le sue risorse tra le componenti padronali che gli esercitano maggior pressione, lasciando echeggiare nell’aria solo un piagnisteo socialdemocratico che implora per un diritto ormai solo nominale.

Le difficoltà crescenti nel mondo degli esclusi e di coloro che si trovano nella zona grigia del rischio di povertà non sono tuttavia per le istituzioni un problema di poco conto. La realtà materiale della società è ciò a cui guarda l’ordine prettamente repressivo attraverso la sfera penale. Il nemico per lo Stato ha acquisito nella confusione sociale e nell’indeterminatezza economica del nuovo millennio dei tratti meno identificabili, non più solo quelli del sovversivo, dello sfaccendato o del vagabondo. La ricerca dello sfuggente fattore criminogeno, lungi dall’essere una procedura speciale di polizia, è la stessa che blinda con checkpoint gli eventi urbani, controlla scrupolosamente ogni angolo con la videosorveglianza, presidia permanentemente determinate zone con forze di polizia: è la società stessa ad apparire come pericolosa perché per di più composta da individui non più normati da un lavoro stabile, da una fede partitica o dalla morale del vangelo, non più accompagnati con attenzione da strutture socio-sanitarie o dagli altri sistemi di welfare che ne consentivano la riproduzione in quanto lavoratori e il ricatto in quanto esistenze senza più autonomia.

I sistemi forti di welfare sono quelli che in passato hanno avuto il ruolo di accompagnamento più significativo alla sicurezza sociale, come controllo ramificato della popolazione che agiva ben prima della galera. Lavorare per pagare mutuo e macchina, la certezza di cure serie e costanti, il sogno dell’ascensore sociale per la prole e di una vecchiaia retribuita sono parti di un percorso preciso e ordinato che più generazioni hanno attraversato.

A questo paradigma preciso si è contrapposto quello delle ultime generazioni, non più irregimentate da una promessa di vita stabile e senza mappa per il futuro. L’indeterminatezza sociale è del resto ciò che ha alimentato negli ultimi anni il crescente ruolo della polizia e le legislazioni sulla sicurezza, atte a proteggere dal pericolo rappresentato dagli impoveriti e dagli sfiniti le zone ritenute strategiche per l’economia e per il suo ambiente (centri città, dipartimenti infrastrutturali o industriali, quartieri dei ricchi, parchi naturali protetti).

Da tutto ciò si evince che lo spazio di cittadinanza in cui è piombato il Covid-19 era nella sua sostanza già notevolmente riconfigurato. L’epidemia sembra imponga un momentaneo cortocircuito, e ciò che pare importi generalmente a tutti è la sua fine. Se in questo momento lo Stato si propone nuovamente come il soggetto impegnato a fronteggiare una minaccia universale, si può immaginare che fra poco potrà apparire come colui che ha fatto il necessario o, ancora peggio, l’inevitabile.

Come scrivevamo il cosiddetto governo del rischio, con il suo portato di fatalismo e il suo giustificarsi attraverso forze di causa maggiore, riammanta la legittimità statuale dei suoi significati più antichi per quanto riconfigurati.

E gli esempi ungheresi e sloveni sbiadirebbero, nella loro piccolezza, di fronte ad uno Stato che esercita i suoi poteri non più camuffato dietro il consenso o la rappresentanza democratica ma nuovamente votato alla missione etica della sopravvivenza.

In quest’ottica l’ordine sovrano, in linea con la tendenza degli ultimi anni, si potrebbe applicare come il riconoscimento di cittadini ai soli occupati, per tracciare una linea di inimicizia formalizzata, militare, spaziale e di controllo per tutti gli altri.

Per chi ancora si ricorda dell’assalto al cielo sarebbe la conferma di un fronte di guerra che prima sembrava più rarefatto e che ora si farà più netto e preciso.

Se vi siete persi la prima puntata di Dietro l’angolo potete leggerla cliccando sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Dietro l’angolo Pt.2 – Cablaggi di Stato

Dietro l’angolo Pt.1 – Qualche ipotesi su COVID19 e sul mondo in cui vivremo

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

 

Tra salti e accelerazioni. A mo’ d’introduzione.

«È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo».

Un affermazione che ha riscosso un certo successo negli ultimi tempi, quelli pre-Covid19 tanto per intenderci, a causa della crescente attenzione sviluppatasi attorno ai cambiamenti climatici e alla devastazione ambientale e alla contemporanea debolezza delle ipotesi rivoluzionarie. Un affermazione che risulterebbe probabilmente ancor più convincente oggi, in seguito al diffondersi di un contagio di cui è difficile intravedere, per l’appunto, la fine, o perlomeno comprendere quali scenari possa evocare questa parola.

Al di là del suo carattere suggestivo, è un affermazione che però non ci convince granché, ancorata come ci sembra sia a una certa fantascienza da giorno X, in cui da un momento all’altro un fenomeno apocalittico farà la sua comparsa avviando il definitivo conto alla rovescia.

Se proprio dobbiamo pensare a una fine o comunque a una china discendente, ci sembra molto più appropriata, e cupa, l’idea di una discesa graduale e costante, con picchi e momenti topici com’è quello che stiamo vivendo, verso una sempre più diffusa impossibilità di far fronte anche solo alle basilari necessità di vita.

Le riflessioni che seguiranno tenteranno di muoversi lungo questo solco, provando a non lasciarsi schiacciare dal carattere epocale della situazione che stiamo vivendo. Cercheremo quindi di mettere in luce alcune dinamiche che non sono state certo prodotte dal diffondersi di questa epidemia o dalla sua gestione, ma sono in atto già da tempo e con ogni probabilità potranno nei prossimi tempi subire una drastica accelerazione. Proveremo poi a cogliere alcune tra le peculiarità che l’epidemia in corso sta facendo emergere e che sembrano invece suggerire scenari diversi, o che almeno possono apparire tali.

Per la complessità e contemporaneità della situazione, e per i limiti che ci sono propri, pensiamo a queste riflessioni come una sorta di bozza, con uno sguardo rivolto principalmente a questo pezzo di mondo, da precisare e magari rimettere in discussione nei prossimi tempi. Oltre che come un contributo per un dibattito a più voci, che possa aiutare a precisare i contorni del mondo in cui ci troveremo a vivere e lottare.

Nel tentare di fornire una lettura del presente, specie in alcuni periodi, può certamente essere utile guardare al passato per sottolineare i corsi e ricorsi storici. In più di un’occasione, ad esempio, è stato fatto emergere il filo che lega le recenti misure sul decoro urbano e la più generale colpevolizzazione dei poveri alle leggi contro il vagabondaggio, che nel XVII secolo portarono poi alla Grande reclusione: dover gestire masse crescenti di uomini espropriati della possibilità di aver di che vivere.

Altrettanto prezioso sarebbe però, oltre a rintracciare gli elementi di continuità, tentar di far emergere le rottura con il passato, ciò che traccia una netta discontinuità tra l’oggi e l’altroieri.

Rimanendo sull’esempio precedente, quali analogie si possono intravedere tra le condizioni economiche, sociali e ambientali di allora e quelle attuali? Di quanta forza lavoro ha attualmente bisogno il capitalismo, e di quanta ne avrà bisogno domani? Quali dimensioni è destinata a raggiungere la schiera degli inutili al mondo? La necessità di serrare le vite di tanti uomini e donne alle catene del lavoro salariato con la prigione, il marchio a fuoco e con la forca, quali corrispondenze conserva con l’oggi? E ancora, quali porzioni di territorio restano da colonizzare per dar sfogo, isolare e valorizzare, come in passato, chi è di troppo?

Le differenze che emergono, tra passato e presente, nel tentar di rispondere a queste domande sono qualitative.

Il capitalismo ha oramai raggiunto ogni angolo del pianeta, nell’organizzare la natura in base alle proprie esigenze ha devastato l’ambiente e consumato le sue risorse con un’intensità tale da rendere sempre più territori inabitabili, a partire proprio da quelli che, attraverso il colonialismo, hanno conosciuto politiche di sfruttamento più feroci. Paesi che se un tempo hanno assorbito una buona fetta dell’umanità in eccesso, mandata lì per esigenze militari, economiche o anche solo punitive, ora producono invece una parte considerevole degli inutili al mondo cui non resta che migrare, senza per di più grandi possibilità di tornare prima o poi indietro, come avveniva in passato.L’inabitabilità delle loro terre ben difficilmente, a voler essere ottimisti, risulterà reversibile.

Fattori ambientali cui si intrecciano quelli più strettamente economici. Senza volersi addentrare in un’analisi complessiva dell’attuale fase economica, sia per l’obiettivo più circoscritto di questo testo che per la nostra inadeguatezza a farlo, ci sembra di poter dire che uno dei punti su cui un po’ tutte le analisi concordino è la tendenziale riduzione del numero di lavoratori necessari su scala globale. Una tendenza che, nonostante le profonde differenze da paese a paese, è resa irreversibile dal crescente livello d’automazione che si sta diffondendo in un ampio ventaglio di attività lavorative. Un processo tecnologico da cui derivano delle conseguenze che non tarderanno a manifestarsi. Tra queste le più evidenti e prossime saranno lo smantellamento di determinati comparti produttivi e attività commerciali, e la crescente concentrazione di ricchezza e capacità produttive nelle mani di pochi.

Mezzi di sostentamento che vengono dunque a mancare per un numero sempre maggiore di esseri umani, man mano che porzioni sempre più estese del pianeta diventano letteralmente invivibili e che al contempo vengono meno le modalità attraverso cui, negli ultimi decenni, era in qualche modo organizzato il soddisfacimento di determinati bisogni. Masse crescenti di persone ammassate attorno a pezzi di città, più o meno ampi, in cui si riuscirà a mantenere un certo livello di sopravvivenza – perchè riusciranno a rimanere ancorati al lavoro salariato o ad alcune tra le molteplici forme di sostegno al reddito che verranno istituite, – quando non un notevole benessere, grazie anche a una sempre più intensa artificializzazione dello spazio fisico e della vita, di cui potranno godere, se così si può dire, sempre meno persone.

Un’esclusione che sembra profilarsi quindi come permanente e verso cui sarà ancor più difficile che in passato trovare delle alternative in qualche “fuori”, almeno per porzioni così cospicue di popolazione, vista l’intensità con cui il capitalismo si è costantemente prodigato a cancellare qualsiasi forma di autonomia.

É il carattere permanente che sembra gravare sull’attuale condizione di escluso a renderla qualitativamente differente dal passato.

Una fine, se si vuole continuare a utilizzare questo termine per descrivere questo processo, che evidentemente è già iniziata.

Si sarebbe conclusa all’incirca così questa sorta d’introduzione, se l’avessimo scritta alcune settimane fa.

Ora non si può non provare ad interrogarsi su cosa ci suggerisce l’epidemia in corso, e la gestione di essa, riguardo le dinamiche di selezione ed espulsione legate a fattori sociali e, diciamo così, ambientali abbozzate finora.

Ritorniamo per un momento alla repressione del vagabondaggio. Le strutture ospedaliere vennero allora utilizzate con funzioni prevalentemente di contenimento, per rinchiudere un buon numero di poveri e ridurre così la crescente insalubrità delle città, che minacciava non solo gli ultimi ma anche i primi gradini della scala sociale.

Che peso ha oggi avuto, assieme a valutazioni di altro tipo, la natura contagiosa di quest’emergenza, nel costringere le autorità nostrane a doversi in qualche modo occupare di un po’ tutta la popolazione, anche di quella parte cui normalmente non sono destinate così tante risorse sanitarie – visto che, almeno su grandi numeri, non sarebbe stato possibile adottare misure di isolamento efficaci, da un punto di vista epidemiologico, per tutti gli altri -?

E sarà possibile sostenere questo sforzo per molto tempo, se quest’epidemia come tutto lascia prevedere durerà, magari a fasi alterne, ancora a lungo? Un’ipotesi in forte contrasto con le politiche sanitarie recenti e che potrebbe sembrare in linea con la decisione del Parlamento europeo di ridefinire la Sanità, «non più come un servizio ma come un’infrastruttura», strategica perchè essenziale per poter continuare o ritornare a produrre.

O si possono intravedere altre strade che, attraverso misure di selezione e separazione, permetteranno alle autorità di poter decidere di non farsi carico di determinati pezzi di popolazione? Come consentono almeno in parte di intravedere, tra le altre, alcune dichiarazioni su possibili passaporti d’immunità da rilasciare a chi abbia anticorpi “validi” nel sangue.

Soluzioni che non si escludono certo a vicenda e che dipenderanno e al contempo influenzeranno anche la gestione dell’ambiente urbano: quanto smart diverranno le città, o dei pezzi di queste, e che possibilità di gestire e delimitare la mobilità ci saranno, tanto a livello tecnologico e militare, quanto economico e politico? Una questione che non nasce certo oggi – pensiamo tra i tanti all’introduzione dei daspo urbani o alla banalizzazione delle zone rosse – ma che potrebbe diventare quanto mai stringente, legata com’è alle modalità e tempistiche con cui si sta progettando la fantomatica fase 2.

Soluzioni che poi, assieme alle dinamiche finora accennate, contribuiranno a dar forma e intensità a quegli scenari di guerra civile che promettono di diventare una costante di quest’epoca e su cui varrà quindi la pena tentar di affinare dei ragionamenti.

Sarà infatti su questo sfondo di conflitti, che tracimano l’alveo dello scontro tra sfruttati e sfruttatori o tra oppressi ed oppressori che dir si voglia, che dovrà muoversi chi continua testardamente a pensare che non ci sia altra strada da percorrere, se non quella della guerra sociale.

Resterà infine da tentare di intravedere come si snoderà e di cosa sarà lastricata questa strada, dopo quella che è forse la prima esperienza in grado di sconvolgere contemporaneamente la normalità di tutti gli abitanti di questo pianeta, a partire dalla seconda guerra mondiale.

Cosa resterà di questo sconvolgimento davanti a problemi che si presenteranno sempre più assillanti e feroci? In che misura questa frattura potrà stimolare la crescita e l’intensificarsi di queste lotte, anche nella capacità di squarciare il velo d’inesorabilità dietro cui il capitalismo si ripara? E quale spazio potrebbe aprirsi per l’irragionevolezza di ipotesi rivoluzionarie?

Di virus, contenimento e deportazioni. Un punto sui Cpr

Per le mille difficoltà di questo periodo, che si aggiungono a quelle già esistenti da tempo nel capire cosa accade all’interno del Cpr di corso Brunelleschi, da un po’ di tempo non parlavamo della detenzione amministrativa e della macchina delle espulsioni. Ringraziamo quindi un compagno per il contributo che ci ha inviato, e che vi proponiamo, che tenta di fare il punto sui Cpr ai tempi del Covid-19.

Ogni zona d’Europa è ormai interessata dall’epidemia in corso.
Un’emergenza di portata massiva, come è successo spesso nella storia, offre delle enormi possibilità per ciò che riguarda l’inasprimento di misure repressive e lo sviluppo di tecnologie di controllo al cui utilizzo viene di fatto spianata la strada. Ogni emergenza è però differente dall’altra e le epidemie in particolare si portano con sé alcune specificità. In Italia, accanto a un repentino sviluppo giuridico e militare a sostegno delle nuove necessità, la misura più significativa per la risoluzione del problema è stata individuata nell’isolamento fisico, la sospensione delle relazioni vis à vis.
Esso è il paradigma centrale, il fulcro concettuale intorno al quale ruota l’intera faccenda.
Tutti a casa, tutti distanti gli uni dalle altre. La tragicità di un momento come quello attuale si scontra però con l’ottusità del governo italiano, che, pensando di non dover applicare tale misura ad ogni ambito sociale, si dimentica volutamente di due tra i pilastri essenziali dell’ordinamento nostrano: la produzione e la detenzione.

Le fabbriche e così le carceri, i Cpr e gli Opg registrano di fatto ‘un’eccezione allo stato d’eccezione’, devono continuare a svolgere le proprie funzioni, con qualche aggiustamento e allentamento magari, ma devono comunque andare avanti. La pandemia, in questi luoghi che rappresentano la promiscuità per antonomasia, è come se non esistesse.

La situazione attuale in Italia della detenzione amministrativa degli immigrati ne è un esempio lampante. Attualmente i Centri Per i Rimpatri, nel pieno sviluppo del contagio, si presentano praticamente identici a quelli di ieri, nessuna modifica è stata fatta e nessun intervento è all’orizzonte. Un fatto in controtendenza  rispetto persino al contesto europeo.

Per affrontare il pericolo legato al contagio, paesi come la Spagna, i Paesi Bassi, il Regno Unito, il Belgio e la Francia hanno iniziato di fatto ad effettuare delle liberazioni di massa dalle strutture nazionali, alcuni Centri sono stati chiusi e le diatribe giuridiche inerenti espulsioni e trattenimenti di fatto bypassate. Misure adottate non certo per un’improvvisa magnanimità statale, ma in seguito a numerose rivolte che hanno acceso i riflettori su strutture altrimenti invisibili e soprattutto sul rischio di non spegnere la carica di queste bombe a orologeria. Il Portogallo ha inoltre congelato alcune pratiche riguardanti la questione migratoria, regolarizzando temporaneamente i richiedenti asilo. Quindi molti Centri per le espulsioni d’oltralpe sono stati chiusi e sono state attuate misure di alleggerimento burocratico di vario tipo.

In Italia la tendenza è inesorabilmente un’altra.

L’unico intervento operato dal Ministero dell’Interno è stata la proroga dei permessi di soggiorno pendenti o da rinnovare. Una decisione indirizzata più a stornare gli agenti predisposti verso altre mansioni, come quelle di ordine pubblico, che a alleviare la situazione legale di tanti immigrati. Dai primi di marzo gli uffici immigrazione delle questure d’Italia sono di fatto chiusi e il congelamento dei permessi di soggiorno concederà fortunatamente più tempo, a richiedenti protezione o titolari di permessi in scadenza, prima della possibile caduta in clandestinità.
Per ciò che invece riguarda la questione detentiva, come dicevamo, l’Italia non vuole assolutamente mollare la presa.

I Cpr, malgrado in alcuni di essi siano stati interrotti i lavori di ristrutturazione, continuano ad essere attivi e a rinchiudere i senza documenti. Nel Cpr di Torino se ne ha la certezza, per gli altri Cpr, guardando alle notizie delle questure locali, anche. Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo si è espresso chiaramente a riguardo: le espulsioni dei migranti sono considerate, al pari di altre tipologie di udienze in ambito penale, una priorità. La circolare del 26 marzo del Ministero dell’Interni ne è una conferma: dopo aver elencato tutta una serie di accortezze riguardo alla possibilità del contagio e la necessità di quarantene, isolamento e dispositivi individuali di protezione, dopo aver esteso a tutti i Cpr il divieto di avere con sé i propri cellulari (cosa questa che dà forma legale a una pratica già attuata nel Cpr di Torino, un cambiamento da cui difficilmente si tornerà indietro), parla esplicitamente di nuovi arrivi.
Nonostante alcuni giudici, a Potenza e Trieste ad esempio, non stiano convalidando le proroghe, in moltissimi casi i Cpr, e particolarmente quello di Torino, continuano a ricevere nuovi reclusi e i giudici locali prorogano o convalidano il trattenimento come se nulla fosse. Questo è un primo dato di fatto, i Cpr sono aperti e funzionanti su tutto il territorio nazionale.

Un fatto che si potrebbe considerare banale, ma la questione prende una piega inaspettata se si va a osservare la macchina delle deportazioni.
Gli spostamenti aerei e marittimi di persone dall’Italia sono di fatto bloccati, ciò chiaramente non è avvenuto in modo immediato e molti paesi come il Marocco, la Tunisia, il Ghana e l’Egitto hanno tardato nell’attivare il blocco totale, ricevendo gli espulsi ad esempio, ma mettendoli in quarantena preventiva. Al momento vi è, sembra, il blocco totale anche per quei famosi voli charter che ramazzano persone in giro per vari paesi per poi deportarli. Non vi è di fatto nessuna comunicazione ufficiale sul blocco delle deportazioni, ma le notizie che emergono sulla questione lasciano pensare a quest’ipotesi. Ultima notizia di una deportazione compiuta è rintracciabile sul sito della questura di Ferrara, datata 25 marzo verso Islamabad (il Pakistan avrebbe attuato il blocco aereo quello stesso giorno). Deportazioni ferme dunque, seconda importante considerazione.

A cosa stanno servendo dunque i Centri per i rimpatri se i rimpatri sono sospesi o comunque impossibili da effettuare?
Crediamo che a questo punto, se la situazione dovesse rimanere tale nonostante la richiesta di svuotamento anche da parte di figure istituzionali, i Cpr, persi i fronzoli che ne giustificavano sulla carta l’imprescindibilità istituzionale, stiano svelando finalmente il loro vero ruolo. I Centri non sono mai serviti realmente a espellere i migranti (le cifre negli anni sono sempre state irrisorie rispetto alla popolazione clandestina), ma a contenerne una piccola parte come monito per tutti gli altri. Insomma la vecchia storia dei Cpr come deterrente collettivo è finalmente evidente e nuda di fronte a tutti.
Sta insomma venendo meno l’unico motivo per cui i governi europei giustificano i Centri: la deportazione.
I centri per i rimpatri non rimpatriano, proseguono comunque le loro attività. Quali attività?
Come stanno dunque funzionando attualmente i Cpr e perché?
La loro funzione contenitiva, esercitata nei confronti di chi esce dal carcere o da chi viene preso durante le retate, continua ad andare avanti, e al posto della  deportazione rimarrà unicamente l’espulsione con il famoso foglio di via; provvedimento che verrà inesorabilmente eluso, non potendo l’espulso adempiere al proprio allontanamento. I senza documenti rimarranno quindi sul suolo nazionale e potranno essere nuovamente riacciuffati e reclusi. Insomma il famoso “gioco dell’oca” è quanto mai valido.

Perché l’Italia non vuole chiudere i Cpr?
Crediamo che molti dei ragionamenti che riguardano la reclusione dei migranti non possano essere scissi dalla situazione detentiva in generale; sarebbe un errore parlare, in tale situazione emergenziale, esclusivamente dei Cpr senza fare un ragionamento sul carcere. Sulla questione carceraria il Ministero della Giustizia sta agendo in modo ottuso e assassino, portando di fatto i detenuti verso una possibile contagio generalizzato. Ciò sta accadendo anche per i Centri Per i Rimpatri, dove la liberazione, unica e vera sicurezza, sarebbe ancor più semplice e banale dal punto di vista burocratico. Sembra che lo Stato italiano sia molto più preoccupato di perdere credibilità repressiva che prevenire un’ulteriore tragedia e mettersi al sicuro dalle possibili rivolte che, spinte dalla paura, potrebbero spazzare via le carceri. Ciò non fa che evidenziare maggiormente quanto la detenzione amministrativa, al pari del carcere, sia un pilastro imprescindibile dell’ordinamento italiano. Un presupposto fondamentale che lo Stato non vuole minimamente mettere in dubbio. Insomma non è solo la questione economica – il business dei Centri – a impedirne la chiusura temporanea, ma qualcosa che scava nelle radici del potere statale.
Ed è proprio alle basi dell’ordinamento che vanno a colpire le rivolte dei reclusi, scardinando con forza le fondamenta della detenzione. La paura del contagio, la certezza che ciò possa portare a delle vere e proprie stragi ha spinto molti a ribellarsi: nel mese di marzo nei Cpr di Gradisca, di Palazzo San Gervasio e di Ponte Galeria a Roma i reclusi hanno portato avanti numerose proteste e rivolte. L’ultima, tra il 29 e il 30 marzo nel Centro friulano ha incendiato e distrutto parte della struttura.

Tutto lascia pensare che altre rivolte esploderanno da qui a breve.

Per le mille difficoltà di questo periodo, che si aggiungono a quelle già esistenti da tempo nel capire cosa accade all’interno del Cpr di corso Brunelleschi, da un po’ di tempo non parlavamo della detenzione amministrativa e della macchina delle espulsioni. Ringraziamo quindi un compagno per il contributo che ci ha inviato, e che vi proponiamo, che tenta di fare il punto sui Cpr ai tempi del Covid-19.

Ogni zona d’Europa è ormai interessata dall’epidemia in corso.
Un’emergenza di portata massiva, come è successo spesso nella storia, offre delle enormi possibilità per ciò che riguarda l’inasprimento di misure repressive e lo sviluppo di tecnologie di controllo al cui utilizzo viene di fatto spianata la strada. Ogni emergenza è però differente dall’altra e le epidemie in particolare si portano con sé alcune specificità. In Italia, accanto a un repentino sviluppo giuridico e militare a sostegno delle nuove necessità, la misura più significativa per la risoluzione del problema è stata individuata nell’isolamento fisico, la sospensione delle relazioni vis à vis.
Esso è il paradigma centrale, il fulcro concettuale intorno al quale ruota l’intera faccenda.
Tutti a casa, tutti distanti gli uni dalle altre. La tragicità di un momento come quello attuale si scontra però con l’ottusità del governo italiano, che, pensando di non dover applicare tale misura ad ogni ambito sociale, si dimentica volutamente di due tra i pilastri essenziali dell’ordinamento nostrano: la produzione e la detenzione.

Le fabbriche e così le carceri, i Cpr e gli Opg registrano di fatto ‘un’eccezione allo stato d’eccezione’, devono continuare a svolgere le proprie funzioni, con qualche aggiustamento e allentamento magari, ma devono comunque andare avanti. La pandemia, in questi luoghi che rappresentano la promiscuità per antonomasia, è come se non esistesse.

La situazione attuale in Italia della detenzione amministrativa degli immigrati ne è un esempio lampante. Attualmente i Centri Per i Rimpatri, nel pieno sviluppo del contagio, si presentano praticamente identici a quelli di ieri, nessuna modifica è stata fatta e nessun intervento è all’orizzonte. Un fatto in controtendenza  rispetto persino al contesto europeo.

Per affrontare il pericolo legato al contagio, paesi come la Spagna, i Paesi Bassi, il Regno Unito, il Belgio e la Francia hanno iniziato di fatto ad effettuare delle liberazioni di massa dalle strutture nazionali, alcuni Centri sono stati chiusi e le diatribe giuridiche inerenti espulsioni e trattenimenti di fatto bypassate. Misure adottate non certo per un’improvvisa magnanimità statale, ma in seguito a numerose rivolte che hanno acceso i riflettori su strutture altrimenti invisibili e soprattutto sul rischio di non spegnere la carica di queste bombe a orologeria. Il Portogallo ha inoltre congelato alcune pratiche riguardanti la questione migratoria, regolarizzando temporaneamente i richiedenti asilo. Quindi molti Centri per le espulsioni d’oltralpe sono stati chiusi e sono state attuate misure di alleggerimento burocratico di vario tipo.

In Italia la tendenza è inesorabilmente un’altra.

L’unico intervento operato dal Ministero dell’Interno è stata la proroga dei permessi di soggiorno pendenti o da rinnovare. Una decisione indirizzata più a stornare gli agenti predisposti verso altre mansioni, come quelle di ordine pubblico, che a alleviare la situazione legale di tanti immigrati. Dai primi di marzo gli uffici immigrazione delle questure d’Italia sono di fatto chiusi e il congelamento dei permessi di soggiorno concederà fortunatamente più tempo, a richiedenti protezione o titolari di permessi in scadenza, prima della possibile caduta in clandestinità.
Per ciò che invece riguarda la questione detentiva, come dicevamo, l’Italia non vuole assolutamente mollare la presa.

I Cpr, malgrado in alcuni di essi siano stati interrotti i lavori di ristrutturazione, continuano ad essere attivi e a rinchiudere i senza documenti. Nel Cpr di Torino se ne ha la certezza, per gli altri Cpr, guardando alle notizie delle questure locali, anche. Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo si è espresso chiaramente a riguardo: le espulsioni dei migranti sono considerate, al pari di altre tipologie di udienze in ambito penale, una priorità. La circolare del 26 marzo del Ministero dell’Interni ne è una conferma: dopo aver elencato tutta una serie di accortezze riguardo alla possibilità del contagio e la necessità di quarantene, isolamento e dispositivi individuali di protezione, dopo aver esteso a tutti i Cpr il divieto di avere con sé i propri cellulari (cosa questa che dà forma legale a una pratica già attuata nel Cpr di Torino, un cambiamento da cui difficilmente si tornerà indietro), parla esplicitamente di nuovi arrivi.
Nonostante alcuni giudici, a Potenza e Trieste ad esempio, non stiano convalidando le proroghe, in moltissimi casi i Cpr, e particolarmente quello di Torino, continuano a ricevere nuovi reclusi e i giudici locali prorogano o convalidano il trattenimento come se nulla fosse. Questo è un primo dato di fatto, i Cpr sono aperti e funzionanti su tutto il territorio nazionale.

Un fatto che si potrebbe considerare banale, ma la questione prende una piega inaspettata se si va a osservare la macchina delle deportazioni.
Gli spostamenti aerei e marittimi di persone dall’Italia sono di fatto bloccati, ciò chiaramente non è avvenuto in modo immediato e molti paesi come il Marocco, la Tunisia, il Ghana e l’Egitto hanno tardato nell’attivare il blocco totale, ricevendo gli espulsi ad esempio, ma mettendoli in quarantena preventiva. Al momento vi è, sembra, il blocco totale anche per quei famosi voli charter che ramazzano persone in giro per vari paesi per poi deportarli. Non vi è di fatto nessuna comunicazione ufficiale sul blocco delle deportazioni, ma le notizie che emergono sulla questione lasciano pensare a quest’ipotesi. Ultima notizia di una deportazione compiuta è rintracciabile sul sito della questura di Ferrara, datata 25 marzo verso Islamabad (il Pakistan avrebbe attuato il blocco aereo quello stesso giorno). Deportazioni ferme dunque, seconda importante considerazione.

A cosa stanno servendo dunque i Centri per i rimpatri se i rimpatri sono sospesi o comunque impossibili da effettuare?
Crediamo che a questo punto, se la situazione dovesse rimanere tale nonostante la richiesta di svuotamento anche da parte di figure istituzionali, i Cpr, persi i fronzoli che ne giustificavano sulla carta l’imprescindibilità istituzionale, stiano svelando finalmente il loro vero ruolo. I Centri non sono mai serviti realmente a espellere i migranti (le cifre negli anni sono sempre state irrisorie rispetto alla popolazione clandestina), ma a contenerne una piccola parte come monito per tutti gli altri. Insomma la vecchia storia dei Cpr come deterrente collettivo è finalmente evidente e nuda di fronte a tutti.
Sta insomma venendo meno l’unico motivo per cui i governi europei giustificano i Centri: la deportazione.
I centri per i rimpatri non rimpatriano, proseguono comunque le loro attività. Quali attività?
Come stanno dunque funzionando attualmente i Cpr e perché?
La loro funzione contenitiva, esercitata nei confronti di chi esce dal carcere o da chi viene preso durante le retate, continua ad andare avanti, e al posto della  deportazione rimarrà unicamente l’espulsione con il famoso foglio di via; provvedimento che verrà inesorabilmente eluso, non potendo l’espulso adempiere al proprio allontanamento. I senza documenti rimarranno quindi sul suolo nazionale e potranno essere nuovamente riacciuffati e reclusi. Insomma il famoso “gioco dell’oca” è quanto mai valido.

Perché l’Italia non vuole chiudere i Cpr?
Crediamo che molti dei ragionamenti che riguardano la reclusione dei migranti non possano essere scissi dalla situazione detentiva in generale; sarebbe un errore parlare, in tale situazione emergenziale, esclusivamente dei Cpr senza fare un ragionamento sul carcere. Sulla questione carceraria il Ministero della Giustizia sta agendo in modo ottuso e assassino, portando di fatto i detenuti verso una possibile contagio generalizzato. Ciò sta accadendo anche per i Centri Per i Rimpatri, dove la liberazione, unica e vera sicurezza, sarebbe ancor più semplice e banale dal punto di vista burocratico. Sembra che lo Stato italiano sia molto più preoccupato di perdere credibilità repressiva che prevenire un’ulteriore tragedia e mettersi al sicuro dalle possibili rivolte che, spinte dalla paura, potrebbero spazzare via le carceri. Ciò non fa che evidenziare maggiormente quanto la detenzione amministrativa, al pari del carcere, sia un pilastro imprescindibile dell’ordinamento italiano. Un presupposto fondamentale che lo Stato non vuole minimamente mettere in dubbio. Insomma non è solo la questione economica – il business dei Centri – a impedirne la chiusura temporanea, ma qualcosa che scava nelle radici del potere statale.
Ed è proprio alle basi dell’ordinamento che vanno a colpire le rivolte dei reclusi, scardinando con forza le fondamenta della detenzione. La paura del contagio, la certezza che ciò possa portare a delle vere e proprie stragi ha spinto molti a ribellarsi: nel mese di marzo nei Cpr di Gradisca, di Palazzo San Gervasio e di Ponte Galeria a Roma i reclusi hanno portato avanti numerose proteste e rivolte. L’ultima, tra il 29 e il 30 marzo nel Centro friulano ha incendiato e distrutto parte della struttura.

Tutto lascia pensare che altre rivolte esploderanno da qui a breve.

Macerie

Chi è dentro è dentro

Negli ultimi giorni c’è stato un susseguirsi di dichiarazioni e analisi sulla situazione d’emergenza in cui versano le carceri attualmente dopo che il Covid19 ha iniziato a diffondersi tra i prigionieri, le guardie e il personale che lavora al loro interno. Già questa mole di parole, pronunciate spesso da pezzi grossi delle istituzioni, dà la cifra di quanta preoccupazione aleggi nelle stanze dei governanti, riguardo la possibilità che un’altra ondata di rivolte si scateni dopo quella di alcune settimane fa. Se poi, oltre a svariati magistrati di sorveglianza, sentiamo il Procuratore capo di Trieste, il capo del Csm e addirittura il Presidente della Repubblica  invocare l’amnistia, criticare i provvedimenti del governo perchè troppo blandi nello svuotare le carceri o mostrare una qualche empatia verso le problematiche dei detenuti, il quadro diventa ancora più chiaro.

Del resto per capire che la situazioe sia peggiorata rispetto alle settimane scorse non serve certo un’analista dei servizi di sicurezza interna: l’epidemia come dicevamo si sta diffondendo e il livello di cotagio con ogni probabilità sarà ben maggiore di quello che trapela all’esterno visto l’interesse delle autorità a mantenere una fitta cappa sull’argomento; le misure adottate dal governo non hanno poi in alcun modo intaccato il sovraffollamento e rischiano anzi di accendere ulteriormente gli animi per l’odore di presa per il culo che emanano a grande distanza.

A parte le concessioni fornite a semiliberi e a chi gode di permessi premio, che rappresentano una porzione molto esigua di chi è recluso, possono andare agli arresti domiciliari solo quei detenuti cui restano da scontare meno di 18 mesi di detenzione – e neanche tutti viste le numerose eccezioni – , quelli che però hanno ancora un residuo pena superiore a 6 mesi possono uscire solo dotati di braccialetto elettronico. Braccialetti elettronici che però non sono assolutamente sufficienti al pur esiguo numero di potenziali beneficiari, come sottolinea anche Fastweb, l’azienda che nel 2017 ha ricevuto l’incarico di produrli e gestirli. Una misura il cui sadismo è amplificato dalla lungaggine di questo gioco dell’oca organizzato dal governo, prima di rischiare di tornare alla casella VIA è necessario infatti fare istanza al magistrato di sorveglianza e attendere la sua risposta con tutto il carico d’ansia e incertezza che questa lunga attesa è inevitabilmente destinata a generare. Per completare il quadro vanno sottolineate poi le numerose eccezioni segnalate nel decreto, accanto a chi ha commesso reati gravi che rientrano nell’art. 4 bis, troviamo chi non ha un domicilio – e data la situazione non può ususfruire delle strutture che in precedenza assolvevano almeno in parte a questo compito -, tutti i prigionieri in attesa di giudizio – che la sospensione dell’attività dei tribunali lascia in questa condizione sine die – e i detenuti ritenuti responsabili delle rivolte – una qualificazione che persino alcuni direttori delle carceri non sanno bene come attribuire visto che sono ancora in cors gli accertamenti a riguardo- .

Nel frattempo, è bene ricordarlo, le visite con i familiari continuano ad essere del tutto bloccate.

Una situazione esplosiva che preoccupa certamente anche il governo. A pesare parecchio nella scelta di non prendere misure che provino in qualche modo a stemperare la tensione ci sono di certo considerazioni di carattere squisitamente elettorale – non cedere terreno e non offrire angoli d’attacco, dal punto di vista sicuritario, all’opposizione -: il carattere forcaiolo di questo governo, del resto, non lo scopriamo certo ora. Ma ancor più forte è la preoccupazione di indebolire il sistema carcerario che è uno dei pilastri su cui si regge la baracca, e assieme a questo scalfire la credibilità statale, che mai quanto ora si regge sulla capacità dello Stato di controllare la popolazione e quindi punire chi contravviene alle leggi. L’unico terreno su cui stanno seriamente ragionando, per far fronte a un’eventuale nuova ondata di rivolte, è dunque quello militare. Le stesse modalità adottate alcune settimane fa, programmate questa volta con una certa meticolosità per non farsi trovare impreparati. In questa direzione vanno le richieste di poter schierare l’esercito o dotare i secondini di taser, in caso di nuovi disordini.

A guidare i passi dei governanti è dunque una logica, in senso tecnico, assassina. Che ha preventivamente messo in conto di poter lasciare sul terreno altri morti tra i detenuti, oltre a quelli già lasciati sul selciato nelle settimane passate. Un dato da tenere bene a mente, anche quando quest’emergenza magari terminerà, specie per coloro che hanno sostenuto e continuano a sostenere a vario titolo l’operato del M5S, su scala nazionale come locale.

 

 

Se le righe di cui sopra si sono soffermate principalmente sulla situazione italiana, rivolte nelle carceri sono esplose un po’ ovunque nel mondo e ci è sembrato quindi utile fornirne una cronologia abbastanza approfondita, anche se probabilmente non completa, con i relativi link in lingua per capire cosa è accaduto precisamente.

Riguardo la situazione italiana vi consigliamo invece questo contributo audio realizzato da Radiocane sulla rivolta di San Vittore.

 

Francia

15\03 carcere di Metz-Queuleu

17\03 carcere di Grasse, Draguignan, Aix-en-provence, Maubeuge, Douai, Perpignan, Nancy, Valence, Saint-Etienne, Angers, Toulon, Maux,Argentan, Nantes, Carcassonne.Aiton, Angers, Douai, Epinal,La Santé, Lille-Sequedin, Montauban et Varennes-le-Grand, Longuenesse, Meaux, Moulins, Limoges, Rennes-Vezin, Saint-Malo, Nice, Fleury-Mérogis.

17/03 – 23/03 elenco carceri e CRA in rivolta in Francia

22\03 carcere di Uzerches

 

Spagna

15\03 carcere di Brians

15\03 carcere di Alcalà de Henares, Fontcalent, Castellon, Albolote

 

Brasile

17\03 carceri di San Polo, Mongaguà, Trememebè, Porto Feliz e Mirandòlis

 

Belgio

16\03 carcere di Nivelle

Perù

19\03 carcere di Piura

 

Cile

19\03 carcere di Santiago

 

Venezuela

18\03 carcere di San Carlos

 

Mauritius

19\03 carcere di Beau-Bassin

 

Sri Lanka

21\03 carcere di Anuradhapura

 

Uganda

22\03 carcere di Arua

 

India

21\03 Calcutta prigione di Dum Dum

 

Colombia

22\03 carceri di Ibague, Jamundi, Combita, Medellin, Bogotà

 

Samoa

23\03 carcere di Tanumalala

 

USA

24/03 carcere di Washington

 

Iran

16\03 carcere di Parsylon Khorramad
20\03 carcere di Aligoodarz

21/03 carcere di Khorramabad

Chi è dentro è dentro

Segnali

Se nessuno, goveno in primis, sembra sapere quando arriverà il tanto atteso picco dei contagi, sembra stia invece avvicinandosi quello dell’insofferenza verso una situazione che giorno dopo giorno diventa per tanti, sempre più invivibile. All’impossibilità di uscire di casa senza sentire il fiato sul collo di polizia, carabinieri e militari, alla sensazione di essere diventati tutti dei comodi capri espiatori utili da additare come untori per coprire le incapacità mostrate dalla macchina statale, inizia ad aggiungersi, pressante, il problema di come mangiare. E sì, perchè dopo diverse settimane ormai in cui son venuti meno gli abituali modi per mettere qualche soldo in tasca, per molti, e sono numeri destinati a crescere, emergenza sanitaria e economica iniziano a intrecciarsi in un mix esplosivo. E poco o niente contano le balbettanti misure prese a riguardo dal governo. casse integrazioni in derogafondi speciali di 9 settimane e assegni di 600 euro sono destinati solo ad alcune categorie e non si sa bene con che tempi arriveranno. Anche il reddito di quarantena di cui si sente parlare da più parti, a sinistra, comporterebbe gli stessi problemi, qualora si riuscisse a ottenerlo raggiungerebbe infatti soltanto le tasche di una parte di chi se la passa peggio e ci vorrebbero comunque tempi notevoli dalla sua approvazione a che venisse stanziato.

Soluzioni parziali, tortuose e quanto mai lente insomma, cui sembra stiano iniziando a sostituiris misure ben più pragmatiche, all’insegna di una parola d’ordine universale, alla portata di tutti e immediata: gratuità. C’è chi si organizza in maniera più accurata e accorta e assalta un tir di generi alimentari saccheggiandolo; chi promuove, a quanto pare, una pagina su facebook per poi ritrovarsi in un supermercato a riempire i carrelli e provare, ahinoi senza successo, ad uscire senza pagare. Salvo poi costringere di riffa o di raffa il supermercato, in accordo coi Carabinieri, a distribuire nei giorni seguenti buoni da 50 euro per la spesa, così da sedare i bollenti spiriti. E ci saranno poi tanti, c’è da esserne certi, protagonisti di fatti simili di cui non siamo venuti a conoscenza. Di certo le autorità non hanno alcun interesse a che si pubblicizzino questi fatti, con l’aria che tira ci vuole poco che si crei un effetto domino una volta che esempi di questo tipo salissero alla ribalta, un po’ come acccaduto nelle carceri, del resto. E un simile scenario creerebbe non pochi problemi a lorsignori visti i compiti extraordinari di controllo del territorio in cui sono impegnati militari e forze dell’ordine, e con la crescente tensione nelle carceri che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Ben difficilmente si potrebbero allora schierare preventivamente, come a Palermo, reparti mobili davanti a tutti gli ipermercati….

Segnali significativi poi, di quello che potrà accadere più in là, quando la situazione sanitaria rientrerà, almeno per un po’, in una certa normalità, arrivano dalla regione dell’Hubei focolaio iniziale del Covid19, dove ieri è scoppiata una rivolta contro le autorità e le forze dell’ordine che continuano a imporre rigidi controlli sugli spostamenti.

Macerie

Torino – Militari e ordinanze sabaude

Come abbiamo già detto pochi giorni fa, chi ci governa non sta capendo granché circa la diffusione del contagio e gli scenari clinici che potrebbero perdurare, aggravarsi o vedere un miglioramento. Il rapido succedersi, con ritmo quasi quotidiano, delle ordinanze è evidentemente figlia di questa incapacità come mostrano le dichiarazioni dei vari amministratori locali che, ad appena qualche giorno di distanza dall’applicazione di queste misure sbraitano inferociti: “Le misure finora adottate non sortiscono alcun effetto!”.

A completare il quadro il tentativo di scaricare le responsabilità dell’inefficacia di questi provvedimenti su chi continua a mettere il naso fuori di casa e specialmente sui furbetti del jogging, nel tentativo di far sfogare in tanti l’ansia e il malcontento crescenti sui propri vicini di casa. Un altro terreno su cui si affastellano dichiarazioni e misure contradditorie, con ritmo quasi quotidiano, è quello del lavoro. La vaghezza delle disposizini è fortemente voluta così da permettere, quando i rapporti di forza tra lavoratori e padroni sono particolarmente favorevoli a questi ultimi, di continuare l’attività. Riguardo alcuni comparti dell’economia ritenuti realmente strategici  le disposizioni sono invece di una chiarezza cristallina, arrivando ad invocare la precettazione. Confindustria si è fatta sentire e il governo ha già allargato la lista di attività produttive concesse, allegate all’ultimo decreto. Da segnalare come gli scioperi stiano nel frattempo continuando, in giro per l’Italia come nei dintorni di Torino.

Ciò che non dicono è che tutti gli strumenti per capire quanto è diffuso il contagio e quindi quanto realmente queste misure stiano sortendo effetto gli sono sfuggiti di mano, senza contare che ogni misura ha bisogno di tempo per mostrare dei risultati e sbraitare tre giorni dopo è perlomeno da mentecatti. Per questo, allo stato attuale, l’analisi degli spostamenti della popolazione tracciati tramite Istagram più che manifestare un presente distopico votato al controllo, per cui la controparte probabilmente non dispone ancora dei mezzi necessari, ci pare un tentativo di giustificazione ex post delle restrizioni adottate e in via di attuazione. Per non parlare poi delle ultime notizie di poche ore fa, che attesterebbero una tenue flessione della curva dei contagi giornalieri. Basta paragonarla all’altrettanta diminuzione dei tamponi giornalieri effettuati, almeno delle regioni più colpite, per capire che non si può assolutamente gridare al “picco”. Meno tamponi si fanno…meno contagi si trovano, per tagliare la questione con l’accetta.

Un altro motivo per cui stringere a dismisura e mettere un po’ di militari in strada  è che l’epidemia si sta insinuando nei palazzi del potere, negli organi burocratici e tra le forze di polizia. Sentire di non essere in grado di controllare un fenomeno che può mettere in quarantena non solo una popolazione, ma anche la sua classe di governo e sopratutto gli individui che compongono la macchina del comando, non può che mettergli una certa ansietta. Dotarsi di tutti gli strumenti per mantenere il controllo con le forze che hanno, è di prioritaria importanza. Checché ne dica l’ex comandante Alfa del Gis riguardo alla eccessiva confusione di questi decreti , auspicando la legge marziale per chi si fa una passeggiatina in spiaggia, ci pare che proprio le zone grigie che lasciano potranno essere un punto di forza per modulare l’intervento delle forze di polizia e dei militari e la loro durezza.

Cerchiamo ora di calarci brevemente nella nostra dimensione torinese e vedere gli sviluppi di questi primi giorni di misure a briglia sciolta. Dai palazzi della Regione è stata emessa un’ordinanza che avrà validità fino al 3 aprile, che aggiunge alcuni elementi all’ultimissimo decreto nazionale:

  • l’accesso agli esercizi commerciali sarà limitato ad un solo componente del nucleo familiare, salvo comprovati motivi di assistenza ad altre persone;
  • vietata la sosta e l’assembramento davanti ai distributori automatici “h24” che distribuiscono bevande e alimenti confezionati;
  • ove possibile, dovrà effettuarsi la rilevazione sistematica della temperatura corporea presso i supermercati, le farmacie e i luoghi di lavoro; disposto il fermo dell’attività nei cantieri, ad eccezione di quelli di interesse strategico;
  • vietato l’assembramento di più di due persone nei luoghi pubblici;
  • i mercati aperti sono sospesi fino a che non verranno elaborate misure per controllarne l’affluenza.

Con un salto nel recente passato ricompaiono i militari nelle strade, come ai tempi in cui Strade Sicure era in vigore sul suolo sabaudo. Solo che questa volta al posto dei gipponi ci sono i mezzi corazzati, che in coppia si aggirano per i quartieri dove viviamo accompagnati da Carabinieri o sbirri in borghese. Militari che a quanto pare non pattuglieranno tutta la città ma solo alcuni quarteri, Madonna di Campagna e Barriera di Milano, in continuità con le misure di controllo del territorio adottate negli ultimi mesi prima dell’emrgenza Covid. Che queste misure non abbiano del resto obiettivi sanitari, ma propagandistici e di controllo sociale, non lo sostengono solamente dei testardi bastian contrari come noi ma anche il locale questore De Matteis.

Come se non bastasse in questo back to the future, fanno capolino anche vecchie e accanite cariatidi: l’ex PM Antonio Rinaudo è stato nominato responsabile dell’Area Legale dell’Unità di crisi, e direttore della sede Eurspess sezione Piemonte-Valle d’Aosta.

Un altro elemento che dà la cifra della crescente tensione sociale e delle modalità variegate che verranno utilizzate per contrastarla e mistificarne le ragioni è l’aumento dei TSO: in una città dove il numero dei Trattamenti Sanitari Obbligatori è sicuramente già alto, con una media di meno di uno al giorno, si è già toccato il record di 9 casi in 24 ore.

Nel frattempo si palesano anche qui le prime, e per ora timide, avvisaglie di guerra civile. Tramite gruppi facebook molti abitanti segnalano la presenza di persone che fanno jogging o che sono troppo vicine le une alle altre. I pennivendoli delle testate giornalistiche riprendono video postati sui social per fomentare la situazione. Che importa poi se procrastinano anche false informazioni sanitarie, pur di nascondere le inadempienze dei governanti o le criticità strutturali, come ad esempio la tesi che le mascherine monouso possono essere lavate e riutilizzate. Cosa smentita dallo stesso Istituto Chimico Farmaceutico Militare, autore della ricerca, che ha negato qualsiasi “evidenza sperimentale”.

A Casale Monferrato, nell’alessandrino, un uomo di 65 anni in quarantena domiciliare è stato segnalato dai vicini di casa mentre usciva per fare la spesa, a nulla è valsa la giustificazione davanti alla Polizia (l’uomo avrebbe dichiarato di vivere solo e non sapere come provvedere ai propri bisogni) venendo così denunciato per delitto colposo contro la salute pubblica. Interessanti da questo punto di vista i numeri snocciolati sempre dal questore torinese di una media di 600 telefonate al giorno ricevute dalla Polizia di Stato che, solo mercoledì scorso, avrebbe accertato la veridicità di 220 segnalazioni su 395.

La guerra continua, insomma. Da Torino, per ora, è tutto

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