Torino – Dopodomani. Domani. Oggi.

Che le autorità abbiano navigato a vista in questi giorni è indiscutibile. Basterebbe guardare al susseguirsi convulso di decreti che, in appena tre giorni, hanno trasformato delle misure di contenimento localizzato (a 16 province e una regione) in misure estese a tutta la nazione. Sicuramente la difficoltà di effettuare tamponi [https://www.ilpost.it/2020/03/19/coronavirus-bucci-numero-contagi/] e poi svilupparli sta mettendo il governo davanti all’incapacità di capire quanto è realmente diffuso il contagio e quindi come poter limitare i danni economici e di tenuta sociale del paese, a partire dalle persone che stanno più subendo la clausura e potrebbero iniziare ad essere irrequieti.

L’epidemia è in continua evoluzione e le drastiche misure adottate fino a ieri non sembrano aver sortito alcun effetto, tanto che in alcune aree – Lombardia su tutte – la situazione ha ormai superato quella soglia di sicurezza che le autorità, sin dall’inizio, avevano evocato come limite a cui non avvicinarsi in alcun modo. Sotto la spinta di numerose autorità locali il governo ha deciso di dare un’ulteriore stretta alle possibilità di movimento delle persone, imponendo di chiudere anche parchi e giardini pubblici. [https://www.ilsole24ore.com/art/coronavirus-nuova-stretta-governo-chiusi-parchi-e-giardini-limiti-sport-all-aperto-AD9RbqE]. Verranno disposti controlli più minuziosi e severi, i militari hanno il via libera per entrare in gioco là dove le amministrazioni locali lo reputeranno opportuno, probabilmente a partire da quelle città già coinvolte nell’operazione Strade Sicure o in paesi dove il contagio galoppa, e con esso morti e ricoverati gravi. Non si esclude la possibilità che in certe zone i militari verranno impiegati anche per distribuire generi alimentari o supportare le attività logistiche funzionali al sostentamento della popolazione racchiusa. Oltre che al controllo.
Il governo centrale ha già annunciato che verrà prorogato, ben oltre il 3 aprile, lo Stato d’emergenza disposto a livello nazionale un paio di settimane fa. Indicativa in questo senso l’idea di introdurre, magari attraverso un decreto, una norma di legge che consenta, in deroga alla normativa sulla privacy, di controllare ex post i movimenti dei cellulari, così da verificare il rispetto della quarantena e la veridicità delle autocertificazioni. Cosa già effettuata a Milano in termini di monitoraggio dei flussi di persone. [https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/20_marzo_18/coronavirus-si-spostano-4-lombardi-10-solo-milano-1200-denunce-scatta-sorveglianza-digitale-2227e1f0-68df-11ea-913c-55c2df06d574.shtml]

 

Forse dobbiamo iniziare ad abbandonare l’idea che questa situazione possa avere una fine, o perlomeno ridefinire il significato di questo concetto. Ripensare quindi il fatto che il mondo in cui viviamo, i suoi rapporti e le sue forme di potere torneranno identiche a prima.

Uno studio dell’Imperial college [https://www.imperial.ac.uk/media/imperial-college/medicine/sph/ide/gida-fellowships/Imperial-College-COVID19-NPI-modelling-16-03-2020.pdf] ha delineato una serie di scenari possibili. Occorre precisare che si tratta di ipotesi fondate su alcune variabili tutt’altro che sicure, ma comunque utili a orientarsi (ad esempio molto dipenderà dalle caratteristiche intrinseche di questo virus: la sua stagionalità, la possibilità e la durata di una eventuale immunità nelle persone guarite, la possibilità che esistano più ceppi con virulenze ed effetti differenti. Tutte cose allo stato attuale, per quanto abbiamo appurato, non verificate). Il dato che emerge con più chiarezza è l’alta probabilità che questa epidemia continuerà a vagare, e quindi che i vari governi, dopo aver alleggerito le misure in seguito al rallentamento della curva dei contagi si trovino a doverle riproporre in seguito per far fronte a eventuali nuovi focolai. Insomma pare che la prospettiva sia l’inizio di uno stile di vita completamente diverso” e rassegnarci all’idea di vivere in uno stato di pandemia. [https://www.milanofinanza.it/news/non-torneremo-piu-alla-normalita-ecco-come-sara-la-vita-dopo-la-pandemia-202003181729195935?fbclid=IwAR22wrUqPGimdlHM2XBerNjqNsf_3_V6gGtbheGcqzPV_lE8w_gt5PC7d_M ].

Sorge a questo punto una domanda spontanea che, senza troppi voli pindarici sul futuro, occorre porsi già ora: come provare a lottare in uno stato di pandemia?

L’unicità della situazione che stiamo vivendo rende difficile anche per i governanti capire da quali problemi emergeranno e quali forme assumeranno i conflitti che potrebbero manifestarsi nei prossimi tempi, specie con il prolungarsi per molte altre settimane di queste misure. Cosa succederà ad esempio a breve o al più tardi tra qualche settimana quando le persone che non hanno alcuna riserva non sapranno più come fare la spesa?

Dopo la prima imponente ondata di rivolte, anche la situazione nelle carceri non sembra essersi granché modificata: le misure adottate non hanno ridotto il sovraffollamento, i colloqui con i familiari non sono stati in alcun modo ripristinati e il Covid-19 sembra abbia iniziato a diffondersi tra le celle. Nonostante le difficoltà di comunicazione quanto mai forti, stanno fatti  le prime notizie di detenuti e guardie positive al virus.

Coprifuoco, quarantena generalizzata e militari nelle strade serviranno principalmente a impedire o ostacolare sul nascere la possibilità di far fronte ai tanti problemi economici, sanitari e sociali con cui ci troveremo nei prossimi tempi a dover fare i conti, assieme al Covid-19. È opportuno rendersene conto, in fretta. Queste misure variamente miscelate potrebbero essere dietro l’angolo. Una volta adottate, chiarirsi le idee sarà ancora più difficile e le possibilità di ragionarvi vis a vis e magari pensare a come farvi fronte, si ridurranno ancor più drasticamente. Il tempo stringe.

Dopodomani. Domani. Oggi.

Torino – Naufragio senza spettatori: della crisi o della possibilità

“La tradizione degli oppressi ci insegna
che lo «stato di emergenza» in cui viviamo è la regola. Dobbiamo
giungere a un concetto di storia
che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro
compito, la creazione del vero
stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta
contro il fascismo”

Iniziare mettendo le mani avanti non è certo mossa di gran stile, ma non si può tenere il timone del ragionamento tra gli imperiosi flutti di queste settimane in altro modo. Ecco perché mettere nero su bianco alcune considerazioni su ciò che sta accadendo negli ultimi giorni dopo la proclamazione della zona rossa in tutt’Italia e della pandemia da parte dell’Oms richiede una certa cautela e la possibilità di tornare sui propri passi e ragionarvi ancora. Le rifessioni da aggiustare non mancheranno man mano che la situazione muterà, e la mutazione in un tempo dell’ultravelocità e dell’iperstoria non è una componente secondaria – basterebbe anche solo vedere i cambiamenti degli atteggiamenti di milioni di “italiani” a seconda degli input informazionali dati loro di minuto in minuto, da quelli dei politici ai più banali articolini dei media che passano da suggerire aperitivi spensierati a far affollare con disperazione i supermercati notturni. Tuttavia si oscillerebbe tra l’insensato e l’improvvisato se ci si lasciasse andare a questo flusso e se non si ripescassero per la giusta occasione degli strumenti meno contestuali, magari proprio le vecchie lezioni impolverate sulla rivoluzione per darle finalmente una possibilità consistente.

La situazione del momento non necessita di grosse descrizioni già pienamente note e vissute sulla pelle: un’epidemia virulenta (generata dal nuovo virus Covid-19) si sta estendendo a livello globale e crea in una fetta consistente di popolazione che la contrae una malattia respiratoria acuta. La linea di contagio esponenziale sin dall’inizio indica con assoluta certezza l’insufficienza delle strutture ospedaliere per i tanti individui che svilupperanno complicazioni. Le specifiche della gestione sanitaria pubblica le lasceremo però ai feticisti dei conti delle ultime spending review, mentre pare necessario perlomeno partire da una considerazione semplice: la diffusione non si sarebbe potuta bloccare con nessuna risorsa statuale, né con la faccia malevola dell’estrema territorializzazione militare, né con quella più bonaria di un sistema sanitario pubblico in forma smagliante. O per meglio dire, il sistema capitalistico nella sua forma di sfruttamento uomo/natura e uomo/uomo, con le sue caratteristiche predatorie nei confronti di ambiente e classi sfruttate al fine di produrre profitto e riprodurre sé stesso, non può garantire nessuna reale lotta al contagio.

Ed è proprio questa ovvietà svelata nella sua terribile concretezza a smontare il più forte mito del progresso di questo secolo. Le magnifiche sorti e progressive presentate ormai come illimitate nulla possono al banco di prova della realtà contro gli effetti della devastazione del capitalismo nella sua interconnessione globale; a ogni effetto di questo sfacelo, che sia un virus o l’innalzamento dei mari, non c’è soluzione immediata o che possa rispondere alla forma del discorso pubblico dello stato nazionale, ancora ancorato alla retorica dell’universalità novecentesca. In questo senso ci troviamo di fronte a un inedito, non perché virus e catastrofi naturali siano solo effetto della devastazione capitalistica di cui sopra, come insegnano le vicende della Terra, ma perché in questo caso è stato imposto un limite secco alla fiducia del discorso imperante sulla tecnologia. Ebbene sì, perché una soluzione medica non c’è e non si trova in pochi mesi nonostante i più avanzati studi internazionali e la corsa delle case farmaceutiche ad arrivare per prime al vaccino, perché non basta un atto di limitazione dei flussi da parte di uno o più stati a fronte della complessità dell’organizzazione umana oggi, perché il mondo lasciato a specchiarsi in una superfice virtuale, in cui è talvolta difficile distinguere il possibile dall’impossibile, è in realtà così fragile.

Ed è proprio lo svelamento scenico di questa fragilità a solleticare i sogni un po’ sopiti di noi sovversivi. Fino a qualche settimana fa sembrava non muoversi foglia senza previsione statistica, la normalità dello sfruttamento capitalista sembrava irremovibile a fronte di una diminuzione costante e senza opposizione delle tutele sociali, la repressione carceraria schiacciante. Di certo non si vuole sostenere che tutto ciò sia finito e che la pandemia del coronavirus sia una ventata d’aria fresca, tuttavia non si può ignorare l’energia che potrebbe scaturire da questo momento di crisi gestionaria, basterebbe anche solo quell’assaggio scaturito dalle rivolte in quasi tutte le carceri italiane di qualche giorno fa a farne sentire il gusto dolce.

In cinese crisi si dice “weiji” e il suo ideogramma è formato da “rischio” e “opportunità”. In realtà anche in italiano il termine “crisi” ha lo stesso significato ed è una cosa nota e banale che in medicina, ad esempio, la fase critica è quella in cui il paziente o guarisce, o muore. La storia rivoluzionaria insegna che i momenti critici non sono mai rosei, se non lo è certamente questo virus, tantomeno lo sono state le epidemie della Parigi ottocentesca o l’enorme tragedia umana lasciata dalla Grande Guerra. Proprio quest’ultimo esempio dovrebbe suggerire quanto l’afflato rivoluzionario non potesse rimpiangere la normalità dello stato liberale pre-bellico. Fu catastrofe immane, preceduta da altri conflitti locali mai dilagati su larga scala, ma anche l’opportunità, finita presto e come ahinoi sappiamo, di far scoppiare una rivoluzione.

Del resto non sono queste le occasioni in cui “quelli di sotto” non possono più sopravvivere come prima e “quelli di sopra” non riescono più a governare come prima? Invece di lamentarsi del governo che chiude le scuole, della perturbazione dello status quo, un movimento rivoluzionario (la cui esistenza è un’ipotesi di fantapolitica, quindi se ne può parlare liberamente e senza timore) dovrebbe proclamare immediatamente lo sciopero generale a tempo indeterminato e promuovere l’auto-organizzazione per garantire beni e servizi indispensabili. Il tutto non per tornare nei ranghi della normalità del diritto di assembramento o di sciopero, ma per trasformare la crisi in spaccatura definitiva. Piuttosto ingenuo, se non conservatore, il giudizio sofisticato di chi pensa che non si debba trasformare quest’emergenza sanitaria in crisi sociale: o non vede che la crisi è già in atto, o è spaventato di perdere le condizioni di vita a cui era affezionato, seppur aspramente criticate. L’idea che tornare alla normalità del diritto sia cosa buona e che il terreno della normalità sia il meno scivoloso in cui muoversi per intaccare il reale è smontato dalla mestizia degli ultimi decenni di deserto. I dati della miseria sociale li lasceremo ai sociologi se riusciranno a tornare al loro agognato luogo di lavoro, ci permettiamo di continuare a diffidare degli amanti della gradualità con cui si accompagnano fino alla pensione.

Per ora non c’è nessun movimento rivoluzionario ma la crisi sì, con un governo che nonostante la quarantena nazionale non può impedire la circolazione dei lavoratori per non intaccare ulteriormente produzione, PIL e titoli di borsa, con un isolamento domiciliare di cui non si vede la fine, con un reddito incerto o persino già perso dall’inizio.

D’altra parte dopo lunghissimi anni ci sono, oltre che le patrie galere a ferro e fuoco, più scioperi che si stanno diffondendo velocemente, dalla Fiat di Pomigliano, alla Bartolini di Caorso, agli stabilimenti Ikea, ai portuali di Genova, alla Wirhlpool di Cassinetta, gli operai incrociano le braccia organizzandosi spontaneamente in tutto il paese. Le forme del lavoro e la faglia di conflitto tra chi dovrà per forza uscire a lavorare, tra chi non avrà un soldo stando a casa, chi una casa neanche ce l’ha da una parte, e i ceti tutelati dall’altra, di certo scompaginerà, ancor più dei modelli organizzativi delle aziende, le divisioni sociali.

E quindi, come la facciamo diventare un’opportunità?

 

Naufragio senza spettatori: della crisi o della possibilità

Torino – Appunti sull’epidemia in corso

Il testo che segue è stato scritto da alcuni compagni, in parte redattori del blog e in parte no, nel tentativo di capire come orientarsi attraverso questa nuova bufera. Potete scaricare qui la versione in PDF.

Questi giorni, forzatamente chiusi in casa, ci sembrano un’ottima occasione per provare a riflettere e a mettere nero su bianco alcune considerazioni su ciò che sta accadendo, sui possibili scenari che si apriranno e verso cosa, come compagni, sarà il caso di volgere la nostra attenzione.

Gli appunti che leggerete sono delle riflessioni a caldo su cui cercheremo di tornare e continuare a ragionare nei prossimi tempi, e non hanno quindi alcuna pretesa di esaustività.

Una precisazione iniziale sulle tante voci che tendono a minimizzare questa epidemia ci sembra doverosa. Non siamo medici né infermieri ma a nostro avviso l’assurdità di tale posizione può essere contestata nell’ambito della teoria rivoluzionaria. Chi si prefigge come obiettivo di vita lo stravolgimento del presente dovrebbe essere il primo a sapere che dal rapporto tra Capitale e Natura nascono inevitabilmente sciagure e catastrofi che, a dispetto della narrazione dominante, nulla hanno di “naturale”, che non sono dei cigni neri ma, a seconda dei periodi, hanno una certa periodicità, come le crisi economiche. Terremoti in zone popolose, desertificazione, inquinamento falde acquifere, allagamenti ed epidemie sono fenomeni figli della stessa logica. L’epidemia che ci troviamo davanti, pur con tutte le sue specificità, non ci sembra sia di altra natura rispetto a questa serie di catastrofi prodotte dal regime capitalistico. Specificità che, naturalmente, sono tutt’altro che trascurabili e su cui varrà la pena soffermarsi nel corso di queste righe.

Le origini

La malattia si è sviluppata nel mercato di Wuhan, capitale dello Hubei, una delle regioni più popolose della Cina. Regione che è diventata la fornace del paese: proprio qui c’è il cuore pulsante fatto di altiforni e fabbriche di cemento che ha supportato la crescita industriale del gigante asiatico. La grande quantità di materiale edile e la formazione di ingegneri qualificati di cui la regione è la culla, hanno supportato tutto il periodo post crisi del 2008: lo Stato cinese ha infatti varato in quegli anni imponenti progetti infrastrutturali ed edili.

La copertura sanitaria in tutta la Cina è praticamente minima, una grandissima quantità di operai provenienti da altre regioni sono di fatto illegali in quelle in cui si trovano a lavorare (per il diabolico sistema del hukou) e vivono quindi in uno stato di semiclandestinità e senza alcuna tutela. Importante è sottolineare come questa sia una situazione strutturale e non dovuta alla maggior o minor durezza dei governanti di turno. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare in altri scritti [https://macerie.org/wp-content/uploads/2018/03/def-tuttattorno.pdf] la fine delle politiche keynesiane ha una delle sue spiegazioni nella diminuzione dei profitti globali, fenomeno accentuato con la recessione iniziata nel 2008. Uno studio pubblicato su un interessante articolo del blog Chuang [http://chuangcn.org/2020/02/social-contagion/ oppure in italiano https://pungolorosso.wordpress.com/2020/03/12/contagio-sociale-guerra-di-classe-micro-biologica-in-cina/] – di cui consigliamo caldamente la lettura – evidenzia come, se nella regione dello Dongguan le aziende dovessero farsi carico della copertura sanitaria della propria forza lavoro, queste vedrebbero dimezzarsi i propri profitti e sarebbero pertanto costrette a delocalizzare altrove la produzione.

Concentrazione di popolazione in luoghi malsani e affollati e impossibilità di avere un sistema sanitario decente hanno contribuito al famoso salto di specie del Covid-19. Vari studi affermano che il passaggio di forme virulente da animali ad uomo saranno in futuro sempre più probabili e, aggiungiamo noi, sempre più letali.

Lo shock

La Cina seguita dall’Italia e ormai da numerosi altri paesi, ha risposto a questa pandemia mettendo in quarantena l’intera popolazione. Gli effetti e l’impatto sulle economie nazionali e mondiale di queste misure sono ancora materia di dibattito. Nei giornali sono uscite impressionanti immagini satellitari con le emissioni di CO2, scattate prima e dopo lo stop della maggior parte delle attività in Cina, dalle quali è possibile ricavare il dato che anche “solo” per un mese il gigante asiatico si sia quasi completamente fermato [https://www.corriere.it/cronache/20_marzo_02/coronavirus-cina-misure-contro-l-epidemia-fanno-calare-l-inquinamento-dell-aria-eceb67ba-5c8a-11ea-9c1d-20936483b2e0.shtml]. Che cosa significhi lo stop dell’economia che ha di fatto traghettato il mondo fuori dalle sabbie mobili della recessione non è chiaro. Di sicuro le banche centrali arrivano a questo shock, che in molti paragonano allo scoppio della bolla dei mutui subprime, con il fiato corto. Dieci anni di liquidità immesse forzatamente nei mercati nazionali e tassi di interesse tenuti costantemente bassi per tenere in vita il moribondo sistema finanziario lasciano ben pochi margini di manovra ulteriore. Una conferma sono la reazione dei mercati, un tonfo storico per Piazza Affari seguito alle parole che avrebbero dovuto essere di rassicurazione e conforto da parte della neo presidente della Bce Lagarde, il 12 Marzo.

Bisogna certamente stare attenti a interpretare i sussulti del mondo finanziario che spesso e volentieri sono frutto di manovre speculative; non ci sembra però azzardato prevedere che molte economie nazionali usciranno in ginocchio da questi mesi di quarantena: molte aziende potrebbero trovarsi a dover chiudere i battenti e molte di quelle che sopravviveranno dovranno invece far fronte a una profonda ristrutturazione su più livelli. Tutto lascia presagire che questa crisi sarà infatti la causa, e anche l’occasione, con i tempi necessari, per una ristrutturazione dell’economia nella direzione di un’ulteriore automazione, con tutto quello che ciò comporta in termini di occupazione, condizioni lavorative e concentrazione di capitali.

[https://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2020/03/16/news/l_impatto_del_coronavirus_sull_italia_spa_possibile_un_danno_da_641_miliardi-251367463/].

In Italia

Dal 10 di marzo anche qui in Italia vige una sorta di coprifuoco. Tutti i negozi sono chiusi, funzionano solo alimentari, tabacchini, ferramenta, fabbriche, servizi essenziali (es. nettezza urbana, smaltimento rifiuti e trasporto pubblico) e poco più.

Il governo Conte, spalleggiato dall’Europa che sta concedendo molto in termini di disavanzo tollerato, sta legiferando in maniera forsennata per cercare di mettere qualche toppa a questa situazione di chiusura forzata: il piano è quello di cercare di raccimolare più liquidità possibile e farla piovere dall’alto, a cascata, sulle aziende. Finanziamenti speciali, fondo per prestiti straordinari e ammortamenti sembrano essere una parte della soluzione. Un po’ tutti sono concordi sul fatto che i fondi non saranno sufficienti. La realtà produttiva italiana è costellata di aziende medio-piccole la cui profittabilità bassa da almeno un decennio e l’alto indebitamento fanno presagire, come dicevamo, che il contraccolpo alla pandemia, in termini di aziende chiuse e posti di lavoro bruciati, potrebbe essere violentissimo.

Per quanto riguarda i lavoratori stanno venendo disposti una serie di paracaduti sociali: una cassa integrazione in deroga speciale di tre mesi, lo stop su mutui e bollette per chi viene licenziato e la sospensione di alcune tasse comunali. Misure che sembrano insufficienti sotto molteplici punti di vista.

Il contesto lavorativo italiano è fatto per gran parte da contratti così detti atipici: per le partite Iva, e i falsi autonomi il governo sta lavorando a un rimborso di soli cinquecento euro per tre mesi; che ne sarà di chi ha contratti a chiamata o di chi è completamente in nero non è invece dato saperlo. Si parla genericamente di incentivi per gli affitti ma anche qui vincolati a chi può dimostrare di essere rimasto a casa per la crisi sanitaria. Migliaia di lavoratori sono al palo già dal mese di marzo, senza vedere un quattrino e con spese da pagare che a breve diverranno insostenibili.

Un discorso a parte meriterebbe chi invece è costretto ad andare a lavorare in barba all’emergenza sanitaria.

Infermieri e personale sanitario sono sottoposti a grandi pressioni: tra chi è costretto a turni massacranti e chi, perché originariamente occupati in reparti chiusi causa emergenza, messo in ferie forzate. Senza contare che in un’ottica di controllo della spesa, aziende ospedaliere e cooperative hanno poche riserve di guanti e mascherine e spesso ne disincentivano o vietano del tutto l’uso.

Lavoratori di fabbriche o di comparti strategici sono poi mandati allo sbaraglio senza il minimo di protezioni necessarie e un indennizzo contrattuale. In un clima reso particolarmente cupo dal divieto di assembramento, e quindi di sciopero “attivo”, sono però moltissimi i siti produttivi in cui la forza lavoro ha deciso di incrociare le braccia, così tanto da costringere i sindacati confederali a fare pressioni sul governo per avere un colloquio con le parti in causa. Dopo questo incontro è stata formalizzata la chiusura degli stabilimenti per qualche giorno per permettere la riorganizzazione degli spazi a norma di decreto e l’acquisto di protezioni individuali per i lavoratori.

Il quadro delineato per il futuro sembra particolarmente cupo, in un orizzonte che va ben al di là della contingenza coronavirus. Nei discorsi fatti continuamente dal premier Conte ci sono continui riferimenti all’unità nazionale, all’Italia che tutta assieme supererà questo momento. Niente di più falso. È vero che il virus sta colpendo un po’ tutti ma le conseguenze, tanto sanitarie quanto economiche, verranno vissute in maniera diversa: chi avrà accumulato riserve in questi anni potrà permettersi di tirare avanti, chi ha vissuto solo del suo salario sarà costretto a enormi sacrifici. Le morti per Covid-19 potrebbero avere una connotazione oltre che anagrafica, di classe: la feroce privatizzazione del settore sanitario operata da svariati anni ha fatto perdere numerosi posti in terapia intensiva e immaginiamo che chi se lo può permettere stia già ricorrendo a cliniche private e quarantene più o meno dorate, per non parlare di tutte le altre patologie che al momento non ricevono alcuna cura perché le attenzioni sono tutte rivolte al coronavirus, a meno di poter accedere a strutture private.

Una partita fondamentale lo Stato se la giocherà sul piano ideologico. L’esecutivo guidato da Conte dopo gli svarioni iniziali sembra aver ritrovato la bussola della governamentalità e queste misure di quarantena estrema alla cinese sembrano trovare sponda nella popolazione. Le misure economiche per quanto insufficienti probabilmente verranno accolte con calore da chi crede di avere così un po’ di respiro in più. Ma questi aiuti costeranno caro, difficile da questo punto di vista delineare scenari precisi: se l’Europa vorrà tutto indietro con gli interessi e una serie di politiche di feroce austerity e memorandum di lacrime e sangue, alla greca per intenderci, si abbatterà sull’Italia; o se invece questa crisi farà piuttosto vacillare definitivamente l’Europa o ne ridisegnerà in maniera sostanziale i contorni e gli equilibri.

Paraventi e tapis roulant

Se volgiamo ora lo sguardo a tutti quei compagni e quelle compagne che da tempo hanno deciso di lottare contro lo Stato e il sistema capitalistico in cui viviamo, non possiamo che partire con una dura autocritica: questa crisi ci coglie impreparati.

Impreparati sotto una molteplicità di punti di vista, dai quali partiremo per capire come provare a porvi rimedio, quantomeno per recuperare il terreno perso e per capire se avremo una capacità di intervenire qualora il malcontento diffuso dovesse trasformarsi in rabbia e poi in azione. Impreparati non solo a causa dei nostri limiti e delle nostre incapacità, ma anche a causa di una scarsa conflittualità sociale diffusa tra le fasce sfruttate della popolazione, che di certo ha influenzato le possibilità di intervento di compagne e compagni. Difficoltà causate anche dal lavoro ideologico operato dallo Stato nel decennio post crisi del 2008, dalla sua capacità di far accettare condizioni di sfruttamento sempre più alte e dalle misure repressive messe in atto di volta in volta. Difficoltà che hanno creato poche occasioni di confronto e scontro, oltre che limitare l’osmosi tra rivoluzionari e pezzi di proletariato disposto a lottare.

Ma come spesso accade ogni crisi genera dei processi di accelerazione, nelle condizioni materiali di vita così come nella percezione delle persone attorno a noi, tali da farci pensare che non tutto sia perduto…anzi. E che dobbiamo rimboccarci le maniche prima che sia troppo tardi. Primo passo e minimo obiettivo perseguibile, uscire dalla fase emergenziale (se di uscita si potrà parlare) con una buona comprensione del fenomeno che si sta dispiegando e delle sfide che ci pone davanti.

Anche per noi, nella nostra specifica città, non è stato facile capire subito cosa stesse accadendo. Quanto è pericoloso questo virus? Come questa pericolosità è legata alle caratteristiche strutturali del sistema sanitario e del sistema socio-economico che lo sottende? Come si svilupperà il fenomeno attorno a noi? Che misure prenderà lo Stato?

Non nascondiamo che in tutte le prime due settimane abbiamo rincorso gli eventi, costretti a rivedere le nostre idee e bozze di proposte ogni giorno, senza combinare granché. La reazione poi che c’è stata nelle carceri ha scompaginato ogni piano, mostrando forse nel suo punto più profondo la nostra inadeguatezza alla situazione, alla capacità di dare una risposta agli eventi e sostenere quanto stesse accadendo.

Che gli effetti dell’epidemia siano strettamente legati a una vita costretta in città sempre più affollate e con un sistema sanitario votato sempre più a ben altri obiettivi piuttosto che la cura delle fasce sfruttate, è indiscutibile. Che l’epidemia esista davvero, altrettanto. Portare avanti un piano di confronto, discorso e proposte di lotta che non tenga conto della reale pericolosità del contagio è a dir poco ingenuo, o meglio irresponsabile. Pensare di poter dare un volantino a un signore di 70 anni che abita accanto a noi senza le dovute precauzioni, rischiando di contagiarlo, non è cosa accettabile. Così pensare di proporre un’assemblea in quartiere per discutere di come affrontare i problemi economici, senza pensare alle specificità non solo legali del momento, sarebbe altrettanto sconsiderato.

Ovviamente è compito dei compagni anche il non cedere alla paranoia diffusa e votarsi a una ponderata e precisa analisi degli eventi, da trasmettere poi a chi ci sta attorno. Analisi che ha le sue difficoltà intrinseche per la complessità del fenomeno, che di sicuro non è assimilabile ad esempio allo studio sulle politiche di edilizia popolare di una città, al livello di militarizzazione di una nazione o agli effetti di una grande opera dannosa per il territorio. Analisi rese ancora più difficili dal fatto che il detentore dei dati e delle informazioni, così come il fautore delle decisioni che ne orientano i criteri (si pensi ad esempio al criterio di quanti tamponi effettuare e su chi) è lo Stato con i suoi istituti di ricerca.

Consentiteci allora una breve digressione per tentar di focalizzare il problema. Ci sembra di poter dire che nell’ambito del dibattito “di movimento” le letture e posizioni siano schiacciati su due poli discorsivi. Da un lato un tentativo di minimizzare, quando non negare, la gravità della situazione, dall’altro quella di far propria la ragion di stato con la sua retorica sull’emergenza cui tutto dovrebbe essere subordinato. Una polarizzazione che viene da lontano e non è certo il prodotto dell’epidemia in corso, per quanto questa non faccia che renderla più palese. Una polarizzazione che riguarda gran parte dell’attività e della produzione teorica rivoluzionaria, per lo meno in quest’epoca e che oscilla tra 1) la possibilità di intravedere e provare a imboccare una strada autonoma rispetto al sistema capitalista e 2) l’esigenza di far fronte a una serie di necessità per le quali, finché non si compie un processo rivoluzionario, non si può prescindere da questo sistema. Un contrasto quindi tra la necessità di lottare per ottenere e strappare, seppur all’interno di quest’ordine di cose, ciò che ci serve per poter vivere nel miglior modo possibile e quella di provare a capire nel frattempo quali percorsi di autonomia sono “costruibili” man mano che le lotte crescono e si diffondono. Percorsi d’autonomia in cui gli aspetti materiali e teorico/immaginativi dovrebbero intrecciarsi e autoalimentarsi.

In genere o si tende a essere schiacciati dal polo della necessità, diventando più realisti del re, e nella migliore delle ipotesi invocando un “ritorno al passato” in cui il welfare state “funzionava meglio”, o ci si balocca a parlare di autonomia e di ignoto non tenendo minimamente in conto la sfera della necessità che, piccolo problema, è quella grazie a cui si può campare. Ci si dimentica così che la condizione per poter arrivare a vivere in un mondo di liberi e uguali, è quella, banalmente, di poter vivere. Una questione che viene a galla in maniera estremamente chiara in una situazione come quella attuale in cui i problemi tendono a emergere nudi e crudi, senza l’abituale patina che li avvolge, perlomeno in quest’angolo di mondo. A meno di negare la gravità sanitaria attuale o ipotizzare che, fatalisticamente, date le condizioni attuali non c’è altro da fare che accettare di morire di capitalismo – perché di questo si tratterebbe – , bisognerebbe sforzarsi di elaborare e sostenere nella pratica un discorso che miri a salvaguardare la propria e altrui salute e tener conto delle necessità sanitarie, senza lasciarsi schiacciare dalla ragion di Stato. Ci rendiamo conto che questa affermazione sembra poco più che uno slogan, sicuramente più semplice a dirsi che a farsi o anche solo ad essere ragionata in maniera adeguata. Ma di semplice non c’è niente in quest’ordine di problemi, e le difficoltà strutturali davanti a cui ci troviamo andrebbero esplicitate e dovrebbero accompagnarci ad ogni passo nei nostri tentativi come nelle nostre riflessioni. La questione non è, evidentemente, accettare in alcun modo la ragion di Stato con le sue logiche emergenziali, utili a disciplinare la popolazione, ostacolare e prepararsi preventivamente al sorgere di malcontenti e conflitti, oltre che essere un importante esperimento da cui le autorità tenteranno certamente in futuro di trarre maggiori insegnamenti. Non occorre per forza prefigurarsi una situazione distopica, di totale normalizzazione delle attuali misure contenitive a partire da dopodomani, per capirne la gravità. D’altro canto è dall’altro ieri, o meglio da decenni, che gli Stati si adoperano a studiare tecniche contro-insurrezionali e di gestione militare delle crisi di vario genere. Ad esempio è possibile che la controparte sfrutterà questa situazione per rilanciare il 5G (appellandosi e legittimandosi, anche solo come immaginario, a una gestione dell’epidemia alla coreana. https://ilmanifesto.it/alta-diagnostica-e-controllo-sociale-il-modello-corea-del-sud-ribalta-i-numeri-per-ribaltare-i-numeri/ ) o per applicare un coprifuoco attenuato in altre situazioni critiche.

Questa logica d’emergenza risponde però anche a innegabili esigenze di contenimento del contagio ed è questa la profonda differenza tra la situazione attuale e altre situazioni di emergenza sociale o di catastrofi legate a fenomeni per cosi dire naturali. Trascurare o minimizzare questo dato o far finta di dimenticarsene non rafforzerà certo le nostre capacità di criticare e provare a contrastare i dispositivi e il processo di auto-legittimazione portato avanti dalle autorità. Sarebbe interessante, ad esempio, capire quali critiche avremmo da fare a una strategia come quella del Regno Unito volta a creare la cosiddetta immunità di gregge…

La critica e l’opposizione al cosiddetto stato d’emergenza dovrà essere allora perlomeno complementare a un discorso e a delle lotte che riescano a mettere al centro le sciagurate politiche sanitarie, guidate dalla feroce logica del profitto, che sempre più negli anni e in particolar modo ora, rendono la possibilità di curarsi per chi non ha determinate risorse economiche un lusso estremamente selettivo. Questo non vuol dire certo rivendicare il ruolo e le logiche della sanità pubblica come l’obiettivo ultimo verso cui tendere, ma la lotta per poter vivere liberi, lo ripetiamo, passa dalla possibilità di vivere e le ristrutturazioni nel campo della sanità sono state e continuano ad essere dei veri e propri atti di guerra contro tanti e tante sfruttate. Un venir meno della possibilità di curarsi che in un mondo come quello capitalistico, strutturalmente ostile a qualsiasi forma d’autonomia, equivale a delle vere e proprie condanne a morte, anche al di là del Covid-19. Battersi per ampliare queste possibilità, parallelamente alla costruzione di una conoscenza e di logiche altre rispetto a quelle delle sanità pubblica, rappresenta un tassello fondamentale per una prospettiva rivoluzionaria che non voglia contrapporre ideologicamente libertà e necessità di vita. Come articolare delle proposte concrete a riguardo è un problema che va sicuramente al di là di questo breve scritto e, almeno al momento, delle capacità e dell’esperienza dei suoi estensori. Impareremo a farlo, se impareremo, facendolo e ragionando criticamente sulle lotte che sapremo costruire.

Tentare, nel possibile, di analizzare correttamente il fenomeno ha sia delle ricadute etiche che strategiche: da un lato non possiamo contribuire a mettere in pericolo altre persone e possibili complici davanti al rischio di contagio. Non possiamo ammalarci noi, compagne e compagni, che già siamo pochi e con energie risicate. Non possono ammalarsi e morire i nostri possibili complici…che si ammalino i ricchi, i governanti e i padroni, come minimo. Dall’altro dobbiamo cercare di capire come si evolverà passo passo la situazione e gli scenari che potrebbero verificarsi.

Di sicuro non possiamo permetterci di aspettare, perché a dispetto del più approssimativo determinismo o volendosi anche immaginare una certa e sicura catastrofe che ci si para davanti, il punto è come cercare di trasformare la catastrofe in rivoluzione.

Lottare …come

Riprendendo il filo delle mancanze, non possiamo esimerci dal notare una certa lacuna nel nostro rapporto con gli sfruttati e le sfruttate che vivono attorno a noi. Alcune cose che dovrebbero essere la base di un nostro intervento sono già difficili: creare rapporti di solidarietà con le persone più colpite dalle ricadute sociali e materiali bypassando alcuni diktat idioti del governo e la dipendenza dall’apparato di controllo; contrastare la narrazione dominante e svelare le future ricadute che si avranno sulla qualità della vita; tentare di condividere con proletari e proletarie immigrate strumenti di comprensione del fenomeno virus e delle mosse statali; aiutare a comprendere il tipo di repressione messo in atto e come fronteggiarlo (si pensi all’applicazione diffusa dell’articolo 650 c.p.). Che gli ammortizzatori messi in campo saranno diretti a sostenere solo la parte più salvabile della popolazione è cosa certa, ma anche la narrazione messa in campo finora denota una certa selezione davanti al contagio stesso: una grossa parte degli sfruttati e sfruttate immigrate, che non conoscono bene la lingua italiana, stanno facendo seria difficoltà a capirci qualcosa, fosse anche solo capire come usare bene una mascherina o dei guanti.

Anche qui occorre cogliere gli spiragli che una situazione di crisi porta con sé e provare a imboccare quel processo di accelerazione, provare a incontrarci in breve tempo con molte più persone di quanto le nostre lotte specifiche abbiano saputo fare negli ultimi tempi. Deficit che forse non si potrà colmare in toto. Allo stesso tempo capire se e come re-incontrare quelle persone con cui si sono condivisi pezzi di lotta, o con cui li si condivide ancora. Ad esempio se le lotte nei CPR non avessero avuto una battuta di arresto e se non avessero tolto i cellulari dentro a quelle gabbie, forse quello sarebbe stato un altro campo di battaglia al pari delle prigioni, ma con più possibilità di interazione.

Se volessimo guardare alle sfide che ci si parano davanti anche col focus di una scansione temporale, dovremmo iniziare a immaginarci il da farsi nella fase uscente di questa emergenza sanitaria (se e quando ci sarà), e alle ricadute sociali che porterà… con in più la possibilità di tornare in strada. Non si muoverà una foglia e tutti saranno felici del ritorno alla normalità al grido di “RinascItalia” ? Ci saranno piuttosto smottamenti tali da canalizzare una furente rabbia collettiva? Inizieranno una serie di conflitti in specifici ambiti della società (lavoratori della ristorazione, sanitari, disoccupati, persone con malattie aggravate dall’emergenza coronavirus, lotta per le bollette, etc.)? Anche qui ripartiamo dalle mancanze.

Chi più chi meno, nelle varie zone d’Italia, ha sviluppato negli anni studi e ricerche nei vari ambiti che compongono questa società, votati alla produzione e riproduzione del sistema capitalista. Spesso con l’idea di cavarne fuori qualche analisi che orientasse e illuminasse le proposte di lotta e azione. Eppure, almeno per chi scrive, se l’emergenza finisse ora e si creasse ad esempio un imbuto di visite sanitarie sospese da recuperare, col rischio per le situazioni più urgenti di doversi rivolgere al costoso privato, sapremmo anche solo sotto quale ufficio andare a rompere le scatole? Indicare nel dettaglio i responsabili, decennali e secolari, di questa condizione? Occorrerà colmare con lo studio e l’osservazione, ma anche con uno scambio con i possibili complici che conosceremo. Noi stessi, d’altronde, siamo immersi nella società e subiamo lo sfruttamento che porta con sé. Sul lavoro, tra i vicini di palazzo, gli amici e le amiche studentesse, parenti rinchiusi nelle zone rosse e con i posti di terapia intensiva all’esaurimento. Di possibili complici, forse, ne conosciamo già.

Alcuni problemi immediati riguarderanno in primis la salute delle persone e mostreranno fin da subito un risvolto di classe: cosa ne sarà di tutte quelle cronicità e patologie che in questa situazione di crisi e mancanza di cure saranno entrate in acuzie? Che benefici avrà per la sanità privata il dirottamento di un parte delle visite arretrate nelle sue cliniche a pagamento? Come ne uscirà il personale sanitario, da tempo costretto a condizioni contrattuali degradanti e a turni di lavoro massacranti, la cui uscita dalla crisi sanitaria sarà molto più lunga?

Abituati negli anni alle batoste repressive, alle difficoltà del conflitto sociale, al lato parziale delle lotte, stiamo rischiando di perdere lo slancio immaginativo e utopico. Uno slancio che per forza deve essere in grado di disegnare mondi ideali liberati dal capitalismo, ma gettare il cuore oltre l’ostacolo della rassegnazione. E pensare in grande.

Uno sguardo che, per tagliare la questione con l’accetta, oscilla tra la capacità di attacco e l’autogestione delle risorse nella riproduzione della vita in un processo insurrezionale, nonché le sue modalità organizzative. Perché se sosteniamo che alla base della crisi coronavirus sta il mondo capitalistico in quanto tale, se sosteniamo che si sta aprendo la possibilità per molte persone di acquisire questa consapevolezza attraverso una lotta dura, allora la portata è radicale.

Ci fermeremo a “sobillare” o più banalmente sostenere le manifestazioni di piazza e il loro livello di scontro, oppure ci porremmo allo stesso tempo il problema di come approvigionarci, come continuare a curarci senza riprodurre i loro modelli votati al profitto, come usare i terreni e gli spazi agricoli per produrre cibo? Come potremo difenderci dagli attacchi della controparte contro un territorio, seppur parziale, in fermento? Come dialogare con altri territori lontani da noi? D’altronde, se staccano l’acqua e la corrente alla sezione in rivolta di un carcere, perché non dovrebbero farlo con un intero quartiere?

Qui la vertigine si insinua troppo, meglio dormirci su. Speriamo solo che questi parziali ragionamenti possano orientare il confronto a venire.

Torino, 16 Marzo 2020

Il corpo inibito ai tempi del contagio

Allora fu riconosciuta la presenza della Morte rossa. E tutti i convitati caddero uno ad uno nelle sale dell’orgia bagnate da una rugiada sanguinosa ed ognuno morì nella disperata positura in cui era caduto soccombendo. E la vita dell’orologio d’ebano si spense con quella dell’ultimo di quei personaggi festanti. Le fiamme dei treppiedi spirarono. E le tenebre, la rovina e la Morte rossa distesero su tutte le cose il loro dominio sconfinato

Edgar Allan Poe, La maschera della Morte Rossa

Da una parte lo Stato, con i suoi militari nelle strade, i suoi controlli e la sua propaganda mediatica della reclusione. Dall’altra parte un’epidemia, che in questo mondo sta suggellando la morte come atroce normalità. In mezzo la libertà, tra sogno e utopia, che inebria solo i cuori a contatto con un pensiero senza misure. La morte ha sempre fatto parte di questa esistenza, come svariati virus sono sempre stati a contatto e trasmessi fra le persone. Dalle guerre, alla catastrofi provocate da questo sistema che fa del profitto l’unica ragione d’esistere, fino ad arrivare alle epidemie, conseguenza devastante dell’ordine del mondo. I richiami del Dominio sono tutti incentrati sull’unione. A braccetto, in questo momento di difficoltà storica, devono andare tutti. E l’unione fra oppressi e oppressori ha il sapore del totalitarismo. Tutti in casa, dove lo schermo rende la vita qualcosa che non ha più a che fare con le percezioni e il nostro corpo. Tutta l’alienazione sprigionata da un esistente che fa della tecnica la chiusura totale dell’immaginario, per darsi alla virtualità del reale. Da una parte le persone sembrano sottostare al diktat del potere. Dall’altra, le cifre versate dalle forze della repressione sembrano dire il contrario: impressionanti le denunce giornaliere fatte dai tutori dell’oppressione verso quegli individui che non hanno nessuna intenzione di starsene chiusi a chiave in casa. E qui dovremmo fare i conti con la consapevolezza. C’è chi trasgredisce l’ordine perché convinto che questo sia una delle strade più battute che potrebbe portare alla libertà. C’è chi invece lo fa per battere semplicemente la noia della auto-segregazione. O c’è chi proprio non ha intenzione di privarsi della possibilità di vedere i propri affetti. In mezzo alla pandemia, una retorica asfissiante ci dice che il problema ormai siamo noi. Più specificatamente il nostro corpo, un tutt’uno con il nostro cuore e il nostro pensiero.

Nulla è più caratteristico dell’incapacità umana nel comprendere ciò che ci sta intorno, ciò che viene fabbricato. Questo tratto annebbia e offusca la singolarità individuale. Essere concepiti come produttori di cose incide sulla nostra capacità di immaginare qualcosa che sia scarto assoluto con questo mondo. L’inconoscibile ci fa tremare le gambe. Ed in questi momenti di pandemia sociale che l’umanità assomiglia sempre più ad un ingranaggio della Mega-macchina. Se la scoperta del mondo viene mediata da uno schermo, allora questa scoperta assume le sembianze catastrofiche di un artificio. Se tutto ci viene dato, detto come verità incondizionata, la nostra dipendenza dall’esistente diviene affabile. Il Ministero della Verità attraverso uno schermo e i replicanti al mercato delle opinioni sono dappertutto. Quando i desideri si trasformano in bisogni, quando viene defenestrata la possibilità del perdersi nell’ignoto, ecco che l’umanità oltre ad essere ingranaggio si tramuta nella più fervente e feroce disumanità. L’angoscia diventa un prodotto, l’efficacia colonizza la mente e il corpo viene devastato perché ridotto a una funzione meccanica. Possiamo continuare a sopravvivere in presenza dello sterminio?

La repressione generale forma l’individuo e universalizza perfino i suoi tratti personali

Herbert Marcuse, Eros e civiltà

È da tanto tempo che il corpo viene visto come qualcosa da integrare, stravolgere e fortificare con protesi tecniche. Il corpo svuotato della sua unicità adesso si trova assediato dalla profonda medicalizzazione in atto e dalle sue conseguenze in cui l’incontro sta diventando vietato. Ormai gli individui vengono considerati tutti come possibili untori, possibili portatori della morte. E quando un corpo viene considerato solo un sostegno alla tecnicizzazione del mondo, quando esso deve sparire in favore di relazioni perpetuate attraverso degli schermi, allora quel corpo viene svuotato delle idee e le idee viaggiano in linea senza corpo. La questione che abbiamo davanti, che ci interroga, non dovremmo sentirla epocale per un’emergenza epidemica in atto che cade in un momento dove varie sacche di popolazione fanno dell’addomesticamento una virtù, ma per il solo fatto che una crisi dell’intero sistema dello sfruttamento non necessariamente ne definirà il crollo totale, ma molto più semplicemente tenterà una trasformazione della vita in senso ancora più securitario e liberticida. Il sistema ha sempre bisogno di una crisi per ridefinirsi più dominante. E se il prossimo passo fosse rafforzare la legislazione per fortificare la solitudine tecnica?

Per il crollo di una intera civiltà servono senza dubbio pensiero sovversivo, leggerezza del negativo e istinto di libertà. Tutto questo non è possibile se non doniamo il nostro corpo ad un desiderio scatenante di insurrezione. Il corpo è la pericolosità della sedizione. Sentire di non appartenere a questo mondo potrebbe dare sfogo all’impossibilità di integrarsi in esso, nel cogliere pienamente la capacità di negare la realtà, di prenderne le distanze. Se la tecnica e l’energia che la fa funzionare stanno aiutando la reclusione ad essere accettata come una pillola da ingoiare, allora sentire significa dar vita ad un’esperienza dell’inedito, nel dare corpo ad un’Idea disinibita e accattivante. Coglieremo l’occasione di essere imprevedibili? Se dopo la pandemia sarà la carestia ad accentuarsi ancora di più, in mezzo cosa potrà accadere? Riusciremo a bloccare il migliore dei mondi possibili senza contagiarci di paura?

 

Il corpo inibito ai tempi del contagio

Militari davanti alle carceri?

Dicono che la situazione nelle carceri non sia ancora pacificata, che la rabbia espressa qualche giorno fa si annida ancora in molte galere, che c’è un concreto rischio di ulteriori devastazioni, sequestri, incendi, fughe. In pochi giorni i detenuti hanno messo in crisi un pezzo del sistema statale, quello che per tutti dovrebbe essere il più “sicuro”, il più controllato e messo in una situazione tale da prevenire proprio questi fatti successi in molte carceri in Italia. Che lo Stato sia incapace di gestire le carceri è un bene e non un male,

ma se fino ad ora le sue negligenze sono state un danno verso i detenuti, in questo caso le sue incapacità burocratiche e logistiche hanno fatto sì che i prigionieri siano riusciti a ribellarsi, unirsi e in alcuni casi a guadagnare la fuga.

Quindi qual’è la soluzione sia per gli opinionisti, per i tecnici del settore e dei politici più reazionari? Schierare l’esercito, come se non bastasse la presenza in questi giorni di Polizia Penitenziaria, Finanza, Carabinieri, Vigili di ogni risma, Polizia di Stato. L’esercito è un deterrente che in questo momento è utilizzabile vista l’emergenza, ma è anche una forza vera e propria, ed in questo paese ci si è dimenticati di cosa essa sia in grado quando entra veramente in funzione. Lo Stato ha già nel decennio passato abituato i suoi cittadini a vedere nelle strade di tante città gli uomini in mimetica dell’operazione “Strade sicure”, se poi vengono utilizzati per controllare i confini del Nordest contro i poveri in fuga dalle guerre e ora schierati davanti alle carceri, questo non è un problema. La retorica di tutti i partiti politici degli ultimi governi è evidente ed ha fatto breccia nella massa. Nel tempo sono riusciti con mille mezzi, sopratutto culturali e propagandistici, a spostare il problema di chi crea i danni irreversibili di questo mondo a chi invece li subisce e che spesso giustifica le scelte politiche, economiche, repressive e non solo in cambio di un po’ di finto benessere e libertà.

L’esercito ha un solo modo di muoversi: violenza, controllo e repressione, ed è evidente che l’emergenza attuale viene gestita in un’ottica di guerra sia in modo formale, sia in modo informale utilizzando una propaganda massiccia di terrore che spinga la massa a chiedere qualsiasi mezzo di fronte ad un nemico invisibile. Ma visto che ad un virus non si spara, il piombo nelle canne dei mitra è solo per gli uomini e donne che potrebbero non solo non rispettare gli obblighi imposti in questo periodo, ma anche, in un prossimo futuro, ribellarsi finita l’emergenza. Persone che, quando ritornerà l’ipotetica tranquillità, dovranno fare i conti con la nuova situazione economica e politica che lo Stato e i padroni faranno pagare alla massa di sfruttati, gli stessi che fino ad ora non hanno compreso che coloro che indossano divise sono la mano dell’oppressore. Per intenderci: quelli che sparano quando arriva l’ordine, ad obbedir tacendo.

Così è stato, e così sarà.

Se in questa ennesima situazione restrittiva si fraternizza con quello che per noi è un nemico, è un passo che poi si pagherà in futuro. Perché questo è il loro “lavoro”, sono addestrati per queste situazioni, non c’è più il proletario in divisa, le “Missioni di Pace” all’estero hanno formato negli ultimi decenni migliaia di uomini e donne nel gestire le popolazioni occupate, ma ora gli occupati siamo proprio noi, tutti e tutte noi che ci troviamo in Europa.

Militari davanti alle carceri?

Incatenati alla corona

«La tirannia più temibile non è quella che assume la forma di arbitrio, è quella che viene coperta dalla maschera della legalità»
A. Libertad, 1907
 
Con l’epidemia passeggera di Covid-19 che si propaga nel mondo e le drastiche misure che si susseguono le une dopo le altre dalla Cina all’Italia, una delle prime questioni che vengono in mente è chiedersi chi, fra la gallina dell’autorità e l’uovo della sottomissione, stia facendo attualmente i maggiori danni. Questa brusca accelerazione statale di controlli, divieti, chiusure, militarizzazione, obblighi, bombardamenti mediatici, zone rosse, definizione delle priorità dei morti e delle sofferenze, requisizioni, confinamenti di ogni genere — tipici di qualsiasi situazione di guerra o di catastrofe — non cade infatti dal cielo. Prospera su un terreno ampiamente arato dalle successive rinunce dei coraggiosi sudditi dello Stato ad ogni libertà formale in nome di una sicurezza illusoria, ma prospera anche sullo spossessamento generalizzato di ogni aspetto della nostra vita e sulla perdita della capacità autonoma degli individui di pensare un mondo completamente diverso da questo.
Come cantilenava un anarchico quasi due secoli fa, essere governato equivale per principio ad «essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato, regolamentato, recintato, indottrinato, catechizzato, controllato, stimato, valutato, censurato, comandato», e questo «con il pretesto della pubblica utilità e in nome dell’interesse generale». Che la dittatura sia opera di uno solo, di un piccolo gruppo o della maggioranza, non cambia nulla; che essa sia animata dal vizio o dalla virtù nemmeno; che si sia in tempi di epidemia di domesticità tecnologica o più banalmente in tempi di influenza cittadinista o poliziesca neppure. Quali che siano le apparenze protettive adottate dal governo degli uomini e delle cose del momento, quali che siano i pretesti securitari su cui si basa, ogni governo è per sua natura nemico della libertà, e non sarà la situazione in corso a smentirci. A questa banalità di base che delizia gli adoratori del potere in alto e fa brillare gli occhi di quelli che lo anelano in basso, aggiungiamo che non esistono neanche pastori senza greggi: se l’esistenza stessa di un’autorità centralizzata sotto forma di Stato consente certo l’improvvisa imposizione degli arresti domiciliari su una scala inedita a interi settori della popolazione qui e là, è comunque una servitù volontaria largamente integrata, preparata e costantemente rinnovata a rendere questo genere di misure possibili e soprattutto efficaci. Ieri in nome della guerra o del terrorismo, oggi in nome di un’epidemia, e domani in nome di qualsivoglia catastrofe nucleare o ecologica.
L’emergenza e la paura sono in materia le uniche consigliere per i dormienti terrorizzati che, una volta privati di ogni mondo interiore che sia proprio, si rifugeranno in un riflesso condizionato verso la sola cosa che conoscono: nelle braccia muscolose di Papà-Stato e sotto le gonne rassicuranti di Mamma-la-Scienza. Un lavoro quotidiano effettuato non solo da diversi decenni di repressione dei refrattari all’ordine del dominio (del salariato, della scuola, della famiglia, della religione, della patria, del genere) a partire dall’ultimo tentativo di assalto al cielo negli anni 70, ma anche dall’insieme degli autoritari e dei riformisti che non smettono di voler trasformare gli individui in greggi, in accordo con un mondo che coniuga perfettamente atomizzazione e massificazione.
 

«Per l’individuo, non esiste alcuna necessità dettata dalla ragione di essere cittadino. Anzi. Lo Stato è la maledizione dell’individuo. Bisogna che lo Stato scompaia. È una rivoluzione alla quale parteciperei volentieri. Distruggete integralmente lo stesso concetto di Stato, proclamate che la libera scelta e l’affinità spirituale sono le condizioni uniche e sole importanti di qualsiasi associazione e otterrete un principio di libertà che varrà la pena di godere»

H. Ibsen, 1871
 
Una decina di anni dopo aver fatto questa constatazione in una lettera inviata a un critico letterario, il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, che pur viveva ufficialmente di rendita, scrisse un’opera teatrale che avrebbe infiammato certi anarchici: Un nemico del popolo. La storia si svolge in un villaggio le cui acque sono contaminate da un batterio letale, provocando una lite tra i due fratelli, medico e prefetto, che hanno fondato lo stabilimento termale del luogo. Bisogna mettere sì o no in discussione il loro ricco avvenire realizzando le disastrose opere del sistema idrico del villaggio, avvisando gli abitanti del pericolo? Dopo essere ad un palmo dal convincere la folla a fermare tutto, il buon dottore vedrà quest’ultima rivoltarglisi contro sotto la pressione dei notabili e l’influenza del giornale locale, e finirà solo contro tutti. Ma che non ci si inganni. In quest’opera, Ibsen non intendeva lodare la verità della scienza di fronte all’oscurantismo o al mercato (quello stesso anno, il 1882, usciva in francese la critica postuma di Bakunin sulla rivolta della vita contro la scienza), bensì denunciare la tirannia della «maggioranza compatta», di quella massa versatile che ondeggia in base agli interessi dei potenti.
È passato più di un secolo da questo successo teatrale che sembra ormai di un’altra galassia, e il matrimonio tra ragione di Stato e scienza della ragione ha da allora ampiamente dimostrato tutto l’orrore di cui era capace, dai massacri industriali, militari e nucleari di massa dentro e fuori le frontiere, fino all’avvelenamento duraturo dell’intero pianeta e alla connessione irreggimentata delle relazioni umane. In un mondo globalizzato dove gli umani sono continuamente in preda a ristrutturazioni tecno-industriali che sconvolgono ogni percezione sensibile (dalla vecchia separazione tra ciò che si produce e la sua finalità fino al significato stesso del reale), cosa resta allora agli spossessati quando sopraggiunge l’ignoto di un nuovo virus mortale? Aggrapparsi a statistiche fluttuanti che sostengono che circa il 70% della popolazione sarà interessato dal Covid-19, che solo il 15% delle persone colpite soffriranno di sintomi più o meno gravi, e che il 2% morirà in base all’età avanzata e alle precedenti condizioni di salute? Seguire come al solito gli ordini del potere che regola già ogni sopravvivenza dalla nascita alla morte, tra il ricatto della fame e quello del carcere, nell’attesa come per il clima che siano gli stessi gestori delle cause a risolvere le conseguenze? Interrogarsi sulla differenza tra la sopravvivenza e la vita, tra la quantità di una vita che diminuisce inesorabilmente fino alla sua estinzione da quando si nasce, e la sua qualità, ciò che vogliamo farne qui e ora, a prescindere dalla sua durata che non si conosce in anticipo? Una qualità che si può anche mettere in discussione quando è separata da ogni aspirazione alla libertà, quando è disposta alla reclusione volontaria con un semplice schiocco di dita del capo-branco.
Giacché, piuttosto che stupirsi della gestione cinese autoritaria e tecnologizzata dell’epidemia di Covid-19, è proprio così che 60 milioni di italiani hanno rinunciato dall’oggi al domani, la sera di un certo 9 marzo, al minimo spirito critico accettando l’«Io resto a casa», decretato dallo Stato per almeno quattro settimane dopo aver testato l’istituzione di un’immensa zona rossa che tagliava il paese in due. Nel momento in cui scriviamo, questo genere di misure di rigorosa quarantena su così vasta scala si è esteso alla Spagna (47 milioni di abitanti), mentre Portogallo, Romania, Serbia e Stati Uniti hanno appena dichiarato lo stato di emergenza, con tutto ciò che questo comporta in termini di coercizione di fronte agli irresponsabili che osassero sfidare la grande reclusione regolata con tanto di permesso di circolare tra ciò che in definitiva costituisce la base: casa-lavoro-supermercato. Per dare un’idea del seguito, l’esercito assistito da droni è stato appena schierato in Spagna nelle stazioni e nelle strade delle grandi città (polizia militare e membri dell’Unidad Militar de Emergencias, UME), idem in Italia con i 7000 soldati che non le hanno mai lasciate dopo l’operazione Strade Sicure del 2008, e altrettanti che sono in massima allerta in previsione di disordini quando il picco di contagio raggiungerà il sud della penisola. Ogni paese potrà anche conservare per il momento le sue piccole peculiarità in termini di permessi di luoghi pubblici «non essenziali» al fine di mantenere un briciolo di facciata democratica — edicole e profumerie in Italia, commercianti di vino e hotel in Francia, mercati e parrucchieri in Belgio —, ma senza alcuna illusione circa la sua durata.
Stiamo assistendo a un movimento di unità nazionale che tocca la maggior parte degli ambiti della vita (sopravvivenza) attorno ad un ordine che si è dato carta bianca, e questo ad un livello senza precedenti nella maggior parte dei paesi occidentali dalla seconda guerra mondiale. Un esercizio di servitù volontaria che era stato bene preparato e rodato su piccola scala dalle diverse emergenze di «terrorismo» o di «catastrofi naturali» in  questi ultimi anni in vari luoghi, ma mai così a lungo e con tale intensità. E non v’è dubbio che questo esercizio rischia di durare molto più di quanto annunciato, aprendo a nuove situazioni ancora difficili da anticipare o prevedere.
 
«L’aria è immobile. Come sono lontani gli uccelli e le fonti! Non può esserci che la fine del mondo, più in là»
A. Rimbaud
 
Di fronte a ciò che il gregge sa fare meglio, eseguire le consegne, resta anche un certo numero di individui che non intendono sottomettersi così facilmente, per vari motivi, altri che cercheranno sicuramente di trovare falle nei dispositivi di confinamento una volta dissipato l’effetto disorientamento (e con l’ausilio della noia dell’autoreclusione), oltre a quegli animi valenti che intendono continuare la loro incessante opera per minare il dominio o cogliere le opportunità che si aprono.
In fondo, perché mai il virus dell’autorità dovrebbe fare a meno di utilizzare la paura come ha sempre fatto, anche a costo di esacerbarla o di crearla in base alla necessità, non solo per intensificare il suo controllo sui corpi e le menti, ma soprattutto per rafforzare il veleno di una sottomissione di fronte ad un imprevisto che, sfuggendogli, può rimescolare le carte?
Cosa c’è di più sicuro per il potere di una guerra in cui unione sacra, religione e sacrifici saldano attorno ad esso gran parte della popolazione? ma anche di più aleatorio di una guerra persa o che non è in grado di condurre, con un iniziale malcontento non di opposizione ma di contestazione per una cattiva gestione o un prezzo troppo pesante da pagare, che a sua volta può portare ad una messa in discussione più globale, se i tentativi rivoluzionari successivi alla prima guerra mondiale negli imperi sconfitti (Germania, Russia, Ungheria) vi dicono ancora qualcosa. Ci verrà replicato che i tempi sono cambiati e che allora esisteva almeno un’utopia sostitutiva dell’esistente. Ma ciò non toglie che uno Stato occidentale contemporaneo sopraffatto dal panico di sopravvivenza, da una rabbia di fronte a tassi di mortalità più elevati per via di un sistema sanitario che era stato largamente smantellato, da un virus che può immobilizzare momentaneamente dal 20 al 30% di qualsiasi professione (110 celerini di Grasse sono confinati dal 12 marzo, così come tutti gli sbirri del commissariato di Sanary-sur-Mer dal 14 marzo, o i loro 400 colleghi parigini della Brigade des réseaux franciliens) creando occasioni, o da rivolte di determinate aree o categorie della popolazione, e tutto ciò all’interno di una economia indebolita*, si trova davanti ad una situazione nuova che potrebbe anche sfuggirgli di mano.

In materia di pacificazione sociale come di conflittualità, è alquanto comodo per chiunque vedere le cose come gli conviene o solo ciò che gli si presenta davanti al proprio naso, e ancor più quando le informazioni diffuse dai portavoce del potere si fanno sempre più avare, cosa più evidente in tempi di crisi o d’instabilità dove tutti serrano i ranghi. Ma chi ha mai pensato che i giornali o i social network fossero il riflesso della realtà, o che quando non dicono nulla dell’antagonismo in corso, tranne che per trasformarne il significato o vantarsi di qualche arresto, non è successo niente? Pur sapendo che si è solo all’inizio di un nuovo periodo che si apre e potrebbe durare mesi, senza seguire alcuna traiettoria in linea retta, uno dei primi segnali di rivolta è arrivato dalle carceri italiane, e in che modo!
 In seguito alle misure prese dallo Stato contro la diffusione del Covid-19 e riguardanti anche le carceri (divieto dei colloqui, soppressione della semi-libertà e delle attività all’interno), i primi ammutinamenti sono scoppiati il 7 marzo e si sono estesi ad una trentina di carceri da nord a sud nello spazio di tre giorni. Almeno 6000 prigionieri si sono ribellati: guardie o personale presi in ostaggio, apertura di celle e devastazione di sezioni o addirittura di intere prigioni (come quella di Modena, inutilizzabile), vari incendi e occupazione di tetti, ma anche evasioni come a Foggia dove in 77 sono riusciti a scappare (quattro sono ancora liberi) forzando l’accesso verso l’uscita dopo aver distrutto tutti gli schedari ed i documenti relativi alla loro identità, e almeno una dozzina di morti hanno segnato questa prima ribellione.

In un altro ordine di idee, a seguito del grande confinamento decretato oltralpe, dove ogni individuo che si trovi fuori casa deve essere munito di autocertificazione (una dichiarazione sulla parola) che ne attesti il motivo, spuntando la casella tra lavoro, salute e un altro molto limitato relativo alle sole necessità autorizzate dallo Stato (come fare la spesa o portare a spasso il cane, ma unicamente da soli e nel proprio quartiere), quest’ultimo ha reso noti i dati relativi ai primi giorni del coprifuoco: su 106.000 persone controllate, quasi 2.160 sono state multate per violazione dello stato di emergenza (11 marzo), poi su 157.000 controllati, è toccato ad altri 7.100 (13 marzo). I casi più disparati vanno dagli impertinenti che hanno osato incontrarsi per bere una birra in un parco agli impudenti che hanno approfittato della spiaggia deserta per provare un beach volley, fino a un padre di famiglia andato a comprare una playstation per il suo figliolo bloccato a casa o una coppia che preferiva litigare faccia a faccia piuttosto che a distanza al telefono, fino al tentativo di festeggiare un compleanno tra amici o di giocare a carte tra vicini, nonostante il decreto imponga che ognuno stia a casa in base alla residenza dove è registrato e che possa uscire uno alla volta, giustificandosi ad ogni controllo. Molte grandi città (Milano, Bologna, Torino, Roma) hanno chiuso così parchi, giardini, piste ciclabili o altrove le spiagge, per impedire ai recalcitranti di ritrovarsi approfittando del bel tempo.
Tuttavia, non si può fare a meno di pensare che questi timidi atti di trasgressione siano attualmente più legati alla improvvisa moltiplicazione di divieti che ad una ribellione contro queste misure. Se molti dispongono ormai di più tempo libero, essendo lontani dalla scuola o dal lavoro, si ritrovano pur sempre ingabbiati allo stesso modo di prima: secondo le modalità del potere. Disobbedire ad un ordine perché modifica troppo in fretta un’abitudine radicata non è affatto la stessa cosa che rifiutare che una qualsiasi autorità possa dare ordini, o strappare volontariamente il tempo e lo spazio al dominio per trasformarli in altro. Si chiami esso Santa economia o Bene comune.
Infine, poiché siamo solo all’inizio di questa ondata presto mondiale di misure che vietano anche le manifestazioni di strada, precisiamo che l’Algeria che le ha appena vietate in nome del Covid-19 ha dovuto affrontare violazioni di massa il 13 marzo, in particolare in Cabilia, in occasione della 56° settimana di proteste contro il potere; che in Cile, dove la rivolta è ripresa all’inizio di marzo dopo la fine delle vacanze, il ministro della Sanità ha annunciato che il paese sta per entrare nella fase 3 con l’istituzione di una quarantena di massa; e che in Francia, dove lo Stato aveva deciso il 13 marzo di abbassare da 1000 a 100 persone la soglia limite per i raduni, le manifestazioni di strada risultano ancora un’eccezione «utile alla vita della nazione», tollerata per timore di reazioni troppo violente, e si confida che i sindacati cessino loro stessi di organizzarle (a Lione, il 13 marzo, 3000 giovani hanno ad esempio sfilato cantando «Non è il corona che ci avrà, è lo Stato e il clima», per non parlare della manifestazione parigina dei gilet gialli del 14 marzo che si è scontrata con la polizia lasciando sulla sua scia diverse carcasse di auto bruciate).
Da parte dei nemici dell’autorità, infine, molti rischiano fortemente di essere colti alla sprovvista se non hanno pensato alla questione in anticipo, quando scoppia questo genere di situazione: non quella di una rivolta inaspettata, ma di un improvviso e brutale inasprimento dei margini di manovra, ad esempio in termini di spostamento come accaduto all’inizio della rivolta in Cile con il coprifuoco, o da una settimana in Italia e poi in Spagna con la messa in quarantena di tutto il paese. E ciò non solo per via della moltiplicazione dei controlli, ma anche a causa della collaborazione dei cittadini che disertano su comando lo spazio pubblico lasciando allo scoperto i refrattari o moltiplicando le denunce, occupati come sono ad annoiarsi dietro la loro finestra di confinamento volontario e desiderosi di far rispettare misure che considerano protettive.
Pensare alla questione quando non è ancora stata posta, significa ad esempio conoscere i passaggi che conducono da casa verso posti più propizi, o avere già identificato quali occhi dello Stato appollaiati in alto siano da bucare per aprirne di nuovi, ma anche come uscire dalla città con agilità (questa volta con le maschere consigliate dal potere!) o quali sentieri di campagna imboccare per poter anticipare nuovi controlli e posti di blocco all’orizzonte. Significa anche, altra difficoltà del grande confinamento, immaginare come e dove procurarsi qualche mezzo per agire in caso di carenza di rifornimenti anticipati (molti negozi non alimentari sono chiusi). Ciò può anche essere una agevole occasione per riconfigurare il problema della comunicazione non mediata dalla tecnologia tra complici più o meno dispersi, la cui circolazione può improvvisamente diventare più complicata, e — perché no? — trovarne di nuovi che, per proprie ragioni, avvertono le stesse esigenze di sfuggire all’invasione di controlli di strada (la grande reclusione volontaria ha questo di particolare, che mette ancora più a nudo l’insieme di individui che non intendono piegarsi). Altrettante questioni da affrontare con urgenza, quindi, e occasioni per ripensare, osservare e cambiare il proprio sguardo su un territorio ieri noto, ma nel quale gli spazi ed i margini possono anche diminuire drasticamente qui ma allargarsi altrove, o venire trasformati dai nuovi imperativi del potere in materia di gestione dei soli flussi epidemici casa-lavoro-supermercato.

Da parte del potere, la maggior parte dei piani di crisi messi in atto nei diversi paesi (in Italia e Spagna, con Germania o Francia ancora bloccate dalle prossime elezioni amministrative) fino ad ora fanno emergere alcune costanti che sarebbe pure un peccato ignorare.

Per esempio, è l’occasione per il capitalismo di spingere verso un’accelerazione di quella che alcuni chiamano da un po’ di tempo la quarta rivoluzione industriale (dopo quella del vapore, dell’elettricità e dell’informatica), ovvero l’interconnessione digitale totale in tutti gli ambiti della vita (dalla fisica alla biologia o l’economia). Pensiamoci: centinaia di milioni di studenti dalle elementari all’università che oscillano improvvisamente in diversi paesi su corsi permanenti a distanza in seguito alla chiusura di tutti i luoghi fisici d’insegnamento; altrettanti lavoratori che da parte loro vengono messi al telelavoro (dal 20 al 30% in media), indipendentemente dal fatto che vi siano abituati; la moltiplicazione su scala di massa di diagnosi tramite schermo interposto in seguito alla saturazione degli studi medici; l’esplosione dei pagamenti con carta di credito per paura di essere contaminati attraverso la manipolazione di monete e banconote. E se a tutto questo aggiungiamo il fatto che le popolazioni confinate si dedicano volentieri a tutto ciò che impedisce loro di pensare o di sognare, buttandosi sugli acquisti on line, sulle serie televisive, sui giochi in streaming o sulla comunicazione virtuale tra umani, diventa chiaro che le antenne delle reti di telefonia mobile, i cavi in fibra e gli altri nodi di connessione ottica (NRO) o più semplicemente le reti energetiche che alimentano tutto ciò, assumono un’importanza ancora decuplicata. Non solo per la produzione o i passatempi, ma semplicemente come principale cordone ombelicale tra i lazzaretti individuali e il mondo vivente, in effetti più che mai derealizzato.
Allora, sapendo che una bella antenna, un trasformatore, un palo elettrico o un cavo in fibra diventano più che mai determinanti nel contempo per trascorrere il tempo dell’auto-reclusione, per il lavoro e l’educazione di massa a distanza, ma anche per la trasmissione delle consegne del potere in camice bianco e per il pedinamento tecnologico del controllo (e non solo in Cina o in Corea del Sud), ciò non apre piste interessanti per spezzare questa nuova normalità da cui trae pieno beneficio il potere? Per non parlare del possibile effetto valanga, visto l’aumento più che conseguente del traffico Internet e telefonico, come della minor disponibilità di tecnici causa malattia…

Il secondo punto che sembra costante nei piani d’emergenza europei, è la priorità data al mantenimento minimo dei trasporti, al fine di condurre i lavoratori non confinati verso le industrie e i servizi definiti critici, di perpetuare il flusso di merci su camion o ferrovia verso questi ultimi, così come il rifornimento delle città le cui riserve sono notoriamente limitate a pochi giorni. Anche qui, si tratta di un’occasione da non trascurare per chi volesse destabilizzare i settori economici che il governo intende preservare ad ogni costo e che diventano più visibili (in Catalogna si parla 
attualmente di creare corridoi speciali di lavoratori sani e di beni verso determinati luoghi di produzione).
 

In tempi d’emergenza e di crisi a questi livelli, in cui tutti i rapporti sociali vengono messi brutalmente a nudo (in termini di spossessamento come di priorità dello Stato e del capitale), in cui la servitù volontaria guidata dalla paura può rapidamente trasformarsi in incubo, in cui il dominio deve a sua volta adattarsi senza tuttavia controllare tutto, saper agire in territorio nemico non è solo una necessità per chi non intende soffocare nella sua piccola gabbia domiciliare, ma è anche un momento importante per lanciare nuove bordate contro i dispositivi avversari. In ogni caso, quando ci si batte per un mondo completamente altro verso una libertà senza misura.
 
 


* A titolo di esempio, numerose industrie cominciano ad essere rallentate a causa dell’interruzione delle catene di approvvigionamento provenienti dalla Cina, 
mentre la Germania ha appena annunciato prestiti alle aziende garantiti dallo Stato per un valore di 550 miliardi di euro, ossia un piano di aiuti ancora più forte 
di quello messo in atto durante la crisi finanziaria del 2008. Molti cominciano a parlare di un periodo di recessione mondiale.
 
 
[Avis de tempêtes, n. 27, 15 marzo 2020, traduzione di Finimondo]

Le fratture del Dominio

Questa epidemia sta mostrando, in Italia, come diversi elementi costituenti il nostro mondo abbiano interessi e priorità divergenti. Capitale, Stato e Sistema Tecnico affrontano lo stesso problema (la stabilità sociale ed il mantenimento del loro potere e la loro influenza sulla vita delle persone) da prospettive diverse e con obiettivi diversi, talvolta in aperto conflitto. In queste riflessioni darò per scontate tutta una serie di premesse riguardo alle differenze tra le componenti del Dominio e su dove queste differenze o distinzioni iniziano e finiscono (Cfr. Diario di bordo da un mare inesplorato, Editrice Cirtide 2020 per maggiori dettagli). La situazione in continua trasformazione chiaramente non permette di fare una fotografia precisa, quanto di andare ad individuare alcune tendenze di massima.

Anche perché crisi non è sinonimo di crollo, quanto di riassetto, trasformazione. E se sappiamo che la più grande capacità del Dominio è quello di rimandare i problemi al futuro, nell’attesa di poterli risolvere o di poterli nuovamente rimandare perché non più al centro dei riflettori (chi in questi giorni sa cosa sta succedendo nei campi profughi greci dopo che Erdogan ha chiesto più soldi all’UE per tenere le frontiere chiuse?), sappiamo anche che guardare oltre fa parte dello spirito che permette di poter contrastare lo stato di cose esistente.

Lo Stato

Ad essere colpita da questa epidemia è la popolazione, ovvero quel concetto che, insieme al territorio, costituisce fondamento e motivazione dell’esistenza stessa dello Stato. Insieme alla difesa dell’integrità dello spazio incluso nei propri confini, lo Stato si pone anche come garante della vita pacifica e pacificata della propria popolazione, volgendosi ad un suo aumento quantitativo che va di pari passo con l’aumento della sua potenza.

Attualmente lo Stato nazionale incontra difficoltà nell’esercizio del suo potere dovendosi confrontare con fenomeni di convergenza e concentrazione del potere a livello globale o continentale.

Il partito politico che in questo momento, in Italia, si sta facendo maggiormente portavoce delle istanze dello Stato è la Lega di Salvini, anche attraverso i suoi diversi presidenti di regione (Zaia, Fontana). Fin dal primo momento l’idea chiave è che attraverso l’epidemia si sarebbe potuto agire sull’equilibrio dei poteri in favore del ruolo dello Stato nazionale (chiusura delle frontiere, controllo dello spazio, misure stringenti sulla vita delle persone, blocco totale della macchina produttiva).

Egli inoltre sa che essendo all’opposizione la responsabilità delle misure non sarà sua e che, puntando al collasso dell’economia globalizzata, la vulgata già è pronta a ripetere il mantra del Made in Italy e dell’economia sovranista-autarchica, soprattutto dopo l’evidenza di come la globalizzazione e le supply chain siano anche profondamente fragili ed esposte a perturbazioni localizzate (In Italia mancano ad esempio alcune filiere produttive per le dotazioni di sicurezza individuale – leggi mascherine ).

Anche per quel che riguarda il decreto economico del governo la posizione dell’opposizione è quella di spingere ossessivamente sulle partite IVA (protagoniste negli ultimi mesi di alcune proteste sotto il parlamento) e per il blocco del pagamento delle tasse, disinteressandosi delle logiche di bilancio a fronte dell’emergenza, come se la questione contingente di pericolo per lo Stato e per la sanità pubbliche, di fronte alle necessità del mondo economico, siano decisamente prioritarie. E non ci venga ripetuto che allo Stato interessa la salute delle persone.

Le rivolte nelle carceri ed il bisogno di incrementare il controllo sociale hanno già spostato alcuni equilibri, come l’affidamento della qualifica di agenti di pubblica sicurezza a tutti i militari e non solo a quelli dell’Operazione Strade Sicure. Nei prossimi giorni potrebbero essere aggravate le restrizioni ed aggiunto il monitoraggio degli spostamenti delle persone attraverso il controllo delle celle telefoniche.

Il Capitale

Il mondo economico produttivo e quello dei mercati internazionali è in grande difficoltà. Conte sta cercando di mediare tra le istanze di una Confindustria che cerca di non far chiudere le industrie del paese e lo Stato profondo che invece sbava all’idea di poter mettere in atto un accentramento dei poteri ed un esperimento di controllo sociale di massa contro un nemico perfetto, invisibile e scientificamente al di sopra di ogni opinione chiudendo tutto.

La diminuzione della domanda di materie prime legate all’arresto della crescita cinese sia per quel che riguarda la domanda interna (-78% del mercato cinese dell’auto) che l’esportazione di merci finite e semilavorati crea ripercussioni sul prezzo del petrolio e le stime di crescita. Prezzo che crolla a causa del mancato accordo tra OPEC e Russia.

Le misure americane di bloccare i voli Schengen-USA, quindi una misura di ricostituzione di confine, ha ripercussioni sui mercati e la fiducia nell’andamento futuro dell’economia. Una BCE che si pone in maniera distante rispetto alle sfide e le scelte degli Stati di chiudere i paesi e fermare la produzione, intervenendo forzatamente sul piano degli ammortizzatori sociali e della creazione di debito, contribuisce alla complessiva crisi di fiducia.

Lo spazio Schengen chiude, e l’idea stessa di Comunità economica europea vacilla. La forma economica di una produzione just in time mostra i suoi limiti nel momento in cui vengono meno le strutture logistiche e la richieste di determinate merci diventa statisticamente imprevedibile. La scomparsa del magazzino e dello stoccaggio rischia di accelerare i tempi della crisi distributiva, svuotando gli scaffali dei supermercati.

Inoltre quando qualcuno paventa ricapillarizzazione della produzione e la ri-nazionalizzazione del lavoro non fa i conti con quello che ha fatto andare via la produzione: margini di profitto evidentemente troppo bassi tra costo del lavoro “eccessivo”, tasse ed infrastrutture “carenti” (vedi TAV o TAP da costruire a tutti i costi). Già ora si stanno moltiplicando le ferie forzate (prodromo di licenziamenti?) o il licenziamento in tronco con tanti saluti per chi era in nero… cosa accadrà in futuro? Una spinta verso l’automazione pe risparmiare sulla forza lavoro?

Il Sistema Tecnico

Ad uscire rafforzato e sempre più centrale per la vita delle persone è il Sistema Tecnico tanto nella sua componente ideologica (il pensiero scientifico) che nella sua componente materiale (l’infrastruttura tecnologico-digitale).

A fronte di una bassissima conoscenza di quello che è effettivamente questo virus e sui modi per affrontarlo, l’attributo di verità è affidato al pensiero scientifico atto a sostenere e giustificare le pratiche e le scelte di governo a livello globale. Esso inoltre diventa anche la fonte di una speranza di soluzione attraverso l’ideazione della soluzione ex machina del vaccino o della cura.

Ogni forma di relazione, comunicazione e trasmissione di informazione è affidato al sistema mediatico virtuale dei social network ed alla rete di videosorveglianza. La massiccia raccolta di informazioni ed il tracciamento degli spostamenti e delle relazioni è stata utilizzata anche in alcuni paesi, come la Corea del Sud, per impostare ed applicare il processo di sorveglianza ed isolamento delle persone.

Durante questo periodo di quarantena forzata si stanno spostando nel mondo telematico alcuni ambiti fondamentali della vita, come il lavoro (smart working) e la scuola (scuola digitale). Questo ha portato ad un aumento compreso tra il 30 ed il 50% del traffico sulle reti.

Tuttavia sta facendo anche emergere nel dibattito pubblico l’importanza del cablaggio delle cosiddette zone bianche per l’arrivo della banda larga e, per le scuole, l’intervento di fondazioni private o aziende come Google nel fornire strumenti di didattica e/o spazio sui server per informazioni e materiali educativi.

Appare evidente come la migrazione delle relazioni sociali sul web, sugli smartphone e sui social cambia completamente il modo in cui comunicano le persone all’interno della società, tanto aumentando indescrivibilmente il potere degli svariati GAFA quanto spingendo alla digitalizzazione anche delle pratiche di governo: (voto digitale, chiusura del parlamento. burocrazia telematica).

Le fratture del Dominio

Tutto va estremamente bene!

La parola d’ordine di questi giorni è: “regole”.

Ad ogni cittadino modello è chiesto un grande sacrificio: ubbidire incondizionatamente ad una legge.

Ma questa legge, o meglio questo insieme di decreti che si susseguono vorticosamente, in modo contraddittorio e confusionario, ha come teatro una società che ha perso in pochi giorni le “sue certezze”.

Un nuovo virus è apparso come figlio del capitalismo, della pressione umana sulla natura, come prodotto dello sfruttamento.

Di fronte a tale virus sconosciuto la salvezza risiede nell’ubbidire alle leggi, non tanto per sviluppare l’immunità ma per indirizzare il gregge; poi, se queste leggi impongono o permettono comportamenti insensati, va bene lo stesso. In simili frangenti, cosa è più utile: riempire la testa di leggi; bombardare con la propaganda del #iorestoacasa; cantare inni dai balconi; militarizzare strade e quartieri, oppure far si che la gente comprenda quella che è la situazione reale?

Se la legge permette di fare una sciocchezza enorme, chi è abituato a ubbidire e basta, non farà altro che aderire alle nefandezze della legge.

Per questo motivo il bene più grande da coltivare in noi è la ragione, non l’ubbidienza, né il cosiddetto “bene comune”.

Ci sono tanti modi per legare l’individuo all’ubbidienza, alcuni molto evidenti, altri meno.

Quelli più subdoli e meno riconoscibili si fondano sulla volontà collettiva e sul senso di comunità.

Il più delle volte tali collettività e comunità altro non sono che il prodotto funzionale, lo strumento di rigenerazione delle gerarchie e delle catene di comando: il terreno fertile, insomma, in cui attecchiscono più facilmente le radici della sorveglianza.

Ebbene, la prospettiva di avere idee condivise e sottoscritte, attraverso una limitazione quasi totale delle responsabilità individuali, è diventata nel tempo la prassi istituzionale più chiara e semplice per l’imposizione di ogni gerarchia, di ogni dominio, di ogni sfruttamento.

Ma quali “certezze” sarebbero dunque intaccate dal DPCM del governo?

E a quale “normalità” si agogna di ritornare al più presto?

La legge, oggi, dice che in tanti devono recarsi al lavoro; governo e padroni stringono accordi con le parti sociali e si ignorano gli operai che hanno organizzato scioperi spontanei.

Lo dice la legge: pattugliati in casa e, nello stesso tempo, a lavorare in fabbrica. Bisogna stare in casa, ma bisogna essere presenti sul posto di lavoro e in fabbrica.

Una dimensione che ricalca perfettamente lo slogan “distanti, ma vicini”, ovvero: da soli nei rapporti di forza contro gli strumenti dello sfruttamento; comunità nell’agire in modo responsabile alle ordinanze. Non è questo uno degli obiettivi più agognati dal modello economico vigente, sia esso incarnato dallo stato, sia esso incarnato da creativi imprenditori?

Intanto, in tutta questa situazione si è spinti alla delazione, si denunciano i vicini di casa usciti fuori , magari a buttare la spazzatura, si denuncia chiunque. Giornali e affini, come sempre, ma forse oggi con più foga, sono alla ricerca della notizia sensazionale e quindi pronti a fungere da sbirri e a denunciare. Politici e aspiranti tali, vogliono trarre profitto e visibilità con opere di sciacallaggio vero e proprio. Alcuni ministri cercano di conquistare il palcoscenico comunicando in diretta le scelte del governo relative al loro settore, altri politicanti dicono tutto e il contrario di tutto pur di stare sulla cresta dell’onda parlando dagli schermi di TV locali, nazionali, internazionali. C’è chi invoca elezioni e chi dice in diretta di essere ammalato. Come al solito, padroni e politicanti, danno spettacolo delle loro vite, mentre c’è chi porta i suoi familiari in ospedale, consapevole della possibilità di non poterli vedere mai più e c’è chi muore da solo, scortato a vista nel suo ultimo viaggio, dai militari.

Approfittando delle suggestioni create, numerose aziende promuovono sul mercato le loro app, i loro droni e la loro tecnologia per aiutare governo e sbirri e controllare gli spostamenti delle persone. Pronte insomma ad assicurasi una via privilegiata nella costruzione delle nuove infrastrutture della rete digitale. Nulla di nuovo per un modello economico che da tempo sta cercando di imporre i suoi nuovi standard ed i suoi nuovi obiettivi. Il rinnovamento del capitalismo ha bisogno di mettere in quarantena le sue vecchie forme di produzione industriale e di sfruttamento delle energie. Il nuovo assemblaggio strutturale sostenibile e condiviso è già in atto. Fatto proprio e propagandato dalla associazioni più disparate in flashmob e manifestazioni “pacificate”. Resta solo da rendere i sudditi consapevoli e disposti ad accettarne i parametri comportamentali senza intoppi eccessivi.

Ad ogni modo, riteniamo importante soffermare la nostra analisi su un ramo strutturale del capitalismo: l’apparato tecnoscientifico.

“Governare significa sfruttare”, ma l’esigenza odierna del capitalismo di governare e reprimere in modo produttivo ed illimitato, presuppone la costruzione di un sistema scientifico capace di aggiornare e modificare continuamente la scelte da imporre. Inoltre, tali scelte devono essere applicate velocemente, per far questo c’è bisogno di comunità e territori capaci di introitare al meglio le esigenze dell’economia.

Una lettura superficiale di ciò che accade intorno a noi in questi giorni, potrebbe facilmente indurci a pescare in un universo letterario e filosofico, già più volte evocato e scarsamente ritornato utile ai fini di un’analisi tesa al contrattacco.

A cosa è funzionale il continuo accompagnamento della sorveglianza nelle nostre vite?

Può una telecamera o un drone, impedire una qualsivoglia azione volontaria? Assolutamente no! Può solo, in alcuni casi, dissuaderla o allontanarla altrove. Eppure l’arma della sorveglianza è nello stesso tempo spuntata e a doppio taglio.

I continui cambiamenti di contesto economico e decisionale devono prevedere o influenzare i comportamenti degli individui. Tuttavia, il livello di controllo totale non agisce sull’interiorità, ma sulla cosiddetta collettività. L’obiettivo del nemico è, dunque, modulare l’ambiente affinché risponda in un determinato modo: un ambiente che funzioni come sensore, come sonda, come polizia.

Quando l’ambiente diviene un sensore non esiste più un limite a ciò che può essere elaborato, raccolto, classificato. Nel modello disciplinare di controllo industriale, la sorveglianza si concentrava sul luogo di lavoro e sulle prigioni. Nell’era digitale l’interattività di rete annulla le differenze tra i processi di monitoraggio: la raccolta dei dati arriva a permeare una crescente gamma di spazi e attività. E alla fine il punto d’arrivo di una decisione guidata è l’automazione del giudizio. L’individuo limita la quantità di informazioni che può essere assorbita o elaborata, invece le macchine promuovono scenari di “neutralità” e “oggettività” che permettono di poter trascendere le parzialità di giudizio. Lo scopo dell’automazione è, infatti, quello di sviluppare sistemi che sostituiscano le decisioni individuali e gli istinti vitali.

Il fine non è quello di reprimere semplicemente, attraverso le forze dell’ordine, i comportamenti antisociali. Oggi si sta trasferendo all’interno delle masse l’occhio del controllo, verso se stessi e verso gli altri. Quante volte, infatti, prima ancora della diffusione del mortifero virus, isterici cittadini modello hanno prodotto filmati per denunciare le condotte ritenute moleste?

Per i Decreti Legge non è importante sapere perché non vi sono abbastanza strutture o respiratori per gli ammalati, questi ultimi che stanno vivendo sulla loro pelle, le difficoltà di questi giorni, da nord a sud, lo sanno bene. Invece è utile disciplinare al meglio le persone davanti ad un evidente “errore” del sistema operativo. Con sempre maggiore frequenza amministratori, cittadini invocano la presenza dell’esercito ma come mai, invece di fare appello a misure concrete in favore della sanità si chiede l’esercito? É presto detto: la cosa importante è che non si formino assembramenti, che non ci sia gente capace di protestare una volta che ci si sarà resi conto che in realtà, ci vorrebbero chiudere in casa ad attendere il morbo, senza cure, mentre si canta dai balconi. Cosa accadrebbe se tutti testassero con mano la mancanza di cure adeguate, che succederebbe se arrivati in pronto soccorso venti , trenta persone si vedessero, tutte insieme, rifiutate le cure perché, semplicemente, non ci sono i soldi? Cosa succederebbe se alle continue rassicurazioni seguisse la triste realtà di non potersi garantire un sostentamento quotidiano adeguato?

E’ prassi, davanti ad ogni passo in avanti della sorveglianza nelle nostre vite, alimentare un panorama visionario orwelliano per criticarne gli effetti; è consuetudine davanti all’aumento della stretta della catena dello sfruttamento, dimenticarne i responsabili: il capitale, lo stato, le istituzioni e i suoi rappresentati. E’ importante, dunque, non sminuire la concretezza dei fatti e non edulcorare la realtà.

Più i governi ricercano infallibilità e completezza delle informazioni che acquisiscono, delegando ai sistemi tecno-scientifici la ricerca di un numero di dati sempre maggiore, più incorrono in errori di valutazione, poiché il concetto stesso di “completezza dei dati” è limitante, superficiale.

Il pericolo posto dalla sorveglianza automatizzata, non è che sarà assoluta, ma che le persone possano agire come se lo fosse.

Tuttavia è importante tenere presente che la fallace neutralità delle macchine condiziona quotidianamente decisioni governative, valutazioni economiche e quant’altro. Eppure, l’ampio mercato che l’apparato industriale della sicurezza muove, è evidente. Esistono, dunque, in merito alla governance della sicurezza, un ambito economico strategico ed uno strettamente sociale che si auto alimentano e spartiscono equamente gli utili ritagliandosi ruoli determinanti nella gestione e nell’erogazione dei servizi. La sperimentazione diffusa che il capitale usa come modo per rigenerarsi ha continuamente bisogno di figure che restituiscano senso ai tentativi di riavvio della macchina ma ha anche bisogno di un ambiente addomesticato che compie scelte “sane”, “virtuose”, “comuni”, prevedibili.

Per cui, se viene chiesto di lavorare senza retribuzione è un dovere del lavoratore nei confronti dell’economia statale; se viene chiesto di lavorare in ambienti o in condizioni insalubri è un dovere nei confronti della nazione o della comunità di cui si fa parte. Anche da questo punto di vista, però, ciò che il DPCM del governo impone non è nulla di nuovo o di salvifico. Ma è la conferma dell’assassinio quotidiano che viene, da sempre, somministrato dai padroni ai lavoratori.

Probabilmente questo nuovo senso del dovere riesce a far dimenticare che ogni giorno ci confrontiamo con la morte: recandoci al lavoro; respirando aria infetta; assassinati da zelanti tutori dell’ordine.

Tutto ciò ha dei responsabili! Li conosciamo bene! E non dobbiamo dimenticare come si fa a riconoscerli: quando ci dicono che bisogna stare uniti per il bene della nazione e fare sacrifici; quando ci dicono che l’imprenditoria è l’unica salvezza dalla povertà; che la democrazia è il male minore; che un prigioniero morto in galera, si è suicidato o è morto di overdose.

Non dimentichiamo chi sono anche quando chiedono uno sforzo a tutti per arginare un’emergenza come quella in corso.

Sono gli stessi infami, gli stessi assassini di sempre.

Non dobbiamo disconoscere responsabilità specifiche attraverso la condivisione della colpa; un’arma che da mesi i governi europei e i loro servi sinistrati, stanno cercando di istillare nelle coscienze, attraverso proteste addomesticate.

Politici, padroni, sbirri, magistrati sono il virus quotidiano della nostra vita.

Il vecchio detto: “Se non hai nulla da nascondere. Non hai nulla da temere dalla sorveglianza”, rievoca implicitamente i consueti privilegi di classe.

Chi non ha nulla da temere dal sistema economico che condiziona le nostre vite è il padrone, colui che ha introitato i modi di vivere funzionali al capitalismo e li riproduce.

Non abbiamo bisogno di contare un numero maggiore di passi in un recinto per sentirci liberi.

Siamo liberi poiché non riconosciamo il diritto e la legge, sia che provengano da un’assemblea di delegati, sia che provengano da un’elaborazione di un algoritmo.

La paura con cui cercano di infettare le coscienze deve rivoltarglisi contro e chi fa sciacallaggio politico di questa situazione, cercando di promuoversi a benefattore o controllore, è complice!

Nessun ordine, nessun comunicato consolatorio e distensivo di ciò che produce il sistema economico, va salvaguardato o amplificato.

Siamo animati da una fortissima vicinanza a tutti coloro i quali stanno vivendo momenti bui, in questi giorni ed è proprio per questo che non aspettiamo silenti e indifesi, alcun ritorno alla normalità, quella stessa normalità che già combattevamo e che, sostanzialmente, non ha nulla di diverso da quella odierna.

In guerra contro il capitale ieri ed oggi!

Anarchici a Cosenza

Trieste – Ai morti di Modena e ai suoi rivoltosi – uno scritto dal carcere

Ai morti di Modena e ai suoi rivoltosi

È passata poco più di una settimana dalla rivolta nel carcere di Modena e i media si son già dimenticati del massacro avvenuto in quel carcere e negli altri dove la rivolta è divampata pochi giorni fa. Nove morti solo a Modena.

Chi scrive, alcuni di loro li ha conosciuti perché se li è trovati nella cella a fianco fino ad un mese fa e in questi giorni, ci ha perso il sonno nel pensarli.

Uomini con i quali si cercava di discutere su cosa si potesse fare per migliorare la situazione che si stava creando nel periodo precedente.

Per molti cominciava a pesare quel clima creato dalla nuova direttrice Maria Martone la quale, per ordine del DAP, stava risistemando i detenuti in modo restrittivo. “C’è bisogno di posto” si diceva in febbraio “dovete venirci incontro”, il tutto condito da minacce neanche troppo velate di possibili trasferimenti o altro nel caso in cui i detenuti non collaborassero passivamente alle necessità della nuova direzione. Questo clima si intrecciava ai classici problemi di ogni luogo di restrizione: le negligenze e le angherie degli uomini in divisa, della burocrazia del sistema carcere, del cibo pessimo, della mancanza di una copertura sanitaria seria che non fosse la famosa terapia nonché la totale solitudine e disperazione di persone abbandonate e senza nessun aiuto da fuori. La paura del virus, può essere stata una miccia in un calderone pieno di rabbia e disperazione, ha dato voce ai corpi e alle gole degli oppressi, che per colpa di questa società si trovano rinchiusi dentro le galere. Troppe cose, troppe, sono state dette sulla rivolta del carcere di Modena sputando addosso ai morti e ai prigionieri tutti di quel carcere. Quasi nessuno si interroga seriamente e in profondità sul perché tutto questo sia accaduto,. Non c’è bisogno di nessuna regia occulta per capire che è causa del mondo stesso del carcere con tutti i problemi delle persone recluse. Nel momento della rabbia, la diffidenza e lo scetticismo cadono e una massa di individui si unisce, ognuno con il suo dolore, con la sua voglia di riscatto e trovano la forza di far sentire con decisione e coraggio anni di repressione di Stato pagata sulla propria pelle. Chi non ha mai dormito dentro una cella, dalla parte del blindo del prigioniero, non può capire cosa voglia dire stare dentro al carcere. Tutti quelli che si son riempiti la bocca come avvoltoi con questi fatti non meritano ascolto perché non sanno di cosa parlano, tanto i morti sono tutti “tunisini tossici”, monnezza dice qualcuno. C’è chi parla di aprire forni, di bruciarli vivi. Chi scrive ha visto si persone che usavano le maledette terapie, non tutti riescono a vivere il carcere in modo lucido, ma dire che è stata assaltata l’infermeria e che c’è stato un abuso di farmaci a noi questo non ci interessa. Il nostro giudizio a riguardo è come la bussola che indica il Nord anche quando la scuoti, il nostro indice indica sempre la stessa direzione, la colpa di quelle morti è dello Stato: dall’ultima guardia carceraria alla volontaria che giustifica l’operato della direzione e chiede quiete e sicurezza, dalle stellette del comandante, al Ministro Bonafede, a chi come Salvini diceva “ve l’avevo detto”. Anchenoi diciamo “ve l’avevamo detto”, ma in un verso completamente contrario al suo. Noi lottiamo per la libertà di tutti e tutte, lontani un abisso da lui che vuole un carcere militarizzato. Si lamenta che le guardie avevano pochi mezzi, ma se è stato sparato del piombo e si vede benissimo una delle guardie del magazzino con il mitra in mano che mira ad altezza uomo?! Quali mezzi mancano? I blindati? I mitra? I manganelli? Gli idranti? Gli elicotteri? Le richieste dei detenuti non solo vengono sminuite, ma vengono cancellate le rivendicazioni prettamente politiche delle loro richieste, quello che è successo non è solo disperazione. Anzi, il rimbalzo tra carceri delle proteste fa capire che proprio chi ha limitata la libertà è l’unico che ad oggi sia riuscito a dare una risposta collettiva alle restrizioni imposte dallo Stato per l’emergenza coronavirus. Da qui non si tornerà indietro si dice spesso in questi giorni, è vero anche per il carcere. Queste rivolte faranno si che da Roma verranno presi provvedimenti sempre più restrittivi perché è l’unica lingua che una struttura come il DAP comprende, le rivolte prossime future verranno represse e intanto le notizie si susseguono di continui pestaggi di massa dei detenuti indipendentemente se uno ha partecipato o no alle rivolte.

L’unica comunicazione da parte del Ministero sono le botte in modo tale che tutti e tutte si ricordino di non osare più ribellarsi perché lo spavento provato una volta tanto dagli aguzzini è stato tanto e lo Stato italiano ha fatto una brutta figura a livello internazionale. Intanto i detenuti sono sballati in ogni dove, si sa che da Modena i rivoltosi sono partiti mezzi nudi e gonfi di colpi e le famiglie ancora attendono preoccupate un contatto diretto con i propri cari.

Il rapporto di forza per pochi giorni si è capovolto, i detenuti hanno trovato la forza di unirsi, non tutti, va bene ma questo poco importa, per far uscire la loro voce come da tanti anni non si vedeva in questo paese, i media hanno già messo nel cantuccio le notizie che in realtà si susseguono tramite i familiari delle persone recluse. Non è finita qui, si capisce bene, c’è chi invoca più carceri razionali che non si sa cosa voglia dire, chi chiede l’esercito fuori dalle galere, chi chiede di blindare i prigionieri nelle celle, e tutto questo non fermerà né il dolore né la rabbia di uomini e donne recluse perché è la stessa struttura che alimenta lo scoppio, spesso imprevisto, di rivolte come queste. Troppe cose sono state sopportate in questi anni e le ulteriori restrizioni hanno tolto opacità al malessere diffuso in ogni galera e noi sappiamo che, anche chi non ha partecipato alle rivolte in

cuor suo ha sorriso, perché non c’è gioia più bella per un galeotto che quella di sapere che un carcere è stato chiuso tramite una rivolta e che qualcuno sia fuggito, perché sa bene cosa voglia dire stare in una maledetta cella. E gli sfruttati che oggi subiscono passivamente questo periodo di assenza totale di libertà, di totale asservimento allo Stato e ai tecnici, in futuro si ricorderanno chi all’inizio aveva lottato. Gli sfruttati tutti pagheranno quello che lo Stato sta cercando di placare con vari decreti, manovre economici e non solo. Siamo solo all’inizio di una nuova e lunga lotta da fare e da prendere di petto.

A noi fuori spetta dar voce e solidarietà a queste lotte facendo comprendere agli sfruttati che il loro senso non è per nulla irrazionale. E c’è una parola che di solito viene usata con parsimonia ma che alla luce dei fatti successi richiede di essere innalzata sul pennone delle future lotte contro il carcere, la parola è vendetta. Il silenzio su quegli uomini assassinati dal sistema carcere è diventato assordante. Meritano di essere ricordati oggi e in futuro per far si che tutto quello che sta accadendo abbia un significato profondo.

16.03.2020

Trieste

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