You’ll never riot alone

C’è un’altra pandemia oggi in corso in tutto il pianeta. L’OMS non se ne occupa minimamente, non essendo di sua competenza, e i media cercano di farla passare sotto silenzio o di minimizzarla. Ma i governi del mondo intero sono preoccupati del rischio che comporta. Questa pandemia si sta diffondendo sulla scia del virus biologico che oggi sta riempiendo gli ospedali. Passa dove passa il Covid-19, insomma. Anch’essa toglie il fiato. La paura del contagio sta infatti provocando il contagio della rabbia. I primi sintomi di malessere tendono ad aggravarsi, trasformandosi prima in frustrazione, poi in disperazione, infine in rabbia. Rabbia per la scomparsa, su decreto sanitario, delle ultime briciole di sopravvivenza rimaste.
È significativo che all’annuncio delle misure restrittive prese dalle autorità per prevenire il dilagare dell’epidemia, una sorta di arresti domiciliari volontari, siano stati proprio coloro che la reclusione dietro quattro mura la soffrono già quotidianamente per costrizione — i detenuti — a dare fuoco alle polveri. Vedersi privare dei pochi contatti umani loro rimasti, per di più col rischio di fare la fine dei topi in trappola, è sfociato in ciò che non si verificava da anni. L’immediata trasformazione della rassegnazione in furore.
Tutto è iniziato nel paese occidentale più colpito dal virus, l’Italia, dove lo scorso 9 marzo sono scoppiate sommosse in una trentina di prigioni subito dopo la sospensione dei colloqui con i familiari. Nel corso dei disordini dodici detenuti sono morti — quasi tutti «per overdose», secondo le infami veline ministeriali — innumerevoli altri sono stati massacrati. In una città, a Foggia, 77 detenuti sono riusciti ad approfittare dell’occasione per evadere (anche se per molti di loro, purtroppo, la libertà è durata troppo poco). Una notizia simile non poteva che fare il giro del mondo e chissà che non abbia ispirato le proteste che, a partire da quel momento, si sono diffuse fra i segregati vivi dei quattro continenti: battiture, scioperi della fame, rifiuto di rientrare in cella dopo l’aria… Ma non solo.
In Asia, la mattina del 16 marzo gli agenti delle squadre anti-sommossa fanno irruzione in due delle maggiori carceri del Libano, a Roumieh e Zahle, per riportare la calma; alcuni testimoni parlano di inferriate divelte, di colonne di fumo, di detenuti feriti. In America Latina, il 18 marzo, avviene un’evasione di massa dal carcere di San Carlos (Zulia), in Venezuela, nel corso di una sommossa scoppiata anche là subito dopo l’annuncio delle misure restrittive: 84 detenuti riescono ad evadere, 10 vengono abbattuti durante il tentativo. Il giorno dopo, 19 marzo, anche alcuni prigionieri del carcere di Santiago, in Cile, tentano la fuga. Dopo aver preso il controllo del loro settore, dato fuoco al posto di guardia ed aperto i cancelli del corridoio, si scontrano con le guardie. Il tentativo di fuga fallisce e viene duramente represso. In Africa, il 20 marzo, c’è un altro tentativo di evasione di massa dal carcere Amsinéné di N’Djamena, capitale del Ciad. Ancora in America Latina, il 22 marzo sono i detenuti del carcere La Modelo di Bogotà, in Colombia, ad insorgere. È un massacro: 23 morti e 83 feriti fra i detenuti. Di nuovo in Europa, il 23 marzo un’ala del carcere scozzese di Addiewell finisce in mano ai rivoltosi, e viene devastata. Negli Stati Uniti, quello stesso giorno 9 detenute scappano dal carcere femminile di Pierre (South Dakota) lo stesso giorno in cui una loro compagna di sventura è risultata positiva al tampone (quattro di loro verranno catturate nei giorni seguenti). Sempre il 23 marzo, 14 detenuti evadono da un carcere della contea di Yakima (Washington DC) poco dopo l’annuncio del governatore sull’obbligo di rimanere in casa. Ancora in Asia, la liberazione «provvisoria» di 85.000 detenuti per reati comuni in Iran non serve a placare la rabbia che cova in molte galere; il 27 marzo una ottantina di detenuti evadono dal carcere di Saqqez, nel Kurdistan iraniano. Due giorni dopo, 29 marzo, un’altra rivolta esplode in Thailandia nel carcere di Buriram, nel nord-est del paese, dove alcuni detenuti riescono a fuggire. E non solo le carceri, anche i centri in cui vengono reclusi gli immigrati clandestini sono in agitazione, come dimostrano i disordini scoppiati al Cpr di Gradisca d’Isonzo, in Italia, il 29 marzo.
Ma se le galere a cielo chiuso sovraffollate di dannati della terra sembrano oggi più che mai delle bombe ad orologeria che via via deflagrano, che dire delle prigioni a cielo aperto? Per quanto tempo ancora la paura della malattia avrà la meglio sulla paura della fame, paralizzando i muscoli ed offuscando le menti? In America Latina, il 23 marzo 70 persone assaltano una grande drogheria a Tecámac, in Messico; due giorni dopo in 30 saccheggiano un supermercato di Oaxaca. Lo stesso giorno, 25 marzo, dall’altra parte dell’oceano Atlantico, in Africa, la polizia deve disperdere a colpi di lacrimogeni la folla presente al mercato aperto di Kisumu, Kenya. Ai poliziotti che li esortano a chiudersi in casa, venditori e clienti rispondono: «sappiamo del rischio del coronavirus, ma noi siamo poveri; abbiamo bisogno di lavorare e di mangiare». Il giorno dopo, 26 marzo, la polizia italiana comincia a presidiare alcuni supermercati a Palermo, dopo che in uno di questi un gruppo di persone ha cercato di uscire con i carrelli pieni senza fermarsi alle casse.
Né si può dire che gli arresti domiciliari imposti a centinaia di milioni di persone abbiano fermato del tutto la determinazione di chi è intenzionato a sabotare questo mondo mortifero. Nella notte fra il 18 e il 19 marzo a Vauclin, nell’isola di Martinica, viene incendiato un locale tecnico della compagnia telefonica Orange, tagliando le linee telefoniche ad un paio di migliaia di utenti. In Germania poi, dove le misure di contenimento scattano il 16 marzo, gli attacchi notturni continuano inarrestabili. Il 18 marzo, mentre a Berlino vanno in fumo alcuni veicoli dei concessionari Toyota e Mercedes, a Colonia vengono infrante le vetrate della società immobiliare Vonovia. All’alba del 19 marzo viene attaccata un’agenzia bancaria ad Amburgo, mentre a Berlino viene incendiata l’auto di una impresa di sicurezza. Nella notte fra il 19 e il 20 viene data alle fiamme un’auto di militari riservisti a Norimberga in segno di protesta contro la crescente militarizzazione, a Werder vengono incendiati tre yacht, e Berlino perde un’altra automobile di una ditta preposta alla sicurezza. Nella notte fra il 20 ed il 21 marzo, a Lipsia viene incendiata l’ennesima auto di un’impresa legata a tecnologie di sicurezza. Quella stessa notte sia in Germania che in Francia c’è chi tenta di staccare la spina dell’alienazione. Il tentativo fallisce a Padernon, dove i teutonici pompieri salvano per un soffio un’antenna telefonica in procinto di venire avvolta dalle fiamme. La fortuna non arride nemmeno agli autori del danneggiamento di alcuni cavi di fibre ottiche nei pressi di Bram, in Francia. Parte del borgo rimarrà sì senza internet e telefono per diversi giorni, ma i responsabili saranno arrestati grazie a una soffiata di alcuni testimoni. La notte successiva, quella del 22 marzo, nei pressi di Amburgo l’auto di un doganiere va in cenere. Chi ha compiuto questa azione diffonderà un testo dove si può leggere: «È proprio in questo periodo di pandemia che si accompagna alla stretta e alla restrizione della libertà di movimento, che è ancora più importante preservare la propria capacità di azione e mostrare a se stessi, come ad altri sovversivi, che la lotta contro le costrizioni di quest’epoca continua, anche se appare folle e difficile. Se ci arrendiamo all’auspicio dello Stato di isolarci, se ci accontentiamo di scrollare le spalle di fronte alla minaccia del coprifuoco, gli diamo l’opportunità di continuare le sue macchinazioni…». Si tratta di un pensiero che scalda le teste in tutto il pianeta, se è vero che in quella stessa notte fra il 22 e il 23 marzo l’aeroporto internazionale della Tontouta, a Païta, Nuova Caledonia è stato preso di mira (vetrate infrante e veicoli doganali vandalizzati) da chi evidentemente non è d’accordo con le parole del presidente del Senato tradizionale, secondo cui «le decisioni prese nell’emergenza dalle autorità pubbliche senza una spiegazione immediata non devono incitare alla violenza».
Ma il fatto che più di altri potrebbe lasciare un segno profondo, brace che cova sotto le coltri del totalitarismo e da cui potrebbero scaturire scintille, è la sommossa (l’unica di cui sia arrivata una qualche notizia) scoppiata il 27 marzo non lontano da Wuhan, epicentro dell’odierna pandemia, al confine fra le province di Hubei e di Jiangxi. Migliaia di cinesi appena usciti da una quarantena durata due mesi hanno espresso tutto il loro apprezzamento e gratitudine per le misure restrittive imposte dal governo, attaccando la polizia che cercava di bloccare il passaggio sul ponte del fiume Yangtze.
Da un mese a questa parte, il mondo così come lo abbiamo sempre conosciuto vacilla. Nulla è più come prima e, come vanno dicendo in tanti pur di opinioni diverse, nulla sarà più come prima. A mettere in discussione la sua quieta riproduzione non è venuta affatto l’insurrezione, bensì una catastrofe. Reale o percepita che sia, non fa differenza. Non c’è dubbio che i governi faranno di tutto per approfittare di questa situazione e spazzare via ogni libertà rimasta, che non sia quella di scegliere quale merce consumare. Non c’è dubbio nemmeno che abbiano tutte le carte tecniche in mano per chiudere la partita, ed imporre un ordine sociale senza più sbavature. Ciò detto, è risaputo che perfino i meccanismi più solidi e precisi possono andare a catafascio per un nonnulla. Il loro calcolo dei rischi preventivati, ed accettati, potrebbe rivelarsi errato. Drammaticamente errato e, una volta tanto, soprattutto per loro. Sta anche ad ognuno di noi fare in modo che ciò accada.
[30/3/20]