QUALCHE IPOTESI SU COVID 19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO
Trovarsi con l’acqua alla gola è forse una delle immagini che fino a qualche settimana fa poteva rappresentare meglio le condizioni di vita di molti. A queste latitudini, le differenze tra chi occupava i vari gradini nella parte bassa della scala sociale consistevano per lo più nel riuscire a respirare o trovarsi invece a boccheggiare quando la corrente agitava un po’ le acque.
Il Covid19 è arrivato all’improvviso come uno tsunami.
Ad esserne travolti contemporaneamente sono stati tantissimi e non solo quelli che occupavano gli ultimissimi gradini. L’impossibilità di ottenere qualche tipo di salario sta portando sempre più persone ad annaspare, man mano che si esauriscono le scorte. Le briciole elargite dalle autorità, in svariate forme, più che affrontare il problema servono a far loro guadagnare tempo e a cercar di raffreddare un po’ gli animi, in vista di frangenti che si annunciano se possibile ancor più difficili. Il quadro non è infatti destinato a modificarsi granché anche quando le acque man mano si ritireranno.
Il numero dei disoccupati, sia tra chi percepiva un qualche reddito o salario regolare sia tra quanti riuscivano a sbarcare il lunario saltando da un lavoro all’altro all’interno o ai margini del recinto dell’economia formale, è destinato ad aumentare considerevolmente. L’impoverimento generale legato alla contingenza coronavirus si intreccerà a dinamiche già in corso d’opera.
Uno dei principali fattori in grado di espellere porzioni crescenti di uomini e donne dal mondo del lavoro è senz’altro l’ulteriore salto, a livello d’automazione, legato allo sviluppo della robotizzazione e intelligenza artificiale. Un’automazione che, almeno su un piano tecnico, non sembra avere particolari preferenze rispetto ai settori lavorativi in cui svilupparsi. Sembra infatti che robotica e cervelli sintetici siano già in grado di raccogliere verdura e frutta riuscendo anche a selezionare quella già matura, a organizzare i magazzini della logistica e caricare i camion, a guidare gli stessi camion soprattutto su lunghi percorsi al di fuori dei centri urbani, e ancora a sostituire gran parte degli addetti alla vendita al dettaglio o alla grande distribuzione, o a svolgere attività come imbiancare la facciata di un palazzo, ma anche a svolgere attività più d’intelletto sostituendo in molte mansioni chi lavora in banca, negli studi legali, nel mondo della sanità e dell’istruzione…
Tale elenco delle attività in cui le macchine potranno sostituire in parte o totalmente gli esseri umani, seppure parziale, è utile per farsi un’idea della portata del fenomeno. Alcuni studi affermano che, potenzialmente, nei prossimi 10 anni il 47% delle attività lavorative rischia di subire gli effetti di quest’ulteriore automazione. E del resto se i costi di queste innovazioni continuano a ridursi, sostituire degli esseri umani con dei robot non può che essere economicamente conveniente vista la loro produttività, il fatto che non protestano e non si stancano e last but not least non si ammalano e non fanno ammalare.
L’ostacolo principale, almeno in prospettiva, ad una tale diffusione non sembra essere di natura tecnica. A pesar non poco, accanto agli scenari anche inediti destinati a delinearsi a livello macro, ci sarà la vecchia questione del conflitto di classe e l’esigenza, per le autorità, di mantenere un certo livello di coesione e pace sociale.
Un conflitto sociale, ci sia concesso un breve inciso, destinato a pesare non soltanto in una prospettiva luddista, ma in grado di modificare e stravolgere radicalmente il complesso delle dinamiche che stiamo tentando di descrivere. Di sparigliare del tutto le carte in tavola. Ci rendiamo conto che il quadro che stiamo tratteggiando, non solo in questo capitolo ma anche nei precedenti e in quelli che seguiranno, possa risultare quindi eccessivamente piano, privo di una dimensione essenziale. Come se le politiche di oppressione si sviluppassero in un ambiente vuoto, privo di resistenze e asperità. Per una chiarezza d’esposizione abbiamo però scelto di operare questa artificiale separazione tra strategie e dinamiche di esclusione e la dimensione del conflitto, su cui ci soffermeremo alla fine. Torniamo ora a volgere lo sguardo sulle carte in mano al nemico.
Già da tempo lo stesso termine “disoccupato”, che descrive una condizione – almeno a livello teorico – temporanea, appare sempre più inadeguato a descrivere una condizione che si annuncia essere piuttosto permanente o almeno a corrente alternata. Una questione tutt’altro che terminologica o di pura lana caprina perché presuppone per lorsignori la costruzione di retoriche e strategie radicalmente differenti rispetto a quelle adottate negli ultimi tempi.
Nel corso degli ultimi secoli le condizioni di accesso a determinati ammortizzatori sociali in grado di mitigare la miseria sono rimasti simili nel tempo: l’impossibilità di lavorare – che a seconda dei casi poteva essere imputabile al soggetto inabile o a una dimensione sociale -, l’appartenenza del beneficiario a un certo territorio – per cui i mendici all’interno di una determinata comunità erano soggetti a misure, non certo piacevoli come il lavoro coatto, ma comunque volte alla loro reintegrazione, mentre ai vagabondi erano riservate solo misure strettamente punitive – e l’accettazione della loro propria condizione – che è il vero oggetto di scambio tra Stato e chi percepisce questi ammortizzatori.
Partiamo dall’ultima di queste condizioni, e guardiamo più da vicino cosa i governanti hanno chiesto in cambio ai beneficiari di questi sussidi negli ultimi decenni. Dagli anni ’80 in poi il discorso che si è affermato è più o meno questo: in un mondo del lavoro sempre più veloce la quantità e competenze della manodopera cambiano costantemente, chi lavora deve di conseguenza adattarsi a questa situazione diventando disponibile a impieghi temporanei e un continuo percorso di formazione per tentare di stare al passo con le esigenze della produzione e del mercato. La dichiarazione d’immediata disponibilità ad accettare altre offerte di lavoro o un qualche percorso formativo cui è subordinata l’erogazione di Naspi o Reddito di cittadinanza, rispondono a questo impianto teorico. Nella pratica, per caratteristiche proprie all’economia e alla macchina burocratiche nostrane, questa disponibilità, fortunatamente, rimaneva per lo più sulla carta.
Interessante come uno dei primi casi significativi in cui il cerchio di queste politiche workfaristiche sembra riuscire a chiudersi sia quello recente dei braccianti. Per colmare il vuoto lasciato dagli immigrati stagionali che non possono rientrare in Italia causa coronavirus, c’è chi chiede una qualche regolarizzazione degli immigrati presenti in Italia – non certo per un qualche afflato antirazzista ma perché ritenuti più abituati ai ritmi e alle condizioni di lavoro nei campi – e chi propone invece di inviarci i beneficiari di Naspi o reddito di cittadinanza. Accantoniamo in questa sede la questione di come l’aumento del numero di disoccupati andrà a modificare la gestione dei flussi migratori e quali saranno le conseguenti ripercussioni in termini di conflitti tra manodopera indigena e immigrata. Resta da vedere se questo rimarrà un caso isolato, legato a una contingenza extraordinaria e difficilmente preventivabile, o se invece il notevole aumento di persone senza lavoro, beneficiarie o potenzialmente tali di qualche forma di sostegno al reddito, consiglierà a padroni e governanti di trovare un modo per oliare meglio la macchina workfaristica andando così a spingere ulteriormente al ribasso le condizioni lavorative generali. Sembra in ogni caso difficile ipotizzare che quest’attività possa risolvere i problemi di un numero considerevole di disoccupati, specie quando l’imbuto dell’accesso al lavoro sarà reso ancor più stretto dal processo d’automazione cui abbiamo accennato.
Una dinamica che nel ridurre il numero necessario di braccia e cervelli aumenterà la selezione all’ingresso richiedendo competenze sempre più specialistiche a chi dovrà affiancare le macchine nella loro attività. La mera disponibilità richiesta ai beneficiari di Naspi o reddito di cittadinanza ha quindi un’indubbia funzione disciplinare. Rappresenta quell’accettazione esplicita della propria condizione che è requisito fondamentale per poter entrare, pur restandone ai margini, nel recinto dell’inclusione. L’individuo ideale che l’ideologia workfaristica vorrebbe creare ha le sembianze di un Sisifo che non ha altro orizzonte se non quello di una precarietà che – tra un impiego, una collaborazione e un lavoretto – si ripete eternamente come la propria condizione definitiva.
Con l’ulteriore infoltirsi della schiera di disoccupati, il proliferare di nuove misure di selezione nel mondo del lavoro e l’irrompere di esigenze di natura sanitaria, le politiche workfaristiche sono probabilmente destinate a intrecciarsi ed essere affiancate da altri ordini del discorso e strategie. Alla base delle nuove forme di sostegno al reddito cambierà la logica del do ut des, e non sarà più legata principalmente alla sfera lavorativa: non crediamo insomma che attualmente le autorità abbiano bisogno di far costruire torri per poi farle buttare giù come accadeva in Irlanda ai beneficiari di sussidi durante le carestie del XIX sec.
Un buon esempio della direzione verso la quale potranno essere riorientati i criteri di inclusione può essere il credito sociale cinese. Uno strumento attraverso cui lo Stato, in collaborazione con la piattaforma di e-commerce Alibaba, valuta a chi redistribuire determinati beni sociali e in che misura farlo in base all’affidabilità mostrata dai singoli cittadini. Gli elementi alla base di questa valutazione unitamente ad un’affidabilità diciamo creditizia (pagamento di multe, mutui, bollette etc.) si legano ai più variegati aspetti della vita quotidiana: dall’attenzione nella raccolta differenziata, al tempo passato davanti a dei videogiochi, alle caratteristiche dei propri profili social (con particolare attenzione a possibili commenti sull’operato delle istituzioni naturalmente). A rielaborare questa mole di dati per stabilire il grado di inclusione degli uomini e donne monitorati sono degli algoritmi. È di questi giorni la notizia che anche la mobilità, la possibilità di potersi spostare o viaggiare in tempi di epidemia, dovrebbe rientrare nel paniere di beni da redistribuire in base a queste valutazioni. Consapevoli delle differenze sotto vari punti di vista tra l’Italia, e in generale l’occidente, e la Cina, con questo esempio non vogliamo certo dire che lo strumento del credito sociale verrà mutuato in toto e applicato anche a queste latitudini per delineare i contorni dell’inclusione sociale. Sono diversi però i segnali di come anche qui si stiano riconfigurando in maniera simile il concetto di cittadinanza e parallelamente di nemico: dai criteri sempre più stringenti per poter lavorare in quello che è il comparto pubblico, a una retorica sempre più bellica utilizzata da uomini delle istituzioni per descrivere comportamenti illegali, cui corrisponde un attività legislativa volta a ampliare sempre più la sfera dell’illegalità e estendere l’ombra del carcere ben oltre le mura dei penitenziari con l’aumento di misure limitative della libertà oltre a quelle strettamente custodiali, fino ad arrivare alla recente decisione di negare i buoni spesa a chi è ritenuto colpevole di determinati reati (ad esempio l’associazione a delinquere).
Introiettare una mentalità da Sisifo non è più sufficiente: della società salariale e della coesione sociale che quel mondo riusciva in qualche modo a garantire non resta granché. Con il ridursi del perimetro dell’inclusione sociale i criteri di selezione sempre più stringenti tenderanno a concentrarsi sulla vita quotidiana, nelle sue molteplici manifestazioni.
L’epidemia in corso ci ha catapultato in una situazione che ci sembra renda quanto mai chiare le dinamiche e i criteri relativamente nuovi di selezione che si stanno affermando. Se da un punto di vista strettamente sanitario l’intensità dell’emergenza è certamente proporzionale, come un po’ tutti riconoscono, alla riduzione delle capacità del sistema sanitario nel suo complesso, la speranza che quest’evidenza possa da sola far invertire rotta alle politiche statali in materia è con ogni probabilità destinata a rimanere tale.
Per quanto la natura contagiosa di quest’emergenza sembra possedere una certa capacità di convincimento in questo senso, visto che a livello economico non ci si possono permettere altri lockdown di queste proporzioni e durate, le strategie che verranno adottate ci sembra vadano o almeno proveranno ad andare in altre direzioni, specie in prospettiva. E ruoteranno attorno alla possibilità di permettere a chi ci governa di adottare meccanismi di selezione di chi sarà sacrificabile, in maniera quanto più indolore per il resto della popolazione e soprattutto per le esigenze del Capitale. Meccanismi che andranno a braccetto con i tanto sbandierati test sierologici che affibbiando patenti di immunità di durata e gradi ancora dubbi – veri e propri passaporti da pandemia – , contribuiranno a tracciare una linea d’inclusione su basi genetiche di cui è difficile prevedere gli esiti.
Un criterio di sacrificabilità già adottata del resto, in maniera certo molto raffazzonata per l’impreparazione generale, rispetto a strutture chiuse come le carceri, i Cpr o le Rsa. Se per i primi due la selezione dei sacrificabili è stata operata scegliendo scientemente di far ammalare e nel caso lasciar morire chi si trovava ristretto, guardie comprese, senza adottare strategie alternative per l’importanza strategica e simbolica della carcerazione; nel caso delle Rsa gli anziani e gli operatori sono stati abbandonati al loro destino, dopo che queste strutture sono state riempite di positivi provenienti dagli ospedali, man mano che la coperta si faceva sempre più corta e si è scelto quali porzioni di mondo si potevano lasciar scoperte.
Per affinare questi meccanismi di selezione, oltre a misure e dispositivi materiali efficaci riguardo la necessità di isolare e limitare i movimenti di pezzi della popolazione, sarà necessario costruire un discorso in grado di giustificare e rendere quanto più pacifiche le decisioni adottate. E il discorso neoliberale sulla colpevolizzazione dei poveri, funzionale alle politiche workfaristiche, non sembra del tutto adeguato e con ogni probabilità dovrà essere ricalibrato. A livello di digeribilità sociale un conto è limitare l’accesso a determinati beni e servizi arrivando a causare la morte di chi ne è escluso, come è stato fatto in passato con i tagli alla sanità, un conto invece è isolare e lasciar morire deliberatamente, a causa di un male che per di più minaccia contemporaneamente tutti.
Questo non vuol dire che il taglio delle prestazioni sanitarie smetterà di presentare il suo conto, a cominciare dal collo di bottiglia che si sta già incominciando a intravedere nelle regioni in cui l’emergenza Covid19 ha allentato un po’ la pressione. E in cui l’aver trascurato a livello di cura e diagnosi buona parte delle altre patologie minaccia di produrre conseguenze molto gravi, accentuando le differenze di classe tra chi potrà accedere alle corsie della sanità privata. Emblematico il dibattito che in questi giorni contrappone governo e governatori regionali sul tema sanità: continuare a lasciarla in mano alle Regioni o riportarla sotto l’ala del governo centrale? Un bivio che da una parte conduce a una sanità pubblica uniformemente inadeguata a livello di risorse e dall’altra a un modello federalista in cui alla polarizzazione sociale continuerà ad aggiungersi quella geografica, con Regioni che per la loro fiscalità possono garantire uno standard di servizi un po’ più elevato di altre. Come nel caso del Veneto che si è fatto garante con gli istituti di credito, per l’anticipazione delle casse integrazioni in deroga che a livello nazionale tardano ad arrivare.
Abbandoniamo ora l’ambito sanitario per soffermarci brevemente sul settore dei trasporti pubblici di cui avremo modo di assaggiare a breve le novità. Limitandoci all’ambito urbano, l’unica certezza è che autobus, tram e linee della metro dovranno ridurre notevolmente il numero di viaggiatori per garantire una certa distanza di sicurezza e che questo provocherà enormi problemi man mano che aumenterà il numero di viaggiatori. Che la controparte brancoli nel buio rispetto a come farvi fronte è evidente e il ventaglio di soluzioni di cui si sta discutendo risponde piuttosto all’esigenza di ottimizzare il servizio e riempire per quel che si può ogni singola corsa. Una delle proposte è quella di rendere obbligatoria la prenotazione dei posti e filtrare poi con l’installazione di tornelli chi ha diritto a viaggiare. Elaborando poi i dati di queste prenotazioni, oltre a organizzare le singole corse sarà possibile anche riorganizzare nel suo complesso questa nuova mobilità urbana. Le linee da implementare per soddisfare il maggior numero di prenotazioni e quelle invece da ridurre ulteriormente, tagliando fuori delle zone o almeno degli isolati in cui si è tradizionalmente restii a pagare una corsa, figuriamoci a prenotarla. Una dinamica del resto già in atto, a Torino come in altre città, con la raccolta dati sui viaggiatori paganti garantita dai biglietti bippabili. Facile prevedere poi che le aziende di trasporto, già in rosso da tempo, tenteranno di mettere una toppa alla diminuzione di entrate aumentando prima o poi il prezzo dei biglietti. E già da più parti si ventila l’ipotesi di introdurre “leve tariffarie”, ossia tariffe diverse a seconda degli orari, così da ridurre l’affollamento nelle ore di punta con degli sconti su quelle meno frequentate. E chissà che anche al Ministro dei trasporti nostrano non venga in mente di dichiarare, come il suo collega cileno alla vigilia della rivolta di ottobre, che «chi vuole pagare meno può sempre svegliarsi qualche ora prima, per andare a lavorare». Tra aumento dei prezzi, riduzione strutturale dei posti e selezione di chi si potrà spostare è lecito attendersi che il trasporto pubblico sarà un focolaio di forti tensioni sociali.
Ci sembra superfluo, alla luce del quadro che abbiamo tentato di tratteggiare, soffermarci sulla sensatezza del dibattito tornato prepotentemente alla ribalta in questi giorni su un reddito universale. Indipendentemente dalle varie declinazioni di questa forma di sostegno al reddito – che arriva fino ad esser dipinto come un tassello fondamentale di quel “comunismo di lusso completamente automatizzato” sbandierato in maniera imbarazzante da qualche accellerazionista di sinistra –, l’ipotesi che le autorità assicurino la possibilità di vivere o sopravvivere gratuitamente e indistintamente va nella direzione opposta a quella verso cui ci si era da tempo incamminati e verso cui si sta ora correndo.
Il termine universale, perlomeno nella sua accezione positiva, non solo non è contemplato nelle strategie politiche che daranno forma a questo mondo, ma è destinato a scomparire anche dagli stessi vocabolari cui attinge la retorica politica.
Dietro l’angolo pt.4 – Taglio netto