La civiltà del Contagio o… il contagio della Civiltà.

Quello che stiamo vivendo in queste settimane è qualcosa che non ha precedenti per la nostra generazione e forse neanche per quella precedente. Ma persino il confronto con i periodi delle guerre mondiali potrebbe portarci fuori strada. Nonostante gli sproloqui nazionalisti, gli inni nazionali, e i militari nelle strade, non siamo in guerra. La minaccia qui non è il bombardamento, la paura durante un’epidemia è qualcosa di più introspettivo, e al contrario della guerra dove l’attesa e l’incubo che il tuo soffitto cada in mille pezzi ci porta a stare vicini e avvinghiati in un caldo abbraccio con le persone a noi care, la risposta emotiva al contagio è una sana e responsabile distanza da chi ci sta accanto. Un aperitivo analcolico di quello che potrebbe essere il collasso della civiltà moderna, servito con tutte le precauzioni del caso: nonostante la scarsità delle bevande gli stuzzichini sono comunque garantiti. Ma lo scenario è davanti ai nostri occhi e ciò che più dovrebbe preoccupare non è tanto la risposta repressiva dello Stato e i suoi dettami, a quello forse dovremmo esserci almeno un po’ abituati, ma alla sconcertante risposta della massa addomesticata, ormai incapace di rispondere per conto proprio ad alcun che se non al proprio smartphone. E come in tutte le epoche passate, quando il panico si diffondenelle masse queste si apprestano alla caccia: all’untore, alle streghe e ai non allineati ai dettami del “bene comune”.

È ormai evidente cosa lega oggigiorno in maniera quasi totalizzante le masse, l’opinione pubblica, la politica, i mass media. Qualcosa trasversale ad ogni colore politico, dai destri ai sinistri, dagli intellettuali ai cafoni di quartiere, qualcosa che in una società sempre più divisa tiene tutti insieme appassionatamente: la salute, o la non salute, o per essere più precisi la Scienza medica. Chi si è opposto alla recente campagna di obbligatorietà dei vaccini è stato distrutto, deriso, represso, attaccato da ogni punto di vista grazie a un vittimismo becero che ha reso i genitori che hanno fatto resistenza assassini di poveri bambini con gravi patologie usando come veicolo la propria prole a mo’ di untori. E quest’attacco è arrivato persino da alcuni così detti fautori dell’anarchia, come la FAI e riviste affini, mentre anche tutto il resto di un movimento radicale più ampio (resto degli anarchici compresi) non ha preso neanche in considerazione la questione.

Non c’e da sorprendersi quindi che la diffusione del Covid19 abbia travolto e avvolto nel terrore la quasi totalità delle persone civilizzate di quasi tutto il mondo. Ma non tutti ovviamente credono alla favola istituzionale, voci fuori dal coro e pensieri in controtendenza ce ne sono. Nella psicosi del confinamento domestico, nel mondo dentro la rete di internet girano video, testi, messaggi. Teorie cospirazioniste, confutazione dei dati, visioni alternative della salute e quant’altro. Inutile entrare nei dettagli, se state leggendo questo testo avrete letto e visto già molto altro.

Ogni epidemia della storia si diffonde all’interno di società che hanno in diverse maniere degradato il loro modo di vivere, partendo da luoghi spesso sovraffollati, inquinati, dove la maggioranza delle persone vive con distacco e degrado il loro stato di salute generale e abituale. Dove l’approvvigionamento dei bisogni primari, cibo e tecnologie atte alla sopravvivenza, non è più nelle mani di piccole comunità con modalità più o meno diffuse all’interno della popolazione ma sono sempre più accentrate nelle mani dei pochi gruppi elitari dei vari settori. Più ci si allontana dalla produzione diretta del cibo che si mangia o al peggio dalla consapevolezza di sapere almeno da dove questo arrivi, più si perde la capacità di gestire in modo autonomo la propria salute e più quest’ultima diventa precaria. Illuminante da questo punto di vista, ma in generale dal punto di vista dell’alimentazione, è il lavoro di Weston A. Price che negli anni ‘30 del novecento girò il mondo e incontrò numerose popolazioni “primitive” (definite tali perché ancora si producevano o si procacciavano la maggior parte del cibo) con l’intento di scoprire cosa mangiassero e qual’era il loro stato di salute. Era un periodo storico dove molte di queste popolazioni stavano man mano venendo in contatto con il progresso e il cibo industriale. Notò che quando queste popolazioni mangiavano il “loro cibo” il loro stato di salute era ottimale, i denti perfettamente posizionati e senza carie (lui era un dentista) e malattie ed epidemie che dilagavano nel resto delle società che andavano via via globalizzandosi non si presentavano invece fra queste. Quando invece le stesse etnie di persone venivano in contatto con il progresso, la ferrovia o la strada, e iniziavano ad avere a disposizione i cibi moderni come zucchero, farina bianca, marmellate, cioccolata, e cibi in scatola, la loro salute fisica e mentale precipitava. Le malattie che oggi consideriamo “normali” come quelle di origine cardio-vascolare, diabete, cancro, carie, non erano affatto normali tra gli individui di queste popolazioni. Interessante anche il fatto che in queste comunità “primitive” la consapevolezza sulle proprietà dei cibi era molto alta e quelli più nutrienti venivano destinati alle donne durante la gravidanza o ai bambini in fase di sviluppo. Il dottor Price notò come la dieta di questi popoli fosse molto più ricca di vitamine (o attivatori) liposolubili, in particolare la vitamina A, D e K2 che troviamo abbondantemente nel pesce, negli organi interni e nel grasso di animali che sono cresciuti pascolando all’aperto. La lezione che possiamo trarre da questi popoli del passato e da molte altre comunità indigene che ancora popolano angoli di questo pianeta è enorme, in termini di autoproduzione del cibo, di autogestione della salute e di indipendenza dal sistema ipertecnologico globalizzato.

Nel corso di meno di un secolo questo residuo di consapevolezza e di pratiche di vita è quasi del tutto scomparso nel mondo civilizzato e globalizzato e le conseguenze sono sempre più devastanti. Ma persa questa consapevolezza si perde anche la capacità di porsi le giuste domande. Ci si chiede quindi se il virus è mutato e in che cosa piuttosto di capire come noi e lo stato di salute del nostro sistema immunitario siamo mutati. La maggior parte della gente accetta di essere relegata in casa, ad abbuffarsi probabilmente di cibo, collegati tutto il giorno a internet in mezzo alle radiazioni elettromagnetiche sempre più invadenti del WI-FI, senza prendere il sole e stare all’aria aperta, in uno stato sempre maggiore di stress e psicosi, tutte cose che aggravano lo stato del sistema immunitario. La criticità dei contagiati quindi aumenta, ma la colpa viene data al virus che è più cattivo e comincia a prendersela con i più giovani.

Più che metterci una mascherina sul viso dovremo toglierci le bende dagl’occhi. Ma forse non è il momento giusto, bisogna prenderne atto. Inutile dire a chi si è tagliato e sta sanguinando che dovrebbe imparare ad usare meglio il coltello.

Non c’è da stupirsi, come già detto prima, che gli epicentri della pandemia siano spesso aree altamente inquinate e con un’alta densità di popolazione. In una parola nelle città. Ed è sempre stato così. La civiltà è la società degli abitanti delle città, sinonimo di progresso e innovazione tecnologica. Nondimeno dovrebbe essere ormai chiaro che è anche il luogo dove lo stato di salute dei suoi abitanti diviene sempre più debilitante. Ma nonostante queste evidenze ormai eloquenti, e questa pandemia è soltanto l’ultimo di una lunghissima serie di eventi che hanno portato alla luce questa innegabile verità, la maggior parte delle persone civilizzate, e la maggior parte anche dei movimenti radicali continua a pensare che è questa la casa dell’uomo moderno e che sia impensabile ripensare un modo di vivere differente. Sarà quindi la tecnologia a salvare dal disastro questo mondo globalizzato al collasso.

E su questo non c’è alcun dubbio. La risposta a tutti i nostri problemi attuali sarà sempre più tecnologia. Lo stiamo vedendo ora durante l’epidemia, nuove tecnologie mediche (farmaci e vaccini), nuove tecnologie per l’educazione scolastica a distanza, nuove tecnologie di controllo (apps, droni, ecc…). E questo è solo l’inizio. Dopo questa esperienza chi non vorrà la diffusione del 5G per migliorare la connettività globale, chi non vorrà obbligare tutte le persone di questo mondo a vaccinarsi con ogni sorta di vaccino per salvaguardare le fasce più deboli della società (fasce in continua espansione visto la degenerazione psico-fisica attuale).

La via per il transumanesimo, la fusione dell’uomo con la macchina, è ormai aperta da molto tempo, e da un certo punto di vista è l’unica via per salvare la società industriale e tecnocentrica moderna e l’essere umano che le dà vita.

L’altra via, l’unica altra rimasta, è rinnegare tutto questo sistema ipertecnologico, la città, la vita moderna, la scienza medica, e prendersene tutte le responsabilità e conseguenze del caso. La civiltà moderna è insostenibile, c’è chi lo dice e lo sostiene ormai da decenni. Ma non ci si può certo aspettare un tale approccio dalle masse addomesticate che non vedono l’ora di tornare ai loro happy hours. Questo appello è rivolto principalmente ai movimenti radicali che nelle loro differenze cercano un cambiamento concreto della vita di tutti i giorni. Per quanto ancora bisognerà credere nella tecnologia, nell’assistenza sanitaria, nella scuola, nella società dei diritti. Il lavoro necessario per intraprendere questo cammino è immenso, faticoso e intergenerazionale. Ma l’alternativa sarà sempre e soltanto più asservimento alla tecnologia e alle élite che la governano. Riprendersi in mano la nostra salute e quindi l’approvvigionamento di cibo salutare è un passo decisivo.

La nostra dipendenza dal sistema di produzione e distribuzione è uno dei nostri più grandi limiti. E sono molti i miti che dovremo sfatare, oltre a quello tecnologico e del progresso, per imbarcarci in questa impresa. E soprattutto disintossicarci dalle politiche identitarie di ogni tipo. Ma questo non è esattamente un appello per creare un nuovo movimento globale anti-civ. È un invito a creare comunità stabili che puntino a riprendersi in mano le proprie capacità, a partire dalla nutrizione e dalla salute, orizzontali ed egualitarie, in grado di generare solidarietà e mutuo aiuto sia all’interno che verso altre comunità con caratteristiche simili. Non è per niente un’idea nuova, è l’idea anarchica nella sua essenza, ciò che molte comunità umane indigene ancora presenti su questo pianeta fanno da millenni.

Avremo un compito molto urgente appena questa emergenza sarà finita e si avrà la possibilità di tornare liberamente nelle strade in gran numero. Fare manifestazioni e azioni dirette di ogni tipo per mettere le mani avanti su tante cose che vorranno imporci da qui a breve: 5G, vaccinazioni obbligatorie e implemento tecnologico securitario. Sarà un primo passo per far comprendere che la nostra salute non dipende dall’OMS e dai nuovi inquisitori del PTS (Patto trasversale per la scienza, quelli che hanno il compito di definire e denunciare come fake news tutto quello che si oppone al sistema sanitario istituzionalizzato). Qualcuno sta cercando di farlo già ora in “clandestinità”, ma sarà dopo che non potremo più permetterci il lusso di stare in silenzio.

La nave dei folli si schianterà contro l’iceberg, per allora dovremo aver imparato a nuotare.

Hirundo, Marzo 2020

La civiltà del Contagio… o il contagio della Civiltà

Di virus, contenimento e deportazioni. Un punto sui Cpr

Per le mille difficoltà di questo periodo, che si aggiungono a quelle già esistenti da tempo nel capire cosa accade all’interno del Cpr di corso Brunelleschi, da un po’ di tempo non parlavamo della detenzione amministrativa e della macchina delle espulsioni. Ringraziamo quindi un compagno per il contributo che ci ha inviato, e che vi proponiamo, che tenta di fare il punto sui Cpr ai tempi del Covid-19.

Ogni zona d’Europa è ormai interessata dall’epidemia in corso.
Un’emergenza di portata massiva, come è successo spesso nella storia, offre delle enormi possibilità per ciò che riguarda l’inasprimento di misure repressive e lo sviluppo di tecnologie di controllo al cui utilizzo viene di fatto spianata la strada. Ogni emergenza è però differente dall’altra e le epidemie in particolare si portano con sé alcune specificità. In Italia, accanto a un repentino sviluppo giuridico e militare a sostegno delle nuove necessità, la misura più significativa per la risoluzione del problema è stata individuata nell’isolamento fisico, la sospensione delle relazioni vis à vis.
Esso è il paradigma centrale, il fulcro concettuale intorno al quale ruota l’intera faccenda.
Tutti a casa, tutti distanti gli uni dalle altre. La tragicità di un momento come quello attuale si scontra però con l’ottusità del governo italiano, che, pensando di non dover applicare tale misura ad ogni ambito sociale, si dimentica volutamente di due tra i pilastri essenziali dell’ordinamento nostrano: la produzione e la detenzione.

Le fabbriche e così le carceri, i Cpr e gli Opg registrano di fatto ‘un’eccezione allo stato d’eccezione’, devono continuare a svolgere le proprie funzioni, con qualche aggiustamento e allentamento magari, ma devono comunque andare avanti. La pandemia, in questi luoghi che rappresentano la promiscuità per antonomasia, è come se non esistesse.

La situazione attuale in Italia della detenzione amministrativa degli immigrati ne è un esempio lampante. Attualmente i Centri Per i Rimpatri, nel pieno sviluppo del contagio, si presentano praticamente identici a quelli di ieri, nessuna modifica è stata fatta e nessun intervento è all’orizzonte. Un fatto in controtendenza  rispetto persino al contesto europeo.

Per affrontare il pericolo legato al contagio, paesi come la Spagna, i Paesi Bassi, il Regno Unito, il Belgio e la Francia hanno iniziato di fatto ad effettuare delle liberazioni di massa dalle strutture nazionali, alcuni Centri sono stati chiusi e le diatribe giuridiche inerenti espulsioni e trattenimenti di fatto bypassate. Misure adottate non certo per un’improvvisa magnanimità statale, ma in seguito a numerose rivolte che hanno acceso i riflettori su strutture altrimenti invisibili e soprattutto sul rischio di non spegnere la carica di queste bombe a orologeria. Il Portogallo ha inoltre congelato alcune pratiche riguardanti la questione migratoria, regolarizzando temporaneamente i richiedenti asilo. Quindi molti Centri per le espulsioni d’oltralpe sono stati chiusi e sono state attuate misure di alleggerimento burocratico di vario tipo.

In Italia la tendenza è inesorabilmente un’altra.

L’unico intervento operato dal Ministero dell’Interno è stata la proroga dei permessi di soggiorno pendenti o da rinnovare. Una decisione indirizzata più a stornare gli agenti predisposti verso altre mansioni, come quelle di ordine pubblico, che a alleviare la situazione legale di tanti immigrati. Dai primi di marzo gli uffici immigrazione delle questure d’Italia sono di fatto chiusi e il congelamento dei permessi di soggiorno concederà fortunatamente più tempo, a richiedenti protezione o titolari di permessi in scadenza, prima della possibile caduta in clandestinità.
Per ciò che invece riguarda la questione detentiva, come dicevamo, l’Italia non vuole assolutamente mollare la presa.

I Cpr, malgrado in alcuni di essi siano stati interrotti i lavori di ristrutturazione, continuano ad essere attivi e a rinchiudere i senza documenti. Nel Cpr di Torino se ne ha la certezza, per gli altri Cpr, guardando alle notizie delle questure locali, anche. Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo si è espresso chiaramente a riguardo: le espulsioni dei migranti sono considerate, al pari di altre tipologie di udienze in ambito penale, una priorità. La circolare del 26 marzo del Ministero dell’Interni ne è una conferma: dopo aver elencato tutta una serie di accortezze riguardo alla possibilità del contagio e la necessità di quarantene, isolamento e dispositivi individuali di protezione, dopo aver esteso a tutti i Cpr il divieto di avere con sé i propri cellulari (cosa questa che dà forma legale a una pratica già attuata nel Cpr di Torino, un cambiamento da cui difficilmente si tornerà indietro), parla esplicitamente di nuovi arrivi.
Nonostante alcuni giudici, a Potenza e Trieste ad esempio, non stiano convalidando le proroghe, in moltissimi casi i Cpr, e particolarmente quello di Torino, continuano a ricevere nuovi reclusi e i giudici locali prorogano o convalidano il trattenimento come se nulla fosse. Questo è un primo dato di fatto, i Cpr sono aperti e funzionanti su tutto il territorio nazionale.

Un fatto che si potrebbe considerare banale, ma la questione prende una piega inaspettata se si va a osservare la macchina delle deportazioni.
Gli spostamenti aerei e marittimi di persone dall’Italia sono di fatto bloccati, ciò chiaramente non è avvenuto in modo immediato e molti paesi come il Marocco, la Tunisia, il Ghana e l’Egitto hanno tardato nell’attivare il blocco totale, ricevendo gli espulsi ad esempio, ma mettendoli in quarantena preventiva. Al momento vi è, sembra, il blocco totale anche per quei famosi voli charter che ramazzano persone in giro per vari paesi per poi deportarli. Non vi è di fatto nessuna comunicazione ufficiale sul blocco delle deportazioni, ma le notizie che emergono sulla questione lasciano pensare a quest’ipotesi. Ultima notizia di una deportazione compiuta è rintracciabile sul sito della questura di Ferrara, datata 25 marzo verso Islamabad (il Pakistan avrebbe attuato il blocco aereo quello stesso giorno). Deportazioni ferme dunque, seconda importante considerazione.

A cosa stanno servendo dunque i Centri per i rimpatri se i rimpatri sono sospesi o comunque impossibili da effettuare?
Crediamo che a questo punto, se la situazione dovesse rimanere tale nonostante la richiesta di svuotamento anche da parte di figure istituzionali, i Cpr, persi i fronzoli che ne giustificavano sulla carta l’imprescindibilità istituzionale, stiano svelando finalmente il loro vero ruolo. I Centri non sono mai serviti realmente a espellere i migranti (le cifre negli anni sono sempre state irrisorie rispetto alla popolazione clandestina), ma a contenerne una piccola parte come monito per tutti gli altri. Insomma la vecchia storia dei Cpr come deterrente collettivo è finalmente evidente e nuda di fronte a tutti.
Sta insomma venendo meno l’unico motivo per cui i governi europei giustificano i Centri: la deportazione.
I centri per i rimpatri non rimpatriano, proseguono comunque le loro attività. Quali attività?
Come stanno dunque funzionando attualmente i Cpr e perché?
La loro funzione contenitiva, esercitata nei confronti di chi esce dal carcere o da chi viene preso durante le retate, continua ad andare avanti, e al posto della  deportazione rimarrà unicamente l’espulsione con il famoso foglio di via; provvedimento che verrà inesorabilmente eluso, non potendo l’espulso adempiere al proprio allontanamento. I senza documenti rimarranno quindi sul suolo nazionale e potranno essere nuovamente riacciuffati e reclusi. Insomma il famoso “gioco dell’oca” è quanto mai valido.

Perché l’Italia non vuole chiudere i Cpr?
Crediamo che molti dei ragionamenti che riguardano la reclusione dei migranti non possano essere scissi dalla situazione detentiva in generale; sarebbe un errore parlare, in tale situazione emergenziale, esclusivamente dei Cpr senza fare un ragionamento sul carcere. Sulla questione carceraria il Ministero della Giustizia sta agendo in modo ottuso e assassino, portando di fatto i detenuti verso una possibile contagio generalizzato. Ciò sta accadendo anche per i Centri Per i Rimpatri, dove la liberazione, unica e vera sicurezza, sarebbe ancor più semplice e banale dal punto di vista burocratico. Sembra che lo Stato italiano sia molto più preoccupato di perdere credibilità repressiva che prevenire un’ulteriore tragedia e mettersi al sicuro dalle possibili rivolte che, spinte dalla paura, potrebbero spazzare via le carceri. Ciò non fa che evidenziare maggiormente quanto la detenzione amministrativa, al pari del carcere, sia un pilastro imprescindibile dell’ordinamento italiano. Un presupposto fondamentale che lo Stato non vuole minimamente mettere in dubbio. Insomma non è solo la questione economica – il business dei Centri – a impedirne la chiusura temporanea, ma qualcosa che scava nelle radici del potere statale.
Ed è proprio alle basi dell’ordinamento che vanno a colpire le rivolte dei reclusi, scardinando con forza le fondamenta della detenzione. La paura del contagio, la certezza che ciò possa portare a delle vere e proprie stragi ha spinto molti a ribellarsi: nel mese di marzo nei Cpr di Gradisca, di Palazzo San Gervasio e di Ponte Galeria a Roma i reclusi hanno portato avanti numerose proteste e rivolte. L’ultima, tra il 29 e il 30 marzo nel Centro friulano ha incendiato e distrutto parte della struttura.

Tutto lascia pensare che altre rivolte esploderanno da qui a breve.

Per le mille difficoltà di questo periodo, che si aggiungono a quelle già esistenti da tempo nel capire cosa accade all’interno del Cpr di corso Brunelleschi, da un po’ di tempo non parlavamo della detenzione amministrativa e della macchina delle espulsioni. Ringraziamo quindi un compagno per il contributo che ci ha inviato, e che vi proponiamo, che tenta di fare il punto sui Cpr ai tempi del Covid-19.

Ogni zona d’Europa è ormai interessata dall’epidemia in corso.
Un’emergenza di portata massiva, come è successo spesso nella storia, offre delle enormi possibilità per ciò che riguarda l’inasprimento di misure repressive e lo sviluppo di tecnologie di controllo al cui utilizzo viene di fatto spianata la strada. Ogni emergenza è però differente dall’altra e le epidemie in particolare si portano con sé alcune specificità. In Italia, accanto a un repentino sviluppo giuridico e militare a sostegno delle nuove necessità, la misura più significativa per la risoluzione del problema è stata individuata nell’isolamento fisico, la sospensione delle relazioni vis à vis.
Esso è il paradigma centrale, il fulcro concettuale intorno al quale ruota l’intera faccenda.
Tutti a casa, tutti distanti gli uni dalle altre. La tragicità di un momento come quello attuale si scontra però con l’ottusità del governo italiano, che, pensando di non dover applicare tale misura ad ogni ambito sociale, si dimentica volutamente di due tra i pilastri essenziali dell’ordinamento nostrano: la produzione e la detenzione.

Le fabbriche e così le carceri, i Cpr e gli Opg registrano di fatto ‘un’eccezione allo stato d’eccezione’, devono continuare a svolgere le proprie funzioni, con qualche aggiustamento e allentamento magari, ma devono comunque andare avanti. La pandemia, in questi luoghi che rappresentano la promiscuità per antonomasia, è come se non esistesse.

La situazione attuale in Italia della detenzione amministrativa degli immigrati ne è un esempio lampante. Attualmente i Centri Per i Rimpatri, nel pieno sviluppo del contagio, si presentano praticamente identici a quelli di ieri, nessuna modifica è stata fatta e nessun intervento è all’orizzonte. Un fatto in controtendenza  rispetto persino al contesto europeo.

Per affrontare il pericolo legato al contagio, paesi come la Spagna, i Paesi Bassi, il Regno Unito, il Belgio e la Francia hanno iniziato di fatto ad effettuare delle liberazioni di massa dalle strutture nazionali, alcuni Centri sono stati chiusi e le diatribe giuridiche inerenti espulsioni e trattenimenti di fatto bypassate. Misure adottate non certo per un’improvvisa magnanimità statale, ma in seguito a numerose rivolte che hanno acceso i riflettori su strutture altrimenti invisibili e soprattutto sul rischio di non spegnere la carica di queste bombe a orologeria. Il Portogallo ha inoltre congelato alcune pratiche riguardanti la questione migratoria, regolarizzando temporaneamente i richiedenti asilo. Quindi molti Centri per le espulsioni d’oltralpe sono stati chiusi e sono state attuate misure di alleggerimento burocratico di vario tipo.

In Italia la tendenza è inesorabilmente un’altra.

L’unico intervento operato dal Ministero dell’Interno è stata la proroga dei permessi di soggiorno pendenti o da rinnovare. Una decisione indirizzata più a stornare gli agenti predisposti verso altre mansioni, come quelle di ordine pubblico, che a alleviare la situazione legale di tanti immigrati. Dai primi di marzo gli uffici immigrazione delle questure d’Italia sono di fatto chiusi e il congelamento dei permessi di soggiorno concederà fortunatamente più tempo, a richiedenti protezione o titolari di permessi in scadenza, prima della possibile caduta in clandestinità.
Per ciò che invece riguarda la questione detentiva, come dicevamo, l’Italia non vuole assolutamente mollare la presa.

I Cpr, malgrado in alcuni di essi siano stati interrotti i lavori di ristrutturazione, continuano ad essere attivi e a rinchiudere i senza documenti. Nel Cpr di Torino se ne ha la certezza, per gli altri Cpr, guardando alle notizie delle questure locali, anche. Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo si è espresso chiaramente a riguardo: le espulsioni dei migranti sono considerate, al pari di altre tipologie di udienze in ambito penale, una priorità. La circolare del 26 marzo del Ministero dell’Interni ne è una conferma: dopo aver elencato tutta una serie di accortezze riguardo alla possibilità del contagio e la necessità di quarantene, isolamento e dispositivi individuali di protezione, dopo aver esteso a tutti i Cpr il divieto di avere con sé i propri cellulari (cosa questa che dà forma legale a una pratica già attuata nel Cpr di Torino, un cambiamento da cui difficilmente si tornerà indietro), parla esplicitamente di nuovi arrivi.
Nonostante alcuni giudici, a Potenza e Trieste ad esempio, non stiano convalidando le proroghe, in moltissimi casi i Cpr, e particolarmente quello di Torino, continuano a ricevere nuovi reclusi e i giudici locali prorogano o convalidano il trattenimento come se nulla fosse. Questo è un primo dato di fatto, i Cpr sono aperti e funzionanti su tutto il territorio nazionale.

Un fatto che si potrebbe considerare banale, ma la questione prende una piega inaspettata se si va a osservare la macchina delle deportazioni.
Gli spostamenti aerei e marittimi di persone dall’Italia sono di fatto bloccati, ciò chiaramente non è avvenuto in modo immediato e molti paesi come il Marocco, la Tunisia, il Ghana e l’Egitto hanno tardato nell’attivare il blocco totale, ricevendo gli espulsi ad esempio, ma mettendoli in quarantena preventiva. Al momento vi è, sembra, il blocco totale anche per quei famosi voli charter che ramazzano persone in giro per vari paesi per poi deportarli. Non vi è di fatto nessuna comunicazione ufficiale sul blocco delle deportazioni, ma le notizie che emergono sulla questione lasciano pensare a quest’ipotesi. Ultima notizia di una deportazione compiuta è rintracciabile sul sito della questura di Ferrara, datata 25 marzo verso Islamabad (il Pakistan avrebbe attuato il blocco aereo quello stesso giorno). Deportazioni ferme dunque, seconda importante considerazione.

A cosa stanno servendo dunque i Centri per i rimpatri se i rimpatri sono sospesi o comunque impossibili da effettuare?
Crediamo che a questo punto, se la situazione dovesse rimanere tale nonostante la richiesta di svuotamento anche da parte di figure istituzionali, i Cpr, persi i fronzoli che ne giustificavano sulla carta l’imprescindibilità istituzionale, stiano svelando finalmente il loro vero ruolo. I Centri non sono mai serviti realmente a espellere i migranti (le cifre negli anni sono sempre state irrisorie rispetto alla popolazione clandestina), ma a contenerne una piccola parte come monito per tutti gli altri. Insomma la vecchia storia dei Cpr come deterrente collettivo è finalmente evidente e nuda di fronte a tutti.
Sta insomma venendo meno l’unico motivo per cui i governi europei giustificano i Centri: la deportazione.
I centri per i rimpatri non rimpatriano, proseguono comunque le loro attività. Quali attività?
Come stanno dunque funzionando attualmente i Cpr e perché?
La loro funzione contenitiva, esercitata nei confronti di chi esce dal carcere o da chi viene preso durante le retate, continua ad andare avanti, e al posto della  deportazione rimarrà unicamente l’espulsione con il famoso foglio di via; provvedimento che verrà inesorabilmente eluso, non potendo l’espulso adempiere al proprio allontanamento. I senza documenti rimarranno quindi sul suolo nazionale e potranno essere nuovamente riacciuffati e reclusi. Insomma il famoso “gioco dell’oca” è quanto mai valido.

Perché l’Italia non vuole chiudere i Cpr?
Crediamo che molti dei ragionamenti che riguardano la reclusione dei migranti non possano essere scissi dalla situazione detentiva in generale; sarebbe un errore parlare, in tale situazione emergenziale, esclusivamente dei Cpr senza fare un ragionamento sul carcere. Sulla questione carceraria il Ministero della Giustizia sta agendo in modo ottuso e assassino, portando di fatto i detenuti verso una possibile contagio generalizzato. Ciò sta accadendo anche per i Centri Per i Rimpatri, dove la liberazione, unica e vera sicurezza, sarebbe ancor più semplice e banale dal punto di vista burocratico. Sembra che lo Stato italiano sia molto più preoccupato di perdere credibilità repressiva che prevenire un’ulteriore tragedia e mettersi al sicuro dalle possibili rivolte che, spinte dalla paura, potrebbero spazzare via le carceri. Ciò non fa che evidenziare maggiormente quanto la detenzione amministrativa, al pari del carcere, sia un pilastro imprescindibile dell’ordinamento italiano. Un presupposto fondamentale che lo Stato non vuole minimamente mettere in dubbio. Insomma non è solo la questione economica – il business dei Centri – a impedirne la chiusura temporanea, ma qualcosa che scava nelle radici del potere statale.
Ed è proprio alle basi dell’ordinamento che vanno a colpire le rivolte dei reclusi, scardinando con forza le fondamenta della detenzione. La paura del contagio, la certezza che ciò possa portare a delle vere e proprie stragi ha spinto molti a ribellarsi: nel mese di marzo nei Cpr di Gradisca, di Palazzo San Gervasio e di Ponte Galeria a Roma i reclusi hanno portato avanti numerose proteste e rivolte. L’ultima, tra il 29 e il 30 marzo nel Centro friulano ha incendiato e distrutto parte della struttura.

Tutto lascia pensare che altre rivolte esploderanno da qui a breve.

Macerie

Primavera silenziosa

È ragionevole descrivere
una sorta di imprigionamento per mezzo di un’altro
quanto descrivere qualsiasi cosa
che esiste
realmente
per mezzo di un’altra che non esiste affatto

Daniel Defoe

Perché dovremmo sopportare una dieta di veleni non del tutto nocivi, una casa in sobborghi non del tutto squallidi, una cerchia di conoscenze non del tutto ostili, il frastuono di motori non così eccessivo da renderci pazzi?
Chi dunque vorrebbe vivere in un mondo non del tutto mortale?

Rachel Carson, Primavera silenziosa

Negli anni ’60 Rachel Carson, biologa e ambientalista americana simbolo del movimento ambientalista internazionale, con il libro Primavera silenziosa lanciava una forte denuncia e un grido di allarme nei confronti dell’avvelenamento del pianeta causato dall’uso dei pesticidi e in particolare del DDT, al tempo prodotto e usato su vasta scala.
Una nocività di larghissimo uso come il DDT, usato ancora oggi anche se in forme più subdole, aveva portato a silenziare le campagne dai canti primaverili degli uccelli. Oggi, in tempi di Coronavirus, le nocività, oltre ovviamente i pesticidi, non solo sono aumentate, ma si sono trasformate in un intero sistema malato che quotidianamente quando non mette a rischio la sopravvivenza degli organismi viventi li condanna a vivere in un’esistenza tossica e sempre più sterile di biodiversità. La verità è molto semplice: noi stiamo soltanto cominciando a subire massicciamente l’effetto ritardato dell’avvelenamento chimico-nucleare-biologico-elettromagnetico cumulativo del pianeta, avvelenamento che accresce qualitativamente e quantitativamente ogni anno. La degradazione della natura e di noi stessi che ne siamo parte non può che portare a questo. In una situazione in cui le nocività si ri-combinano la questione non è se poteva succedere o no un qualche disastro climatico, chimico o di altra natura, ma quando questo sarebbe avvenuto. O, meglio, forse la domanda dovrebbe essere se non sta già avvenendo.
Chi resta impreparato verso tutto questo sono la maggior parte delle persone, che ne subiscono le conseguenze. Queste sono diverse a seconda della parte di mondo in cui si vive e ovviamente in base alla propria condizione sociale. Le pandemie, come i disastri climatici o chimici, non fanno distinzione di classe quando colpiscono a differenza però dei loro ispiratori che poi si trasformano in produttori e gestori, dal momento che una società industriale non può che lasciare un passaggio disseminato di scorie per il presente e per le generazioni future, facendo pagare il maggior prezzo agli sfruttati di sempre. Le pandemie, come le guerre, le carestie, i cambiamenti climatici, sono occasioni imperdibili per gli stati, per la finanza e soprattutto per la tecnocrazia e le grandi compagnie. Pandemie, guerre, carestie, cambiamenti climatici sono all’indice della minaccia globale, pericoli da scongiurare assolutamente, eppure vengono preparati, vengono investiti capitali immensi (come per i bond poco prima di questo Coronavirus), viene fatta ricerca, si ipotizzano scenari e si pensa un mondo a misura di pandemia.
Uno dei riferimenti internazionali attuali nella lotta al Coronavirus è proprio l’OMS (Organizzazione mondiale della sanità), organismo che sguazza nei capitali immensi del comparto farmaceutico di cui fanno parte Glaxo-Smithkline, Merck, Novartis, Pfzer, Roche, Sanofi e soprattutto nei capitali della Fondazione Bill e Melinda Gates. La maggior parte dei fondi dell’OMS derivano da privati e sono vincolati a finanziare programmi specifici decisi dai privati stessi. L’OMS di fatto segue quello che la Fondazione Gates ritiene prioritario. Da anni questa fondazione influenza le politiche internazionali degli aiuti al Sud del mondo e recentemente anche le politiche alimentari globali promuovendo agricoltura industriale, pesticidi, sementi brevettate e ogm. I capitali sono importanti, ma è soprattutto la filosofia di Gates che va studiata con attenzione. Quest’uomo potrebbe definirsi benissimo “Morte, il distruttore dei mondi” come fece troppo tardi Oppenheimer dopo il contributo dato alla realizzazione della bomba atomica. Gates con la sua fondazione aiuta i poveri in Africa, ma sogna di ridurre la popolazione mondiale da neomalthusiano com’è e in Africa è anche il promotore e finanziatore del poco noto progetto Gene Drive, vero flagello per il mondo. Questo progetto consiste nello sterilizzare attraverso delle tecniche di ingegneria genetica delle popolazioni di organismi viventi da rilasciare in natura per portare all’estinzione l’intera specie ritenuta nociva, ingegnerizzando specifici organismi e interi ecosistemi con metodi selettivi. Con il Gene Drive si vuole ridurre la malaria, così come Oppenheimer voleva anticipare una presunta atomica tedesca.
Se l’Amazzonia brucia si pensa di mettere nuove varietà vegetali in grado di assorbire più CO2, se aumenta il rischio di contrarre malattie visto che gli organismi sono sempre più sterilizzati di difese naturali si pensa a riempirli di input chimici esterni, rendendoli incapaci di qualsiasi reazione e condannandoli ad una dipendenza da sostanze chimiche e dal sistema medico.
Per risolvere i problemi le modalità sono sempre peggio del problema stesso, se non nell’immediatezza sicuramente nel lungo periodo. Nella società tecno-scientifica il lungo periodo non viene mai considerato troppo, se non in termini strettamente tecnici o algoritmici. I tempi organici della natura e anche dei nostri corpi sono molto diversi, sicuramente più lenti perché fanno riferimento a processi che trovano il loro essere nella finitudine.
Nei grandi organismi internazionali si fanno previsioni sul prossimo futuro che diventano un oggetto di attento studio. Nell’ottobre scorso la Fondazione Gates con il Word Economic Forum e il John Hopkins Center for Health Security hanno simulato una pandemia globale di Coronavirus, chiamata “nCoV-2019”, per capire e analizzare che cosa sarebbe successo, dal numero di morti fino alle modalità di contenimento dei singoli stati.
“Quando ero un ragazzo, il disastro di cui ci preoccupavamo era la guerra nucleare. Oggi la più grande catastrofe possibile non è più quella. Se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone nelle prossime decadi, è più probabile che sia un virus molto contagioso e non una guerra. Non missili ma microbi”, Bill Gates.
La fatalità si è dissolta nella probabilità. Non si può essere sorpresi da questo così come degli effetti della contaminazione chimica, regolare o accidentale, dell’ambiente da parte dell’industria chimica o dal fatto che delle migliaia di nuove molecole messe in circolazione alcune nell’uso rivelano delle qualità nocive, ignorate, si fa per dire, dai loro ideatori. Il ritmo di comparsa di nuove malattie, con agenti patogeni che trovano nelle condizioni di vita attuali un vasto campo di attività, è più rapido degli sviluppi in campo medico. E nel mondo come si presenta adesso dovremo abituarci a questa nuova realtà.
Non sappiamo molto sull’origine di questo nuovo virus, sicuramente siamo consapevoli che la bocca della menzogna, che sia lo Stato o l’OMS poco importa, non inizierà certo adesso a dire qualcosa di vero. La stessa pratica del segreto, la stessa irresponsabilità verso la società regnano in tutti i laboratori e, di conseguenza, è impossibile che si arriverà ad una qualche certezza sull’origine e la storia di questa pandemia. Quello che sappiamo per certo è che il virus che si sta diffondendo a livello planetario non è il frutto di qualche processo eccezionale, che sia naturale o artificiale, ma rientra nelle condizioni normali del procedere di questa società tecno-scientifica.
Senza andare tanto lontano fino in Cina, se la memoria non è proprio persa del tutto, sarebbe bene ricordare Seveso. In questo piccolo paese della Lombardia esisteva uno stabilimento chimico della multinazionale Givaudan chiamato Icmesa, ma gli abitanti del paese lo chiamavano fabbrica dei profumi, proprio perché ufficialmente faceva prodotti aromatizzanti e profumi. Nel gravissimo incidente del 1976 quello che è uscito dalla fabbrica in quantità enormi era la diossina, quella sostanza che ancora oggi ci portiamo dentro il corpo in piccola quantità fin dalla nascita. Le sostanze chimiche dell’Icmesa non servivano a profumare nessuno, andavano invece a creare armi chimiche, in particolare l’Agente Arancio negli Stati Uniti. A partire da questa indubbia realtà, e in questi ambiti il peggio è spesso il più probabile, si potrebbe discutere a lungo su fatti che nel loro manifestarsi e concretizzarsi diventano occasione di esperimenti a grandezza naturale, sulla possibilità che vengano rivelati nella loro totalità, sul rischio che i loro effetti vadano al di là di quanto si era previsto e si potrebbe discutere anche sull’utilità degli insegnamenti che il sistema può trarre dal loro camuffamento o dalla loro spettacolarizzazione e dalla loro gestione.
Nel libro 1984 Orwell toccava bene l’aspetto di come la menzogna potesse ergersi a verità assoluta, nonostante indiscutibili evidenze dimostrino il contrario. Negli anni abbiamo visto come il sito di esperimenti nucleari del Nevada, un luogo dove per anni si è sperimentato di tutto e organizzato di tutto in termini di possibilità di distruzione di popoli e del mondo intero, è stato ribattezzato Parco nazionale di ricerche ambientali, tanto da far dire da una rappresentante al Congresso presente in quella occasione: “Col tempo, il pubblico sarà capace di sentire i nomi di Savannah River, di Oaak Ridge, di Fermi Lab, di Los Alamos, di Idaho Park, e di Hanford, pensando a ricerche ambientali piuttosto che a disastri ambientali”. E oggi, a Seveso, dove al tempo la svizzera Givaudan-La Roche aveva sparso i suoi veleni, è nato il Parco del bosco delle querce.
L’effetto pandemia, a differenza del passato, sta portando alla possibilità non soltanto di ingannare un popolo per un periodo di tempo, ma alla possibilità di ingannare un’intero popolo per tutto il tempo.

Propaganda pandemica

A questa pandemia le persone non erano preparate perché in tempi recenti è la prima volta che accade qualcosa del genere. Nell’immaginario invece da molto tempo si è assimilata questa possibilità, seppur confusa e quasi irrazionale, costruita non con strumenti analitici e culturali, ma attraverso quello che per anni è stato propinato con immagini e informazioni veicolate dai media e dai social network che strumentalizzano, esaltano o banalizzano in base all’occasione; attraverso fiction, film, Netflix e appelli di organizzazioni umanitarie. Un’assimilazione attraverso la costante produzione della percezione dello stesso rischio.
L’attenzione generale sul Coronavirus, soprattutto in principio, quando si pensava ad una provenienza strettamente cinese, presto si è trasformata in rancore, odio e tanto altro verso i cinesi divenuti gli untori e i portatori di questa epidemia prima in Italia e poi nel mondo. Si è guardato in modo indignato alle mosse autoritarie della Cina con la biometria, con la rete 5G di sorveglianza e tracciamento, con droni nel cielo e con l’immagine di una città di milioni di abitanti come Wuhan deserta. Una propaganda massiccia apparentemente ingovernata ha cercato di dare materialità ad un nemico immateriale dove far dirigere tutte le angosce e le frustrazioni di tante persone sempre più spaesate e impaurite. Ben presto, quando per forza di cose lo sguardo ha dovuto spostarsi sulla situazione italiana, i nuovi untori sono diventati gli “irresponsabili”, coloro che non avevano adeguati comportamenti, rimodulando ancora una volta una forte campagna mediatica dove la voce dei governatori regionali descriveva una realtà che non coincideva minimamente con quello che succedeva nei territori dove la paura aveva fatto interpretare in modo ancora più restrittivo le prescrizioni dei primi decreti. Forse non si erano concordati al meglio nel dosaggio tra terrorizzare e reprimere. Fatto sta che per settimane abbiamo visto il susseguirsi di decreti sempre più restrittivi, volutamente ambigui, con moduli per l’uscita rinnovati costantemente per rendere vive e sotto costante pressione tutte quelle ansie che man mano crescevano anche a causa dell’espandersi dei numeri sui contagi. Chiudere tutto e subito hanno gridato gli strilloni regionali, ma poi tanti Call center, logistica e soprattutto tante fabbriche, in particolare quelle per componentistiche militari, hanno continuato a lavorare in situazioni critiche: in quelle condizioni fuori si rischiavano multe e perfino il carcere, ma dentro lo stabilimento vigevano le regole della produzione, tanto che sono stati distribuiti dei bonus per incentivare ad andare al lavoro.
L’attenzione è stata spostata, anzi sequestrata completamente verso la morte, mostrata continuamente, basta per tutte l’immagine dei camion dell’esercito pieni di bare che lasciano il cimitero di Bergamo in silenziosa processione, un’immagine che perfettamente si inscrive in una narrativa bellica da parte dei governi per descrivere l’attuale emergenza: “Siamo in guerra contro un nemico invisibile”. Una contabilizzazione della morte con cifre contraddittorie e discutibili date continuamente e aggiornate nel corso delle ore. L’immagine della morte si è poi accompagnata a quella degli eroi, gli instancabili sanitari, infermieri e dottori che fanno l’impossibile in una situazione disperata, facendo ricordare i vigili del fuoco dopo il crollo delle torri gemelle negli Stati Uniti. La situazione degli ospedali e in generale dello stato delle attrezzature non è stata censurata, nessuna giustificazione per cercare di dare un’altra visione della sanità italiana. No, questa è stata esposta oltre ogni limite trasformandola da “bene comune” in uno sfacelo comune in cui ciascuno poteva sentirsene parte. Si è arrivati quasi a contare gli spiccioli e a sperare che squadre di calcio o star del cinema facessero qualche donazione. Ci si è dimenticati che solo poco tempo fa la Fondazione Telethon è riuscita a far dirottare miliardi verso la ricerca per curare malattie genetiche rarissime, quando malattie comunissime come i tumori sono sempre più diffuse a causa dell’aria che respiriamo, del cibo che mangiamo e in generale per le condizioni di degrado ambientale in cui siamo costretti a vivere. Malattie che assumono numeri esorbitanti mai contabilizzati da nessuno e che non hanno mai fatto decretare lo stato di emergenza.
Nel conto dei morti si è aggiunto presto il conto delle mascherine, poi dei posti letto per arrivare alla mancanza di disinfettante. Nessuno si è preoccupato di indagare su quello che è successo al sistema sanitario nazionale proprio qui nel ricco Nord, reso disastroso dalle continue ruberie, tagli e privatizzazioni. I creatori di stati emozionali sequestranti si sono guardati bene di spostare il piano che avrebbe generato dubbi su dove stava la vera emergenza con il rischio di trovarsi in possibili situazioni di rivolta ingestibili come quelle avvenute in molte carceri, dove i numerosi detenuti morti sono li a dimostrare cosa c’è in campo.
È in mezzo ad una Bergamo ormai deserta e spaurita che sono arrivate le truppe, apparentemente per rispondere all’appello degli strilloni regionali che vedevano persone ovunque, da terra ma soprattutto dal cielo. Ancora una volta “il modello Greta” ha avuto la meglio, trasferendo su ogni singolo individuo la responsabilità di quello che sta accadendo: si può essere irresponsabili uscendo di casa (decreti regionali) o prendendo l’aereo (Greta) e si può essere cittadini responsabili in grado di dare un positivo contributo allo stato di cose presenti. Ma questo positivo contributo è solo una chimera, considerato che la maggior parte delle persone non incidono in niente su quello che hanno intorno: si possono fare cartelli con arcobaleni con frasi retoriche, magari aggiungendo bandiere nazionali e si può fare scrupolosamente la raccolta differenziata, finché per responsabilità si continuerà a intendere questo obnubilamento del pensiero critico e si continuerà a mettere in campo questa obbediente e generalizzata servitù su base volontaria.

L’intelligenza artificiale ci salverà

I processi tecnologici nel trasformare le società non fanno grandi balzi, anche se le innovazioni e le produzioni nell’alta tecnologia sono sempre più rapide, restano comunque dei tempi necessari che possono essere più o meno lunghi per la loro accettazione. Ed è proprio l’accettazione sociale il fattore determinante di questi processi, sarebbe impensabile adesso passare dallo smartphon come protesi esterna ai corpi a delle protesi più invasive come un microchip sottocutaneo. Tutti questi processi richiedono i loro tempi, ma anche che i contesti siano pronti ad accogliere quell’innovazione, per non rischiare di avere un rifiuto, come per il primo modello di occhiali a realtà aumentata di Google.
Lo scoppio della sindrome della “Mucca pazza”, scoppiata in Inghilterra a causa dei pastoni mortiferi di cadaveri con cui venivano alimentati in modo economico animali per loro natura vegetariani, ha fatto in modo che partissero su vasta scala processi di tracciabilità con l’utilizzo di tecnologie come l’RFID (Radio Frequency Identification). L’intero sistema zootecnico nel pieno di un’emergenza ha fatto un salto e si è riorganizzato per mantenere intatti i suoi profitti e allo stesso tempo rassicurando di non creare altri morbi così letali e soprattutto così immediati da poterglierne attribuire ancora le cause. Per il sistema industriale, ormai da tempo tecno-scientifico, i suoi effetti collaterali nel ciclo di produzione rappresentano sempre più non solo la normalità, ma anche una possibilità per potersi ristrutturare. La chiave della ristrutturazione è sempre tecnologica, qualsiasi sia stata l’origine del disastro. Quindi il problema non è una mucca resa “pazza” dall’alimentazione di pecore, ma la mancanza di tracciamento nella filiera, per avere sempre sotto controllo “la pazzia degli animali” e intervenire dove occorre con altre soluzioni tecniche, senza curarsi che queste siano ancora più pazze delle pazzie che si volevano curare.
È del resto curioso come negli anni sono state chiamate le pandemie e anche le epidemie più circoscritte. Molte hanno preso nomi da animali come la Suina, l’Aviaria, la Dengue, la sindrome della “Mucca pazza”, fino al Coronavirus, anche se non gli è stato dato un nome preciso legato a pipistrelli o pangolini, l’accostamento è continuo. Questa dicitura animalesca, che abbia o meno fondamento, trasporta il problema sempre verso l’esterno, un’entità altra dall’uomo che va a rappresentare la causa delle pandemie. A nessuno è venuto in mente di chiamare una pandemia da Homo sapiens, o si potrebbe cambiare la specie in Homo tecnologicus, sarebbe sicuramente più realistico considerato che è la società tecno-scientifica l’origine di tutto nei suoi processi di sostituzione, ingegnerizzazione e artificializzazione della natura.
Il così detto “stato di emergenza” si espande e si diffonde ovunque, non potrebbe essere diversamente in quanto i disastri si moltiplicano a vista d’occhio e sono sempre meno camuffabili. Spesso questi si combinano tra loro creando situazioni che lasciano spaesate la maggior parte delle persone, incapaci di intervenire e soprattutto malleabili ad accettare qualsiasi sacrificio fino a qualche ora prima impensabile. Se il disastro non è più camuffabile allora lo si esaspera e lo si mette nella maggior evidenza possibile, contando su un’anestetizzazione della capacità critica di chi guarda nel capire quello che ha realmente sotto gli occhi. Molti impianti nucleari ormai vengono costruiti vicino a centri abitati, con la condivisione del parco cittadino donato e curato gentilmente dalla stessa compagnia che ha messo l’impianto. La paura di un incidente atomico, chimico o di una pandemia non si vuole che scompaia. La percezione che si vuole dare, quella che deve essere assimilata, è una situazione sotto controllo: ci sono le radiazioni, ma ci sono tecnici che se ne occuperanno, c’è la diossina, ma non è nella concentrazione mortale, c’è una pandemia, ma è sufficiente mettersi in casa e chiudere l’ultimo cancello.
L’11 Settembre, con l’attentato alle Torri gemelle, o in Italia il G8 di Genova, sembravano semplici parentesi, “situazioni eccezionali” destinate a rimarginarsi e destinate a rientrare nell’alveolo democratico. L’11 Settembre ha permesso al governo degli Stati Uniti, sotto l’onda emotiva dell’America ferita, di inventarsi la minaccia del terrorismo e di scatenare due guerre: una all’esterno e l’altra all’interno con la creazione di leggi speciali atte a limitare, quando non a distruggere le libertà degli americani. A Genova tre brevi giornate hanno ben condensato cosa può fare uno Stato democratico e dopo quelle paure nulla poteva più tornare come prima, di questo il potere ne era ben consapevole, con un messaggio che non valeva solo per i movimenti in Italia. Quell’infrastruttura per torturare, imprigionare e uccidere non è stata più smantellata, è stato il resto del sistema che si è ristrutturato su questa.

Digitalizzare la società, ovvero a lezione da Google e company

Il Ministro dello Sviluppo economico (MISE), il decastero del governo italiano che comprende politica industriale, commercio internazionale, comunicazione ed energia ha reso molto chiaro come il Governo intende affrontare la questione della ripresa economica durante e soprattutto dopo l’”emergenza” Coronavirus. Sono stati stanziati, per cominciare, 25 milioni di euro per il progetto Case delle tecnologie emergenti: “dopo quella di Matera per progetti di ricerca e sperimentazione basati su Blockchain, internet delle cose e intelligenza artificiale”, rivolto ai comuni d’Italia per la sperimentazione di sistemi innovativi e per la realizzazione della rete 5G, sviluppo centrale anche nel decreto Cura Italia che ha dato il via libera a tutti i cantieri delle comunicazioni.
La ministra per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione Paola Pisano, facente parte dei 5 Stelle, partito che da sempre ha avuto come riferimento la rete di internet e non il mondo reale per costruire la propria idea di democrazia, ha dichiarato: “Il digitale e l’innovazione sono alleati preziosi per farci vivere un quotidiano sostenibile, migliorando la nostra qualità della vita nonostante le limitazioni”. Il progetto della ministra denominato Solidarietà digitale intende mettere “a fattore comune tutti i servizi digitali per aiutare i cittadini a svolgere da casa ciò che prima si faceva in ufficio o a scuola”. Una solidarietà tra le macchine e la ministra non nasconde che queste non sono idee di adesso, ma è quello che hanno voluto sempre fare. Serviva un’emergenza di questo livello per annientare del tutto la già traballante solidarietà umana: le persone devono comunicare per mezzo di dispositivi, tra le macchine, non più tra loro, verso una degradazione e un’erosione di ogni relazione sociale in vista di un distanziamento sociale permanente.
Questi progetti prevedono una parte pubblica, ma soprattutto una parte privata. Sono proprio le compagnie private che non sono state minimamente toccate dalle restrizioni governative e questa crisi è stata un occasione per dare slancio ai loro progetti. In tempi di confinamento casalingo sono le compagnie dei Big Data che hanno sequestrato l’attenzione di milioni di persone perennemente collegate alla rete per cercare di orientarsi in qualche modo o semplicemente per svago, rendendo l’uso dello smartphone ancora più compulsivo. In questa fase di cambiamento forzato queste compagnie hanno stretto la loro morsa utilizzando tutto il loro armamentario per essere ancora più presenti e pervasive. Per esempio Google con le chat video, la posta elettronica, i software di produttività e l’intrattenimento di Youtube; Facebook che consente alle persone di vedere cosa stanno facendo amici e parenti e insieme a Instagram e Whatsapp aiuta a sostituire il contatto diretto tra le persone; tutti i dispositivi e le App di Apple che permettono alle persone di continuare a lavorare e che intrattengono i bambini al posto dei genitori seppur presenti. Nel progetto di Solidarietà digitale a sostenere lo sforzo collettivo ci saranno anche IBM che si concentrerà sul lavoro smart e Microsoft (rimasta orfana di Bill Gates rimasto a occuparsi di pandemie) che impiegherà le proprie tecnologie per il lavoro smart e la scuola.
Amazon assicura l’approvvigionamento di tutte le merci e anche l’intrattenimento digitale attraverso Prime video, Kindle, Andible. Nei supermercati e nella piccola distribuzione è stata vietata la vendita di quello che è stato ritenuto superfluo (libri, materiale di cancelleria…), ma questo divieto non è valso per la grande distribuzione immateriale di Amazon, settore evidentemente ritenuto essenziale anche nella sua logistica di distribuzione del superfluo.
Già dal mese scorso Facebook ha stretto una collaborazione con l’OMS offrendo spazi pubblicitari gratuiti per promuovere “un’informazione accurata”. Sulla stessa linea Google e Youtube promuovono e direzionano le ricerche di informazioni sul Coronavirus verso quello che dichiarano l’OMS con i media ufficiali e Google sta realizzando specifici siti internet per gestire la grande mole di informazioni. In una recente intervista il vice presidente di Facebook Molly Cutler ha dichiarato: “ci rendiamo semplicemente conto della serietà del momento e dell’importanza di fare ciò che va fatto in un momento in cui i nostri servizi sono davvero necessari”.
La Cina per contenere la pandemia ha semplicemente utilizzato e perfezionato su vasta scala tecnologie della sorveglianza già esistenti, la città di Wuhan ha un sistema di rete 5G e di Internet delle cose che è il più sviluppato al mondo. Due app come Alipay e WeChat, che in Cina hanno praticamente sostituito il denaro contante, sono state molto utili per applicare le restrizioni perché permettevano al governo di seguire costantemente i movimenti delle persone e di bloccare quelle che avevano contratto il virus. “Tutte le persone hanno una sorta di semaforo”, spiega Gabriel Leung, rettore della facoltà di medicina all’università di Hong Kong, un codice basato sui colori verde, giallo e rosso che compare sullo smartphone permettendo alla polizia e all’esercito, dislocati in apposite postazioni di controllo, di stabilire chi poteva passare e chi doveva essere fermato. Ovviamente la vita sociale con queste misure non è stata solo ridotta ma distrutta. Una delegazione a guida OMS in una recente visita in Cina ha posto molti dubbi e preoccupazioni per misure di contenimento così drastiche. Lo stesso organismo non si è però indignato quando le stesse modalità si stanno applicando in Europa e nel resto del mondo, semplicemente con un livello meno avanzato nella tecnologia della sorveglianza di cui la Cina è prima al mondo.
Questo tipo di misure rispecchiano quelle prese in contesti di contro-insurrezione, come l’occupazione militare-coloniale in Algeria o, più recentemente, in Palestina. Mai prima d’ora erano state prese a livello globale e con un tale apparato tecnologico a disposizione, né in megalopoli che ospitano gran parte della popolazione mondiale.
Nel mentre anche in Italia si stanno adottando modalità tecniche per mettere in campo il tracciamento dei contatti e quindi delle persone. Il garante della privacy in Italia assicura che “Lo scambio e, prima ancora, la raccolta dei dati devono avvenire nel modo meno invasivo possibile per gli interessati, privilegiando l’uso di dati pseudonomizzati (ove non addirittura anonimi), ricorrendo alla reindificazione laddove vi sia tale necessità, ad esempio per contattare i soggetti potenzialmente contagiati. Nella complessa filiera in cui si articolerebbe il contact tracing, soggetti privati – a partire dalle grandi piattaforme – dovrebbero porre il patrimonio informativo di cui dispongono a disposizione dell’autorità pubblica, alla quale dovrebbe invece essere riservata l’analisi dei dati”. La privacy è in se stessa una chimera, una promessa che non può essere mantenuta in partenza per il semplice motivo che la sua erosione è già iniziata da tempo. La privacy era già morta nella semplice diffusione di dispositivi come il telefono cellulare.
Nella raccolta di dati mancavano quelli sanitari per arrivare a trasformarci tutti in pazienti, tassello fondamentale per la gestione totale della nostra vita, il progetto Watson di IBM è già avanti in questa direzione. E se la macchina algoritmica promette di fare meglio dell’uomo perché ritornare indietro quando le relazioni umane facevano perdere tempo, con rischi per altro di possibili contagi?
Contrastare una nocività non significa solo considerare chi l’ha voluta, realizzata e resa necessaria, ma anche considerare quegli impostori che promettono di riuscire a mantenerla dentro dei precisi limiti e parametri, controllati e vigilati magari da un soggetto pubblico. E sta qui il punto: pensare di governare questi processi è un’illusione, questi immancabilmente prenderanno il sopravvento, avvalendosi ovviamente di un sistema di regolamentazioni etiche, sanitarie o di altra natura.
La direzione intrapresa è quella di una società cibernetica con un accompagnamento dolce verso la totale sorveglianza con una gestione e un condizionamento dei comportamenti delle persone. In mezzo a questo contesto sarà sempre più difficile e ridicolo parlare della tanto decantata “privacy” o dire che la rete 5G provoca i tumori. Il clima di emergenza ha trasformato la rete 5G in una “tecnologia emergenziale” accelerando l’installazione di un elevatissimo numero di nuove antenne partendo proprio dalle zone più colpite dal Coronavirus. La rete 5G nella retorica della propaganda è necessaria per sostenere lo sviluppo della digitalizzazione, l’aumentato traffico in rete e l’analisi algortimica di dati sanitari: “Pensate all’utilità che la rete 5G avrebbe nei collegamenti in ponti radio fra ospedali, protezione civile, regioni” afferma De Vecchis, presidente di Huawei Italia e significative sono anche le parole del Ceo di Zte Italia: “Quello che gli operatori devono fare è un ragionamento sul lungo termine per essere pronti ad affrontare le crisi, questa è una lezione per tutti: la rete Internet deve essere considerata con la stessa importanza di quella della distribuzione dell’acqua, del gas, dell’energia elettrica”.
La questione cruciale è comprendere che questo non sarà né una semplice parentesi, né una prova generale, ma l’inizio di quello che si vuole diventi la normalità e non più uno stato d’eccezione nella società del prossimo futuro. Fino adesso abbiamo visto solo su piccola scala la creazione e gestione delle varie emergenze, dal terrorismo alle catastrofi naturali, ma mai così su grande scala e con tale intensità. E non c’è dubbio che questo esercizio durerà molto più a lungo di quanto annunciato, aprendosi e ri-combinandosi a nuove situazioni che sono ancora difficili da prevedere e da comprendere nella loro totalità e nelle loro conseguenze ultime.
In una società in cui vengono digitalizzate le nostre stesse relazioni e le nostre vite cosa ci resta da fare? Ivan Illich diceva che dobbiamo descolarizzare la società quando criticava il sistema educativo, a noi non resta che disconnettere il più possibile e in ogni dove questo mondo macchina prima che vengano irrimediabilmente perduti i significati più semplici e profondi su cos’è un essere umano, la libertà, la natura. Il mondo macchina a questo ha già risposto, a tutti gli individui che anelano ancora alla libertà non resta che tagliare le maglie di questa rete che ci imbriglia.

 

 

Bergamo, marzo 2020
Resistenze al nanomondo
www.resistenzealnanomondo.org

Documento in pdf: Primavera-silenziosa-2

Documento in pdf aggiornato: Primavera-silenziosa-3

Sulle rivolte di marzo

Quel che sta succedendo nelle carceri italiane, tra le rivolte scoppiate intorno al 10 marzo in più di 30 strutture detentive e quel che ancora deve accadere, non può spiegarsi esclusivamente attraverso la “paura di essere contagiati”. Se questa è la goccia che ha fatto scatenare la rabbia, le motivazioni e l’insofferenza della vita al di là del muro possono essere spiegate solo attraverso uno sguardo che vada al di là del momento emergenziale. Il carcere è uno stato d’emergenza senza fine, dove misure repressive “speciali” vengono attuate quotidianamente.

Le rivolte sono state raccontate dai giornali perlopiù come momenti di violenza irrazionale. Ma ogni lotta dietro le mura ha le sue rivendicazioni, le sue storie, le sue specificità. In questi giorni però, è come se la disperazione e la rabbia dei detenuti avessero avuto lo stesso cuore. Non è un caso che la stampa ufficiale abbia ritenuto opportuno dichiarare che dietro di esse si nascondesse la stessa mano organizzativa. Da chi si è sentito di dire che a dirigere le rivolte ci fosse la criminalità organizzata, al dirigente di Polizia Penitenziaria Daniela Caputo che ha parlato di “piano organizzato” da una non meglio specificata “mano anarchica”. Quest’ultima, in barba alle rivendicazioni dei detenuti, ha rievocato addirittura l’art. 41 bis fino a fine disordini per tutte le carceri interessate alle rivolte. Probabilmente segue la stessa logica la decisione di dire che i morti durante le rivolte siano tutti morti di overdose da farmaci. “Una manciata di rivolte organizzate dall’esterno, scoppiate nel caos irrazionale dell’assalto alle infermerie”, questo è ciò che lo Stato ha voluto far passare. Questo prima di oscurare qualsiasi notizia al riguardo. Dopotutto sarebbe stato impensabile per lo Stato parlare di rivolte spontanee e in grado di comunicare velocemente tra loro, cresciute nella cattività di luoghi di tortura, anni di pestaggi, condizioni igieniche repellenti; perché se ne sarebbe parlato diversamente, e se ne sarebbe parlato di più. E non è sorprendente che il fatto di aver ripreso parte di ciò che stava accadendo all’interno delle carceri con dei cellulari faccia paura alla polizia ancor più delle rivolte stesse. Perché quel che succede dentro, soprattutto durante momenti di tensione come quelli dei giorni scorsi, non si deve sapere. Così che si possa tranquillamente parlare di morti per overdose negando i massacri di Modena, Rieti, Bologna e di tutti i pestaggi avvenuti in moltissime altre carceri.

La cosa che più fa paura allo Stato è che rinasca una coscienza collettiva tra i detenuti, che le lotte mettano in difficoltà il sistema carcerario, che ci sia chi è pronto a battersi per la propria libertà e, come in questi casi, ad arrivare fino in fondo, a dare la vita.

Il fatto che le rivolte stiano scoppiando in tutto il mondo all’interno delle carceri, impone di chiedersi se non siano proprio i detenuti i primi a suggerirci che l’immenso stato di emergenza di cui oggi siamo i reclusi deve portare con sé le occasioni per rivedere il mondo in cui siamo costretti con uno spirito internazionalista. Proprio mentre televisioni, radio e proclami cittadini all’opposto invocano le bandiere alle finestre e l’orgoglio nazionale.

Stare vicini ai prigionieri e conoscerne le lotte è anche un modo per far capire a chi oggi sventola tricolori che non siamo “tutti sulla stessa barca” solo perché ad affondare è anche una parte di un sistema di controllo e profitto. E dobbiamo chiederci davvero cosa significhi, soprattutto in un momento come questo, in cui è fondamentale misurare la distanza tra ciò che è giusto e ciò che è legale, scegliere da che parte stare.

In quei giorni disperati sono morti Hafedh Chouchane, Slim Agrebi, Alis Bakili, Ben Masmia Lofti, Erial Ahmadi, Arthur Isuzu, Abdellah Rouan, Hadidi Ghazi, Salvatore Piscitelli Cuono, Marco Boattini, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri.

Qui sotto una stretta cronologia dei fatti avvenuti nelle carceri italiane durante la settimana delle rivolte:

7 marzo: il decreto ministeriale che rende l’Italia un unica grande zona protetta, limitando gli spostamenti e istituendo restrizioni alle libertà individuali e collettive in risposta alla diffusione del covid-19, tocca anche le carceri: sono infatti sospesi i colloqui (che potranno, ove possibile, svolgersi via videoconferenza), i permessi premio, i regimi di semi-libertà. Anche le udienze sono sospese. Inizialmente il blocco è previsto fino al 31 maggio, notizia smentita nei giorni seguenti. Queste misure erano già state adottate da tutte le carceri di Lombardia e Veneto a partire dal 2 marzo.

7 marzo, Vicenza: un secondino risulta positivo al covid-19.

7 marzo, Salerno, Campania: scoppia la rivolta a Salerno. Per cinque ore, in quasi duecento hanno devastato un’intera sezione dell’istituto di Fuorni, sfondando una cancellata e salendo sul tetto della struttura armati di ferri divelti dalle brande. I detenuti hanno chiesto di sottoporre tutta la popolazione carceraria a tamponi per il test sul coronavirus e di accedere a misure alternative al carcere. All’esterno, presenti familiari di detenuti.

8 marzo, Napoli, Campania: scoppia la rivolta al carcere di Poggioreale. Decine di detenuti sono saliti sul tetto e hanno bruciato materassi chiedendo provvedimenti contro il rischio dei contagi dal Coronavirus all’interno della struttura. Hanno gridato frasi come “Stiamo morendo” e “Poggioreale è uno schifo”. La rivolta è proseguita fino a sera, poi i reclusi sono rientrati nelle loro celle, mentre i familiari hanno proseguito a manifestare all’esterno del penitenziario.

8 marzo, Cassino e Frosinone, Lazio: in entrambe le carceri comincia una battitura che si protrae per diverse ore. A Frosinone la protesta si fa più intensa: sono state occupate, devastate e rese inagibili due sezioni del penitenziario, mandando a fuoco i materassi e in frantumi gran parte delle suppellettili. Approfittando del caos e passando dalle zone di passeggio del carcere, alcuni detenuti sono riusciti ad uscire in strada, e qualcuno a scappare. La rivolta è stata sedata a metà giornata, e verso sera è cominciato il trasferimento dei detenuti.

8 marzo, Carinola, Campania: proteste anche al carcere di Carinola.

8 marzo, Modena, Emilia Romagna: scoppia la rivolta anche al carcere Sant’Anna, Modena. Circa un centinaio di detenuti hanno dato fuoco a materassi e suppellettili, lanciato oggetti contro i secondini, alcuni si sono barricati nell’armeria, altri hanno raggiunto il cortile nel tentativo di evadere, ma sono stati bloccati. In giornata cominciano ad arrivare le notizie dei morti: in tutto nove, di cui quattro morti durante i trasferimenti verso Ascoli, Parma, Alessandria e Verona. La verità di Stato dice: overdose.

8 marzo, Vercelli, Piemonte: battiture in protesta per il nuovo regolamento.

8 marzo, Foggia, Puglia: la protesta contro la gestione dell’epidemia comincia con una battitura e diventa guerriglia, dentro e fuori dal carcere; i carcerati hanno divelto un cancello della “block house”, la zona che li separa dalla strada, al grido di “indulto, indulto”. In una cinquantina si sono riversati in strada. Molti si sono poi arrampicati sui cancelli del perimetro del carcere. Un gruppo è riuscito a salire sul tetto, a rompere le finestre e ad appiccare un incendio all’ingresso della casa circondariale. Sei risultano in fuga. Negli scontri con le forze dell’ordine, un detenuto è rimasto ferito alla testa ed è stato portato via in barella.

8 marzo, Bari, Puglia: è cominciata una rivolta anche nel carcere di Bari. Un gruppo di parenti dei detenuti, all’esterno, ha iniziato a gridare slogan e invocare maggiore tutela: “Liberi, liberi”, bloccando anche il traffico a tratti. Dalle celle, grida e urla d’aiuto, oltre al rumore di oggetti di metallo sulle grate delle finestre e ad oggetti incendiati lanciati dalle sbarre. L’intervento della polizia ha sedato le proteste in giornata.

8 marzo, Palermo, Sicilia: proteste in entrambe le carceri di Palermo, con battiture, oggetti dati alle fiamme, e una presenza solidale all’esterno da parte di parenti che hanno anche bloccato il traffico. Il 9 marzo, tentativo di evasione da parte di detenuti dell’Ucciardone, che hanno provato a divellere la recinzione, venendo bloccati dai secondini. Il 10 marzo continuano le proteste all’Ucciardone: dalle finestre delle celle si levano le grida “assassini” e vengono lanciate lenzuola incendiate.

8 marzo, Brindisi, Puglia: la sera comincia la protesta, con grida, incendi nelle celle; anche qui gruppi di familiari si sono riuniti all’esterno, unendosi alle grida dei detenuti.

8 marzo, Ariano Irpino, Campania: battiture e lancio di oggetti delle finestre delle celle.

8 marzo, Cremona, Lombardia: una cinquantina di detenuti ha cominciato a protestare, incendiando materassi e altri suppellettili. Rivolta sedata alla fine della giornata dall’intervento di penitenziaria, carabinieri, polizia in antisommossa. I giornali non riportano alcun ferito, sia fra i detenuti che fra gli sbirri.

8 marzo, Pavia, Lombardia: Verso sera è cominciata la rivolta anche a Pavia: un gruppo di parenti si è riunito all’esterno per protestare contro lo stop dei colloqui, mentre da dentro i detenuti hanno cominciato a bruciare materassi e altri oggetti. In seguito sono stati presi in ostaggio due secondini a cui sono state sottratte le chiavi delle celle, con successiva apertura e liberazione di decine di detenuti. I secondini sono stati liberati nel giro di un’ora, e quando verso sera la protesta sembrava sedata (sono intervenuti rinforzi della penitenziaria da Opera e San Vittore, celere e carabinieri) i detenuti sono comunque riusciti a salire sul tetto e appiccare altri fuochi.

8 marzo, Reggio Emilia, Emilia Romagna: inizia una prima protesta, è stata danneggiata l’infermeria e distrutte due sezioni. In serata, il magistrato di sorveglianza incontra una delegazione di detenuti. Il 9 marzo, una quarantina di detenuti rifiuta di rientrare dall’ora d’aria: vengono riportati in cella uno per uno, opponendo resistenza passiva. In seguito, comincia un lancio di oggetti dalle celle e vengono appiccati incendi. Lo stesso giorno comincia il trasferimento dei detenuti.

8 marzo, Barcellona Pozzo di Gotto, Sicilia: battiture che si sono protratte per ore.

8 marzo, Trani, Sicilia: alcuni detenuti hanno fatto esplodere delle bombolette del gas e danneggiato alcune celle, ma tutto è rientrato dopo circa due ore, dopo una trattativa con il comandante della Polizia penitenziaria.

8 marzo, Augusta, Sicilia: sono cominciate delle lunghe battiture. Il 9 marzo, una quarantina di detenuti si rifiutano di rientrare dopo l’ora d’aria. La protesta rientra dopo qualche ora di trattative con la penitenziaria.

8 marzo, Bergamo, Lombardia: la sera, battiture in solidarietà coi detenuti in rivolta nelle altre carceri.

8 marzo, Matera, Basilicata: una decina di detenuti si rifiuta di rientrare dopo l’aria. Un detenuto riesce a raggiungere il tetto. Intervento di polizia, carabinieri e finanza.

9 marzo, Secondigliano, Campania: un gruppo di familiari dei detenuti protesta fuori dal carcere; viene disposto, per chi usufruisce della semi-libertà, di poter rientrare al proprio domicilio invece che al carcere. Il 12 marzo, viene diffuso questo comunicato, firmato dai detenuti: “I detenuti del reparto Adriatico F1 le parti S1, S2, S3, S4 e S5 da giovedì 12 per tre volte al giorno, alle 12, 16 e 18 inizieranno una pacifica protesta3 con battiture, rifiuteranno il vitto dell’amministrazione e dalla settimana prossima i detenuti rifiuteranno anche il sopravvitto, non comprando più generi alimentari extra. Noi tutti eseguiremo lo sciopero nel massimo rispetto dell’amministrazione del carcere di Secondigliano fin quando non riceveremo risposte concrete dallo Stato e non dall’amministrazione penitenziaria in merito alla nostra condizione.

  • 1- Lo stato non è presente per noi detenuti e continua a respingere i nostri diritti;
  • 2- Molti detenuti aspettano la libertà in attesa di avere confermati i provvedimenti per buona condotta perché i Tribunali di Sorveglianza sono bloccati;
  • 3- Sono stati bloccati i colloqui allontanandoci maggiormente dalle nostre famiglie in questo grande momento di difficoltà che riguarda il nostro stato di affettività. Alfonso Bonafede non può decidere sull’affettività dei nostri familiari vietando gli incontri;
  • 4- Siamo solidali con i nostri compagni detenuti che sono morti e con tutta la penitenziaria che è stata ferita. Ringraziamo l’amministrazione del carcere di Secondigliano che accoglie le nostre richieste per far uscire fuori la nostra voce

In attesa di risposta i detenuti, per le condizioni disumane delle carceri italiane, sperano in un provvedimento da parte del governo di clemenza, di amnistia e indulto, nel più breve tempo possibile. Tutti i detenuti del carcere di Secondigliano.”

9 marzo, Rebibbia, Lazio: protestano anche i detenuti di Rebibbia, incendiando materassi; la polizia irrompe nella struttura facendo uso di lacrimogeni. Un gruppo di parenti e solidali, all’esterno, ha bloccato la via Tiburtina gettando transenne o altri oggetti sull’asfalto. Il presidio è stato caricato e disperso dalla polizia. È stato poi chiamato un presidio davanti al ministero della giustizia, per le 12 del 10 marzo. Anche questo presidio è stato caricato e ci sono stati fermi e arresti per tre persone, poi rilasciate.

9 marzo, Alessandria, Piemonte: protesta al carcere Don Soria, con incendio di lenzuola, sedata piuttosto velocemente dagli stessi secondini, e anche al carcere San Michele, dove sono stati appiccati incendi in due sezioni e c’è stato l’intervento di carabinieri, polizia, vigili del fuoco. Era diretto ad Alessandria il mezzo su cui viaggiava uno dei detenuti poi deceduto, proveniente da Modena.

9 marzo, Liguria: proteste nelle carceri di Marassi (Genova), Imperia, Sanremo e Pontedecimo (Genova) con lunghe battiture. Al Villa Andreina (La Spezia), proteste dei detenuti, alcuni dei quali sono riusciti a salire su un cornicione. Intervento della celere e trattative con la direzione del carcere.

9 marzo, Milano, Lombardia: la mattina comincia la rivolta nel carcere di San Vittore: distrutti gli ambulatori e due sezioni, incendi e allagamenti. Un gruppo di detenuti riesce a raggiungere il tetto, dove viene esposto lo striscione “INDULTO” e si grida “libertà”. Presenza solidale all’esterno.

9 marzo, Milano, Lombardia: proteste al carcere di Opera. L’esterno viene subito militarizzato anche se alcun solidali riescono a comunicare coi detenuti, che gridano e battono sulle sbarre. Dentro scoppia la rivolta, vengono appiccati degli incendi e la risposta poliziesca è molto dura. I giorni successivi i detenuti riferiranno alle persone solidali che, una volta sedata la rivolta, non hanno ricevuto cibo, gli è stata tolta la televisione, sono stati privati delle ciabatte, gli sono state negate le telefonate. Sono stati picchiati, hanno riferito di avere le ossa rotte e di non aver ricevuto cure. Tensioni anche al carcere di Bollate, dove vengono sfasciati uffici del personale.

9 marzo, Turi, Puglia: proteste anche a Turi, all’interno e all’esterno del carcere, a partire dal 9 marzo. Gruppi di familiari si sono riuniti fuori le mura del carcere, chiedendo indulto per i propri cari, dall’interno sono state portate avanti lunghe battiture. Interventi della polizia per disperdere i parenti all’esterno.

9 marzo, Larino, Molise: i detenuti si sono rifiutati di rientrare in cella.

9 marzo, Rieti, Lazio: rivolta nel carcere di Rieti. Dall’esterno erano ben visibili le colonne di fumo degli incendi; anche qui i detenuti sono riusciti a raggiungere il tetto. I danni alla struttura ammontano a 2 milioni di euro. Purtroppo il bilancio è drammatico: tre morti e otto feriti; un quarto detenuto morirà in ospedale l’11 marzo. Anche questi morti vengono catalogati come overdose. Al diffondersi della notizia, ripartono le proteste nella struttura. In data 14/03 un detenuto, durante una chiamata, riesce ad informare del fatto che dentro i secondini pestano indiscriminatamente, i reclusi “cercano almeno di salvarsi la testa”.

9 marzo, Torino, Piemonte: Vallette, i detenuti delle sezioni del padiglione B si sono barricati dall’interno posizionando dei letti contro gli accessi del padiglione.

9 marzo, Bolgona, Emilia Romagna: la mattina del 9 marzo, la tensione sfocia in rivolta nel carcere la Dozza di Bologna. I detenuti (in tutto 400 sui quasi 900 presenti nella struttura) hanno incendiato materassi e altri oggetti, barricandosi poi al pianterreno. Hanno raggiunto il tetto, esponendo lo striscione “INDULTO” e, da qui, lanciato oggetti contro le forze di polizia, riuscendo a incendiare quattro mezzi di polizia e carabinieri. “Ci hanno lanciato di tutto – ha detto a Bologna Today un ripresentante sindacale della penitenziaria – dalla copertura dei tetti, pezzi di metallo e cemento, oltre a insulti.“ Durante la rivolta vengono tagliate luce e gas al blocco maschile. Dopo aver fatto irruzione nelle zone barricate gli sbirri sedano la rivolta, al termine della quale vengono ritrovati i cadaveri di due detenuti, anche questi attribuiti all’overdose.

9 marzo, Santa Maria Capua Vetere, Campania: una decina di detenuti del Reparto Nilo sono saliti sui tetti in segno di solidarietà con i detenuti delle altre carceri italiane ma anche per protestare contro la decisione di sospendere i colloqui con i familiari.

9 marzo, Regina Coeli, Lazio: cominciano le proteste a Regina Coeli, i giornali parlano di “roghi e disordini”.

13 marzo, Catania, Sicilia: al carcere di piazza Lanza cominciano le proteste: urla, battiture, lenzuola bruciate, un detenuto urla dalla finestra: “Non siamo animali! Abbiamo bisogno di cure, stiamo morendo”. Nei giorni precedenti, gruppi di familiari si erano riuniti all’esterno per accertarsi delle condizioni dei detenuti, protestando contro la sospensione dei colloqui.

Nei giorni seguenti risulteranno positivi al covid-19 detenuti nelle carceri di Brescia, Milano, Voghera, Pavia, Lecce, Modena (caso risultato positivo prima della rivolta), Bologna. Diversi positivi anche tra i secondini.

ilrovescio.info/2020/04/03/sulle-rivolte-di-marzo

Società di lavoratori senza lavoro

Con lo svolgersi delle crisi e il crollo degli stati del benessere (welfare), essi espongono le loro innumerevoli frodi e truffe. Questo fa intravedere un futuro (non troppo lontano, spero) di confronto tra chi, nonostante tutto, preferisce la falsa sicurezza dell’ordine stabilito e chi capisce o comincia a sentire che la vita è un’altra cosa e, quindi, deve passare attraverso altri canali ancora da costruire.

Siamo di nuovo nel bel mezzo di una crisi, sanitaria questa volta. Terribile, senza dubbio, ma non più di quelle già passate o di quelle che devono ancora venire. In questa crisi ci sono molte vittime, troppe. Le prime e le più dolorose, le morti e la scia di dolore che lasciano sui loro cari. Ma anche tutti coloro che hanno camminato sulla sottile linea della sopravvivenza e che, ancora una volta, sono spinti nella miseria e dipendono dalla solidarietà/carità per restare a galla e non perdere il controllo della vita.

La crisi è diventata lo stato naturale della società negli ultimi tempi. La sua gestione, il solito modo di governare. Viviamo in uno stato di eccezione permanente perché questo ordine sociale non ha altro modo di essere mantenuto se non quello di gestire la miseria, prodotto della crisi permanente che il Capitalismo rappresenta.

Un aspetto fondamentale di questa crisi permanente è legato al lavoro. Attualmente lo vediamo con una buona parte del lavoro sospeso e, di conseguenza, centinaia di migliaia di persone espulse dal loro lavoro e tante altre impossibilitate a farlo in modo informale (dato che erano già state espulse dal mercato prima o non le si è mai permesso di entrare). Questo non è qualcosa di esclusivo del momento attuale.

Per decenni, ci sono stati avvertimenti sulla progressiva perdita di posti di lavoro a causa di vari fattori. Ciò ha portato alla proliferazione di un numero sempre crescente di posti di lavoro non redditizi e alla precarietà della immensa maggioranza dei posti di lavoro e quindi della vita di milioni di persone. Il lavoro si è distaccato dalla necessità di produrre beni (più o meno necessari). Oggi ha più a che fare con le esigenze politico-ideologiche di avere a disposizione il maggior numero possibile di consumatori. In sintesi, si tratta di tenere a galla, costi quel che costi, l’ordine basato sul lavoro.

Ecco la chiave, l’ordine del lavoro è l’ordine del mondo. Il nefasto bisogno di “guadagnarsi da vivere” è alla base di un mondo gerarchico dove lavoro o morte (fisica, sociale, morale) è l’unico dilemma per milioni di esseri umani.

Non ci sono alternative, praticamente tutte le posizioni politiche hanno messo al centro teorico l’idea di lavoro fino a farla diventare una sorta di destino naturale dell’essere umano. Ora la crisi colpisce un’altra volta e la legislazione viene di nuovo approvata a favore dei favoriti, quelli che non smettono mai di vincere. Ondate di licenziamenti si susseguono da tutte le parti, indipendentemente da ciò che dicono i politici di diversa estrazione. Ancora una volta pagheremo gli stessi, quelli che paghiamo sempre, quelli di noi che non smettiamo mai di farlo.

Stiamo diventando una società di lavoratori senza lavoro. E questo ci rende sacrificabili, come sanno da molti anni milioni di persone in tutto il mondo.

Viviamo in tempi di immediatezza, tuttavia, può essere il momento di intravedere altri ordinamenti del mondo perché prima o poi l’ordine del lavoro non sarà più valido e lì, proprio in quel momento, ci sarà l’occasione per quel confronto di cui parlavo tra chi vuole la sicurezza dell’Ordine attuale e chi non la vuole. È meglio essere preparati a quando dobbiamo scegliere. Non possiamo permetterci di stare dalla parte sbagliata, non di nuovo.

Tradotto da: https://quebrantandoelsilencio.blogspot.com/2020/04/sociedad-de-trabajadores-sin-trabajo.html

Proposta per un 25 aprile che sia liberazione

Da qualche settimana quasi tre miliardi di persone sono costrette alla reclusione domiciliare forzata.
In Italia, come in altre parti del mondo, le prime persone che si sono ribellate al peggioramento delle loro condizioni di sopravvivenza, i prigionieri nelle carceri, sono state represse con morti e feriti.
Mentre la scienza propone tesi in contrasto tra loro, una parte della comunità scientifica afferma che il periodo delle quarantene, sebbene a fasi alterne, durerà almeno fino all’anno prossimo.
Lo stato, invece, ha già scelto quale verità propagandare per giustificare le misure adottate. L’isolamento domiciliare coatto viene prolungato, l’unica proposta-costrizione avanzata alla popolazione è obbedire ed aspettare sorvegliando e auto-sorvegliandosi.. ma per quanto?

Per ora la fine delle misure è stata rinviata al 13 aprile, ma molto probabilmente ci saranno ulteriori proroghe…

Il 25 aprile è la festa della liberazione. Liberazione non solo dal nazifascismo, ma da ogni forma di oppressione.
L’oppressione di vivere in un mondo nel quale gli spostamenti sono continuamente controllati e monitorati, con posti di blocco, soldati ovunque, droni, telecamere, braccialetti elettronici.
L’oppressione di essere singolarmente considerati come untori se non rispettiamo le leggi e pensiamo che la socialità e la possibilità di uscire non siano cedibili in cambio della sicurezza della sopravvivenza.
L’oppressione di vivere nel terrore dell’invisibile, perché il problema non è il virus, ma le condizioni ecologiche e sociali in cui esso si diffonde.

Il problema è il cambiamento climatico che modifica i cicli naturali, è il sovraffollamento urbano, è l’omologazione dell’alimentazione e delle risposte immunitarie, è la velocità degli spostamenti su tutta la superficie terrestre.
Ci avevano detto che avremmo dovuto accettare questi problemi, barattare la nostra obbedienza in cambio di certe sicurezze.
Queste sicurezze sono venute meno…

Questo virus, dopo il disastro economico e ambientale, è l’ultimo disastro – ad oggi – di una società che ci è stata imposta, società che si basa sulla dominazione, sull’accumulazione quantitativa e sullo sfruttamento del pianeta e dell’animale, umano e non.

Per questo proponiamo – con la speranza di essere superati dagli eventi – che il 25 aprile si ritorni in strada in più luoghi possibili per tornare ad incontrarci, affrontando la paura, combattendo la sorveglianza diffusa, attaccando la retorica deresponsabilizzante che ci vede tutti portatori di contagio.
Con l’intenzione che non resti un giorno isolato, vogliamo evadere dalla quarantena, farlo accettando le conseguenze delle nostre azioni, coprendoci il viso per la libera scelta di tutelare se stessi e gli altri e anche perché dalla libertà dell’anonimato potrebbero avere luogo cose altrimenti impensabili…

Restare spettatori passivi del disastro accettando la reclusione non impedirà il verificarsi di nuovi disastri, semmai prolungare l’agonia che già viviamo.
Possiamo ancora fidarci e obbedire mentre il mondo continua ad essere un luogo nel quale la vita viene negata tra controllo totale, socialità distrutta e il dramma ecologico.
Oppure identificare le cause di questo disastro, smettere di obbedire e agire per impedire che la distopia continui ad essere.
E per vivere infine possibilità di liberazione…

Un cigno nero nelle fratture fra individuo e società

«Qui ci sono le armi. Se volete, fate. Se non volete, fottetevi»
Errico Malatesta rivolgendosi ad alcuni contadini
durante la tentata insurrezione della banda del Matese nell’aprile del 1877

 

Questo momento di difficoltà sociale prodotta da un’epidemia ci fa scontrare con una condizione ormai lapalissiana: sopravviviamo in un mondo senza evasione possibile dove
non resta che battersi per una evasione impossibile. E in questa constatazione, ecco che si ripresenta la paura di rimanere in balìa dell’ignoto. Chi porta con sé la sofferenza di questo mondo sente una tensione liberatrice che apre le proprie viscere all’imprevisto, sempre. Imprevista è la stessa libertà sognata più e più volte.

Assaporando la qualità, potremmo sentire una voce che non può tardare malgrado le dispersioni delle tante occasioni che ci troviamo davanti. Essa piomba sull’individuo che non scende a patti con la società, illumina la notte perché chi vuole spezzare le proprie catene ha sognato anche di giorno, dimenticandosi della triste necessità.
Non abbiamo certezze. Essere continuamente in dubbio con se stessi è un buon esercizio di critica, perché l’anarchia è un modo di concepire la trasformazione della vita, lontano dalle concezioni dello scienziato e del prete su cosa è effettivamente vivere.
Niente è definitivo. Quando non c’è differenza fra pensiero e azione, ciò che pensiamo si
rovescia nell’azione e l’azione tenta di tracciare ripetutamente il vandalismo dell’idea.
Chi vuole creare uno scarto con il mondo dell’oppressione si realizza nel proprio pensiero e nelle proprie azioni perché espressioni di una parte di vita lontana dai richiami dell’ordine.
La significanza con quello che concepiamo nella nostra mente vuole scendere nel profondo della gioia, del desiderio e della bellezza. Non un semplice fatto che si concluda in se stesso per dirsi che oggi ho fatto qualcosa, ma quel fatto che nasce dal profondo, senza tornare mortalmente alla periferia di se stessi.
Tutto questo fa parte di una tensione. Non ha a che fare con il concreto e neanche con una realizzazione certa del domani. Una tensione che si scaglia contro il mondo, dove la morte e l’obbedienza fanno presa in molti individui.
Se le anarchiche e gli anarchici sono utopisti è perché hanno in mente un sogno senza misure che vuole fare a pezzi una realtà miserabile.
Il tormentato percorso che permette di incontrare la qualità porta la tensione utopica a non
perdersi nella concessione per una maggiore libertà, a non voler allentare la catena per un
domani più florido. Ciò per cui batte il cuore è come liberarsi di quella catena stringente per scatenarsi contro la cattività, ma anche per prendere distanza da chi ci vorrebbe imbonire con il gradualismo della libertà fittizia del pezzo per pezzo.
Libertà vuol dire assenza di limiti. Correre i rischi per la distruzione dell’ordine costituito è la tensione avversa e contraria al mercato delle opinioni. Le trame dell’idea sovversiva
scombussolano il nostro modo di porci in contrasto al mondo.
Insorgere per liberare se stessi resta il miglior modo per liberarsi con gli altri. Questa
ribellione si scontra in piccola parte contro la realtà. Analizzando ciò che ci circonda è la
fantasia della nostra volontà, del nostro desiderio e della nostra utopia che diviene
materialmente gioia per divenire irreconciliabili con l’esistente. Ricordate la celebre frase di Bakunin: «La rivoluzione è sempre per tre quarti fantasia e per un quarto realtà»?
Purtroppo ci sono anarchici che se la prendono con chi ricerca l’ignoto e l’autonomia,
dimenandosi nella giustificazione della sopravvivenza. Disprezzando gli utopisti, per darsi un senso del giusto altri paventano l’acclamazione dell’eroismo. Qualcuno vorrebbe
intraprendere la via più semplice della voracità del mito. Infine c’è chi ancora pensa che lo
Stato sia un organismo vivente con un cuore, non riuscendo ad immaginarsi un altrove in cui perdersi. Come se i palazzi del potere fossero delle scatole da aprire, piuttosto che rovine su cui danzare gioiosamente.

Tutti modi di intendere la vita per ergersi ad esempio per gli altri. Esserci e contare. Evitare che la tensione per la libertà possa cadere in questo tranello dell’identità, invece, sembra un’ottima riconoscenza alla propria unicità. Soffiare sul fuoco della rivolta, generalizzare l’incendio delle passioni, anche per distruggere la dittatura del quantitativo e donarsi alla pur sempre difficile ma meravigliosa qualità.
In fondo, chi vuole una vita degna di essere vissuta non si è mai sentito un eroe, non ha mai incarnato il mito dell’azione. Ha pensato, si è procurato i mezzi per agire e ha colpito.
Lanciando un messaggio per tutti quelli che vogliono ascoltare. Dando sfogo all’utopia, per
liberare il mondo da potere e servitù, muovendo continuamente il pugnale delle riflessioni,
toccando la dinamite del pensiero, cercando ardentemente l’affinità fra individui perennemente in lotta contro le strutture e gli strateghi del dominio, senza mai venir meno
alla solidarietà verso chi si ribella alla mostruosità dell’ordine.
Oggi il pericolo interno per l’unità degli anarchici e delle anarchiche è l’utopista. Per questo
alla cameratesca unità è preferibile l’arcipelago delle passioni sfrenate, ritrovandosi affini nel cielo stellato dei desideri e non nell’accozzaglia del bisogno, in quanto solo dall’Uno si crea il Molteplice, non viceversa. E se con i bisogni tutti ci dobbiamo fare i conti, non per questo essi dovrebbero essere una zavorra ai propri sogni e alla propria consapevolezza. Come per la libertà l’antitesi è la sicurezza, per il desiderio lo è il bisogno.
È nella chiarezza di ciò che vogliamo donare a chi ci sta vicino – un mondo senza autorità – che riusciremo ad uccidere i fantasmi che vivono in noi.
La meraviglia dell’avventura nasce da quell’orizzonte caotico che non sa che farsene della
misura. Nel momento in cui una rottura impensabile spezza e distrugge molti riferimenti
ordinati, il senso che vogliamo dare alla vita richiede immaginazione e creatività protratte
all’infinito.

La ricerca dei complici è implicita a ciò che ha generato il proprio universo autonomo.
Lontano dal possibilismo della necessità, vicino ad un altrimenti del provarci. Quell’universo autonomo che non è finito, ma si intreccia con l’infinitezza della superficie del mondo: un senso di sedizione, ignoto anche a noi stessi. Questa è la scommessa da mettere in gioco.
L’insurrezione è un’utopia ed è proprio qui che sta la bellezza del viaggio. La violenza di
questo mondo può fermare l’individuo, ma non le sue idee. E l’individuo non può che
ribellarsi a se stesso, oltre che ai tiranni.
Invitare a vivere fa parte della sfera del desiderio perché le persone sono belle quando
divengono appassionate, facendo apparire un cigno nero che sfidi le nostre paure e i nostri limiti, dissacrando la sacralità del moto perpetuo, distruggendo tutti i luoghi comuni che ci stanno intorno. Negando un mondo che fa della catastrofe la sua unica ragione di vita, attaccando decreti statali, ipotesi politiche, leggi di mercato, dogmi religiosi, applicazioni tecniche e chi difende l’inesorabile genocidio in atto. Nel disordine dei sogni e nell’incanto della rottura con questo mondo potremmo pensare a tutto quello che potrebbe divenire, nelle sue smisurate possibilità.
Tra il sogno dei teppisti e il gioco dei bambini ci sta la voglia più totale, la goduria del
pensiero e la fine dello Stato.
Come rispose Émile Henry ad Errico Malatesta, nel non troppo lontano 1892 sulle pagine de L’Endehors, è l’amore che genera l’odio: più amiamo la libertà, più odiamo chi si oppone al fatto che gli individui possano liberarsi.

un utopista

Il futuro non è scritto – un contributo sui possibili sviluppi della situazione attuale

IL FUTURO NON È SCRITTO

Ho deciso di scrivere queste righe per provare a immaginare alcuni scenari futuri nell’attuale crisi
perché credo che questa, se non sarà la più grande crisi dell’attuale sistema di dominio, sarà di sicuro un evento che cambierà completamente il mondo per come lo abbiamo conosciuto finora, aprendo la strada a ristrutturazioni e avvenimenti fino a questo momento giudicati impossibili, nei cui interstizi l’azione anarchica che mira alla distruzione di ogni forma di oppressione potrà trovare occasione di esprimersi e, forse, rivelarsi appropriata alla realizzazione dei nostri sogni più reconditi e inconfessati.

Cominciamo con l’ammettere che questa crisi ha colto tuttx di sorpresa, nonostante numerose previsioni avessero da tempo annunciato possibilità del genere per il futuro prossimo dell’umanità (NATO URBAN OPERATION 2020, vi dice qualcosa?), possibilità a cui gli stati le loro istituzioni si preparano da tempo, ma che per fortuna, ancora sembrano incapaci di rispondere adeguatamente. Questo dovrebbe suggerirci una prima riflessione: a scapito delle analisi che vedono il potere come un organico e perfettamente oliato sistema di amministrazione, in cui tutte le parti concorrono adeguatamente portando il proprio contributo in maniera perfettamente sincronizzata, dobbiamo riconoscere che questa pandemia ha invece colto impreparati i governanti del pianeta quasi su tutti i livelli. Questo ci dovrebbe suggerire che per quanto si sforzino i nostri nemici, diverse e perfino opposte forze si accalcano sugli scranni del potere, a scapito di un’omogenea e puntuale gestione delle cose.
Immaginare scenari futuri non è un semplice esercizio della fantasia senza scopo, né un’attività volta allo stuzzicare piacevolmente i nostri propositi di distruzione. Né tanto meno dovrebbe essere un pretesto per continuare a ripeterci gongolanti l’estenuante litania del “noi l’avevamo previsto”. Dovrebbe servire piuttosto per aiutare a sviluppare seriamente delle progettualità di intervento nell’immediato futuro. Negli ultimi giorni continuano senza posa a uscire su siti d’area contributi che non aggiungono nulla a quanto già sapevamo, una sfilza di testi che sembra mirino più a dare ragione alle analisi stilate negli ultimi anni che a costituire degli utili strumenti per orientarci nella situazione attuale. Contributi impregnati da quell’ideologia dell’insurrezione che cerca ovunque le possibilità di una rivolta, senza mai osare immaginare di provocarla, o alla ricerca delle condizioni oggettive di una crisi del capitalismo, mancando dell’immaginazione necessaria per ipotizzare un intervento autonomo che metta finalmente e per davvero in crisi l’esistente, e ancora una volta dimostrano solo quanto le ragnatele teoriche del passato ricoprano ancora le analisi che fuoriescono dal cosiddetto milieu anarchico.
L’intensa quantità di scritti che stanno circolando ultimamente si limitano infatti per la loro maggior parte a descrivere con toni allarmistici le derive securitarie e paranoiche degli ultimi tempi, cosa che non aiuta molto a immaginare una via d’uscita da questa situazione che puzza di totalitarismo. Anzi! Fiacca il morale aumentando la mole di dati negativi con i quali fare i conti, ricalcando sostanzialmente l’atmosfera di paura che si respira ovunque, e dando sostanzialmente risonanza alle peggiori notizie in circolazione. Andiamo gente! Credete davvero che ci sia bisogno di continuare a descrivere l’evoluzione autoritaria dell’attuale sistema di dominio? Sono anni che lo si fa e questo a contribuito solo a sviluppare atteggiamenti pessimistici circa le possibilità di sovvertimento del sistema, oscurando il nostro immaginario con nuvole nere di negatività, frustrazione e sconforto. A mio modesto parere credo invece che ci sia bisogno di uno spiraglio di luce alla fine del tunnel, dello scorgere reali possibilità d’intervento nel presente da poter cogliere e trovare così di nuovo lo slancio all’agire. Altrimenti tanto vale rinunciare ora, darsi alle droghe (tecnologiche o chimiche che siano) o ad altro genere di distrazioni per godersi comodamente questo lento annichilimento, nostro e del pianeta, senza continuare ad auto-flagellarsi.

Questa considerazione mi porta a suggerire che c’è un urgente necessità di una narrazione degli eventi che sfugga da quella imposta dal dominio. È da tempo che si ripete come un mantra che ci manca il polso della situazione (sociale soprattutto) perché viviamo in ghetti antagonisti auto-costruiti, e ora che più che mai non si è nelle strade, che non si prende l’autobus, insomma ora che si è tagliati fuori dal mondo, è difficile farsi un’idea di che aria tira, e bisognerebbe prendere con le pinze ciò che passa sui vari tipi di schermi che affollano il nostro spazio domestico. In questo momento la maggior parte delle informazioni che abbiamo a disposizione sono fornite dagli organi di informazione mass-mediatici e quelle che rimbalzano senza controllo sui social, il che aumenta la dipendenza intellettuale da questo sistema e restringendo le nostre capacità di un pensiero autonomo, contagiato com’è dall’isterismo e dalla paura in circolazione. L’immaginario, anche nei cosiddetti “ambienti sovversivi”, è di fatto colonizzato da dati insignificanti e informazioni spazzatura, che distorcono la percezione della realtà e di fatto impediscono lo sviluppo di progettualità che travalichino gli argini del pensiero comune. Si sta pagando la mancanza negli ultimi anni di una critica dei media e dei mezzi di informazione, così come dei social. O diciamo meglio che la si è data per scontata, mentre sempre più compagne e compagni si adeguavano alle tendenze comunicative della massa mettendosi uno smartphone in tasca, raccontandosi (e raccontando in giro) che l’avrebbero usato “coscientemente”. Un fatto a dir poco sconcertante. Nonostante tutti sapessero le conseguenze che l’utilizzo di certi apparecchi ha sulla socialità e le indiscutibili ricadute a livello di controllo, ci si è semplicemente conformati, forse per paura di restare isolati, forse con la sincera intenzione di utilizzarli al meglio. Fatto sta che con pericolosa superficialità i nostri ambienti e spazi vitali sono stati riempiti ancora di più orecchi e occhi utili al potere, regalando migliaia di informazioni a chi si occupa di sorvegliarli, per esempio su chi visita determinati profili o pagine web, con chi si comunica, le reti di contatti, etc. Ed ora il governo discute se sospendere i diritti di privacy usando delle app al fine di controllare i nostri spostamenti. È triste riconoscere ancora una volta la tendenza contemporanea che vede una partecipazione dal basso nel costruire le proprie stesse gabbie.
Senza considerare le conseguenze che l’uso dei social sta avendo sulla capacità delle persone di sopportare questa condizione imposta di isolamento. Chissà quantx in questi giorni staranno ringraziando i mostri sacri del dominio tecnologico per avergli dato la possibilità di comunicare con i propri cari. Senza di essi magari sarebbero già scesi in strada, avrebbero escogitato mille e uno piani per evadere i divieti incontrandosi di persona, non potendo rinunciare oltre a quel contatto umano tanto importante per il proprio benessere psicofisico. E questo vale anche per rivoluzionari o i militanti di ogni sorta.

Possibili scenari del futuro prossimo venturo

Proteste e rivolte potrebbero avvenire anche nei prossimi brevi periodi; sono molte infatti le persone che presto avranno difficoltà a sostenersi. Nei giorni scorsi il Ministro per il Sud è intervenuto per mettere in guardia il governo sulle possibilità di un’esplosione sociale. Anche i servizi di intelligence si sono detti preoccupati. Si cominciano ad aver notizie di tensioni legate al soddisfacimento del fabbisogno alimentare, chi si occupa normalmente di assistenza sociale non è in grado di affrontare la grande quantità di richieste di aiuto che li sta sommergendo, e il governo sta correndo ai ripari distribuendo in tutta fretta alcune briciole, cercando goffamente di gettare acqua sul fuoco. Nel frattempo si sta, letteralmente, pregando l’UE di aiutare a sostenere l’economia e i bisogni della popolazione di fronte a questa crisi. Di oggi la notizia della creazione di un fondo di 100 miliardi di euro a questo scopo. È sicuro che di chi siede ai piani alti comincia ad essere preoccupato delle possibilità provocate dal prolungamento delle misure di contenimento del contagio, e che per prevenirle comincerà a dare fondo alle proprie riserve. Ma dobbiamo considerare come dicevo sopra che il potere non è un organismo perfettamente sincronizzato, e l’Europa ne è un perfetto esempio. Anche i potenti possono commettere errori di valutazione. Quindi potrebbe anche essere che queste misure non saranno sufficienti a calmierare la situazione. Basti pensare al gran numero di migranti irregolari che non avranno diritto a niente, o ai lavoratori in nero o a chi si guadagna il pane alla giornata; è probabile che ben presto cominceranno ad esserci dei conflitti tra poveri per l’accesso agli aiuti degli enti di carità e di assistenza. Il Italia esiste un’intera fetta della popolazione (soprattutto al Sud) che fa riferimento ad un’economia “sommersa”, che sembra il governo, e più in generale i tecnocrati vari, non stiano tenendo in considerazione, talmente hanno la mente offuscata da cifre e statistiche sull’economia “ufficiale”.
In altri paesi governanti con un po’ più di senno (o di istinto di autoconservazione?) hanno fin da subito bloccato il pagamento di mutui e bollette, fissato i costi del cibo, in alcuni casi tassato i più ricchi (come nel caso del Salvador). Certo laggiù le possibilità di sollevanti sociali sono certamente più concrete, ma resta il fatto che anche da queste parti si stanno creando le condizioni per una vera e propria bomba sociale. Se saranno in grado di acquietare le coscienze riempendo le pance e le bocche di carote, o se dovranno ricorrere presto al bastone per tenere sotto controllo la situazione, lo vedremo di qui a poco, visto che la fine della reclusione non sembra prossima.

A breve termine è anche probabile che le carceri esploderanno di nuovo, poiché le risposte alle rivendicazioni e alle esigenze dei detenuti messe in atto da Dap e governo non credo saranno in grado di calmierare la situazione per molto. Ci sono notizie di un aumento di contagi all’interno delle carceri, sia tra detenuti, sia nel personale medico, persino di morti. Non farsi cogliere impreparati di fronte a questa probabilità, ma cominciare già da ora a riflettere su come intervenire (essere presenti in zona per aiutare in caso di evasione a far perdere le tracce ax evasx? Bloccare le strade per le quali giungeranno i rinforzi sbirreschi? Colpire altrove?) mi sembra più che mai auspicabile.

Una volta usciti dalla crisi attuale possiamo poi dare quasi per certo il fatto che si aprirà un periodo di riassestamento, sia dal punto di vista economico-politico, sia dal punto di vista sociale.
L’economia sta avendo già da ora i suoi problemi, e i vari governi stanno mettendo in circolo gradi quantità di capitali per correre ai ripari. Una volta usciti dalla crisi tenteranno in tutti i modi di risollevare i consumi e le economie nazionali per favorire una nuova crescita. Nuovi progetti e devastazioni verranno messe i opera a questo scopo in tutto il mondo, peggiorando ulteriormente la situazione ambientale. Rilanciare la crescita, costi quel che costi, sarà il diktat attuato un po’ ovunque e appoggiato da tutte le forze politiche.
La UE potrebbe, nell’affrontare questo e altri problematiche, realmente e finalmente entrare in crisi. L’incapacità di quest’organismo sovrastatale di adottare delle misure necessarie per superare la crisi sta essendo dimostrata anche in questi ultimi giorni nelle discussioni tra il governo e i poter forti dell’Unione. Il divario tra Europa del nord e paesi del sud si accentuerà, aumentando i contrasti e la lontananza tra gli stati. Pensiamo per esempio al fatto che per aiutare i paesi in difficoltà come l’Italia (un paese con uno dei debiti pubblici più grandi del mondo e tenuto a galla solo dalla constante immissione di capitali da parte degli altri stati dell’Unione) i tecnocrati europei hanno avuto il coraggio di proporre come soluzione l’utilizzo del MES, ovvero quel fondo “salva-stati” che potremo definire senza remore un sistema di strozzinaggio istituzionalizzato. Basti guardare in che condizioni ha ridotto la Grecia con il suo intervento.
Questo scenario potrebbe rivelarsi sicuramente interessante, perché aprirebbe le porte ad un periodo di grande instabilità economica per i paesi periferici della zona euro, così come per l’Italia, che rischierebbe sicuramente il default se non trovasse velocemente un nuovo alleato in grado di sostenerne il debito. E qui potrebbero entrare in gioco la Russia, o più probabilmente la Cina, gli unici paesi in grado di comprarne il debito. Non mi spingo oltre nelle previsioni perché non sono un economista, ma penso che possiamo immaginarci facilmente cosa possa succedere nel diventare dei vassalli di potenze economiche che hanno tutto l’interesse nel crearsi una testa di ponte in Europa e conquistarne sempre più i mercati, potenze che di certo non sono in prima fila nella difesa delle “libertà democratiche” o dei cosiddetti “diritti dell’uomo” (concetti completamente svuotati di senso all’oggi, certo, ma ci siamo capiti).

È probabile che contemporaneamente e contestualmente a questo ci saranno delle proteste legate alle conseguenze che le odierne misure avranno comportato: proteste del comparto produttivo, industriale e agricolo in primis, ma anche delle piccole imprese; proteste degli operatori dei servizi come il turismo o dei trasporti che usciranno da questo momento di blocco totale in grande difficoltà; proteste dei precari, di chi ha visto in queste settimane sfumare i pochi risparmi messi da parte nel tempo con grande difficoltà. Proteste nella e per la sanità, per denunciare anni di tagli che hanno inevitabilmente contribuito ad aggravare e ad accelerare il collasso delle strutture sanitarie durante le fasi peggiori della pandemia. Proteste nel mondo dell’istruzione, per la mancanza di fondi e di mezzi con cui si è dovuta affrontare la chiusura di scuole e università e lo spostamento completo della didattica sul piano telematico e multimediale.
Accanto a questo potrebbe succedere che molta gente cominci davvero a mettere questo sistema in discussione. Oltre a quelli che lotteranno solo per ripristinare le condizioni di vita precedenti alla pandemia, o per veder cambiare un paio di volti nelle sfere del potere, o per un welfare migliore e migliori servizi al cittadino, ci sarà forse anche chi comincerà a pretendere cambiamenti più strutturali nel sistema di produzione e di consumo. Le cause di questa crisi sono sotto gli occhi di tuttx (altrx le hanno indicate e descritte lungamente in questi ultimi tempi, quindi eviterò di ripeterle), e nonostante moltx continueranno a tenere la testa sotto la sabbia, reputando troppo complicato e faticoso immaginare una maniera diversa di abitare il pianeta, altrx stanno già cominciando a porsi interrogativi a cui la politica, o i vari movimenti riformisti, non saranno in grado di dare la una risposta. Una parte di queste persone sono già attive in organizzazioni o associazioni ambientaliste, o in movimenti ecologisti come Fridays for Future, o Extincion Rebellion. Molte di esse potrebbero rapidamente radicalizzarsi ed essere disponibili a forme di lotta più conflittuali.
A quel punto si potrebbe creare una spaccatura sociale tra chi chiederà a gran voce un ritorno alla normalità, il salvataggio l’economia e il mantenimento di uno stile di vita consumistico, e chi invece vorrebbe mettere tutto in discussione. Le differenze di prospettiva accentuerebbero le già evidenti divisioni sociali, portando così ad uno scenario da guerra civile. Vorrei che si tenesse presente la reale possibilità che quest’eventualità si manifesti, presto o tardi, perché ci si cominci a riflettere seriamente. Immaginare di lottare, anche all’ultimo sangue, con le forze della repressione, polizia, esercito, o militanti di estrema destra che siano, contro le quali si è allenato l’odio e il disprezzo, è sicuramente più facile che pensare a combattimenti fratricidi, in cui il nemico potrebbe essere x vicinx di casa, x parenti o x vecchix amicizie. Quando una situazione si radicalizza all’estremo, ovvero quando i termini dello scontro in atto sono inconciliabili, si arriva ad uno scontro che può risolversi figurativamente solo con l’espressione, semplicistica ma realistica, del “o te o me”. Quando la posta in gioco sarà il futuro di questo pianeta e le forme di sopravvivenza che si dovranno adottare per sopravvivere (per esempio stato totalitario o rivoluzione) fino a che punto sarà opportuno essere pronti ad affrontare questo scenario fino alle sie estreme conseguenze.

Comunque, un’altra conseguenza del possibile eclissarsi dell’UE dal panorama geopolitico e di cui già di parla anche a livello istituzionale è certamente quella di un possibile rafforzamento dei nazionalismi, e più in generale dell’estrema destra. Stiamo già assistendo da alcuni anni al lento e inesorabile spostamento a destra dei governi di molte nazioni, causato sia dall’incapacità dell’UE di essere altro che un organismo a tutela degli interessi dei paesi economicamente più forti attraverso quello che è stato definito “un nuovo colonialismo economico” attuato ai danni dei paesi “deboli” dell’Unione, sia dalle conseguenze della “crisi dei migranti”. Spariti ormai dalla coscienza del cittadino medio i concetti di ottocentesca memoria come “solidarietà”, “uguaglianza”, “fratellanza umana”, o i più religiosi “pietà o carità cristiana”, le popolazioni europee si stanno abbandonando alle loro più meschine paure, foraggiate da leader e destrorsi vari, con l’aiuto terroristico di media e social. Gruppi di estrema destra già pattugliano i confini balcanici dell’Europa, addestrandosi nelle tecniche di sopravvivenza e guerriglia. In questo momento di paranoia pandemia, essi stanno già gongolando all’idea delle possibili conseguenze socio-politiche, allertando i propri membri a tenersi pronti. È abbastanza certo infatti che la colpa di questa crisi sarà affibbiata da molti agli spostamenti incontrollati di persone e popolazioni, con un conseguente aumento xenofobico. Le frontiere della già soprannominata Fortress Europe diverranno con ogni probabilità ancora più sorvegliate e impenetrabili per le masse di disperati che da anni spingono al loro esterno per accedere ad aspettative di vita migliori (e forse anche quelle al suo interno non saranno più attraversabili come siamo stati abituati con Schengen).
Sappiamo che questi gruppi di destra sono più preparati ed equipaggiati di noi ad affrontare uno scenario in cui lo stato non dovesse essere più in grado di reggere le redini della situazione. Ma questo non è una sorpresa, giusto? Sono anni che da più parti giungono allarmi circa il mobilitarsi dell’estrema destra in tutto il continente. A questo proposito sarebbe il caso di incominciare un serio lavoro di ricerca e di mappatura che permetta di intervenire in tempo per disinnescare questo pericolo quando esso cercherà di mettere fuori la testa dal buco. In Germania si lavora da anni in questo senso, con l’aiuto fondamentale di nerd da tastiera che pubblicano continuamente indirizzi, targhe, proprietà degli appartenenti ai movimenti di destra. Un serio lavoro in tal senso sarebbe di certo utile anche da queste parti. Comunque, anche in questo caso lo scontro potrebbe rapidamente volgere verso livelli di violenza a cui non si è generalmente abituati.

Infine (almeno per quanto riguarda le mie capacità immaginative), la normalizzazione dello stato di emergenza, il rafforzamento e il consolidamento degli strumenti di controllo, e la fine delle pseudo-libertà democratiche è un’altra possibilità su cui scommettere senza rischio di essere tacciati per pessimisti. In questo caso i processi in atto di digitalizzazione e di ipertecnologizzazione della produzione e della vita avrebbero di certo un’enorme accelerazione. Il potenziamento della connettività balzerebbe immediatamente al primo posto dell’agenda dei potenti e la rete 5G sarebbe attuata in tutta fretta per permettere i necessari ammodernamenti logistici e produttivi. La quarta rivoluzione industriale ci piomberebbe addosso senza neanche il tempo di rendercene conto, e l’agricoltura di precisione con i suoi droni, sensori e piante modificate sarebbero l’unica possibilità per sostenere il fabbisogno alimentare in un mondo svuotato dagli umani.
Vivere in casa diverrebbe la normalità, si lavorerà e si socializzerà attraverso il computer, si faranno acquisti in rete, robot di ogni tipo circoleranno per le strade e le abitazioni al posto nostro per compiere qualsiasi genere di mansione fondamentale, dalle riparazioni alla consegna del cibo.
Per chi è cresciuto a pane e distopie, non è difficile immaginarsi un futuro così. In realtà, è la direzione verso la quale le cose si stavano muovendo anche prima di quest’emergenza, solo che si realizzerebbe prima e con meno ostacoli dal punto di vista dell’opposizione umana. Se venisse presentata come l’unica possibilità di salvezza per il genere umano e per il suo moderno stile di vita, a chi verrebbe in mente di protestare? Sono decenni che il nostro immaginario è bombardato da centinaia di film, libri, fumetti, serie televisive che descrivono futuri catastrofici, crisi ambientali, e società futuristiche tecnocratiche e autoritarie, quindi il loro avverarsi potrebbe non generare nessuno shock, e quindi nessuna reazione abbastanza disperata da impedirlo.

In tutti questi scenari le possibilità di intervento sono molteplici, a seconda della fantasia e delle modalità d’azione scelte sulla base dell’approccio di ciascuno alla lotta e all’esistenza. Come si dice, a ciascuno il suo. Una cosa però vorrei che fosse chiara: non ho descritto questi possibili prossimi scenari per suggerire di attendere fino alla loro apparizione per passare all’azione. Motivi e pretesti per agire sono presenti numerosi anche in questo momento di clausura forzata, come lo erano prima. Anzi, le condizioni potrebbero essere persino più favorevoli ora che in futuro visto che le strade sono vuote e le forze dell’ordine stanche e impegnate su molti fronti. Ogni giorno che passa si aggiungono all’elenco degli impedimenti da superare nuove misure restrittive, così come nuovi strumenti di controllo. Oggi i droni pattugliano i parchi pubblici manovrati da Municipale e Polizia Locale, domani chissà…

Ritorno alla normalità?

La domanda che sorge spontanea è se anche i cosiddetti rivoluzioni o sovversivi che dir si voglia stiano aspettando un ritorno alla “normalità” del dominio di cui si aveva esperienza prima della crisi pandemica che stiamo vivendo per riprendere le conflittualità con l’esistente. Perché come qualcunx ha già ben messo in chiaro, questo non ci sarà, o almeno, non sarà più la normalità a cui eravamo abituati (e che si dichiarava di voler sabotare). Ed è bene cominciare a prepararsi anche a questo. Le condizioni e i parametri con cui eravamo abituati ad analizzare la realtà per pianificare il più semplice intervento potrebbero semplicemente non esserci più. Per fare un paio di esempi banali quanto emblematici, a chi dare un volantino quando le strade sono vuote e in coda al supermercato si deve tenere una distanza di un metro tra persona e persona, considerando che forse quel supermercato sarà oltretutto presidiato dalla celere (come già succede in alcune località del sud Italia)? Chi leggerà una scritta su un muro o uno striscione appeso su un cavalcavia? E i droni che pattugliano il cielo spariranno alla fine dell’emergenza? I movimenti continueranno a venire tracciati con le app del controllo? E che obiettivi praticare, quando un sabotaggio ferroviario o l’incendio di un traliccio verranno additati dai più come opera di sciacalli che vogliono trascinare il mondo nel caos? Si avrà il coraggio di perseguire i nostri sogni di distruzione fregandocene di consenso e comprensione, quando forse basterà una piccola spintarella per gettare ciò che resta di questo sistema nel baratro? A queste domande è quanto mai urgente che ognuno si dia al più presto delle risposte, anche a partire dalle ipotesi e dagli scenari sopra ipotizzati (e dai tanti altri immaginabili). Che questo mondo sia destinato a crollare è la speranza della nostra generazione in questo nuovo millennio di scompensi climatici e ristrutturazioni del dominio. Che questo avvenga a causa delle conseguenze di questa pandemia o piuttosto per un’altra più terribile e spaventosa catastrofe, sarà anche per merito di individui coscienti che, armata la propria volontà, faranno in modo che da questo crollo fiorisca la possibilità di un altro modo di vivere in società e di abitare questo pianeta. Perché se ammettiamo che oggi più che mai il futuro non è scritto, allora oggi più che mai è il momento di agire, lasciandosi alle spalle tentennamenti e dubbi, per dare forma e sostanza a decenni di speculazioni teoriche, e lanciarsi finalmente verso l’ignoto di un mondo miracolosamente sconosciuto.

https://roundrobin.info/2020/04/il-futuro-non-e-scritto-un-contributo-sui-possibili-sviluppi-della-situazione-attuale/