Toulouse (France) – Effet tunnel (09/05/2020)

« L’effet tunnel est une réaction naturelle liée au stress due à une focalisation du regard sur un point précis comme si on regardait à travers un téléobjectif ».

Dans la nuit du 8 au 9 mai à Toulouse une caisse d’Epargne a été la cible d’un tag « Macronavirus à quand la fin ? » et les vitres ont été brisées.

Les auteures n’auront de cesse de décrire l’attitude provocante et insultante du gouvernement et de sa gestion médiocre de la crise sanitaire et face à la prochaine crise économique ; en guise d’explication qu’ils voudraient absolutoire, ils brandissent un effet tunnel. Pour eux la sortie du tunnel c’était cette nuit la en attaquant la caisse d’Epargne. Cette réaction extrême serait donc dut a un contexte de stress extrême .

Et sur le chemin du retour ils auraient même dit « ça fait du bien » ce qui laisse prédire une seconde vague.

ecureuil

[Depuis attaque.noblogs.org].

(it-en-fr) Tolosa, Francia: Effetto tunnel (09/05/2020)

Toulouse (France) – Tunnel effect (May 9, 2020)

«The tunnel effect is a natural reaction, linked to stress and due to the focus of the gaze on a precise point, as if you were looking through a telephoto lens».

On the night between 8 and 9 May [2020], on a branch of the Caisse d’Epargne bank, the words «Macronavirus, when the end?» were written on the wall and the windows were smashed.

The authors do not stop describing the government’s provocative and insulting attitude and its mediocre management of the health crisis and the economic crisis that is to come; as an explanation, which they would like to absolutely-explain, they put forward the tunnel effect. For them, the exit from the tunnel was, that night there, the attack of the Caisse d’Epargne. This extreme reaction would therefore be due to a context of extreme stress.

And on the way back they would even say «I was pleased», which suggests a second wave.

squirrel

[Note: The squirrel is the mascot of the Caisse d’Epargne bank].

[Responsibility claim in French published in attaque.noblogs.org].

(it-en-fr) Tolosa, Francia: Effetto tunnel (09/05/2020)

Tolosa (Francia) – Effetto tunnel (09/05/2020)

«L’effetto tunnel è una reazione naturale, legata allo stress e dovuta alla focalizzazione dello sguardo su un punto preciso, come se si guardasse attraverso un teleobiettivo».

Nella notte fra l’8 e il 9 maggio [2020], su una filiale della banca Caisse d’Epargne è stata fatta la scritta «Macronavirus, quando la fine?» e i suoi vetri sono stati infranti.

Gli/le autori/e non smettono di descrivere l’attitudine provocatoria e insultante del governo, la sua gestione mediocre della crisi sanitaria e nei confronti della crisi economica che arriverà; come spiegazione, che vorrebbero assolutoria, mettono avanti l’effetto tunnel. Per loro, l’uscita dal tunnel era, quella notte là, l’attacco della Caisse d’Epargne. Questa reazione estrema sarebbe quindi dovuta a un contesto di stress estremo.

E lungo la via del ritorno avrebbero perfino detto «mi ha fatto piacere», cosa che lascia prevedere una seconda ondata.

scoiattolo

[Nota: Lo scoiattolo è la mascotte delle banca Caisse d’Epargne].

[Rivendicazione in francese pubblicata in attaque.noblogs.org].

(it-en-fr) Tolosa, Francia: Effetto tunnel (09/05/2020)

Chiaro e tondo. Sugli arresti di Bologna

Sette arresti e cinque obblighi di dimora nel Comune aggravati da rientro notturno e quattro anche da firme quotidiane. Questo l’esito dell’operazione Ritrovo, condotta dai Ros e dalla procura antiterrorismo di Bologna contro alcuni compagni anarchici, nella notte tra martedì 12 e mercoledì 13 maggio. L’inchiesta ricalca un copione ormai logoro, ciclicamente rispolverato negli ultimi vent’anni. Un’associazione sovversiva con finalità di terrorismo – art. 270bis – contestata ai soli arrestati, condita da un certo numero di reati e condotte specifiche che vanno dall’istigazione a delinquere, al danneggiamento e deturpamento fino all’incendio di un ripetitore, aggravati dalla finalità eversiva e distribuiti, non sappiamo ancora bene in che modo, tra i vari indagati.

Non avendo notizie più precise sull’inchiesta e sulle ordinanze di misure cautelari ci limitiamo per ora a sottolineare le particolarità relative all’emergenza coronavirus di quest’operazione. Sul fronte penitenziario i compagni e le compagne sono stati immediatamente trasferiti in carceri con circuiti di Alta Sicurezza, senza passare e sostare per qualche settimana, come normalmente avviene, in carceri vicine al luogo dell’arresto. Una scelta che immaginiamo sia dettata da ragioni di logistica penitenziaria legate non solo a ragioni sanitarie ma anche a preoccupazioni di ordine pubblico. Guarda caso nelle dichiarazioni della Procura si fa espressamente riferimento alla partecipazione di questi compagni ai recenti conflitti scoppiati nelle carceri italiane in seguito all’epidemia da coronavirus. Ma vediamo più precisamente cos’altro dice la Procura bolognese di quest’inchiesta rispetto all’attuale emergenza epidemiologica:

«In tale quadro, l’intervento, oltre alla sua natura repressiva per i reati contestati, assume una strategica valenza preventiva volta ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturiti dalla particolare descritta situazione emergenziale, possano insediarsi altri momenti di più generale “campagna di lotta antistato” oggetto del citato programma criminoso di matrice anarchica». Dichiarazione che tradotta dalla lingua di legno utilizzata dagli scribacchini dei tribunali vuol più o meno significare:  coi tempi che corrono è opportuno toglierci dai piedi questi irriducibili rompiscatole, che siamo certi non perderanno occasione per tentare di ricordare in vario modo le responsabilità delle autorità statali e promuovere lotte contro di queste.

Parole che, nell’esprimere le notevoli e legittime preoccupazioni degli uomini di tribunale per i tempi che verranno, non tentano in alcun modo di dissimulare la funzione preventiva di quest’inchiesta e del loro lavoro in generale. Una funzione che raramente ci sembra sia uscita con tanta chiarezza dalla bocca del nemico. Se ancora ci fosse qualche sincero democratico in grado di leggere con attenzione queste righe avrebbe sicuramente di che indignarsi, a maggior ragione se poi sapesse che, a quanto pare, quest’inchiesta era pronta e giaceva ormai da diversi mesi in un cassetto di qualche procuratore. A noi queste parole sembrano invece ribadire che il futuro prossimo venturo sarà pieno di rischi e difficoltà come di possibilità e occasioni di lotta . E del resto ben difficilmente queste ultime possono viaggiare da sole senza la compagnia dei primi.

Per completare il quadro delle particolarità post-Covid di quest’operazione segnaliamo che venerdi prossimo si svolgeranno gli interrogatori di granzia dei comapgni arrestati in videoconferenza.

Questi gli indirizzi cui scrivergli e mandare un saluto:

Giuseppe Caprioli, Leonardo Neri
C. R. di Alessandria “San Michele”
strada statale per Casale 50/A
15121 Alessandria

Stefania Carolei
C. C. di Vigevano
via Gravellona 240
27029 Vigevano (PV)

Duccio Cenni, Guido Paoletti

C. C. di Ferrara
via Arginone 327
44122 Ferrara

Elena Riva, Nicole Savoia
C. C. di Piacenza
strada delle Novate 65
29122 Piacenza

Chiaro e tondo. Sugli arresti di Bologna

Dietro l’angolo pt.6 – Macchine, sensi e realtà

QUALCHE IPOTESI SU COVID-19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO

Imparare a convivere con il virus. Questo il leitmotiv che ci viene ripetuto oramai da settimane.

Il peso specifico di un’epidemia non dipende solo dalle peculiarità del virus, dai suoi tassi di contagiosità e letalità, ma in buona parte dagli effetti che queste provocano all’interno di una determinata organizzazione sociale e da come quest’ultima decide di farvi fronte.

Imparare a convivere con il virus va dunque ben al di là di quell’insieme di pratiche e comportamenti utili, a livello strettamente epidemiologico, per evitare di contagiare ed essere contagiati. Quello che dobbiamo apprendere sembra piuttosto essere, l’abitare in un mondo a misura di pandemia, dove la misura non verrà certo stabilita per salvaguardare la salute collettiva.

Un mondo che prenderà forma piuttosto attorno alla priorità di limitare i danni e i fastidi possibili che emergenze di questo tipo possono arrecare al capitalismo e al funzionamento dello Stato. Tanto rispetto all’epidemia in corso, in una prospettiva più o meno breve a seconda del numero di ondate e della loro durata, che rispetto alle pandemie prossime venture, visto che le cause che hanno originato e favorito lo sviluppo di questa non verranno certo rimosse, e sono da annoverare nell’elenco di quei danni e fastidi da limitare di cui sopra.

Le nostre vite dovranno adattarsi a queste esigenze. Una logica di compatibilità che non nasce certo con il Covid19 ma è da tempo il cuore delle politiche relative alla cosiddetta emergenza climatica.

In cosa concretamente consista questa compatibilità ce lo mostrano ad esempio le ipotesi geoingegneristiche di mitigazione e adattamento all’emergenza climatica. La Gestione della Radiazione Solare (Srm), ad esempio, ossia l’iniezione tramite aerosol di solfati nell’atmosfera per deflettere parte dei raggi solari nello spazio e contrastare così il surriscaldamento globale. Senza entrare nel merito della fattibilità di simili ipotesi e delle imprevedibili e tragiche spirali di conseguenze che potrebbero innescare, qui preme sottolineare come la soluzione per far fronte a un cambiamento climatico sia quella di cambiare in maniera pianificata il clima: non potendo riconfigurare le politiche economiche alla base dei problemi ambientali si sceglie di riconfigurare materialmente il pianeta. Per quanto particolarmente emblematici non è necessario soffermarsi su macro progetti dall’aspetto vagamente fantascientifico, la stessa logica regola il funzionamento di strumenti molto più familiari, come i condizionatori presenti in molte abitazioni in grado di creare ambienti domestici a misura di surriscaldamento globale, senza contrastare ma anzi aggravando le cause del problema.

All’interno di questo quadro la vita, tanto nella sua essenza biologica che rispetto alle gradazioni di benessere materiale che vanno dalla mera sopravvivenza ai gradini più alti della scala sociale, dipenderà sempre più dal livello di artificializzazione che riuscirà a raggiungere.

Già da tempo nella retorica ufficiale c’è sempre meno spazio per l’idea di un miglioramento generale delle condizioni di vita da un punto di vista economico, sociale, culturale e tantomeno ambientale; l’unico progresso cui si accenna, per l’uomo come per il mondo in cui viviamo, e che in qualche modo fagocita tutti gli altri, coincide con il progresso tecnologico tout court.

Per questo per noi senso ha parlare di artificializzazione e pervasività tecnologica rispetto agli scenari presenti e futuri. Seppur il termine artificiale possa essere frainteso se viene opposto intuitivamente al termine naturale – mettendo in scena una contrapposizione difficile da districare riguardo al significato e alla sostanza delle attività umane – quando lo utilizziamo intendiamo un concatenamento di tecniche umane sempre più complesse che svuotano la vita individuale di capacità di autonomia, non potendo i singoli individui controllarne l’intero processo. Concatenamenti che costituiscono una sorta di ipoteca sulla propria libertà poiché legano la propria sopravvivenza a quella di una determinata organizzazione sociale.

Una condizione di dipendenza che rappresenta l’aspetto più critico della crescente pervasività tecnologica. Se dal cielo delle ipotesi geoingegneristiche in cui le entità statali che dovessero adottarle si autoattribuirebbero un ruolo di deus ex machina definitivamente necessario, abbassassimo lo sguardo verso gli aspetti più minuti della nostra vita ci accorgeremmo che una parte considerevole dei momenti in cui entriamo in contatto con il mondo, cioè dell’esperienza che facciamo nel nostro quotidiano, è filtrata attraverso tecnologie digitali, ed è lecito attendersi che di questo passo i nostri sensi saranno sempre meno in grado, da soli, di orientarci e guidarci nel mondo reale. Non è un caso se i sensori attraverso cui alcuni elementi – siano essi suoni, immagini, condizioni dell’aria, temperature etc.- vengono trasformati in dati, “catturati”e immagazzinati in rete, sono spesso paragonati alla vista, all’olfatto, all’udito e al tatto umani dato che costituiscono la base di quel processo di elaborazione delle informazioni e di apprendimento definito come Intelligenza Artificiale.

Un concetto, quello di intelligenza, che ormai da tempo non è più appannaggio esclusivamente degli esseri viventi e l’aggettivo smart è diventato una sorta di prefisso che accompagna, senza che nessuno ci faccia più caso, determinati dispositivi tecnologici e ambienti iperconnessi, come quello domestico o urbano, in grado di svolgere funzioni complesse elaborando attraverso algoritmi una mole consistente di dati. Associare questa facoltà a delle macchine è un tratto caratterizzante di quest’epoca che in passato ha suscitato non poche discussioni e critiche accese, e sarebbe interessate comprendere attraverso quali passaggi questa associazione, un tempo ricca di criticità, si sia normalizzata.

Alcuni suggerimenti utili possono forse venirci da un libro, «Macchine calcolatrici e intelligenza» scritto nel 1950 da Alan Turing che iniziava con la seguente domanda: «Propongo di considerare la questione: le macchine possono pensare?» e prosegue definendo quello che comunemente è conosciuto come il test di Turing, in cui un giudice, attraverso delle domande scritte, deve riuscire a riconoscere tra un certo numero di partecipanti un computer, programmato per cercare di convincerlo di essere umano. Alla metà del secolo scorso Turing ipotizzava che in cinquant’anni i computer sarebbero stati programmati così bene da riuscire ad ingannare 3 volte su 10 un interrogatore medio, dopo cinque minuti di domande. Ipotesi che a quanto sembra si sono rivelate abbastanza fondate e la costante crescita della capacità di elaborazione e apprendimento dei cervelli sintetici ha spinto molti a vedere nei risultati raggiunti dai computer in questo test, il criterio per rispondere affermativamente alla domanda iniziale. Sembra però che non fosse questa l’ottica dell’autore che nel prosieguo del suo testo scrive: «La domanda originale “le macchine possono pensare?” credo sia così priva di significato da non meritare alcuna discussione. Ciò nonostante, credo che alla fine del secolo l’uso delle parole e l’opinione generale delle persone informate sarà cambiata a tal punto che si sarà in grado di parlare di macchine pensanti senza aspettarsi di essere contraddetti».

Detta altrimenti, per Turing la possibilità di associare la facoltà del pensare a delle macchine non risiedeva nell’implementazione della capacità di calcolo delle stesse e nella loro capacità di ingannare un tot di volte il giudice del suo test; ma nel modificarsi del significato di parole come pensare o intelligenza fino a permettere di associarle alle macchine in grado di raggiungere determinate prestazioni.

Se alla capacità di pensare sostituiamo il concetto di vita, come ipotizziamo possa essere utilizzato tra vent’anni o forse meno? E non sono certo problemi di ordine linguistico quelli che ci poniamo. Se è la materialità del mondo e delle attività che caratterizzano le nostre vite a contribuire al significato di alcuni concetti e questi sono quindi una sorta di specchio in grado di aiutarci a capire come è organizzato il mondo in cui vengono utilizzati, le parole racchiudono altresì idee e tensioni, in grado di influenzare profondamente l’agire e modificare quindi la realtà. Idee che hanno una loro forza materiale.

Difficile valutare lo spessore e di quale materia sia fatto il filo che intreccia tra loro i concetti di vita, umanità e ambiente.

Tralasciamo – perché non meritano discussione, per dirla con Turing – le trame tessute dalle ipotesi accelerazioniste o transumaniste che individuano nell’artificializzazione dell’ambiente e della stessa vita biologica delle prospettive di liberazione. Le misure adottate per far fronte all’epidemia in corso promettono di assottigliare ulteriormente questo filo, aumentare ancor più il distacco fisico dalla realtà e accrescere quindi l’inadeguatezza delle nostre percezioni. L’isolamento sociale particolarmente rigido, vissuto nelle settimane di lockdown, minaccia a piccole o grandi dosi di durare nel tempo e anche quando questa pandemia potrà dirsi conclusa da un punto di vista epidemiologico, le nostre relazioni con gli altri esseri umani e con il mondo – i fondamenti della nostra esperienza e del nostro tentare di dar significato e intellegibilità a ciò che ci circonda – rischiano fortemente di non essere più quelle, tutt’altro che ottimali, dell’epoca pre-Covid. Perché nel frattempo quella parte di esperienza reale venuta meno sarà stata sostituita da un’esperienza mediata in misura e intensità crescente da dispositivi e infrastrutture tecnologiche digitali, in grado di offrire un ventaglio ampissimo di possibilità: dall’ottimizzare le nostre scelte quotidiane a livello nutritivo e ginnico, all’organizzare i nostri spostamenti nel modo più veloce e al contempo sicuro; dal permetterci di consumare una gamma di merci sempre più ampia attraverso un app, all’aiutarci a scegliere quali persone incontrare all’interno di safe zone relazionali; fino alla sostituzione tout court del mondo esterno attraverso il ricorso alla realtà virtuale o a quella aumentata e alla creazione di nuovi ordini di bisogni e desideri. Arrivando potenzialmente a colonizzare ogni aspetto della quotidianità.

Una colonizzazione in atto già da tempo, a cui quest’emergenza permetterà di fare notevoli salti in avanti, tanto da un punto di vista giuridico che infrastrutturale, forzando in breve tempo delle strettoie che con ogni probabilità avrebbero richiesto tempi più lunghi, – pensiamo soltanto alla rete 5G – specie in un paese come l’Italia che sotto questo profilo si trova certamente indietro rispetto ad altri. Non solo perché continuerà ad aleggiare, con una forza che non siamo in grado di prevedere, la minaccia di altre pandemie, ma perché nel frattempo la pervasività di questi dispositivi digitali sarà aumentata e una certa organizzazione della vita si sarà sedimentata.

Proviamo ora a soffermarci brevemente sulla sfera lavorativa. Una sfera che verrà profondamente riorganizzata dalla crescente automazione, in grado non solo di sostituire braccia e cervelli umani in un ventaglio molto ampio di attività ma anche di stravolgere i compiti e i comportamenti di chi non sarà espulso dall’ambito lavorativo. In attesa di vedere come e per quanti lavoratori lo smartworking diffusosi nelle ultime settimane diventerà permanente e quali conseguenze questo comporterà, un buon esempio di stravolgimento delle mansioni lavorative può essere quello del cosiddetto stoccaggio caotico con cui da tempo sono organizzati, da cervelli sintetici, i magazzini di Amazon e di altre aziende: i prodotti sono collocati sui vari scaffali non in base alla tipologia di merce, come farebbero probabilmente dei magazzinieri per memorizzarne meglio la posizione, ma in base al principio di ottimizzare i tempi – mettendo ad esempio vicini quei prodotti che più frequentemente sono spediti assieme – e gli spazi. Un ordine che non è assolutamente a portata d’uomo e che nel rendere i lavoratori del tutto dipendenti da elaborazioni algoritmiche, ne riduce le competenze e accresce la precarietà; dinamiche simili stanno iniziando a regolare, o promettono di farlo a breve, anche attività meno manuali, come quelle svolte negli uffici pubblici e nelle banche o negli studi legali e medici.

Esempi significativi del livello di condizionamento che l’automazione può arrivare ad imporre, a livello lavorativo, possiamo poi trarli dal controllo sulle cassiere adottato nella catena di distribuzione statunitense Target, dove un sistema automatico classifica come verde, gialla o rossa ogni operazione alle casse in base alla velocità e precisione. Una scala cromatica a cui sono legati stipendio e mantenimento del posto. Ancora più invasiva è la valutazione della performance emotiva effettuata nell’azienda giapponese Keikyu che misura la quantità e qualità dei sorrisi, dei propri dipendenti a contatto con il pubblico, attraverso software che controllano e interpretano i loro movimenti oculari e la curva delle loro labbra.

Una certa organizzazione della vita è in grado di sedimentarsi grazie alla raccolta e gestione di enormi mole di dati, di primaria importanza a livello economico e politico, e che permettono poi di implementare ulteriormente le capacità d’apprendimento di questi cervelli sintetici, che saranno così in grado di aumentare il ventaglio delle proprie funzioni e svolgere compiti sempre più complessi, in una dinamica capace quindi di autoalimentarsi.

Emblematica la discussione attorno alle nuove app di tracciamento in cui l’accento delle dichiarazioni governative è stato intelligentemente messo sulla loro non obbligatorietà. Una questione alquanto oziosa. Al momento, per i numerosi problemi tecnici che queste app di tracciamento sembrano avere, a partire dal fatto che non sono ancora pronte, l’introduzione del contact tracing sembra per lo più utile a fornire alle autorità una nuova figura di untore – chi sceglie di non scaricarle – cui attribuire la responsabilità di eventuali nuovi focolai. Ma una volta che applicazioni di questo tipo entreranno a far parte della quotidianità, e si saranno risolti i problemi di ordine tecnico, l’attuale non obbligatorietà risulterebbe alquanto aleatoria. Non solo perché potrebbe essere velocemente sacrificata, a livello legislativo, sull’altare della tutela della salute pubblica, ma soprattutto perché sarebbe facile renderle obbligatorie di fatto impedendo o limitando l’accesso a determinati luoghi e servizi a chi ne fosse sprovvisto. Come già accade in altri paesi più hi-tech e come alcuni, del resto, ipotizzavano sarebbe accaduto anche qui, quando a ridosso dell’inizio della Fase 2 si vociferava che la mobilità individuale sarebbe stata subordinata all’utilizzo di queste app. Discorso simile si potrebbe fare per una delle ultime new entry nel campo delle tecnologie “anti-Covid”: i braccialetti elettronici in grado per ora di di regolare “soltanto” il distanziamento sociale e che a quanto sembra hanno buone possibilità di entrare a far parte della nostra quotidianità. Ma l’esempio più lampante di obbligatorietà convergente è quello che quasi tutti portiamo già in tasca: lo smartphone. Per come sono organizzati i più svariati ambiti della vita, farne a meno risulta in molti casi estremamente difficile e anche quando è possibile richiede un notevole dispendio di tempo ed energie per elaborare strategie alternative.

Quella che stiamo tentando di tratteggiare è una tendenza che non si svilupperà certo in maniera piana e omogenea. All’incerta velocità con cui si realizzeranno le infrastrutture necessarie a rendere smart le città o i territori in cui viviamo si aggiungeranno fattori sociali e anagrafici a differenziare la diffusione di dispositivi digitali. E ci saranno poi ostacoli soggettivi, di coloro che rifiuteranno di delegare una parte più o meno consistente delle attività e scelte della propria vita a strumenti collegati in rete. Tentativi, individuali come collettivi, di sbarrare la strada a questa colonizzazione o perlomeno di utilizzare criticamente questi dispositivi indubbiamente importanti, sotto molteplici punti di vista, ma che da soli non hanno grandi possibilità di contrastare questi processi. Il rischio è anzi di convincersi e corroborare l’idea, ingenua e pericolosa, che la tecnologia si riduca a un insieme di strumenti che si possono decidere o meno di utilizzare, quando in realtà appare oggi come una fitta ragnatela che intrappola il mondo materiale, modificando le capacità percettive degli esseri umani, organizzando e regolando fette sempre più crescenti dell’approvvigionamento, della distribuzione e della produzione delle risorse su cui si basa l’esistenza umana. Le tecnologie digitali sono quindi un sistema di relazioni che contribuisce a dar forma alla realtà e alle nostre vite. Pensare di poterne semplicemente vivere al di fuori è come pensare di poter vivere al di fuori, senza esserne quindi profondamente influenzati, dal capitalismo.

Scrivevamo che ci sembra difficile valutare come si stiano intrecciando i concetti di vita, ambiente e umanità. Tra chi aspira a vivere in un mondo di liberi e uguali da un lato si corre il rischio di sottovalutare il problema, minimizzandolo o subordinandolo a priorità di altro ordine – sociale, economico, ambientale etc. – cui se ne affida automaticamente la risoluzione, o si rimanda piuttosto qualsiasi riflessione critica o iniziativa di contrasto a un indefinito domani, e se ne perdono in ogni caso di vista le specificità; dall’altro si rischia di assolutizzarlo, come se l’artificializzazione della vita non si intrecciasse e contribuisse ad approfondire le disuguaglianze sociali, come se questo processo avvenisse in un ambiente vuoto in cui il principale, se non l’unico, contrasto esistente fosse quello tra l’essere umano e quello macchinico. Una visione in cui è facile lasciarsi tramortire e catapultare in labirinti distopici in cui iniziative o lotte che nascono attorno ad altre problematiche risultano inutili e non possono che condurre a vie senza uscita.

A complicare ulteriormente il quadro il fatto che una necessaria prospettiva luddista risulta sempre più difficile, da molti punti di vista, senza un adeguato bagaglio di conoscenze tecnologiche.

Capire come difendere e ridare spazio a una certa idea e materialità, del mondo come dell’uomo, ci sembra quindi una questione estremamente complessa. In cui il necessario livello di attenzione, su un piano tanto riflessivo quanto pratico, al problema specifico dell’artificializzazione non può essere separato da quegli sforzi volti ad aprire attraverso altre lotte e conflitti delle brecce nell’organizzazione sociale della vita. Questione complessa ma centrale in una prospettiva rivoluzionaria che voglia ancora confrontarsi con la parola libertà in tutto il suo spettro di significati. Perché vivere in un mondo di liberi e uguali richiede che esistano ancora un certo tipo di mondo e di esseri umani.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Nord sud ovest est

Taglio netto

Il mondo inabitabile

 

Dietro l’angolo pt.6 – Macchine, sensi e realtà

Alcune riflessioni, urgenti e necessarie, riguardo la solidarietà, la condotta e i processi

Provo a scrivere di fretta e furia, perché d’altronde pensarci troppo intorno alle idee quando vengon fuori è deleterio e controproducente… E poi, se si erra qualcosa nella stesura, si può sempre accendere un dibattito che è la motivazione per la quale mi accingo a scrivere queste righe.

È di pochi giorni fa la notizia che un compagno è stato condannato a 12 anni e mezzo per delle azioni contro i fascisti di Casapound ed i capitalisti di ENI, sfruttatori di terre e popolazioni.

Un’azione diretta, chiara, coincisa, senza troppi fronzoli: parla da sola. Il compagno ha voluto anche rivendicare in aula la propria posizione ed il perché ha compiuto l’atto. Bene: la risposta dello Stato è stata una condanna esemplare…

Ma siamo sicuri che la condanna sia derivante solo dalle sue prese di posizione? Siamo sicuri che se ci fosse stata molta solidarietà, un presidio, un corteo, un qualsiasi tipo di approccio che sdogani in modo visibile, collettivo e numeroso quelle pratiche di rivendicazione dell’azione durante tutto l’arco del processo, da parte di tutte quelle compagne e tutti quei compagni che sinceramente si definiscono antifasciste ed antifascisti, sarebbe stato condannato a così tanto? Perché non c’è stata solidarietà attorno a lui? Quali sono i motivi? Perché si conosce poco, non si definisce anarchico ma militante di estrema sinistra, non fa parte dei nostri gruppetti di amichette ed amichetti?

Logicamente è una provocazione portata all’estremo…

Ma continuando con la provocazione… i compagni che sono in carcere, per esempio in Cile, li conosciamo di persona? No, eppure ci sono benefit, iniziative, sostegno, discussioni. Ed è giustissimo, perché è la cosa da fare… Ma quando ci si spinge verso la stessa direzione dell’azione diretta senza compromessi in Italia, perché non avviene questo tipo di solidarietà? C’è per caso l’effetto nimby, a casa degli altri sì a casa mia neanche per sogno? Oppure solo chi conosciamo è degno di solidarietà e vicinanza..? Ma la solidarietà si dà per la conoscenza e per la simpatia, oppure per le pratiche? Perché altrimenti qui si rischia, e si rischia grosso, di finire come quelle e quelli che vorremmo provare a combattere quotidianamente, creando la logica dell’essere accettate ed accettati in un gruppo sociale, dove ci divertiamo e siamo tutte amiche e tutti amici… Fingendo che alla fin fine e sotto sotto tutto va bene nonostante la gente marcisca in carcere o ai domiciliari, rimanendo cristallizzate e cristallizzati in realtà di formalità esistenziali che dovremmo essere le prime ed i primi a contrastare e distruggere.

Oppure non ci piace il fatto in generale di dover rivendicare in aula le nostre idee? Questo può essere, ma avrebbe senso dibatterne in modo ampio.

Ha senso affrontare i processi sperando in un’assoluzione, quando poi la batosta semmai arriva uguale? Non vale la pena di andare fieri e a testa alta davanti a tutto e tutti e dire: sì, sono anarchica, sono anarchico, sono militante di estrema sinistra, sono quella che vi pare o quello che vi pare, ho attaccato per queste ragioni, non me ne pento, me ne assumo tutte le responsabilità. Questo sarà opinabile quanto volete, ma è pur sempre uno spunto di riflessione. Tanto, a conti fatti, quando si lotta per la libertà, che ne diano 8, 10, o 15 di anni, cosa può cambiare? Quando usciremo di prigione saremo in un mondo libero? No. Dovremo continuare a lottare? Sì. E dal carcere non si può lottare? Deve essere un momento di pausa dalla lotta? Sono domande, solo domande…

Dal momento che mi tolgono la quotidianità, dovrò costruirmene un’altra, e l’essere umano è l’animale più adattabile all’habitat che lo circonda nel minor tempo possibile, quindi sarà dura sì, ma ce la si fa… Perché sperare quando si può comunque, in un modo o nell’altro, lottare?

Ad una certa nella vita si può anche provare a fare una scelta: la fierezza con se stessi e se stessi, anche se ci costerà cara, o il far passare l’acqua sotto i ponti per sbrigarcela il prima possibile. Sia ben chiaro, sono condivisibili entrambe, ma poi in soldoni, quale ci rende più felici di noi stessi?

E chiudo, con una constatazione: finora, gli ultimi processi alle anarchiche ed agli anarchici che sono stati seguiti negli ultimi anni, hanno avuto esiti sempre più o meno positivi… Mi spiego meglio: dove c’è una grossa partecipazione sia in aula che fuori, sempre, a tutte le udienze, ricordando a lorsignori che non si lascia nessuno indietro e che ci siamo, esistiamo, e ci opponiamo sempre a loro, anche in aula di tribunale perché è lì l’unico posto dove poter interagire pur solo con lo sguardo con le compagne ed i compagni reclusi… bene, le condanne sono sempre più lievi, rispetto a processi che si lasciano andare a se stessi o dove si lascia fare una difesa tecnica agli avvocati o che si seguono sporadicamente o solo i giorni delle sentenze. Allora, non vale forse la pena di rivedere le modalità di solidarietà e di supporto ai processi nei confronti delle nostre compagne e dei nostri compagni? Magari la pena comminata sarà la stessa, ma se non si tenta, chi ce lo dice che è già scritta la sentenza, perché dargliela già vinta, perché dire “non serve a niente io faccio altro” se poi magari non si fa neanche altro? D’altronde, oggi siamo noi a poter andare a portare un po’ di solidarietà alle recluse ed ai reclusi anche in tribunale, ma domani potremmo essere noi a dover stare dietro le sbarre e dover subire traduzioni ammanettati scortati da secondini, solo per sapere a quanti anni una toga deciderà di relegare le nostre vite in 4 mura di cemento… Riflettiamoci su!

SOLIDARIETÀ A MAURO ROSSETTI BUSA

SOLIDARIETÀ ALLE COMPAGNE ED AI COMPAGNI COLPITI DALLE VARIE OPERAZIONI SCRIPTA MANENT, PANICO, PROMETEO, RENATA, SCINTILLA!

SOLIDARIETÀ AI COMPAGNI COLPITI DALLA SORVEGLIANZA SPECIALE!

E PIÙ IN GENERALE SOLIDARIETÀ A TUTTE LE RIVOLTOSE ED I RIVOLTOSI DEL MONDO, IN LOTTA CONTRO STATO E CAPITALE, COLPITE E COLPITI DALLA REPRESSIONE

Un/a Individua/o

https://roundrobin.info/2020/05/alcune-riflessioni-urgenti-e-necessarie-riguardo-la-solidarieta-la-condotta-e-i-processi/

“Non avrai altro dio all’infuori di me”

Pubblichiamo un articolo tratto dal pamphlet KRINO, la pubblicazione completa si può scaricare a questo LINK

NON AVRAI ALTRO DIO ALL’INFUORI DI ME”

Mercoledì 11 Marzo 2020 l’ OMS dichiara covid-19, il cui primo caso si ebbe a Wuhan e diffusosi in tutta l’Asia e successivamente in tutto l’occidente, pandemia: un’epidemia con tendenza a diffondersi ovunque, cioè a invadere rapidamente vastissimi territori e continenti. Nonostante la dimensione globale del fatto, in Italia, come risposta a questa crisi, stiamo assistendo a un’amplificazione esponenziale della già onnipresente e pervasiva retorica nazionalista fatta di tricolori, inni e richiami ad un’ipotetica unità.

Vorremmo cercare di analizzare i motivi e le convenienze che hanno spinto a far uso di questa retorica e il perchè questa abbia fatto breccia nel sentire comune.

Crediamo che per iniziare ad analizzare questo fenomeno sia utile partire dalla riflessione di Rudolf Rocker secondo la quale religione e autorità sono due gemelli siamesi che nascono contemporaneamente e sono strettamente legati l’un l’altro, in quanto ogni forma di potere nella storia ha sempre fondato la propria legittimità su miti e scritture sacre che avevano come oggetto una divinità. Si potrebbe dire che questa riflessione perda la sua pregnanza se si cerca di applicarla al regime liberale contemporaneo nato dalla secolarizzazione e che ha come suo fondamento la laicità dello Stato: come può essere considerato legato alla religione un regime che vede la sua sovranità derivare non da Dio ma dal popolo e dalla nazione?

A un primo sguardo questa osservazione sembra cogliere nel segno, ma solo perchè lo Stato-nazione è il regime politico-istituzionale in cui siamo nati e cresciuti e quindi non riusciamo ad analizzarlo con il dovuto distacco, ma se si riesce a problematizzarlo si può notare che anche il regime politico in cui siamo immersi si fonda sul culto di una particolare divinità: la Nazione.

Sin dalla sua nascita nel XVIII secolo lo Stato-nazione moderno si poneva come il portatore e l’esecutore della volontà nazionale: qualcosa che non deriva dalla somma e il dialogo delle varie volontà personali, ma un ente trascendente di cui queste ultime non sono altro che una derivazione e una espressione. Questa visione crede sia possibile una volontà unitaria di tutti gli individui che vivono in una determinata regione geografica, non prendendo in considerazione un fatto centrale e cioè che la società è divisa in classi con interessi che non solo sono diversi, ma sono necessariamente in contrasto fra loro: chi può dire infatti che un senzatetto e un palazzinaro abbiano gli stessi interessi solo perchè nati nello stesso luogo o perchè parlano la stessa lingua?

Non potendo derivare dalle volontà e dagli interessi dei singoli individui che la compongono, la volontà nazionale non è altro che un ente astratto e trascendente che sovrasta la comunità concreta formata dall’unione dei singoli individui particolari di cui essa non è che la copia farsesca e idealizzata; insomma è la divinità su cui lo Stato cerca di fondare la propria legittimità ponendosi come il realizzatore dell’ “interesse nazionale” checché ne dicano gli apostoli della laicità dello stato. L ‘interesse nazionale non è altro che l’interesse particolare di coloro che hanno le risorse culturali, simboliche ed economiche per presentare i propri interessi particolari come generali anche se vanno a discapito della maggioranza della popolazione coprendo così lo sfruttamento e l’imposizione onnipresenti.

Se l’unità nazionale è la nuova forma religiosa necessaria alla legittimazione del regime liberale-capitalistico, allora non ci stupiscono i rituali delle 18:00 fatti di inni e tricolori che ripropongono nel mondo “civile” le danze intorno ai totem dei cosiddetti “selvaggi”, o il gran numero di bandiere esposte come crocifissi.

In questi giorni stiamo assistendo a un aumento dei rituali della religione nazionale perchè questa, come ogni altra religione, ha il fine di religare, legare insieme la popolazione cercando di far dimenticare quelle spaccature che in un momento di crisi (sanitaria o economica che sia) potrebbero far saltare le fondamenta di potere e sfruttamento dei pochi sui molti che tengono in piedi il nostro mondo. La tattica è sfacciata e si sta facendo ricorso soprattutto a due elementi da sempre centrali nella simbologia nazionalista: la comunità nazionale come famiglia e il cameratismo.

L’11 marzo 2019 a conclusione della presentazione del dpcm, il presidente del consiglio Conte ha affermato: “Siamo parte di una medesima comunità. Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore e correre più veloci domani”, insomma i “fratelli d’ Italia” sono una grande famiglia che farà molta fatica a non potersi abbracciare, ma che finita questa crisi tornerà alle solite dimostrazioni di affetto tipiche del datore di lavoro che sfrutta l’operaio, del poliziotto che elargisce DASPO a senzatetto e poveri o del politico che taglia decine di miliardi alla sanità pubblica: un cantautore molto ascoltato (ma anche molto frainteso) avrebbe detto: “Onora il padre, onora la madre/e onora anche il loro bastone,/bacia la mano che ruppe il tuo naso/ perché le chiedevi un boccone”.

L’ideale del cameratismo è portato avanti da tutta quella simbologia bellica che trasuda da tutti i discorsi istituzionali e dalla narrazione dei media mainstream: l’Italia è in guerra contro un nemico comune e quindi è necessario serrare le fila della comunità nazionale tenendo da parte tutte le differenze sociali, politiche e culturali. Dal punto di vista simbolico e dell’estetizzazione del discorso pubblico questo è riscontrabile per esempio nelle immagini delle file di mezzi militari mimetici che portano via le salme da Bergamo: ci chiediamo a cosa servano questi mezzi; da cosa devono nascondersi? Quest’uso è simbolicamente strumentale a creare una sensazione generalizzata di guerra con tutto il cameratismo che avere un nemico comune produce.

Il notare la sovrapposizione di nazionalismo e religione è utile anche per comprendere perchè questa retorica faccia breccia nelle menti e nei cuori della popolazione in un momento come questo: la religione è sempre stata la risposta che l’individuo ha dato alla sua condizione di finitudine e precarietà. In un momento pandemico in cui l’uomo è messo crudamente di fronte alla sua nullità e al pericolo della morte, questo non può che affidarsi alla religione contemporanea per eccellenza cercando di esorcizzare la morte con l’idea di una resurrezione all’interno di una comunità nazionale che gli preesiste e che continuerà a vivere anche dopo la sua eventuale morte.

Come ogni chiesa, lo Stato-nazione ha i suoi infedeli e i suoi eretici, i suoi nemici esterni e i suoi nemici interni contrapponendosi ai quali riesce a rafforzare l’idea di ingroup. Il nemico esterno, oggi come sempre, è l’immigrato proveniente dal continente africano: l’8 Aprile lo Stato italiano ha deciso di non far attraccare le navi di migranti nei propri porti fino al 31 Luglio. Sarebbe interessante cercare di comprendere perchè vengano chiusi i porti a navi provenienti da paesi in cui il tasso di positivi al corona virus è inferiore all’Italia e al mondo occidentale, ma si tratterebbe di uno sforzo vano: nelle religioni vige il credo quia absurdum (credo in quanto assurdo). Il nemico interno è il povero che osando avere fame rappresenta la cattiva coscienza che la società cerca di esorcizzare e rimuovere tramite la criminalizzazione e definendo questo come una degenerazione dal corpo sano della comunità nazionale. Questo processo è facilmente riscontrabile nella reazione spropositata ai casi di tentativo di furto in un supermercato palermitano (ma anche in altre città italiane) e ad alcuni video postati sui social in cui alcune persone dei quartieri popolari del capoluogo siciliano invitavano chi non aveva soldi e non poteva ricevere i sussidi statali in quanto lavoratore in nero a prendere dai supermercati ciò di cui aveva bisogno per sfamare sé e la propria famiglia. Subito è arrivata la risposta indignata di tutta la cittadinanza che si è autoproclamata “vera Palermo” e col passare del tempo di tutta la nazione. Il sindaco Orlando ha addirittura sostenuto che queste persone fossero degli “sciacalli del sottobosco mafioso” per via di alcuni “mi piace” a pagine Facebook che sicuramente sono più che esecrabili ma che nella realtà non hanno nulla a che vedere con la mafia, ma sono solo il prodotto di trenta anni di retorica di antimafia legalitaria che si fonda sulla visione “ o con la mafia o con lo stato” e che porta chi è dimenticato dalle istituzioni (o meglio chi non è dimenticato dalle istituzioni che continuano a tartassarlo e costringerlo nella miseria e nel degrado) ad appoggiare (A PAROLE) la mafia. Bisognerebbe ricordare al sindaco ciò che aveva già capito Sciascia: se tutto è mafia niente è mafia

Se la nazione è la divinità del nostro tempo bisogna fare i conti con un’altra questione: “la religione è il singhiozzo della creatura oppressa” e dunque bisogna cercare di comprendere quali oppressioni e quale miseria terrena ha portato alla creazione e alla fuga in questa entità divina. Crediamo che la creazione della divinità nazionale sia una reazione al disagio provocato da un mondo fondato sulla concorrenza e su un individualismo atomizzante che frustra ogni bisogno di solidarietà e comunità. Tuttavia, proprio perchè non vengono toccate le basi materiali che portano a questa frustrazione, la risposta nazionalistico-religiosa non può che portare con sé gli stessi problemi da cui scaturisce: la comunità nazionale non è inclusiva, ma si fonda sull’esclusione dello straniero e del nemico interno considerato come degenerazione dalla comunità nazionale.

Il bisogno di solidarietà e di partecipazione sociale non può essere realizzato postulando un’entità fittizia nel cielo religioso che domina i singoli individui: bisogna realizzare in terra una vera comunità in cui non ci siano gruppi con risorse simboliche, culturali, economiche e di potere per far passare il loro interesse particolare per interesse generale; bisogna creare una società orizzontale senza disuguaglianze economiche e di potere in cui ogni individuo possa partecipare alla definizione dell’interesse generale e che nei momenti di difficoltà non lasci nessuno indietro.

Un’ultima riflessione ci preme farla sull’effetto che l’adesione a questa religione ha sul grado di autonomia spirituale e etica degli individui. Creare una divinità significa rinunciare a tutte le qualità spirituali positive che appartengono all’uomo in quanto uomo delegandole all’ente fittizio che si è creato: paradossalmente la religione (sia essa quella tradizionale o quella della nazione) non è altro che l’abbrutimento della spiritualità. Spesso chi aderisce a questa religione aspetta che sia la “chiesa della dea Nazione”, lo Stato, a decidere cosa sia morale e cosa no, scadendo in quel becero legalitarismo tipico della nostra epoca e che in questo periodo di pandemia si esprime nella criminalizzazione di chi passeggia da solo o va nei parchi e in spiaggia con le dovute distanze mentre non ci si indigna per le fabbriche che, approfittando di cavilli legali a loro favorevoli, riescono a rimanere aperte mettendo a repentaglio la salute dei lavoratori e di tutti coloro che possono entrare in contatto con questi.

Delegare la propria autonomia morale-spirituale allo Stato non è una scelta saggia. Innanzitutto ci fa perdere la nostra umanità e singolarità; inoltre lo Stato non è altro che il detentore del monopolio dell’uso della violenza legittima e in quanto tale è in primis militarismo e controllo sociale: non è un caso che allo scoppio dell’emergenza non ci fossero le risorse e i dispositivi medici necessari per affrontarla, ma non ci fosse scarsità di militari da mettere nelle strade non si sa bene a fare cosa (a tal proposito si potrebbe anche ragionare del fatto che negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a tagli alla sanità per 25 miliardi e a un aumento di 37 miliardi nelle spese militari)1.

Lo Stato è riuscito ad approfittare di una situazione non creata da lui e che lo ha colto colpevolmente impreparato per estendere il proprio dominio definendo necessarie quelle attività volte al profitto (su quali tipi di aziende che sono rimaste aperte abbiamo già parlato) e inessenziali le suddette attività o la lotta per il miglioramento della condizione propria o dei propri cari come la repressione di scioperi di lavoratori o degli assembramenti dei parenti e solidali dei carcerati ci stanno a dimostrare.

Sta a noi non cadere in questa trappola e iniziare a costruire una società in cui questa retorica non possa nascere né fare breccia.

1 https://altreconomia.it/tagli-alla-sanita-spesa-militare/

https://roundrobin.info/2020/05/non-avrai-altro-dio-allinfuori-di-me/

Ravanusa (Sicilia) – ragazzo sottoposto a TSO dopo aver gridato in strada che il virus non esiste

Un 33enne siciliano viene sottoposto al TSO (trattamento sanitario obbligatorio) dopo essere stato fermato in macchina in giro per la città smegafonando che il virus non esiste e dovremmo tutti uscire di casa.

Conclusi i 7 giorni minimi di reclusione è stato rilasciato, soprattutto grazie alle pressioni  della famiglia.

 

Italia: Operazione repressiva «Ritrovo». Sette anarchici arrestati

Durante la notte del 13 maggio 2020 sono stati arrestati sette anarchici tra Bologna, Milano e la Toscana, è stato imposto l’obbligo di dimora per altri cinque anarchici ed è stato perquisito lo spazio di documentazione anarchico Il Tribolo a Bologna. L’operazione repressiva, denominata «Ritrovo», è stata coordinata dal pubblico ministero Stefano Dambruoso e dai carabinieri del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale), che hanno effettutato gli arresti e le perquisizioni congiuntamente al comando provinciale dei carabinieri di Bologna.

I sette arrestati sono accusati dell’articolo 270bis del codice penale (associazione sovversiva con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico), le altre accuse sono relative agli articoli 414 (istigazione a delinquere), 639 (deturpamento e imbrattamento) e 635 (danneggiamento). Una persona è accusata dell’articolo 423 (incendio) per l’attacco incendiario del 16 dicembre 2018 contro alcune antenne per le telecomunicazioni situate in località San Donato a Bologna e destinate alla trasmissione delle reti televisive nazionali e locali. Sul luogo venne lasciata la scritta «Spegnere le antenne, risvegliare le coscienze. Solidali con gli anarchici detenuti e sorvegliati».

Le forze repressive affermano che sono accusati di aver creato una associazione eversivo-terroristica avente «l’obiettivo di affermare e diffondere l’ideologia anarco-insurrezionalista, nonché di istigare, con la diffusione di materiale propagandistico, alla commissione di atti di violenza contro le istituzioni». Inoltre, la procura di Bologna, con l’ausilio dei media di regime, ha sottolineato che le misure cautelari assumono una «strategica valenza preventiva volta ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturibili dalla particolare situazione emergenziale [legata all’epidemia di coronavirus], possano insediarsi altri momenti di più generale campagna di lotta anti-Stato».

Questi sono gli attuali indirizzi dei compagni arrestati:

Giuseppe Caprioli
C. R. di Alessandria “San Michele”
strada statale per Casale 50/A
15121 Alessandria

Stefania Carolei
C. C. di Vigevano
via Gravellona 240
27029 Vigevano (PV)

Duccio Cenni
C. C. di Ferrara
via Arginone 327
44122 Ferrara

Leonardo Neri
C. R. di Alessandria “San Michele”
strada statale per Casale 50/A
15121 Alessandria

Guido Paoletti
C. C. di Ferrara
via Arginone 327
44122 Ferrara

Elena Riva
C. C. di Piacenza
strada delle Novate 65
29122 Piacenza

Nicole Savoia
C. C. di Piacenza
strada delle Novate 65
29122 Piacenza

Italy: «Ritrovo» repressive operation. Seven anarchists arrested

During the night of May 13, 2020, seven anarchists were arrested between Bologna, Milan and Tuscany, five others were required to reside in the municipality of residence and the anarchist documentation space Il Tribolo in Bologna was searched. The repressive operation, called «Ritrovo», was coordinated by the public prosecutor Stefano Dambruoso and the Carabinieri of the ROS (Raggruppamento Operativo Speciale), who carried out the arrests and searches jointly with the provincial command of the Carabinieri of Bologna.

The seven arrested are charged with article 270bis of the penal code (subversive association with the purpose of terrorism or subversion of the democratic order), the other charges relate to articles 414 (incitement to commit a crime), 639 (defacement and soiling) and 635 (damage). One person is accused of article 423 (fire) for the incendiary attack of December 16, 2018, against some telecommunications antennas located in San Donato in Bologna and intended for the transmission of national and local television networks. On the site was left the writing «Turn off the antennas, awaken consciences. Solidarity with the anarchists detained and under surveillance».

The repressive forces affirm that the arrested anarchists are accused of having created a subversive-terrorist association having «the objective of affirming and spreading the anarchic-insurrectionalist ideology, as well as instigating, with the diffusion of propaganda material, the commission of acts of violence against the institutions». Furthermore, the public prosecutor’s office of Bologna, with the help of the regime’s media, underlined that the precautionary measures assume a «strategic preventive value aimed at avoiding that in any further moments of social tension, arising from the particular emergency situation [linked to the coronavirus epidemic], other moments of more general anti-State struggle campaign can take place».

These are the current addresses of the arrested comrades:

Giuseppe Caprioli
C. R. di Alessandria “San Michele”
strada statale per Casale 50/A, Italy
15121 Alessandria

Stefania Carolei
C. C. di Vigevano
via Gravellona 240, Italy
27029 Vigevano (PV)

Duccio Cenni
C. C. di Ferrara
via Arginone 327, Italy
44122 Ferrara

Leonardo Neri
C. R. di Alessandria “San Michele”
strada statale per Casale 50/A, Italy
15121 Alessandria

Guido Paoletti
C. C. di Ferrara
via Arginone 327, Italy
44122 Ferrara

Elena Riva
C. C. di Piacenza
strada delle Novate 65, Italy
29122 Piacenza

Nicole Savoia
C. C. di Piacenza
strada delle Novate 65, Italy
29122 Piacenza