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Segnali
Se nessuno, goveno in primis, sembra sapere quando arriverà il tanto atteso picco dei contagi, sembra stia invece avvicinandosi quello dell’insofferenza verso una situazione che giorno dopo giorno diventa per tanti, sempre più invivibile. All’impossibilità di uscire di casa senza sentire il fiato sul collo di polizia, carabinieri e militari, alla sensazione di essere diventati tutti dei comodi capri espiatori utili da additare come untori per coprire le incapacità mostrate dalla macchina statale, inizia ad aggiungersi, pressante, il problema di come mangiare. E sì, perchè dopo diverse settimane ormai in cui son venuti meno gli abituali modi per mettere qualche soldo in tasca, per molti, e sono numeri destinati a crescere, emergenza sanitaria e economica iniziano a intrecciarsi in un mix esplosivo. E poco o niente contano le balbettanti misure prese a riguardo dal governo. casse integrazioni in deroga, fondi speciali di 9 settimane e assegni di 600 euro sono destinati solo ad alcune categorie e non si sa bene con che tempi arriveranno. Anche il reddito di quarantena di cui si sente parlare da più parti, a sinistra, comporterebbe gli stessi problemi, qualora si riuscisse a ottenerlo raggiungerebbe infatti soltanto le tasche di una parte di chi se la passa peggio e ci vorrebbero comunque tempi notevoli dalla sua approvazione a che venisse stanziato.
Soluzioni parziali, tortuose e quanto mai lente insomma, cui sembra stiano iniziando a sostituiris misure ben più pragmatiche, all’insegna di una parola d’ordine universale, alla portata di tutti e immediata: gratuità. C’è chi si organizza in maniera più accurata e accorta e assalta un tir di generi alimentari saccheggiandolo; chi promuove, a quanto pare, una pagina su facebook per poi ritrovarsi in un supermercato a riempire i carrelli e provare, ahinoi senza successo, ad uscire senza pagare. Salvo poi costringere di riffa o di raffa il supermercato, in accordo coi Carabinieri, a distribuire nei giorni seguenti buoni da 50 euro per la spesa, così da sedare i bollenti spiriti. E ci saranno poi tanti, c’è da esserne certi, protagonisti di fatti simili di cui non siamo venuti a conoscenza. Di certo le autorità non hanno alcun interesse a che si pubblicizzino questi fatti, con l’aria che tira ci vuole poco che si crei un effetto domino una volta che esempi di questo tipo salissero alla ribalta, un po’ come acccaduto nelle carceri, del resto. E un simile scenario creerebbe non pochi problemi a lorsignori visti i compiti extraordinari di controllo del territorio in cui sono impegnati militari e forze dell’ordine, e con la crescente tensione nelle carceri che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Ben difficilmente si potrebbero allora schierare preventivamente, come a Palermo, reparti mobili davanti a tutti gli ipermercati….
Segnali significativi poi, di quello che potrà accadere più in là, quando la situazione sanitaria rientrerà, almeno per un po’, in una certa normalità, arrivano dalla regione dell’Hubei focolaio iniziale del Covid19, dove ieri è scoppiata una rivolta contro le autorità e le forze dell’ordine che continuano a imporre rigidi controlli sugli spostamenti.
Utopia della città perfettamente governata
Mai come oggi il governo si regge sulla collaborazione dei propri cittadini, mai come oggi il potere si regge sull’obbedienza dei propri sudditi. Questo rapporto tra governanti e governati, al di là delle favole di una visione contrattualistica e pacificata, in cui i governati rinunciano volontariamente alle loro libertà in cambio di sicurezza, è in realtà una lunga storia di conflitti. La storia di questo rapporto non andrebbe letta come un patto sociale ma come quello che materialmente è, una guerra sociale.
Eppure oggi, in pieno stato di emergenza, lo Stato chiede collaborazione (ovviamente dietro la minaccia della punizione,nel liguaggio da boia che più gli si confà) e senza troppi fragori, la ottiene.
Come si è potuta produrre una tale coincidenza di interessi tra governati e governanti? Una tale corrispondenza di intenti tra oppressi e oppressori?
C’è chi sostiene che ciò sia avvenuto per cause di forza maggiore, il coronavirus, ovvero per spingerla all’estremo, è la minaccia dell’estinzione che fa saltare ogni differenza e ci riconcilia coi nostri nemici di classe per far fuori un nemico esterno, comune..
Non mi convince molto questa narrazione, non credo che sia stato fondamentalmente questo a generare “l’utopia della città perfettamente governata”, che è poi l’utopia di ogni governante. Piuttosto qui c’è in ballo qualcosa di più di una mera obbedienza, che di fatto diverrebbe insopportabile sul lungo periodo, c’è una logica gratificante che il neoliberalismo mette in campo da circa quarantanni senza sosta su tutti i piani, dal privato al pubblico, che è quella della performatività e della meritocrazia.
In una situazione come quella attuale, la responsabilizzazione di massa che è di fatto una obbedienza di massa può essere vissuta come performatività della propria condotta, sempre in chiave competitiva (stavolta a chi e’ più obbediente, normalmente a chi è più produttivo).
Il buon cittadino è colui che partecipa volontariamente al governo attraverso l’autogoverno, e si fa portatore dello sguardo dello stato, basti pensare alla sorveglianza generalizzata che trasforma ogni cittadino, ogni vicino, ogni persona in un poliziotto, pronto a denunciare, a segnalare, se non a picchiare chi infrange le regole sempre più pericolosamente restrittive (ormai i runner sono considerati gli untori ma c’è chi ancora va a lavorare sfuttato e senza mascherine senza che nessuno si scomponga). Forse perchè il lavoro, e quindi la produttività, è l’altra faccia della performatività dell’obbedienza (produttivi oltre che docili).
Questo significa che chi si ammala, chi non sa come organizzare la propria vita, chi rimane senza lavoro, senza casa, senza via d’uscita, non ha che da prendersela con se stesso, perché non ha curato bene la propria “impresa individuale”, e gli si dirà, non ha obbedito abbastanza.
Sono anni che la governamentalità neoliberale scarica sui singoli la responsabilità delle nefandezze prodotte da un sistema energivoro, estrattivista e predatorio. Per esempio ha fatto credere, con un ambientalismo pret a porter, che chi non differenzia o chi non si compra una macchina ibrida, è il responsabile del cambiamento climatico. Tutta la politica di riduzione di emissioni viene giocata secondo la stessa logica, incolpando i più poveri di utilizzare automobili più inquinanti di quelle di ultima generazione, per loro chiaramente inaccessibili. Incolpandoli di fatto di essere poveri. Non performativi quindi non meritevoli, vite di scarto, vite sacrificabili.
L’autogoverno, che oggi in tempo di virus, si traduce letteralmente in autoreclusione, risolve nell’immediato due ordini di problemi:
1- la crisi di legittimità del governo → che da apparato tecnocratico di controllo e gestione iniqua delle risorse, si immedesima ora sempre più nella bandiera, nell’ordine simbolico nazionalista carico di paternalismo di Stato, che lo riveste di una nuova legittimità, quella di dover combattere contro un nemico esterno, il virus (retorica dell’all around the flag in tempo di guerra). Quindi l’appello all’unità nazionale è funzionale non a combattere il virus ma a rinforzare lo stato, non appena la fase emergenziale sarà dichiarata finita.
2- l’ineguaglianza sostanziale dei rapporti sociali → le misure restrittive emanate dai vari governi sono rivolte a tutti indistintamente ma di fatto sonoo idealmente indirizzate a un uomo appartente alla classe-media,
*che ha un lavoro che può sospendere o meglio praticare come tele-lavoro (perciò non perde la sua produttività e dimensione soggettivante di lavoratore),
*che ha un automobile o un mezzo autonomo per muoversi (perciò può rispondere più agilmente a tutte le restrizioni di movimento, non dipendendo da mezzi pubblici o da una dimensione non individualistica delle relazioni -vedi i più poveri che tendono a organizzare più collettivamente i propri bisogni, spostamenti o altro),
* che ha generalmente una piccola unità familiare e non troppe relazioni significative all’infuori da quella (perciò può ritirarsi nell’isolamento del privato senza cambiare di molto la qualità dei propri rapporti)
per questo soggetto ideale, cittadino ideale, collaboratore ideale del governo dell’emergenza, il disagio personale sarà accettabile, ma e’ evidente che non per tutti il disagio sarà tale, e non per tutti sarà accettabile, anzi per molti evidentemente non lo è e non può essere diversamente.
I più vecchi, i più precari, i più poveri, i senzatetto, i migranti, i reclusi, i disabili,i lavoratori senza tutele-protezioni sono tutti coloro per i quali le misure di contenimento del virus possono significare letteralmente morire più facilmente, dato che non dispogono di un salvagente privato o pubblico (di un qualche residio di welfare familiare o di stato). Per loro, il disagio sarà inaccettabile, o meglio sarà un dramma.
Per cui si ammaleranno maggiormente i più ricattabili, chi lavora senza protezioni adeguate inizia a scioperare (vedi Amazon), per molti non sarà neanche possibile astenersi da un lavoro a rischio dato che l’alternativa è la fame,lo sfratto, l’abbandono totale. Se sopravviveranno poi saranno comunque quelli che pagheranno maggiormente i costi di questa emergenza.
Ci serve innanzitutto rigettare questa stucchevole retorica da unità nazionale, ci serve una narrazione di parte e un’azione di parte.
In ostaggio
Note sparse sul morbo che infuria
Il testo che segue è il contributo di una strega. Qui potete trovarlo in versione pdf.
I.
La verità non sta nel mezzo, né di lato.
In momenti di grande incertezza si tende a ricercare più che mai la “verità”, nel tentativo di aggrapparvisi per dare un senso ad una situazione che non si riesce più a comprendere e a controllare. Sotto la lente di questa banale considerazione si può guardare a gran parte delle disposizioni e degli atteggiamenti messi in atto recentemente, ovunque sembra dilagare il coronavirus SARS-CoV-2 che può sviluppare la malattia del Covid-19. Medici e ricercatori di ogni risma tentano di ricostruire gli scenari del primo contagio, alla ricerca del paziente “zero”, dicendo tutto e poi il contrario di tutto; opinionisti da strapazzo descrivono nel dettaglio i sintomi della malattia (chiaramente di chi presenta gravi sintomi, tralasciando spesso di ricordare che esiste tutta una schiera di persone con sintomi simil-influenzali o asintomatiche che sono i vettori per eccellenza) ed invocano il vaccino o l’ennesima terapia panacea di tutti i mali.
Se da un lato è indubbio che vi siano grandi numeri di persone che hanno bisogno di essere ospedalizzate – il Covid-19 aggraverebbe situazioni cliniche già precarie o per l’età o per altre patologie, anche se non mancano eccezioni in questo quadro –, dall’altro è altrettanto indubbio che lo Stato stia reagendo a questa situazione inedita nell’unico modo che conosce e che gli è più congeniale, con l’autorità e il castigo. Insomma, alla situazione percepita come incerta, grazie anche alla martellante fanfara mediatica degli specialisti del “progresso”, segue prevedibilmente la certezza della repressione facile: divieti di spostamento – con l’eccezione di lavoro-salute-spesa, quanto di più ordinario e funzionale al capitale –, pattugliamenti massicci per le strade, tracciamento delle persone per mezzo delle celle telefoniche o del GPS, droni che sorvegliano i sentieri e le cime di montagna alla ricerca di refrattarie al morbo dell’autorità.
Se non fosse che è a prezzo della propria indipendenza (la “libertà” in fondo non l’abbiamo mai potuta assaporare in questo mondo) e del proprio benessere che si pagano queste disposizioni, verrebbe da ridere a crepapelle mentre si assiste allo spettacolo dell’insensatezza, alla ricerca di soluzioni facili che non esistono. Perché se secondo alcune questa epidemia poteva essere prevista, imprevedibili – non in assoluto, ma nella loro entità e nella loro imminenza – sono invece le conseguenze della devastazione ambientale, degli ecosistemi e della natura selvaggia, che quotidianamente viene portata avanti dagli stessi tecnici del disastro (da cui ora si cercano risposte) e da tutte coloro che hanno creduto fino ad ora, o credono ancora, di vivere nel migliore dei mondi possibili, tanto da volerlo preservare a qualsiasi costo. Oltretutto, riconoscere che la riduzione della complessità del reale alla dicotomia problema-soluzione o causa-effetto è figlia di una certa mentalità può aiutarci a scorgere il carattere sempre più dogmatico e incontestabile della parola scientifica. Ora più che mai, sembra che la conoscenza scientifica sia sicura, vera in assoluto, non più perfettibile (ciò che è vero lo è fino a prova contraria); il monopolio del sapere è in mano agli specialisti in camice bianco e in questa situazione di “vera emergenza” è bene che le comuni mortali, prive di competenze, non mettano in dubbio le affermazioni di chi pensa di avere in tasca la verità del momento. Ma fra l’oscurantismo – inteso come l’atteggiamento di chi si oppone ad ogni cambiamento e, in senso più ampio, non volontà di conoscere, assenza di curiosità – e lo scientismo – l’atteggiamento di chi pretende di applicare il metodo scientifico ad ogni aspetto della realtà – esiste altro. È in questo spazio grigio che possono insorgere le passioni, la sensibilità e la sensazione, il corpo riscoperto e padrone di sé, i desideri più profondi e selvaggi di chi aspira a com-prendere l’esistente, senza aver la presunzione di riuscirci appieno. È in questo interstizio che potremmo far nascere la nostra critica radicale all’esistente.
II.
Il tempo della roulette russa.
Perché questa pandemia? Da dove è arrivato questo virus? E ora, che fare? Lo sbigottimento ha la meglio, rafforzato dal clamore mediatico e favorito dalla spiacevole sensazione di sentirsi in trappola, perfino nel caso in cui si decida consapevolmente di non rispettare l’isolamento coatto.
Per alcune persone la sensazione di essere in trappola, o meglio di aver già raggiunto un punto di non-ritorno, è qualcosa di latente e viscerale che emerge con prepotenza ogni volta che magari si fa una passeggiata in montagna e si scorgono l’ennesimo traliccio che squarcia l’orizzonte, la cava che sventra la roccia e un altro ghiacciaio che si ritira, facendosi meno imponente dell’anno prima. Ogni volta che si vede scomparire sotto gli occhi una parte sempre più ampia di spiaggia, perforata e scavata dalle ruspe che devono far posto a portuali o turisti, ossia ad una fetta più grande di profitto. Ogni volta che sentiamo il nostro stesso sguardo abituarsi alla vista di una centrale nucleare o di un
bosco raso al suolo e magari sostituito da una piana disseminata di ecomostri per il parco eolico (ah, la svolta green del capitalismo!). Ogni volta che si tocca con mano quanto il mondo in cui viviamo sia artificioso, del tutto innaturale, mentre osserviamo l’orso, il pitone, il delfino o la leonessa di turno al di là di una gabbia, di un recinto o di una teca di vetro, viventi non più selvaggi e rinchiusi nell’ennesimo parco faunistico o tracciati nella riserva naturale.
Ma se a questo sbigottimento seguisse una messa in discussione totale e profonda del mondo che conosciamo… Ecco, allora esisterebbero altri orizzonti e le domande che verrebbero poste sarebbero certamente ben diverse, ad esempio, dalla questione sollevata diversi giorni fa: “esiste una correlazione fra la diffusione del Covid-19 e l’inquinamento dell’aria?”. Diserteremmo, così, la battaglia dialettica fra coloro che si accorgono della devastazione solo o soprattutto dai gradi della temperatura media della superficie terrestre o, ancora, dalle tonnellate di emissioni di Co2 – che, in questa particolare circostanza, diminuiscono per il temporaneo blocco di molte attività produttive, nonché per la riduzione dei trasporti, dello smog e del traffico.
Ignoreremmo le considerazioni di chi risponde a questa domanda avendo in testa sempre e solo numeri e tendenze: “a febbraio le misure adottate dalla Cina hanno provocato una riduzione del 25 per cento delle emissioni di anidride carbonica rispetto allo stesso periodo del 2019 (…). Tra l’altro, secondo una stima questo ha evitato almeno cinquantamila morti per inquinamento atmosferico, cioè più delle vittime del Covid-19 nello stesso periodo”. Allo stesso modo, non ci lasceremmo ingannare da chi invece ha la presunzione di sembrare lungimirante, appellandosi alla cosiddetta transizione energetica, destinata al fallimento: “(…) l’andamento delle emissioni non dipende solo da quello dell’economia globale, ma anche dalla cosiddetta intensità di emissione, cioè la quantità di gas serra emessa per ogni unità di ricchezza prodotta. Normalmente l’intensità di emissione si riduce con il tempo per effetto del progresso tecnologico, dell’efficienza energetica e della diffusione di fonti di energia meno inquinanti. Ma durante i periodi di crisi questa riduzione può rallentare o interrompersi. I governi hanno meno risorse da investire nei progetti virtuosi e le misure di stimolo tendono a favorire la ripresa delle attività produttive tradizionali. Se come molti temono la Cina dovesse rilanciare la costruzione di centrali a carbone e altre infrastrutture inquinanti nel tentativo di far ripartire l’economia, a medio termine gli effetti negativi potrebbero cancellare qualunque miglioramento dovuto al calo delle emissioni.” (*) La lista potrebbe anche fermarsi qui, ma fra i tecnocrati che si sono affannati nell’indagine di questa misteriosa correlazione, c’è un’altra dichiarazione che merita di essere presa in considerazione perché, più di tutte le altre, è emblematica dell’insensatezza e della più radicata disperazione (nel senso etimologico di “assenza di speranza”) che alcune ormai ripongono nel genere umano. Perché se, da un lato, non è accertato che le cosiddette polveri sottili abbiano agito da vettori del coronavirus, favorendone la diffusione, e se dall’altro è noto che vivere in zone particolarmente inquinate incide sulla presenza di malattie respiratorie o cardiovascolari croniche, “la covarianza fra condizioni di scarsa circolazione atmosferica, formazione di aerosol secondario [che comprende particelle derivate da processi di conversione, ad es. solfati, nitrati e altri composti organici], accumulo di Pm [il particolato, ossia l’insieme delle sostanze sospese in aria] in prossimità del suolo e diffusione del virus non deve, tuttavia, essere scambiata per un rapporto di causa-effetto”. E quindi, venendo a mancare l’unica possibile chiave di interpretazione della realtà, segue la conclusione che sembra uno scherzo di pessimo gusto: “si ritiene che la proposta di misure restrittive di contenimento dell’inquinamento come mezzo per combattere il contagio sia, allo stato attuale delle conoscenze, ingiustificata, anche se è indubbio che la riduzione delle emissioni antropiche, se mantenuta per lungo periodo, abbia effetti benefici sulla qualità dell’aria e sul clima e quindi sulla salute generale” (**). In parole povere, perché limitare le emissioni se non è scientificamente provato che il particolato atmosferico ha favorito in maniera diretta la diffusione del virus, in un legame di causa-effetto? Perché limitarle in generale se sappiamo che la loro riduzione incide “solamente” sulla qualità dell’aria, sul clima e sulla salute del corpo? Sia chiaro che non intendiamo chiedere a nessuno di ridurre le emissioni perché non troviamo nessun interlocutore né fra gli specialisti da strapazzo, né fra i politicanti delle conferenze sul clima. Ci diamo invece ad una risata di cuore, quando non ci ricordiamo che buona parte della devastazione ambientale dipende da questi ricercatori-kamikaze; quando ci scordiamo di scorgere in questa mentalità un fondamento del dominio della tecnoscienza, insieme al vil denaro e ai rapporti di potere-oppressione. Lasciamo un attimo questi pensieri da parte, che se no la nostra risata rischia di farsi ghigno amaro. E d’altro canto sbagliamo pure noi, non dovremmo stupirci così davanti a tutto questo, perché come qualcuno scrisse qualche tempo fa: “la civilizzazione è monolitica ed il modo civilizzato di concepire tutto ciò che è osservabile è anch’esso monolitico” (***). E purtroppo torna: in questo mondo tecno-scientifico la complessità del reale non può che essere appiattita fino alla parodia di se stesso per legittimare la progressiva (auto)distruzione del pianeta e del vivente.
In tempi passati, molte streghe hanno sfidato l’esistente, tramandando antichi saperi sulla natura e sul corpo non demonizzato, rifiutando la legge del padre, del prete, dell’erudito e del re, e crediamo che in salsa contemporanea disconoscerebbero la legge scellerata di questi tecno-stregoni. Con buona probabilità non ammetterebbero nemmeno la validità delle domande riportate all’inizio di questo testo, dato che non possono esserci risposte assolute, ma solo ragioni concomitanti, dubbi e interrogativi. Vogliamo seguire le orme di quelle streghe nelle nostre ultime riflessioni.
Consideriamo i primissimi focolai di diffusione del Covid-19 – la provincia industriale dello Hubei in Cina e la Pianura Padana in Italia (fra bassa Lombardia ed Emilia: Lodi, Codogno, Piacenza, Bergamo e Brescia): se pure non confermano la misteriosa correlazione, alludono al fatto che zone simili, così densamente popolate, industrializzate ed inquinate, sono terreno fertile per agenti patogeni, sia perché ne favoriscono in qualche modo la proliferazione, sia perché la salute fisica di chi ci vive è già indebolita. Soprattutto l’una o l’altra o entrambe le ragioni insieme, in quale misura si combinano fra di loro o con ulteriori ragioni non è dato sapere. Asma, diabete, obesità, tumori, malattie (neuro)degenerative, malattie respiratorie e cardiocircolatorie croniche – oltre all’età avanzata – sembrano essere ulteriori fattori di rischio per chi dovesse soffrire di Covid-19, dato che questo potrebbe sviluppare gravi sintomi (fra i più noti, le crisi respiratorie acute). Alcune di queste patologie, peraltro, sono altrimenti dette “malattie della civilizzazione”, la cui comparsa sembra essere legata al consumo di cibi raffinati, fra cui rientrano di certo i prodotti industriali delle coltivazioni e degli allevamenti intensivi. E ancora: questa epidemia si inserisce nella lunga serie di quelle che si sono susseguite nei secoli, che si sono fatte più frequenti in presenza di agglomerati urbani o di viaggi intercontinentali e che, in ogni caso, hanno rimesso in questione il contatto fra l’animale umano e il non umano. Solo per citare le epidemie di malattie zoonotiche (cioè che si trasmettono dall’animale non umano a quello umano, attuando il “salto di specie”) degli ultimi 50 anni: la Sars e la Mers (entrambe sindromi respiratorie, nel secondo caso è detta del Medio Oriente), l’Hiv/Aids, l’influenza suina e l’aviaria, la febbre Dengue, l’ebola ed ora il Covid-19. Le ultime due sembrano, tra l’altro, avere in comune il pipistrello come animale non umano da cui poi si sarebbe originato il primo passaggio del virus all’umano di turno, che si guadagna il titolo di “paziente zero”. Nel caso di questo coronavirus, a parte le tanto millantate zuppe di pipistrello o di serpente (il più becero esotismo non è ancora morto in Occidente!), sembra che il contatto possa aver avuto luogo nei mercati neri in cui vengono commerciati animali selvatici o ai margini delle periferie urbane, in cui i pipistrelli si muovono in cerca di cibo. Quale che sia il caso in questione, ci sembra importante riconoscere lo sconfinamento di uno dei protagonisti del contagio nella sfera vitale dell’altro: che piacere trarrebbe, infatti, il pipistrello dallo stare in mezzo alle persone, se non fosse che il suo habitat di sempre è diventato adesso parte della città? Di certo gran poco, a maggior ragione se pensiamo che rischia di essere inserito a forza nel contrabbando di animali selvatici come merce di scambio, accanto ad altri di ogni specie. Si tratta, d’altronde, di una florida attività mondiale a cui spesso partecipano anche sparute comunità indigene che, vedendosi spossessate di buona parte dei propri territori (a causa della deforestazione o delle multinazionali agroalimentari), ripiegano sul bracconaggio e talvolta sul contrabbando di legname per poter sopravvivere. Così facendo la mercificazione è davvero totale: perfino i rapporti di coesistenza simbiotica e secolare fra queste comunità, il vivente e ciò che restava del selvaggio attorno a loro devono scomparire per far spazio all’autodistruzione dettata dal profitto. Nulla può resistere all’inarrestabile avanzata del progresso, nessun luogo può sfuggire alla contaminazione umana di chi crede nella validità della “civilizzazione”. Infine, a cascata: l’urbanizzazione e le malsane concentrazioni demografiche, gli allevamenti intensivi dell’orrore, le immense monocolture legate a doppio filo coi cicli di carestie e l’impoverimento della terra, l’incessante flusso di merci e di persone in movimento in ogni parte del globo, la devastazione ambientale di ogni ecosistema e la scomparsa del selvaggio, l’ennesima nocività giustificata dal sistema energivoro, il crollo della biodiversità, gli OGM a buon mercato e tutti i processi di manipolazione genetica del vivente promossi dalle biotecnologie… Quando fermare l’enumerazione dei misfatti della devastazione? Non c’è modo, perché ci sono troppi equilibri che sono stati spezzati; in alcuni casi abbiamo già constatato le conseguenze nefaste di questa rottura, in altri casi avremo presto modo di scoprirlo. La partita sembra già persa in partenza (e forse lo è per il genere umano, ma non per gli altri viventi) ma varrebbe comunque la pena fare
almeno un ultimo tentativo. Last shot.
Al posto di fare eco al vicolo cieco delle domande iniziali (“perché questa pandemia? da dove è arrivato questo virus?”) quelle streghe si darebbero alla possibilità e, per come ce le immaginiamo, rischierebbero il tutto per tutto pur di aprire altri orizzonti. Azzardando così domande diverse: “Dove troviamo la devastazione? Chi la porta avanti e in che modo? E ora, che fare?” – ma senza chiederci quanto tempo fa è cominciata questa devastazione totale, perché il rischio è di perderci nei meandri della storia e delle interpretazioni, ma soprattutto di farci perdere quella sensazione di pancia che fa sentire sotto scacco e che alimenta la nostra rabbia. Ci basta sapere che la devastazione esiste ed è continua. Non pensiamo che sia una catastrofe perché non è un evento inaspettato, bensì è la prevedibile (anche se non in assoluto) conseguenza di una guerra al vivente che viene perpetrata quotidianamente da persone, aziende, ricerche ed istituzioni – tentacoli di questo mortifero dominio tecno-scientifico.
Addì, 28 marzo 2020
una strega nemica di ogni corona
P.S. L’espressione, presente nel titolo, “morbo che infuria” non intende avere nessuna attinenza coi versi di qualche nazionalista italiota. E il morbo di cui scriviamo non è di certo il Covid-19.
(*) https://www.internazionale.it/opinione/gabriele-crescente/2020/03/19/coronavirus-clima (**) https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2020/03/22/coronavirus-studio-legame-con-lo-smognon-e-provato_de96c12d-6813-4702-9cdc-a7cbdcc73e69.html
(***) Cit. dal testo tradotto “Nature as spectacle. The image of wilderness vs. wildness” (1991) e contenuto nella raccolta “Saggi e polemiche” (Hoka Hey! Ed.) di Feral Faun / Wolfi Landstreicher
Coronavirus: in Sardegna non si fermano le industrie della guerra
Qui di seguito, una breve diretta di Radio Onda Rossa sulla mancata chiusura delle industrie di guerra nel quadro del ridimensionamento delle attività produttive non essenziali, con un commento del collettivo A Foras rispetto al caso della Sardegna.
Coronavirus: in Sardegna non si fermano le industrie della guerra
Coronavirus: in Sardegna non si fermano le industrie della guerra
Emergenza Coronavirus nella base Usa che ha ospitato i piloti dell’Aeronautica italiana
Salgono a quattro i militari delle forze armate Usa che nelle ultime ore sono risultati positivi al Coronavirus (COVID-19) nella base aerea di Nellis (Nevada) dove si è appena conclusa l’esercitazione Red Flag a cui hanno partecipato migliaia di uomini di Stati Uniti, Germania, Spagna e Italia.
“Tutti i membri in servizio sono stati sottoposti a controlli sanitari e posti in isolamento”, riferisce il Comando di US Air Force. “Uno di essi appartiene ad un’unità geograficamente seprata del 57° Wing di stanza nella base aerea di Fairchild, Washington. Il Comando dell’Aeronautica militare di Nellis lavora in stretto contatto con le autorità sanitarie federali, statali e locali per assicurare il coordinamento nella prevenzione e nelle necessarie risposte da dare. Si monitorerà costantemente la situazione e si forniranno ulteriori informazioni appena possibile”.
L’allarme nella grande base aerea del Nevada era scattato giovedì 19 quando i test avevano accertato il contagio da coronavirus di “uno dei militari Nato” partecipanti a Red Flag 20-02. “Le operazioni aeree dell’esercitazione si sono appena concluse e il personale partecipante sta per rientrare nelle rispettive basi di appartenenza”, aveva dichiarato il portavoce di US Air Force”. Tra essi ci sono anche i piloti e i tecnici dell’Aeronautica italiana provenienti dalle basi di Pisa, Grosseto, Gioia dl Colle, Amendola, Pratica di Mare e Trapani-Birgi. “Il nostro deployment operativo e logistico in Nevada è stato portato avanti come pianificato, nonostante i concomitanti sforzi organizzativi in campo nazionale nell’ambito delle attuali azioni di contrasto e gestione dell’emergenza COVID-19”, aveva irresponsabilmente dichiarato lo Stato maggiore alla vigilia delle esercitazioni negli Usa.
“Gli assetti italiani, nelle due settimane di esercitazione, hanno realizzato circa 200 ore di volo in un environment addestrativo unico al mondo, implementando l’attività di integrazione di assetti eterogenei dell’Aeronautica Militare in scenari non replicabili su territorio nazionale”, riporta invece la nota di stamani della Difesa che non fa riferimento alcuno all’epidemia scoppiata nella base di Nellis. “Per l’Aeronautica Militare ha rappresentato il più importante evento addestrativo del 2020, per la prima volta in assoluto con tre tipologie di velivoli: gli F-35 del 32° Stormo, gli Eurofighter del 4°, 36° e del 37° Stormo ed il CAEW del 14° Stormo di Pratica di Mare”. L’Aeronautica non ha comunicato eventuali provvedimenti di quarantena per i reparti che rientrano in Italia da Red Flag. Al contrario sono state resi noti nei particolari tutti gli interventi che vedono protagonista la forza armata nella campagna nazionale di contenimento anti-coronavirus. “Sono undici ad oggi le missioni di trasporto effettuate per trasferire in sicurezza pazienti da un ospedale all’altro” scrive lo Stato Maggiore. “Per fronteggiare l’emergenza è stato creato un hub temporaneo presso la base aerea di Cervia, dove sono sempre pronti al decollo elicotteri HH-101 ed equipaggi del 9° e del 15° Stormo, nonché team di medici ed infermieri della Forza Armata specializzati in trasporti in alto bio-contenimento. Sono sei i trasporti effettuati dai velivoli C-130J della 46^ Brigata Aerea per il trasporto di pazienti di Bergamo. In ognuno degli interventi, il velivolo, in stato di allerta sulla base di Pisa, ha prelevato sull’aeroporto di Cervia il team di bio-contenimento, per poi dirigersi verso l’aeroporto di Orio al Serio per l’imbarco dei pazienti. Nelle ultime due settimane, inoltre, sono stati effettuati altri cinque trasporti di questo genere con gli elicotteri HH-101 del 15° Stormo, con il supporto anche di equipaggi del 9° Stormo di Grazzanise”. Il 19 marzo sono pure atterrati nell’aeroporto di Pratica di Mare il velivolo KC-767 del 14° Stormo ed un C-130J della 46^ Brigata Aerea di Pisa, partiti entrambi all’alba da Colonia, in Germania, con un carico di circa sette tonnellate di attrezzature per l’assistenza respiratoria ed altri apparati di supporto e materiale sanitario.
Emergenza Coronavirus nella base Usa che ha ospitato i piloti dell’Aeronautica italiana
Non tutto può essere militarizzato
“Basta spioni sui balconi – abbiamo già abbastanza polizia”
Non serve più raccontare territorio per territorio l’arrivo dei militari.
Sui media locali si può leggere come ogni governatore regionale utilizzi pretesti più o meno ufficiali, decreti legge, DPCM, appigli legislativi di ogni tipo per far sì che le proprie decisioni non cozzino con la famosa Costituzione – e che nessuno metta in dubbio l’utilità di ogni singola decisione che superi a destra i provvedimenti del Governo! I più accaniti sono i governatori leghisti, che non vedevano l’ora di poter utilizzare a piene mani i loro “piccoli” poteri locali per ottenere un territorio come lo hanno sempre sognato.
Da più parti d’Italia compagni e compagne segnalano l’evolversi della situazione con il passar dei giorni, l’utilizzo da parte del potere di espedienti più o meno nuovi. Quel servizio creato da radio come Radio Blackout a Torino, dove da anni gli ascoltatori segnalano quotidianamente i posti di blocco o i controllori sui tram in città, risulta oggi ancora più importante nel momento in cui tutti siamo sottoposti a controllo: ci troviamo a cogliere l’ utilità (in senso stretto) di uno strumento come una radio. Di fronte a veri e propri check-point di militari armati di mitra che non chiedono documenti e basta, ma puntano le pile in faccia, tutta la popolazione diviene criminale appena si trova fuori casa senza un motivo che rientri nelle ordinanze.
Ma accanto ai controlli dei militari sulle strade, o ai droni che sorvolano città e spiagge, lo Stato sta utilizzando anche vecchi metodi per controllare ogni anfratto del territorio; ecco allora che si spolverano i vecchi anfibi di ex carabinieri e gli scarponi della Forestale per controllare i sentieri dove le persone, di solito, si sgranchiscono le gambe. Luoghi in cui, fino a qualche giorno fa, in molti disobbedivano agli ordini allungando magari la strada nell’andare a fare la spesa ed evitando così incontri non voluti con mimetiche o divise di ogni ordine e grado.
Ci stiamo trovando in un territorio militarizzato da Nord a Sud, ma siamo convinti che non tutto può essere tenuto sotto controllo. Chi è abituato a non volersi far notare troverà altri e nuovi accorgimenti nella corsa ad ostacoli per andare a trovare la propria amata o il proprio amato. Escogiterà il modo per non sentirsi il fiato sul collo nelle città programmate al controllo totale tramite non solo le telecamere pubbliche o private, ma anche attraverso tutti quegli aggeggi che conteggiano il passaggio dei pedoni, i lampioni “intelligenti”, i sensori. E troverà il modo di aggirare anche gli sguardi che vengono da balconi e finestre, dai volti di coloro che purtroppo, in questo momento, si trasformano in spioni. Volti di individui che non capiscono che questo stato di cose sarà la normalità e che presto, magari, non avranno più un soldo in tasca perché banche e governi decideranno che saranno ancora una volta gli sfruttati a pagare il terremoto finanziario in atto.
Forse, in quel momento, si ricorderanno che il proprio comportamento era dannoso alla propria e altrui libertà. Comprenderanno che esiste un reale scarto tra padrone e lavoratore, fra l’etica degli uomini e donne liberi e quelli di Stato, e che non saranno solo i cosiddetti sovversivi o untori ad aver bisogno di trovare qualche porta aperta quando ci sarà dà agire in modo illegale per portar a casa la pagnotta.
Legalità e illegalità: questo è un annoso problema su cui forse in un futuro non lontano in tanti si interrogheranno, e che ora è molto difficile da far penetrare nel dibattito pubblico o anche in una semplice discussione al supermercato. Se non rispetti le regole imposte sei prima di tutto un’irresponsabile e meriti una punizione, anche qualora tu riduca i rischi di contagio al minimo e agisca secondo principi di precauzione e responsabilità, fermamente decisa a non barattare in blocco la tua libertà in cambio di una sicurezza immaginaria.
E saranno sempre loro, gli uomini e le donne in uniforme, a stringerci il braccio per portarci nei luoghi dove ora si contano i lividi e le bare, in quei luoghi su cui, nel mondo dei social e sulla carta dei pennivendoli, un sacco di saliva è stata sputata con le parole più indegne. Le carceri si affolleranno ulteriormente con l’ingrossarsi della schiera degli esclusi e con il dilatarsi della presenza militare.
Ciononostante, oggi c’è chi trasgredisce a questo mondo di controllo, e non perché se ne freghi degli altri o dell’influenza Covid-19, bensì perché intravede già che l’oggi sarà il futuro che ci aspetta come norma, e perché essere privati della libertà venendo rinchiusi in una casa-galera non è cosa per tutti. Non è una questione di irresponsabilità.
Non c’è anfibio, drone, telecamera che fermerà chi vede nella mimetica il proprio oppressore e si sa che in questo paese gli sfruttati e le sfruttate hanno sempre trovato modi nuovi, con sorprendenti astuzie, per illudere il controllore di turno.
Pisa – #ar-restiamo a casa
Nella città di Pisa è stato diffuso nelle cassette della posta di diversi quartieri il seguente testo.
Non essendoci più molte persone per le strade a cui distribuire volantini, si possono comunque trovare altre vie per continuare a diffondere le proprie idee, tanto più in questo momento.
#Ar-restiamo a casa
Ormai da giorni nei canali televisivi, nel web e nella stampa viene annunciata la crescita continua del numero dei contagiati, dei ricoverati, dei morti. Di pari passo crescono anche la paranoia, l’angoscia e la paura…una paura istintiva, atavica, legata alla sopravvivenza, al timore di morire.
La percezione del pericolo deriva da ciò che ci dicono i media, gli esperti di turno, gli altoparlanti della polizia, che ci intimano in continuazione di RESTARE A CASA, per la sicurezza nostra e degli altri; perché, se non ce ne fossimo ancora accorti, il PERICOLO è potenzialmente presente in ogni vicino di casa o nostro caro, in noi stessi, in ogni fiato che si leva, INVISIBILE agli occhi.
Invisibile, come invisibili ai nostri occhi sono i morti in paesi più o meno lontani o al largo delle nostre coste a causa di GUERRE, CARESTIE, POVERTA’; persone che muoiono a migliaia ogni giorno, sacrificate per mantenere il buon funzionamento di un sistema che effettua vere e proprie invasioni di terre e massacri di popolazioni, giustificandosi con parole d’ordine come “Pace e Democrazia”. Parole usate per nascondere i reali obiettivi: interessi politici ed economici. Invisibile, come invisibili sono coloro che muoiono quotidianamente di tumore causato da fabbriche inquinanti e veleni
che tutti assumono spensieratamente attraverso il cibo, l’acqua e l’aria; o come chi muore ogni giorno sul posto di lavoro … vittime in tutti i casi sacrificate sull’altare della produttività e del progresso.
In questi casi dov’è tutta quell’attenzione alla vita umana?
I responsabili di tutto questo sono coloro che oggi richiamano alla responsabilità tutti noi e che hanno sempre agito e legiferato per proteggere gli interessi di pochi a scapito della popolazione intera. Agli occhi dei più in questo momento gli irresponsabili non sono loro, ma tutti coloro che escono senza un giustificato motivo per strada e nei parchi. Così i trasgressori sono accusati di essere degli untori e poco
importa se invece tanti ancora sono costretti ad uscire di casa ogni giorno per andare a lavorare in catena di montaggio, dove il rischio di contagio è sicuramente
maggiore rispetto a chi passeggia all’aria aperta. Perchè tutto si può fermare, ma mai la corsa dei padroni verso il profitto. Ubbidire passivamente a degli ordini per paura,
non ha mai avuto niente a che vedere con la responsabilità, che piuttosto significa riflettere con la propria testa e prendere decisioni in autonomia. Lo Stato e la Scienza ci ordinano in questo momento cosa fare, fino al punto di non poter uscire di casa, danneggiando la nostra già compromessa libertà e dignità. I calcoli che stanno dietro a tutto questo non sono certo riferibili all’interesse per la nostra salute, ma necessari
ad affermare la loro capacità di gestire senza intoppi la popolazione, applicando misure che vanno al di là delle motivazioni del momento. Se noi rispettiamo oggi queste restrizioni sarà chiaro per chi ci controlla che saremo disposti a rimanere zitti e buoni un domani, quando l’ennesima ordinaria emergenza si ripresenterà nell’interesse dello Stato, del Capitalismo e del Sistema tecno-scientifico. La stretta sulle nostre vite, sulla nostra LIBERTA’ è davvero il giusto prezzo da pagare per non rischiare di essere contagiati o nel caso più remoto di morire? Il vero pericolo è smettere di vivere liberi, non per due, tre settimane o mesi, ma per sempre. Questo è il prezzo che paghiamo e pagheremo se continuiamo a guardare dalla finestra di casa il mondo che va avanti in questo modo, non di certo perché lo abbiamo deciso noi, ma per scelte prese da governanti, tecnici e industriali. Loro sono i veri padroni di questo mondo, perché
padroni delle nostre vite: con il solo schioccare delle dita, Covid o non Covid, possono accorciare il guinzaglio quanto vogliono fino a non farci più respirare, ricordandoci però al tempo stesso che “andrà tutto bene” e che “siamo tutti sulla stessa barca”. E’ necessario ora più che mai spezzare le catene, senza sottomettersi alla prepotenza dello Stato, come i detenuti in rivolta, che con il loro coraggio mostrano a tutti un esempio di dignità.
Covid-19 e Stato totale: prospettive da sud
Questo testo è stato redatto nell’arco di qualche giorno; pertanto alcune considerazioni, attuali al momento della loro stesura, potrebbero nel frattempo aver perso pregnanza. Ce ne scusiamo e ci auguriamo che possa comunque offrire spunti utili.
Sono già numerosi gli scritti che offrono un’analisi di ciò che sta accadendo con e intorno la “pandemia” da corona virus e siamo convinti che, seppure con difficoltà, il confronto sull’abisso di domande sollevate dalla gestione dell’emergenza, ci debba impegnare proprio per la radicalità che esso richiede, in termini di pensiero e proposte pratiche.
Mai come ora, o forse, come sempre quando i piani si confondono e si moltiplicano con spaventosa voracità, mettendoci sull’orlo dell’abisso di cui sopra, si vacilla, si sospende il passo. Ma, il dubbio, se opportunamente coltivato, ci suggerisce di diffidare persino (soprattutto?) delle nostre emozioni (partecipi dell’angoscia collettiva che una epidemia, straordinariamente amplificata dai media, provoca, senza per questo dissimulare o ridurre ad accidente il dolore e la paura che ci riguardano o circondano) e affidare, invece, allo spirito critico la nostra bussola.
Le rivolte che hanno incendiato le galere di tutta Italia (i cui echi risuonano, adesso, in quelle di mezzo mondo) ci auguriamo abbiano avuto anche l’effetto secondario di fare a brandelli la retorica che, spesso, indossiamo con tanta solerzia, tradendo pochissima persuasione. Quella parte di umanità rinchiusa che, con l’istinto di chi sa ancora prima che le cose accadano, si è rivoltata, facendo della rivolta l’unica possibilità d’affermazione della vita, ci ha parlato e continua a farlo, a noi che in questo fuori sempre più ristretto, abbiamo comunque il privilegio della scelta. La veggenza degli oppressi non passa dal linguaggio, non costruisce discorsi, ma è richiamo ininterrotto e senza misura. Dedichiamo questo scritto ai rivoltosi e ai quindici morti nelle rivolte di Modena, Alessandria e Rieti, sapendo che di quella stessa ferocia sarà armata la mano del potere nel ridisegnare una nuova geografia di “sommersi” e “salvati”: dove ci troveremo, da quale parte del confine e se in lotta per sovvertirlo, dipenderà da come avremo armato la nostra volontà e dai complici che saremo riusciti a incontrare.
Dunque, tentiamo di essere all’altezza.
Ci sembra di fondamentale importanza dare alcune indicazioni circa la costruzione del nostro sguardo: il punto di vista che informa lo scritto è situato a sud, in Sicilia, e comprende alcune considerazioni sul contesto sociale ed economico che pensiamo essere premessa dell’evolversi del processo di reazione a questo “stato d’eccezione” (in che direzione dipenderà anche da noi). Lo scenario è, quindi, per ragioni d’ordine materiale anzitutto, altro rispetto a quello osservabile in nord Italia. Inoltre, a dispetto di misure fortemente restrittive, non siamo coinvolti, qui, dalla quantità di contagi e di morti cui si assiste in nord Italia -più precisamente, c’è ad oggi, un solo caso accertato di COVID-19 nel territorio che abitiamo; cambiano quindi le domande da porci e le risposte da cercare. Se a nord, soprattutto nelle aree più colpite, è il rischio del contagio il maggiore deterrente a rifiutare misure che in assenza di “pandemia” non avremmo difficoltà alcuna a definire inaccettabili, qui, è, di pari passo a quello, il controllo di polizia (più o meno reale).
La disomogeneità nella diffusione dell’epidemia, corrisponde ad una omogeneità delle misure. Questo punto ci pare essere un ottimo trampolino per fare un salto al di fuori del cerchio.
I materiali ai quali abbiamo attinto sono molteplici (tanti ci sono stati suggeriti in queste settimane di quotidiana corrispondenza con alcuni compagni e compagne a nord e da conoscenti della nostra cerchia di relazioni locale) e vanno da interviste al giurista e allo scienziato “non allineati”, piuttosto che articoli di intellettuali contemporanei, fino a scritti d’area che ci vengono in aiuto dal passato, a sottolineare quanto l’impasse creata dal portato emotivo della possibilità del contagio si sia insediata nel vuoto lasciato da una riflessione radicale sulla salute e più in generale da una ecologia di pensiero che ci permettesse un’organicità dei discorsi e delle pratiche, tutti più o meno coscienti, che altrimenti “avendo perso il senso del ciclo, avendo sovrapposto alla prima natura la seconda (il Capitale), è al Capitale stesso che si richiedono delle ipotetiche soluzioni”1. Per riallacciare il filo del discorso, dobbiamo fare un salto indietro di trent’anni, fino agli scritti della Critica Radicale appunto, che, nella loro attualità, ci suggeriscono l’urgenza di riaprire la questione, nonostante il peso degli eventi ci costringa a un passo claudicante e la loro velocità lasci quasi senza fiato.
Col senno di poi, e il conseguente sapore che lascia in testa, la modificazione del decreto legge in materia di vaccinazioni obbligatorie del 2017, oltre a rappresentare un’occasione d’intervento mancata e sottolineare una presenza mancante (la “nostra”?) rivela, adesso, il suo carattere di antefatto.
Un’ultima osservazione andrebbe fatta sulla percezione, sempre più plausibile, della fine di un mondo: che questi giorni non siano più fatti di una materia che conosciamo, che il tempo, fondamento di un accordo tra esseri mortali, cessa d’essere nel momento in cui non è più fisicamente condiviso. La conversione di un tempo insieme, che passa dai corpi, a un tempo virtuale in assenza di corporeità ma con la morte onnipresente, a fare da sfondo, stride con la sua rimozione, con ciò che fino a “ieri”, è stato presupposto filosofico basilare di questa società. Quanto succederà d’ora in avanti, non si reggerà più sulle premesse che conoscevamo: decade, una volta per tutte, il tabù della divisione tra pubblico e privato, si illumina ciò che dovrebbe stare in ombra, le intimità dei corpi, la loro morte, lo stesso sentimento del lutto, impossibile da declinare nelle forme culturali cui eravamo abituati e delle quali siamo espropriati nel momento in cui la morte non ci appartiene, né come individui né come comunità, ma ci riguarda come riflesso di uno sguardo dall’alto.
sulla responsabilità
“La responsabilità pare essere più del semplice peso del rapporto causa-effetto,
quasi una scelta di vita, una presa di consapevolezza
di ogni situazione particolare cui segue (..) limpida, sicura, una risposta d’azione accorta
– risposta che sola è il vero potere dell’uomo”.
Sappiamo quanto la responsabilità abbia a che fare con la libertà. Ma è forse necessario ri-frequentare il concetto dopo averlo emancipato dal significato che in queste settimane gli si è sovrapposto.
Il panico morale si è diffuso a partire da una riduzione del concetto di responsabilità a quello di ubbidienza, che in questo caso è coinciso con l’auto-reclusione, accompagnata dal ricorso massiccio alla delazione. Ma sappiamo anche quanto nessun agire responsabile sia possibile in assenza di confronto, nessuna libertà è agibile nell’isolamento. Perciò, è nostro dovere decostruire, per poi rifiutarlo, un concetto di responsabilità che non solo provenga da un’autorità (e come tale diviene legge) ma che sposti il fuoco dell’attenzione da una reale presa in carico della situazione nella sua complessità.
E lo sposti fuori da noi. In un fuori che è in alto. Sopra di noi.
Come mantenere intatte le nostre relazioni, curarle, nonostante l’epidemia, e per farvi fronte? Com’è pensabile la lotta senza i corpi? Ci siamo posti queste domande all’avanzare dei decreti. Abbiamo letto e riletto dati, statistiche sulla diffusione del virus, la sua origine e l’eziologia. Ma perché il virus non prevalga come “reductio ad unum”, oscurando i molti altri livelli e le contraddizioni che la gestione dell’epidemia inevitabilmente lascia emergere, ci siamo sforzati di allargare lo spettro della ricerca e dotarci di quanti più strumenti d’analisi possibile. Nel tentativo di dare fin da subito una risposta pratica di rifiuto all’imposta reclusione, ci è sembrato che insistere sul concetto di responsabilità potesse riportarci da un piano che alla sua origine è (e deve rimanere) individuale, ad uno collettivo, e da lì a una risposta quotidiana all’emergenza; esistono delle misure di sicurezza, preventive del contagio, che implicano una certa distanza e nessun contatto con l’altro. Il principio di cautela, suggerisce di rispettarle perché siano rispettate in ognuno, la paura, piuttosto che la fragilità fisica. Sarà nostra cura interrogare chi abbiamo davanti e trovare o meno un accordo di compresenza e condivisione di uno spazio in comune.
Che la costruzione della pandemia globale possa d’ora in poi affermarsi come precedente, e quindi riproporsi ogni volta con simili conseguenze, ci pone comunque di fronte alla domanda: “possiamo rinunciare al contatto al variare di curve di mortalità o addirittura, rinunciarvi indefinitamente?”
Consapevoli che non può esistere un’unica soluzione che rimane invariata al cambiare dei contesti, dei momenti e dell’evolversi degli eventi, abbiamo continuato a incontrarci insieme a chi, con noi, ha scelto di non rispettare le misure restrittive, cercando di immaginare e concretizzare pratiche che aprano nuovi percorsi di resistenza.
Il punto di vista del nemico: della coercizione come risorsa immediata e di prospettiva
La coercizione generalizzata in atto è chiaramente per lo Stato già un bene in sé, un momento altamente produttivo da diversi punti di vista: sebbene si sospenda eccezionalmente il criterio del profitto2 come l’unico da perseguire nel governo della vita sociale, sembrano centrali altri elementi che l’apparato di potere sta mobilitando: due movimenti convergenti, se vogliamo di teoria e prassi statuale e di governo economico: l’esperimento sociale e la ristrutturazione.
Il primo, riscontrabile soprattutto durante i primi giorni di restrizione generalizzata, durante i quali il comportamento di forze dell’ordine e Protezione Civile è apparso come più orientato all’osservazione e alla raccolta di informazioni sui profili sociali di chi era per strada, molti i giovani, senza interventi repressivi degni di nota3. Informazioni, si può intuire, incrociate ed arricchite con quelle raccolte via internet attraverso il download delle imprescindibili autocertificazioni, con tutto il portato di cookies e dati che ogni nostra connessione trasmette, ma in questo caso quasi esclusivamente verso siti di Stato. Aumentare la pressione sociale quasi al limite della sopportabilità è per lor signori certamente un rischio, e per noi una possibilità, ma vedere come a fronte della contraddittorietà delle misure la maggior parte delle persone si stia accodando sarà una conferma che la ricetta usata è quella giusta.
Ma quali sono gli ingredienti di questa ricetta?
Non sono certamente nuovi, ma, questa volta, utilizzati con un grado di intensità inaudito. Così, sebbene la critica anti-tecnologica dei social network abbia saputo cogliere negli anni passati, tra le altre cose, la loro natura repressiva dietro la facciata friendly, mai come in questi momenti facebook et similia stanno agendo come complementi dei corpi di Polizia. Chi continua, nonostante tutto, ad uscire può toccare con mano la dissociazione di sguardo tra la realtà on-line e quella off-line: mentre i rimasti fuori, ancora numerosi nei primi giorni, notano come non ci siano truppe in numero tale da dare consistenza agli ordini del governo, gli auto-reclusi non fanno altro che ripetere come fuori sia tutto un posto di blocco continuo.
Fonte? Facebook… perché la psico- polizia non sostituisce la Polizia reale ma la integra, ne diventa alias virtuale. Sul piano micro-sociale, una nuova divisione si introduce potentemente, solcando le cerchie di amici/che e avendo conseguenze sulle possibilità della solidarietà presente e futura: la linea di divisione della Paura. Se ogni salto in avanti della storia, sia in senso rivoluzionario che reazionario, è il risultato dell’accumulo precedente di (non) esperienze, è chiaro che la paura anche solo di incontrare gli sbirri è il rovescio della mancanza di lotte degli ultimi anni: decomposizione vitale che crea ulteriore decomposizione.
“l’efficacia miserabile e fine a sé stessa di tutte le macchine,
da cui è stata espunta la presenza umana,
realizza col minimo sforzo e ai minimi prezzi di costo l’abolizione dell’uomo”
Giorgio Cesarano – note ’71-‘74
In atto è però anche un processo che trascende quello più prettamente sperimentale ma che pure è immanente ad esso, lo direziona e lo informa: la ristrutturazione capitalistica. Immanente, perché il processo sopra descritto ci dice di una società ampiamente cibernetizzata, in cui per molti la sostituzione tra dato sensibile e algoritmo è già avvenuta nell’approccio conoscitivo anche della realtà immediatamente circostante e perché, in direzione contraria, la raccolta di informazioni di natura psico-sociale serve ad orientare ed ordinare ex ante i futuri sviluppi del controllo totale.
Lo trascende perché, anche se su una linea di sviluppo già data, ossia il tempo automatizzato e invariabilmente in divenire della mega-macchina, il balzo in avanti tecnologicamente equipaggiato verso una vita comunemente imprigionata non si lega più ad una traiettoria storica e ideologica di “progresso”, quanto, piuttosto, ad una prospettiva di contrazione economica pilotata dall’alto. Questa discontinuità ci sembra centrale e ci porta già nell’ “al di là” di un contesto sociale ridisegnato, che influirà sul nostro affacciarci nella tempesta sociale a venire con proposte di liberazione radicale tutte da costruire. Dopo decenni di lavoro ideologico del sistema politico e sindacale volto a far accettare agli sfruttati d’occidente i sacrifici richiesti in vista di una fantasmagorica ripresa e dunque di benefici futuri, oggi nessuno fa più questa promessa. Tutti gli idioti che abboccano all’amo dell’“andrà tutto bene” contribuiscono, in questa cieca fiducia verso l’alto, a preparare il terreno per il peggio. Nessuno dal campo politico promette nulla in cambio della passività di oggi, perché con i movimenti sono scomparse anche le domande della trasformazione (sia riformista che radicale): di nuovo, l’evaporazione (a colpi di repressione e bastonate) di qualsiasi significativa autonomia proletaria o di qualsivoglia raggruppamento di resistenza o di lotta, sono stati i presupposti di questa evoluzione. Si potrebbe sintetizzare così: mentre la maggior parte del campo degli sfruttati dorme ancora sogni indotti di social-democrazia, il campo delle classi dominanti è già, con la testa, in uno scenario di amministrazione del dopo massacro. Sta a noi, ai pochi che restano con gli occhi saldi sulla catastrofe, trasformare la transizione in un campo di battaglia che diventi un incubo per gli ultimi e un’estasi vissuta insieme per i primi. O per chi ci sta.
In altri scritti è stata colta la posta in gioco che il potere vuole conquistare grazie all’emergenza: il 5G, l’ulteriore digitalizzazione della produzione e della distruzione (vedi il suo uso militare/civile). Ci sono validissime ragioni per pensare che il passaggio allo smart working e alla scuola digitale verrà confermato anche dopo la fine dell’emergenza.
Quindi concordiamo anche noi, come sul punto che ci siano mille ragioni che ci spingono a lottare contro questo ennesimo progresso verso l’abisso.
Eppure non possiamo non notare come ci siano già le premesse perché la maggior parte dei lavoratori protetti di oggi e domani accetti di buon grado. È probabile che dopo aver accolto come tecniche e neutrali le misure del governo sull’emergenza, tra cui reclusione, smart working per le élite del lavoro e scuola digitale, ampliare la banda sarà solo lo sbocco normale per moltissime di queste persone. Il tutto condito da una idea di vita bella come un ospedale, che profumi di amuchina.
Quello che rimane in ombra, nei discorsi dei politici come nelle sensibilità assopite, è che già la cosiddetta crisi è un ottimo pretesto per fare sentire agli umani in eccedenza, ai marginali, e ai non valorizzabili- ad es. i disabili che nella scuola digitale si ritrovano già senza sostegno- che sono sacrificabili.
Eppure non tutti i sacrificabili saranno ben lieti di salire sul patibolo della storia di Stato e Capitale, questo ci ricorda che abbiamo delle possibilità da giocarci.
Da qui, è ora?
Abbiamo già scritto che, a nostro parere, il momento richiede un impegno forse inedito per degli spiriti che rifiutano le forzose e arbitrarie barriere imposte dagli Stati: fare mente locale. A fronte della complessità, tanto nella gestione autonoma dei rischi legati all’epidemia quanto nell’affrontare le possibili nostre prospettive di attacco, le limitate capacità di visione e di azione ci spingono a ridurre la misura del nostro orizzonte verso unità geografiche e sociali più elementari. Ovviamente continuando a comunicare e ad arricchire il bagaglio di esperienze del campo di cui siamo parte, quello degli oppressi, nella consapevolezza che il nemico è lo stesso ovunque, contemporaneamente compatto e modulare.
Pensiamo la nostra analisi possa essere applicata, per ragioni di storia comune e simili contesti sociali, culturali ed economici, al sud Italia. Da Sud quindi, le misure draconiane applicate dal Governo, pur nella loro eccezionale novità, possono essere lette con la lente storica di una continuità strutturale: quella della colonizzazione. In situazioni di “normalità” essa si traduce nel predisporre, da parte di Stato e consorterie mafiose e massoniche, questi territori per qualsiasi scorribanda di speculatori legali e illegali che si aggiunge allo sfruttamento militare, alle mille terre dei fuochi e alle altre schifezze su qui questa società si basa; e, inoltre, utilizzo delle popolazioni come bacino di lavoratori da fare emigrare e di sbirri e soldati da reclutare. Quello che rimane per chi resta è l’inquinamento delle discariche, delle divise che presidiano tutto e della mentalità che questo produce: la fatale accettazione delle condizioni date, non incompatibile con una collera individuale buttata giù che raramente diventa rivolta sociale esplicita e diffusa. Nei decenni passati questo modello ha tenuto per dei meccanismi tipici dell’economia extralegale che permettevano alle “borghesie mafiose” di tenere sotto controllo, in cambio della distribuzione delle briciole e infimi lavoretti, quello che è stato definito proletariato fluttuante: un settore sociale molto ampio a cavallo tra proletariato e sottoproletariato, che si barcamena tra lavori extralegali e lavori precari ugualmente squalificanti. Questa struttura sociale che assorbiva in maniera intelligente e versatile diverse funzioni di potere- repressione delle spinte ribelli, accaparramento di voti clientelari per tutti i partiti istituzionali, messa a valore dei territori e ipersfruttamento dei lavoratori- ci sembra, per ragioni che non possiamo qui approfondire, si sia negli ultimi anni sfaldato. Non si è però disgregata la legislazione penale di emergenza contro la mafia, vero fiore all’occhiello dello Stato Italiano, né l’ideologia sociale che la sostiene. Risultato: gruppi, spesso di giovanissimi, che provengono dai quartieri popolari e che rimasti orfani della struttura economica di protezione precedente, tentano effimeri esperimenti di auto-organizzazione criminale, finendo però facilmente arrestati con accuse di associazione mafiosa. Con l’immancabile contributo della mostrificazione mediatica che alimenta, dall’alto verso il basso, meccanismi di razzistizzazione delle classi subalterne e oscuramento delle cause sociali strutturali del c.d. crimine.
Processi che sono alla base del dato su chi abita le carceri: la metà vengono da Sicilia, Campania, Puglia e Calabria4. E che spiegano, fuori dalle mura delle patrie galere, a quale domanda politica e sociale risponda l’erogazione del Reddito di Cittadinanza: il controllo delle masse del proletariato fluttuante meridionale, eterna classe pericolosa. Repressione penale, prevenzione e controllo da parte dello stato sociale (di polizia), due lati della stessa medaglia: lo Stato Italiano, lo stesso dalla legge Pica, passando per Dalla Chiesa, fino a Bonafede.
Ma torniamo alla cosiddetta emergenza. Già ad uno sguardo “laico” appaiono delle stranezze sul contenuto e l’effetto dei decreti: non bisogna infatti essere anti-statalisti per cogliere l’incongruenza di misure restrittive omogenee a livello nazionale per contrastare una situazione drasticamente eterogenea sul piano della diffusione del contagio. Se però abbandoniamo uno sguardo nudo per sceglierne un altro, il nostro, meglio preparato agli eventi in corso, ci si accorge subito di come la situazione attuale corrisponda a quella prefigurata dal rapporto Nato Urban Operation 2020, su cui da circa 15 anni è presente nelle distribuzioni di movimento un ottimo scritto di analisi5. Sebbene i think tank dell’apparato militare americani dessero la conflittualità sociale degli spossessati come antefatto e il loro intervento militare come risposta posteriore- forse, nel 1999, neanche loro potevano immaginare simili risultati di rincoglionimento di massa da parte di internet e social media- i problemi emergenti dello sviluppo di capitale in questi due decenni avranno convinto eserciti, stati e classi dominanti, a indirizzare verso nuovi obiettivi l’esperienza e gli armamentari accumulati: siamo troppi, il pianeta non ce la può fare, qualcuno (molti) devono morire fin dentro la fortezza Europa. Questo abominio indicibile è in realtà detto, anche con una certa onestà, pure da esponenti della morente e impotente intellettualità, sarebbe imperdonabile che rivoluzionari, o come vogliamo chiamare le nostre sensibilità ucroniche e utopiche, sorvolassero sulla cosa6. Leggendo i contributi di movimento scritti da che si è spaccata la storia sotto i nostri piedi, ci siamo imbattuti molte volte nella descrizione dei possibili scenari, del dopo- ristrutturazione, e dei margini di conflitto e attacco “una volta che tutto questo sarà finito”; o ancora nella generosa (ma anche un po’ retorica, no?) autocertificazione di un’etica inscalfibile di ostilità presente e futura verso questo mondo. La storia e la tradizione degli oppressi ci insegnano però che i momenti concitati della stessa ristrutturazione capitalistica sono terreni fertili di conflitto e di semina di ideali rivoluzionari e utopici, nell’ambito dell’auto-organizzazione e della solidarietà tra ribelli. Si tratta di tentare di capire con un apprezzabile anticipo sugli eventi, quando, come e dove questi avranno luogo, che ruolo potremo avervi, per non lasciare al nemico, tutto intero, quello spazio che si approssima che chiamiamo futuro. È quindi più interessante, perché necessario e utile, analizzare le specifiche condizioni, materiali e morali, dello scontro futuribile.
“Il potere gettò la maschera, gli oppressi dettero di muso in sciabole fucili e gas
il mondo si spaccò visibilmente in due non crederò mai abbastanza in quello che si vede
la fame reale o metaforica che sia può restare fame mille anni covare fame e figliare fame
ma la collera la rabbia è un virus di fuoco che può in ogni momento
non si deve dimenticare che può in ogni momento rovesciare l’asse del mondo”
G. Cesarano – Le notti delle barricate
La storia dello sviluppo di capitale è costellata da crisi, ristrutturazioni e conflitti; quella i cui effetti si stanno mostrando visibili è, per capacità di trasformazione, paragonabile alla prima ristrutturazione capitalistica su vasta scala della storia, quella dell’enclosures. Nel passaggio da un assetto sociale di produzione e riproduzione ad un altro, come nel caso dei commons privatizzati, Stato e classi dominanti hanno dovuto governare contraddizioni di ordine demografico e sociale che sorgevano nel processo. Il primo macchinismo industriale nell’Inghilterra del ‘700 rendeva infatti superflui, ai fini della produzione, gran parte dei salariati disponibili, il clima di malcontento e generale ribellione li rendeva pericolosi. È probabile che anche oggi le classi dominanti si trovino ad un tale bivio. L’automazione ulteriore, la robotizzazione, le tecnologie convergenti, i mezzi senza pilota, di cui il 5G è presupposto infrastrutturale, disegnano un (tecno)mondo basato su una espulsione di buona parte degli umani attualmente al lavoro con conseguenti problemi di gestione demografica e di ordine pubblico. È probabile che i nostri nemici lo sappiano bene e stiano cercando di prevenire questo problema, utilizzando la gestione dell’epidemia in quest’ottica: è solo una coincidenza che il governo abbia approvato il decreto di reclusione per tutta la popolazione proprio il giorno dopo le rivolte nelle carceri di tutta Italia?
L’Inghilterra di inizio ‘700 aveva optato per una deportazione di massa degli indesiderati inglesi e irlandesi verso le colonie di oltre mare, un continente che la mentalità razzista della corona inglese vedeva come vuoto. Ma oggi non c’è un altrove verso cui deportare gli umani indesiderati, né è pensabile che il dominio reale e totalitario del capitale tolleri delle “isole” in cui sperimentare forme di vita altra. È per questo che lo scenario più probabile ci sembra quello di uno scontro diretto e senza mediazioni. Da questo punto di vista, la situazione attuale è tatticamente e strategicamente ideale per sgherri ed esercito che cominciano a far volare i droni su tutte le città, anche quelle con un basso impatto del virus7.
D’altronde è probabile che l’esplosione arrivi prima dal lato sociale. L’abbiamo già detto, le carceri disseminate per lo stivale sono le succursali degli slums d’Italia, soprattutto del Sud. Il fatto che queste siano esplose una decina di giorni fa è già un segno che anche da questa parte delle mura, tra i dannati dell’italico suolo, la rabbia stia covando e l’innesco di nuove esplosioni potrebbe essere il prolungamento delle misure di limitazione della libertà. In questo caso, con il peggioramento delle condizioni materiali, con i soldi che finiscono per cibo e beni di prima necessità, la paura del contagio e dei controlli di polizia potrebbero non bastare a trattenere in casa molte persone.
Sarà allora che dovremo esserci, col nostro bagaglio di esperienze e di contatti maturati nel frattempo. Non dobbiamo però fare l’errore di pensare che ci sarà una “ora X” in cui tutte le contraddizioni del mega-dispositivo emergenziale saltino in sincrono, è più probabile, semmai, il presentarsi puntuale di momenti di tensione. In realtà, a ben guardare, quello che stiamo qui descrivendo è già iniziato8.
Per queste ragioni, chi fin dall’inizio di questa emergenza si è mosso, tentando di coagulare un gruppo di affinità o di resistenza, e mantenendo gli occhi aperti e ben direzionati sugli eventi, sarà sicuramente avvantaggiato dal punto di vista della raccolta di informazioni, capacità di circolare nei territori ecc. Col passare dei giorni anche altre persone potranno rendersi disponibili all’incontro e ad una prospettiva nuova di confronto e azione insieme. Sapere quello che succede in giro, specie in città, è veramente difficile se si è in casa o anche se gli incontri avvengono sempre al chiuso, arriverà quindi il momento in cui si dovrà decidere se, quando e in quale modalità violare le imposizioni in maniera pubblica. Questo avrà il risultato di far sapere a chi è in casa, con sempre più frustrazione, che fuori torna la vita, che la diserzione è possibile, che non si è soli. Mettersi insieme contro lo Stato, prendersi cura gli uni degli altri, farà rinascere reti di vicinato e solidarietà impensate solo fino all’altro ieri, ma è bene che fin da subito si cominci a pensare progettualmente ai luoghi e ai tempi della lotta e della vita nuova. Ampliare la rete fino a coprire il più ampio spettro possibile delle fasce sociali di oppressi, dev’essere la stella polare di questi raggruppamenti. La sfida del momento è molto ambiziosa, richiede capacità di lettura della realtà che negli ultimi anni, è inutile negarlo, si sono perse nelle routine anarchiche da circolo o occupazione e nelle polemiche, non sempre interessanti, di area.
Le prigioni in fiamme delle settimane scorse ci dicono anche dell’intelligenza istintuale, di una capacità di leggere la propria situazione che sono tutt’uno con una condizione corporea e sociale che produce rabbia. Una capacità che fuori quasi tutti abbiamo perso, forse anche tra le nostre fila. Siamo però sicuri che le scosse di quella stessa collera, una simile intelligenza istintuale, martelli i cuori e le teste di chi per condizione sociale di nascita vive in quartieri che sembrano collegati da porte girevoli alle carceri delle città. Una connessione, non via cavo, che fa sentire sulla propria pelle l’ingiustizia per i morti delle carceri, i propri morti.
Dovremmo coltivare anche noi una simile condizione.
Non è un caso che, in un momento in cui la civiltà capitalistica sembra coronare un sogno millenario di abolizione del corpo (e dei corpi oppressi), sia proprio questo una possibile fonte di conoscenza altra, come se fosse lo scrigno di tutte le esperienze negate della Storia; come se un’altra memoria vi fosse iscritta, quella dei tormenti di un’umanità altrimenti giocosa. È la rivolta forse- tra le altre cose- la chiave per aprire questo scrigno?
Le possibilità sono, fino a un certo punto, indipendenti da noi, la volontà è la forza che dà consistenza e vita a quel “noi”. Senza di essa saremmo dei contenitori di bisogni corporei, già cose, quindi, amministrabili. Prima delle battaglie da combattere alla luce, con i nostri simili, c’è questa, singolare, che ognuno deve combattere con le ombre interiorizzate del Capitale.
Solo dopo, potremo davvero e finalmente uscire.