Le viscere, il contagio, la ricerca di un altrove

riceviamo e pubblichiamo:

LE VISCERE, IL CONTAGIO, LA RICERCA DI UN ALTROVE.
Sull’urgenza di un discorso contro la paranoia collettiva e al semi-coprifuoco militare.

Inciso necessario :queste parole sono state scritte in più giorni. Vista la velocità disumana del mondo iperconnesso attuale (anche prima dell’emergenza pandemia) alcuni contenuti potrebbero risultare « superati » nell’analisi degli accadimenti. Spero che non siano comunque una noiosa zavorra ma possano dare, nel suo insieme, più corposità al testo .

Scrivo queste righe con la consapevolezza che le mie idee, i miei soli pensieri non mi bastano per abbracciare la complessità di un momento come quello che si sta avverando nella parte di Terra dominata dallo Stato italiano.
Soprattutto perché riguardo a quello che sta succedendo vorrei che per un attimo tacessero numeri, statistiche e proclami del potere (o i loro riflessi) e parlassero le vite, le esperienze , le sensazioni degli individui affini.
Scrivo alla ricerca di un confronto e di idee che passeggino sul filo del rasoio della critica, che sappiano tracciare nell’eccezionalità la propria alienità e contrarietà al mondo dell’autorità.
Questo testo vuole essere un invito ax compagnx anarchicx ad esprimersi (desolante, me ne rendo conto, che suddetto invito avvenga via web!) perché credo che una situazione simile, alla quale non siamo preparatx (nessunx é preparatx fortunatamente all’imprevisto) possiamo imparare tanto su noi stessx e possiamo dare tanto a livello di pratica a noi stessx e ax altrx.

I.
Se degli aggiustamenti repressive “emergenziali” che abbiamo visto concretizzarsi in questi anni é stato da subito evidenziato il ruolo eminentemente oppressivo e smascherata la strategia del potere, col Corona virus sembra che non sia immediata e scontata la reazione da parte di chi ha una visione critica e contraria della norma riguardo all’esistente.
Da un lato é molto prezioso che non vi sia nulla di scontato, dall’altro la preoccupazione mi sorge nel momento in cui il silenzio assomiglia al tacito assenso. Come a dire che tutto sommato, in un caso estremo come questo, un po’ di Stato, non dico sia benvenuto, ma sia il proverbiale “male necessario”.
Se effettivamente la critica dentro noi stessx si é appiattita a tal punto da arrivare a pensare che « cos’altro vuoi fare in un momento del genere ?! » credo che sia perché la paura, la mancanza di strumenti, il rifiuto di accettare inevitabili mancanze, ci ottenebra gli occhi e le viscere.
Se per l’emergenza stadi, terremoti, bombe d’acqua e inondazioni e altre varie strategie di controllo politico-militari messe in campo da tutti i governi in questi venti anni (giusto per circoscrivere ma si potrebbe andare più indietro) é stata subito prodotta e difusa dax antiautoritarx una contro-narrazione (e in alcuni casi una contro-prassi), col Corona a me sembra che si fatichi a fuoriuscire dalle sabbie mobili della paranoia e del sensazionalismo del bombardamento televisivo e social.
Io credo che questa differenza sia dovuta al fatto che col “virus” anche noi stessx siamo chiamatx a fare i conti con paure e dubbi ben più profonde ed interiorizzati delle evidenti macchinazioni repressive, alle volte anche molto goffamente mascherate, che si hanno avute nei casi sopracitati. Essere lucidx nel constatare che dei militari a presidiare delle tende dove stanno sfollate persone che hanno visto la propria casa distrutta dopo un terremoto, o chiarificare/si che una tessera identificativa per partecipare a una partita di calcio sono evidenti strumenti di dominio, è molto più facile, forse, che intravedere dietro al camice bianco che misura la febbre a unx anzianx la strategia di assoggettazione totale che il sistema sta praticando oggigiorno (beh , non che poi stiano mancando i militari nemmeno questa volta!!).
Perché non é importante la gravità del virus o del problema contingente, ma la disponibilità alla “servitù volontaria” che il potere é riuscito a ottenere tra x suox sudditx (alcunx tramutatx in verx e proprx seguaci). Una volta introiettati e normalizzati completamente questi meccanismi (ordine-obbedienza cieca) non vi sarà più nemmeno bisogno di un pretesto (sia esso un virus o la Jhiad), sarà la sublimazione totale della stessa ragion di Stato a legittimare il controllo generalizzato. E, a ben vedere, nei “normali controlli di polizia” questo già avviene: si viene controllatx solo perché si puo’ venire controllatx, non perché rappresentiamo un sospetto, una minaccia, un pericolo.
Il punto che cerco di delineare come centrale é il riuscire a mantenere il lumino della critica (per me, per la mia analisi del mondo diro’ della critica anarchica, delineandone cosi’ i paramentri e le coordinate di massima) acceso e pulsante. Ma é difficile anche per “noi” (perdonate la categorizzazione) quando si parla di una paura invisibile, che proviene da un ignoto che non abbiamo le capacità di sondare, perché i tecnicismi della scienza medica sono appannaggio dex specialisti. E noi, ora, non abbiamo che il linguaggio della scienza per sondare questo ignoto. Perché esprorpiatx, nei secoli, da ogni capacità e conoscenza altra.
E vagare in un terreno sconosciuto, senza riferimenti né strade possibilmente sicure da praticare, fa venire i brividi anche a chi ha fatto della distruzione del « vecchio mondo » la propria ragion d’essere.

II.
L’emergere della paura rappresenta una dimensione stratificata di vibrazioni, di sensazioni anche inconsce, di sospetti, di insicurezze riguardo a se stessx: a cosa crediamo o no, cosa vogliamo o crediamo di volere o meno.
Inoltre la paura é raramente un’esperienza individuale, alla quale si possa meter mano estraneandosi al contesto o dalle reazioni altrui, al di fuori di sé.
Le nostre paure, io credo, fanno tutte più o meno riferimento all’universo sociale (o comunitario, esempio la famiglia) dove siamo cresciutx e ci siamo formatx come individui. Non posso fare finta di dimenticare che sono/siamo prole della società di massa e che, comunque, le reazione delle masse hanno, volente o nolente, un riflesso sulla mia emotività, sui miei umori, finanche sulle mie azioni.
Dico questo perché immagino che anche x più fervente dex individualistx dopo un mese di protocolli e proclami e conseguente adeguamento quasi totale della popolazione nazionale, un minimo di permeabilità all’agire collettivo credo lo maturi.
O quanto meno una sensazione di accerchiamento asfissiante, che in ogni caso con contribuisce positivamente alla propria vita e alla propria capacità decisionale.
Affrontare le mie paure é un esercizio che posso fare solo con me stessx e con chi vive il mio mondo, interiore come esterno, in maniera astratta o estremamente reale, come in questo caso dove unx puo’ sentire per sé la «paura di contagiarsi».

III.
Elaborare una teoria critica e conflittuale in questo momento storico in Italia (soprattutto in Italia dove si stanno registrando, per quanto riguarda l’Europa, le misure statali più repressive) non ha percio’ solo a che vedere con lo smascherare la volontà di dominio totale ammantata di contenzione sanitaria, ma é ancora prima, un tentativo e una messa in discussione delle nostre concezioni di salute, di malattia, di contagio. E purtroppo anche, parola che sarebbe bello stracciare dal vocabolario di un individuo che scalpita per la liberazione totale, della sicurezza.
E più in là della nostra atavica paura immanente e senza scopo : la paura di morire, che credo dovrebbe farci riflettere a partire dalla concezione di cosa sia vivere e cosa significhi smettere di farlo.
Perché se non voglio partecipare al carosello dei dati per decidere se questo virus mi spaventa o no, se non voglio demandare alla statistica la mia possibilità o meno di essere contagiatx (dalla paura del contagio, prima che dal virus a forma di copricapo regale), allora dovro’ cercare altrove le ragioni del mio sentirmi tranquillx o meno.
Ragionare della mia possibilità di essere serenx a passeggiare per una città (per inciso: le città erano, ben prima del Corona, e saranno dopo, dei corollari di nocività anche mortali) senza una mascherina in faccia (che ora é la nuova divisa spettacolare dex affiliatx alla terapia collettiva) ha a che fare con la mia analisi riguardo ai concetti della mia salute, del benessere e, per ultimo, alla mia piena consapevolezza che comunque vada, non posso (e io nemmeno voglio) controllare tutto.
Personalmente credo che il Virus corona possa dare ax nemicx di questo mondo un’occasione per riflettere a fondo sulle vite che siamo giuntx a considerare « normali ».
Perché un’insidia che io vedo, che concretizzatasi sarebbe una vera e propria catastrofe per me, é quella di arrivare a « rimpiangere » il « prima » : idealizzare il periodo « pre-corona » come tutto sommato un mondo in cui potevamo fare le nostre vite tranquillx, parzialmente liberx .
Arrivare a dimenticarsi che comunque viviamo in labirinti di tossicità e contaminazione che chiamano società capitalista e che mangiamo plastica surrogata, respiriamo cancro , martirizziamo i corpi con dettami patriarcali e farmaci a rotta di collo…etc etc etc
A fronte di tutto cio’ che di pessimo siamo riuscix comunque a sopportare ; mi chiedo invece per contro, cosa facciamo per noi stessx per stare bene, per prevenire i mali del corpo e della mente (malefica dicotomia positivista) e, cosa ancora più importante, come ci rapportiamo al dolore e alla possibilità della morte?
Dico questo perché io credo che nella paura che si puo’ annidare anche nex nemicx dello Stato e dell’autorità, seguendone poi fedelmente i codici paradigmatici e comportamentali, vi sia tanto di “automatismo”.
Perche’ tutto cio’ che non indaghiamo personalmente lascia un vuoto di teoria e di prassi dentro noi stessx che, all’occorrenza, colmiamo con gli strumenti che il fuori da noi ci concede/impone. In questo caso penso che l’esempio della salute e della medicina in generale sia emblematico: non avendo (o avendo molto poco) sviluppato un paradigma Altro di quelle che possiamo chiamare salute, prevenzione, cura del corpo, medicina (etc.) indipendente e contrario dalla narrazione dominante, e conseguentemente non avendo una « medicina antiautoritaria » nella prassi, siamo forzatamente portatx ad accodarcx alla voce del padrone quando si ponga il problema di fronte ai nostri occhi.
La scienza, per quanto ferocemente osteggiata e combattuta nelle sue manifestazioni tecnologiche da tantx anarchicx, gode ancora di un grado altissimo di dipendenza (esempio lampante i farmaci) perché abbiamo perduto e mai recuperato le conoscenze/capacità di curarci e di prenderci cura di noi senza di essi.
Il linguaggio dei nemicix del potere in questo caso é emblematico: non esiste nel vocabolario antiautoritario terminologia che parli della cura, del disagio (psico-fisico), della sofferenza che non sia quello medico-chirurgico-psicanalitico-psichiatrico.
E’ infatti intrinsecamente difficile scrivere di tutto questo, perché ad ogni passo ricalco il linguaggio del potere e quindi ne perpetuo i concetti.

IV.
Questo virus (ce ne sono stati molti altri che in passato hanno attraversato tutti gli schermi del mondo e anche alcuni corpi, umani e non) nella sua manifestazione sociale eterodiretta dal sistema di dominio mi spinge a fare i conti con una diversa forma di terrore, che affligge anche chi da terroristx di qualsiasi « matrice » non ha mai temuto nulla: quello dell’epidemia perche’ realmente crediamo essere di fronte ad una pandemia catastrofica, e quello conseguente che mi fa domandare “e se capita a me o a una persona che amo?”
Ci tengo a precisare che per me la seconda domanda é direttamente collegata alla prima, perché se non prestero’ orecchio alle sirene dell’apocalisse farmacologiche probabilmente trattero’ questo virus come altre influenze invernali che per lo piu’ ammazzano vecchix e individui già malati.
E, ad ogni inverno, credo che molte poche persone si interroghino se vedranno o meno vivx unx proprio amore la settimana seguente a causa dell’influenza.
Ma mettiamo che in totale lucidità voglia fare un esercizio di astrazione: io vengo contagiatx.
Lxi, mix amore, viene contagiatx…che faccio ?!
Non stilero’ una lunghissima lista di domande e ipotesi che ognunx di noi potrebbe farsi a questo punto, quanto più voglio sottolineare l’urgenza di porsi queste domande e di confrontare le risposte con quelle fornite dal sistema.
Perché se do’ per assunto, e io lo assumo come certo, che la gestione di un virus (sia virtuale-biologico come questo o sociale come la rivolta in Cile di ottobre per esempio) é un fatto di Stato, allora io, da nemicx dello stato e della società, vorrei essere ben sicurx di non coincidere nella teoria-prassi col mio nemico.
Se considero le quarantene forzate, i controlli militari ovunque, la chiusura di attività produttive e il divieto di circolazione all’interno del paese, il divieto assoluto di iniziative sociali, il divieto formale di darsi la mano o abbracciarsi (etc etc etc), se tutto questo lo considero come il frutto fascista della più tetra delle distopie applicate fin’ora, non potro’ che orientarmi per l’esatto opposto.
Invece quello che credo stia accadendo in qualcunx (non voglio puntare il dito ! cerco di capire, di sollevare dubbi) é che lo Stato, ora che abbiamo almeno in parte un nemico in comune (il virus) é, si’ pesante e ingombrante e molesto, ma tutto sommato sopportabile perché, in qualche modo (forse non come io farei) sta agendo anche per me. Per proteggere anche me.
Purtroppo la funzione principe dello Stato, emblema della sua natura patriarcale (protezione) in questo caso esprime il suo pieno potenziale e travolge anche le coscienze impreparate dex suox nemicx più irrecuperabili.
Perché un po’ di paura la proviamo anche noi, sottoposti al bombardamento mediatico come ogni alrx ed esterrefattx dallo sconvolgimento del reale come forse davvero pochx altrx.
Si é solitx dire che si ha paura di cio’ che non si conosce, se questo é vero é più che normale che siamo spaventatx dal Corona, perché non abbiamo nessuno strumento per dirci in salvo da esso, ne di contrastarlo che non siano i dettami e i protocolli dell’autorità medica.
Questo, unito al fatto che la vacuità delle nostre esistenze si scontra sempre con la possibilità, imprevedibile, della morte, fa si’ secondo me che non possiamo dotarci di un’analisi su questo momento storico senza partire da noi stessx, dalle nostre paure, dai nostri strumenti individuali e collettivi di rapportarci alla sofferenza, alla malattia.
Prima di tutto io credo si debba essere onestx con se stessx e capire come ci vogliamo porre rispetto allo Stato e all’autorità tutta .
In più questa, come ogni nuovo prodotto su ogni mercato, é una malattia “nuova” percio’ si ha a che fare col concetto di ignoto incarnato in un minuscolo pulviscolo infettante che viaggia con l’impercettibilita’ di uno starnuto.
L’imprevisto é il terrore più intenso che l’umano civilizzato, che ha svenduto ogni capacità di vita avventurosa e di desiderio per essa per il sarcofago della sicurezza e dell’abitudine possa provare . Il crollo delle certezze edificate con una vita intera di sottomissione.
Lo Stato affronta l’imprevisto col solo modo che conosce, che é struttura ossea stessa del potere che rappresenta : il controllo militare-poliziesco.
E chi lo Stato e le sue emanazioni cerca di combattere cosa vuole/puo’/desidera fare ?

V.
Quello che cerco di dire, di proporre, di abbozzare, con maldestra esagitazione, é che stiamo vivendo un momento storico di ristrutturazione delle strategie repressive del dominio: uno tra i tanti, certo, ma questo in mondo visione e senza apparentemente l’ombra di una qualsivoglia forma di opposizione sociale. Eccezion fatta (ed é una considerevole eccezione !) per le rivolte nelle carceri di tutta Italia che stanno dando secondo me, a chiunque brami una scappatoia dal rimanere « spettatore » della propria vita che si sfilaccia agli arresti domiciliari sanitari, un esempio da seguire per squarciare la normalizzazione del dominio.
Un altro elemento che merita secondo me un approfondimento sono gli strumenti attraverso i quali ci facciamo un’idea di quanto sta accadendo. Se possibile il virus Corona viaggia sulla scia e per mezzo di un ben meno osteggiato morbo che in pochi mesi ha infettato miliardi di persone nel pianeta : lo smartphone.
Attraverso la connessione costante e ossessiva x abitanti della società iperconnessa sono a conoscenza secondo per secondo dei dati e dei fatti che forsennatamente i mass media e i social mettono in circolazione e, novità considerevole, anche dei dettami del potere che si diffondo con la rapidità di un tweet o di un post su facebook.
All’oggi, asserragliatx in casa, Tv, computer, smartphone ( e schermi di ogni sorta in effetti) rappresentano l’unico orizzonte possibile degli umani del terzo millennio, e quindi sono portatx a immaginare che, se possibile, l’esposizione alle radiazioni propagandistiche sia ancora maggiore del « pre-corona ».
Esattamente come per ogni altra appendice del sistema tecno-industriale non voglio cominciare a considerare « accettabile » o addirittura utile e veritiero, uno strumento che ha stravolto la socialità della specie alla quale appartengo e che continuo a considerare un’arma di distruzione di massa della comunicazione umana , dei sentimenti, delle capacità auto-organizzative (tra le altre cose).
Credo che il rischio più grosso che corriamo, anche da posizioni anarchiche, é di considerare il momento attuale come una sorta di sospensione della nostra conflittualità col sistema, invece che una sua acutizzazione.
Per chi ha sempre sognato e lottato (vissuto)affinché lo Stato scomparisse, ora, che lo Stato si staglia all’orizzonte come il solo « garante » della nostre sopravvivenze (per le lacune evidenziate prima) cosa si prospetta ?
Io non voglio in nessun caso rivedere le mie posizioni in vista di un futuro nel quale la transizione dalla società tecno-industriale a un mondo liberato ci permetterà con tranquillità di produrre un nostro paradigma di sicurezza sanitaria, di contenzione dei contagi possibile, della considerazione che abbiamo della vita dei nostri simili.
Personalmente non credo arriverà mai quel giorno. Forse nemmeno me lo auspico…
E quindi trovo tremendamente necessario avere ora, qui, una risposta. Ossia cominciare da adesso, che ci troviamo nel più difficile dei contesti a confrontarci su cosa crediamo necessario fare, verso quale prospettiva si orientano i nostri sforzi.
Se domani ci fosse il caos. Se lo Stato non avesse più la forza militare, e l’assoggettamento mentale, sufficienti a mantenere l’ordine e i tempi delle merci, come ci comporteremo col virus nell’aria e i militari alle calcagna ?
E il prossimo virus o la prossima « emergenza climatica » !?
Se da un lato si sono prodotte per decenni analisi su cosa sarebbe opportuno attaccare (strutture e istituzioni) per rendere irrecuperabile la situazione, non si era mai pensato a tentare un’analisi su cosa fare nel caso uno dei tanti bubboni della società tossica in cui viviamo fosse improvvisamente scoppiato.
Mi rendo conto che sia per lo più un esercizio di astrazione (visto che mi pare che, mai come adesso,si sia statx cosi’ lontanx dalla prospettiva di insubordinazione generalizzata!!) ma forse in momenti di desertificazione dell’immaginario rivoltoso sforzarsi di vedersi nell’impossibile ci avvicina più alla consapevolezza che tutto si puo’ concretizzare.

Quello che più mi auguro da queste parole é che un momento del genere non venga assunto e spiegato a noi stessx solo tramite i canoni interpretativi (e conseguentemente di dominio) dell’autorità.
Ci stiamo scontrando con qualcosa che non conoscevamo e si visibilizzano tutte le lacune in cio’ che credevamo di sapere.
In questi giorni tante iniziative sono state annullate in tutta Italia, negli ambienti anarchici, per « colpa » del virus.
Sarebbe interessante sapere quali sono le considerazioni che hanno portato a questo : se le difficoltà logistiche degli spostamenti, la paura per il contagio, pressioni da parte di sbirrx e autorità, o anche semplice « adeguamento » allo svolgersi delle cose.
Perché collettivizzare le riflessioni, o la mancanza di esse, é l’utilizzo più decente che possiamo fare in questo momento dove ci sono tante difficoltà logistiche , dei siti internet ai quali facciamo riferimento.

Ci tengo a precisare che non c’é nessuna sottile critica sottesa in queste ultime righe, né in nessun’altra parte del testo per quanto mi riguarda, solo una sincera curiosità e uno sprone a riflettere.

Solidarietà e complicità nella vendetta a tuttx detenutx in rivolta.
Fuoco alla galere e alla società-galera !
Per l’epidemia delle passioni !

Unx appestatx

https://roundrobin.info/2020/03/le-viscere-il-contagio-la-ricerca-di-un-altrove/

Scatenarsi nella rovina

riceviamo e pubblichiamo:

Scatenarsi nella rovina

Perdere
ma perdere veramente
per lasciar posto alla scoperta
Guillaume Apollinaire

Sopravvivere nella società contemporanea significa esistere al cospetto dell’emergenza. La minaccia costituita da ciò che l’occhio umano non può assolutamente scrutare pesa quotidianamente sulla propria esistenza. Fenomeni al di fuori del proprio spazio di intervento minacciano costantemente la propria vita, le proprie relazioni e l’ambiente in cui si vive. Un nemico invisibile è approdato ormai
da un mese in Italia divenendo la principale preoccupazione dello stato come dei suoi abitanti.
Giorno dopo giorno, minuto dopo minuto sempre la solita litania. Proclami in televisione, alla radio, nei luoghi pubblici (ovunque vi sia uno schermo, una bacheca, un altoparlante) diffondono gli stessi consigli; vicini di casa, colleghi di lavoro, sconosciuti nelle strade… quasi tutti ripetono nei loro discorsi le stesse parole chiave: controllo, sicurezza, sacrificio, obbedienza. Quando il dominio va incontro ad un periodo di instabilità, causato ad esempio dalla possibile diffusione di un epidemia, non può che cogliere la palla al balzo per rinforzare il proprio potere.
I disastri prodotti dall’espansione del sistema tecnico, con il suo rapporto di sopraffazione verso quello che rimane di naturale intorno a noi, con i suoi vincoli sociali ed esistenziali, con la sua connessione globale permanente, si ripresentano alla porta del suo avvenire. Un terremoto, un alluvione, un incendio divengono fenomeni catastrofici solo dal momento in cui l’ambiente naturale è stato sostituito dall’ambiente tecnico. Un terremoto non crea molti danni dove il territorio non è sovrastato da palazzi di cemento, un’alluvione non devasterebbe intere zone abitate se prima le acque non venissero incanalate funzionalmente all’interno di argini, un incendio non devasterebbe
intere foreste se le temperature non fossero in costante crescita a causa dell’effetto serra. Allo stesso modo un virus non sarebbe così facilmente una minaccia globale se la densità di popolazione e i mezzi di trasporto non rendessero gli spostamenti da una parte all’altra del mondo una questione di ore. Il carattere di questi problemi è tale da non poter essere risolti dal sistema stesso, in quanto è possibile solo una soluzione che metta in discussione le sue stesse fondamenta. Ciò che gli resta da fare è sperimentare il miglior metodo di compensazione, cioè quello che garantisca al meglio la sua stabilità.
Il primo passo è quello di allontanare da sé una qualsiasi parvenza di responsabilità: le devastazioni prodotte da una calamità naturale sono conseguenze del carattere imprevedibile della natura, l’esplosione di un reattore nucleare è un rarissimo incidente dovuto ad un errore umano. Una volta stabilite le procedure per gestire la catastrofe a proprio vantaggio, il passo successivo è quello di incolpare chiunque non le rispetti. Lo stato tecnico si erge a unico garante della situazione trasferendo le proprie responsabilità a chiunque non rispetti il comportamento da esso imposto.
A Fukushima nelle zone altamente contaminate da radiazioni, per lo più entro i 30 chilometri di distanza dalla centrale, gli abitanti venivano riforniti di tutto il materiale necessario ad analizzare il livello di radioattività del terreno: contatori Gaiver, guanti, maschere e così via. Quando una persona manifestava problemi di salute causati dall’esposizione alle radiazioni lo stato e la Tepco (azienda del settore energetico nucleare giapponese) potevano tranquillamente pulirsene le mani sostenendo che se quella persona aveva una malattia, ciò fosse dovuto ad una scorretta esecuzione della procedura, ad un comportamento irresponsabile. Se migliaia di bambini sono morti di tumore la responsabilità fu dell’industria nucleare che riversò tonnellate di elementi radioattivi nell’aria e nell’acqua, o dei loro genitori che gli hanno permesso di giocare per terra nel parco?
Oggi in Italia a milioni di persone viene intimato di rinchiudersi in casa, uscire solo per necessità, evitare di incontrarsi con altre persone o averci qualsiasi tipo di contatto fisico. Sugli schermi viene mostrato come lavarsi le mani o indossare una mascherina. Chi decide di non rispettare queste direttive, chi non accetta di privarsi della propria libertà di movimento e cadere ostaggio della paranoia, diviene di conseguenza un propagatore del contagio, capro espiatorio, nemico pubblico per eccellenza. A chi meglio scaricare il peso della responsabilità di non essere in grado di garantire la salute delle persone in un mondo contaminato, se non a coloro che si oppongono alla propria
reclusione all’interno dei meccanismi del potere.
Ciò che contraddistingue la radioattività tanto quanto l’epidemia è l’invisibilità e quindi
imprevedibilità della sua diffusione e delle sue conseguenze. L’impossibilità di avere la situazione sotto controllo, spinge il cittadino ad affidarsi a chi sia in grado di propugnargli una soluzione immediata, quindi a porsi completamente nelle mani di tecnici, scienziati, burocrati: anime pie del totalitarismo imperante. A quel punto la sopravvivenza delle persone diventa interamente costituita da una serie di procedure da seguire, di controlli a cui sottostare, di pressioni psicologiche e sociali a cui essere costantemente sottoposti. Ogni scelta, ogni gesto devono essere considerati e calibrati
sulla base di istruzioni, le proprie priorità vanno tradotte nelle categorie di priorità del potere. Se guardare un tramonto può essere considerato rischioso e superfluo, mettersi in coda davanti a un supermercato diventa la priorità giornaliera.
Se a Fukushima le persone devono cronometrare il tempo che passano fuori dalla propria casa per poi correre a farsi una doccia, a Milano ognuno deve stare almeno ad un metro di distanza da qualsiasi altra persona ed entrare nei supermercati in fila uno alla volta muniti di guanti e mascherina. La cosa drammatica è che niente di tutto ciò sarà in grado di controllare gli effetti delle radiazioni, né tanto meno bloccare la diffusione di un contagio.
Siamo davanti al possibile epicentro della catastrofe. Essa è in atto da molto tempo. I richiami all’ordine vogliono far proseguire la catastrofe perché solo in essa prende forma un’oppressione giustificata e apparentemente irreversibile. Allora la decisione vitale sta in questa scelta: incatenarsi nelle proprie dimore della rovina o scatenare le cattive passioni per danzare sulle macerie di un mondo infettato da potere e servitù?

quattro occhi chiari nella catastrofe

https://roundrobin.info/2020/03/14626/

Lecce – Interruzioni… un manifesto

riceviamo e pubblichiamo il testo di questo manifesto:

INTERRUZIONI…
Che la vita sociale si svolga a distanza, in fondo, non è una novità.
Ormai da tempo le persone vengono persuase che il modo migliore per
comunicare e avere relazioni sia quello che utilizza un dispositivo.
Protesi dell’essere umano, lo smartphone e i suoi affini, hanno
trasformato i modi di stare assieme, di informarsi, imparare,
comunicare, scrivere, leggere. Il passo successivo è una robotizzazione
del vivente, la tecnica che pervade ogni luogo, ogni aspetto della vita
quotidiana. Un superamento della natura e del naturale a favore di
esseri e luoghi artificiali. Uno scenario simile non ha bisogno di vita
sociale, non ha bisogno di relazioni, emozioni, pensieri, ha bisogno
solo di ordine, disciplina, regolamentazione, macchine. Forse ora il
Dominio prova a fare un passo in avanti e utilizza un problema
sanitario, la diffusione di un virus, per arrivare quanto meno ad
un’irreggimentazione generalizzata, il resto poi andrà da sé. Viene in
mente la fantascienza, ma gli Stati hanno strumenti ormai lontani secoli
a cui attingere senza dover ricorrere all’ignoto. Il distanziamento
sociale imposto per legge che prevede il divieto di baci e abbracci e la
soppressione della gran parte delle attività sociali, ricorda gli stati
d’emergenza, in cui si impongono regole di vita sociale da rispettare
per non incappare in denunce e arresti. E in effetti la istituzione di
zone rosse e di postazioni di controllo, la limitazione della libertà di
circolazione, l’obbligo dell’isolamento domiciliare per chi provenga da
zone considerate infette con possibilità di controllo da parte delle
forze dell’ordine, ma soprattutto il divieto di assembramenti, cioè di
riunioni pubbliche, è la gestione poliziesca di una problematica
sanitaria. Non a caso nelle dieci regole consigliate dallo Stato
italiano per evitare la diffusione del virus, si prevede che in caso di
febbre si debbano contattare prima i carabinieri. Ma gli stati
d’emergenza sono le misure previste anche in situazioni di conflitto o
insurrezionali, come accaduto di recente in Cile. Lo Stato decreta per
legge che i cittadini sono sua proprietà e può disporne come meglio
crede. Non è per questioni sanitarie, né di benessere della popolazione
che si impongono gli stati d’emergenza, ma per far introiettare regole,
infondere disciplina. E in effetti, per ottenere obbedienza, il modo più
sicuro è quello di spargere terrore, diffondere paura. Creare ansia e
panico, divulgare continuamente dati, rendere tutto sensazionalistico ed
eccezionale. Incutere paura è una pratica di guerra e di tortura, nonché
di governo e anche in questo gli Stati sono specializzati. E la guerra è
ritornata prepotentemente in auge dopo essere stata allontanata e
cancellata per lunghi anni. Oggi la guerra è qui, anzi ovunque. I capi
di Stato si dichiarano in guerra contro un nemico alquanto singolare, un
virus, ma non è lui il loro avversario né il loro obiettivo, ma i loro
stessi sudditi.
Per tale motivo la questione in gioco, forse più importante, è quella di
tenere vivo il pensiero critico, senza minimizzare nulla. Dopo aver, a
braccetto con l’Economia, industrializzato e devastato la natura,
desertificato il pensiero, ora si annullano le emozioni. Niente baci,
niente abbracci.
Tuttavia, se il Dominio ci vuole totalmente dipendenti da sé, se lo
Stato cancella la vita sociale e in parte anche economica, ciò significa
che non abbiamo bisogno dello Stato. Che possiamo autorganizzare le
nostre iniziative, le nostre forme di educazione, le nostre economie, i
nostri svaghi. E anche in questo caso non abbiamo bisogno di ricorrere
alla fantascienza ma all’esperienza, alla memoria, alla volontà e al
coraggio.
Uno dei modi ce lo stanno suggerendo i detenuti in lotta nelle carceri
italiane che questo stato d’emergenza vorrebbe sepolti vivi. E che la
normalità sia interrotta si, ma dalla rivolta.

https://roundrobin.info/2020/03/lecce-interruzioni-un-manifesto/

Bologna – Riguardo alla rivolta nel carcere della Dozza

Lunedì 9 marzo

Nel pomeriggio di lunedì 9 marzo è scoppiata una rivolta dentro il carcere della Dozza di Bologna.

Tra le cause scatenanti della rivolta, le misure che il governo e il Dap hanno adottato, a partire dal 25 febbraio, per prevenire la diffusione del Covid-19 nelle galere, quali l’annullamento dei colloqui visivi, la possibilità di fare solamente una telefonata di dieci minuti a settimana, l’impossibilità di far entrare pacchi da fuori, la sospensione dell’ingresso dei volontari, la sospensione della semilibertà, del lavoro all’esterno e dei permessi premio; e in parallelo, le false promesse dell’aumento dei colloqui telefonici o addirittura di poter effettuare videochiamate skype, quando è noto che queste possibilità non sono garantite nemmeno nella misura in cui ordinariamente dovrebbero esserlo. Queste misure di indurimento si aggiungono alle condizioni, da sempre esistenti, di sovraffollamento, di pessime condizioni igieniche e di una strutturale mancanza di accesso alle cure sanitarie che caratterizzano la Dozza, così come tutte le galere d’Italia. Il 5 marzo veniva annunciato che i colloqui settimanali dal vivo erano nuovamente possibili con l’accesso consentito di un parente maggiorenne per volta, mentre, con lo scoppiare delle rivolte nelle altre carceri, i familiari dei prigionieri non avevano più potuto ricevere notizie dei loro cari e comunicare con loro.

Pochi giorni dopo, il 9 marzo, la rivolta è scoppiata anche al carcere della Dozza dove un presidio di solidali, amiche/i parenti si è spontaneamente creato davanti all’istituto penitenziario, man mano che la notizia ha cominciato a diffondersi. Ai familiari è stato impedito sin da subito da un enorme dispiegamento di carabinieri e polizia di avvicinarsi all’ingresso del carcere e di ottenere notizie. Circolava l’informazione che alcune sezioni del maschile fossero state occupate, ma si sono susseguite per diverse ore soltanto informazioni incerte. Solo in seguito si è saputo dai giornali che ad essere occupate erano state unicamente le sezioni giudiziarie. Il silenzio assordante del circondario, così come dell’intera città era rotto soltanto dal rumore delle sirene. Il tentativo di avvicinamento del presidio alla sezione maschile, impedito dal dispiegamento di polizia, ha consentito di sentire qualche urla e battitura dall’interno. Il presidio si è poi spostato sulla strada principale creando un blocco del traffico per avvicinarsi al lato della sezione femminile; anche se sul momento non si sono sentite risposte, in seguito è arrivata la notizia che le detenute hanno dato luogo a una protesta in forma di battitura.

Nè le guardie, nè i vigili del fuoco -il cui mezzo è stato brevemente bloccato fuori dal carcere- hanno voluto dire nulla, neanche per rassicurare le madri, compagne e sorelle di chi era dentro, nemmeno dopo che due ambulanze erano corse via d’urgenza dal carcere proprio davanti agli occhi di chi era presente all’esterno.

Il silenzio da parte delle autorità alle richieste di notizie da parte di chi ha i propri cari rinchiusi là dentro, lasciava un baratro di incertezze e preoccupazione, alimentato anche dalle notizie del massacro avvenuto nel vicino carcere di Modena, nonchè delle rivolte che stavano avvenendo in una trentina di carceri italiane. Ciò non ha fatto altro che montare la rabbia e la voglia di star lì e farsi sentire. Nell’emergenza sanitaria, la solidarietà non va in isolamento.

Solamente in tarda serata, intorno alle 22 si è iniziata a vedere una densa nube di fumo che fuoriusciva dal blocco maschile contemporaneamente a dei movimenti sul tetto dello stesso blocco. I prigionieri che si erano barricati in sezione ed erano saliti sul tetto hanno quindi iniziato a urlare e a incendiare oggetti, gridando “Libertà!” al gruppo di solidali e parenti che hanno risposto con cori, messaggi di solidarietà e fischi. La rivolta e i fuochi nel blocco maschile sono continuati per tutta la notte, durante la quale sono andate a fuoco 4 macchine della polizia penitenziaria, ed è continuata fino all’ora di pranzo del giorno successivo.

Martedì 10 marzo

Il mattino del giorno seguente, martedì 10, si è nuovamente formato un presidio spontaneo fuori le mura della Dozza. I prigionieri ancora sul tetto avevano appeso striscioni che rivendicavano diritti, libertà e indulto mentre l’edificio rimaneva circondato dagli sbirri. Nuovamente era impossibile ricevere informazioni certe di quanto stesse accadendo all’interno. La notizia che circolava era quella di una trattativa in corso tra i reclusi in rivolta e la direzione del carcere e il capo delle guardie, mentre un altro gruppo di reclusi avrebbe voluto avviare una trattativa unicamente con un magistrato di sorveglianza, arrivato in mattinata.

Dopo che per un paio d’ore non si vedeva più nessuno nè si ricevevano risposte, verso le 15 si sono avvistati gli sbirri in tenuta antisommossa sul tetto, brandire il manganello, nella direzione del gruppo di solidali, in segno di vittoria e al grido di “lo Stato ha vinto”. Abbiamo comunque provato a far arrivare la nostra voce oltre alle mura lontane, per provare a comunicare ai detenuti quanto stava succedendo nelle altre carceri, per esprimere di nuovo la nostra solidarietà augurando a tutte le persone recluse in quella galera di riuscire a prendersi la libertà.

Nel frattempo circolava la notizia che la protesta era rientrata e la trattativa conclusa, ma non è ad oggi possibile conoscerne precisamente le modalità e gli esiti, al di là di quanto trapelato dai media, secondo cui i prigionieri sarebbero rientrati in sezione, con le richieste di consentire il reingresso degli educatori e misure di pena alternative alla detenzione. Sempre secondo i giornali, i detenuti feriti sarebbero 20, di cui 16 medicati sul posto. Le guardie ferite, 2.

Nella mattina di mercoledì 11, si è appresa la notizia certa di almeno un trasferimento nella prima mattinata. Per ora non è dato sapere ai familiari nè agli avvocati l’identità delle persone trasferite, nè la loro destinazione.

Nel pomeriggio si è appreso dai media che due detenuti sono morti per overdose, la stessa versione ufficiale usata per gli altri 13 morti nelle carceri di Modena e Rieti. Resta il fatto che la struttura di Modena è totalmente inagibile grazie alla rivolta e anche quella di Bologna riporta danni ad ora ancora da definire ma sicuramente ingenti. Sempre dai media è stato riportato che <<nel pomeriggio di martedì 10, a poche ore dalla conclusione della rivolta della Dozza, il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, in Viale Vicini è stato danneggiato da “vandali” rompendo i vetri del portone d’ingresso. Gli stessi vandali hanno firmato l’azione lasciando scritte come “Acab”, “Solidarietà ai detenuti in lotta”, “Fuoco alle galere” e “Secondini assassini”.>>

Giovedì 12 marzo

Nel pomeriggio di giovedì 12, è stato fatto un veloce saluto al carcere, nel tentativo di raggiungere la sezione maschile e valutando l’inopportunità/inefficacia di una chiamata pubblica vista le incognite della situazione generale attuale legata agli effetti delle ordinanze. Una ventina di persone è riuscita ad arrivare sul posto e a scambiarsi dei saluti con i detenuti, al grido reciproco di “libertà”, in particolare con la sezione di As3 e con altre sezioni più lontane. Chi si trovava in As non ha cognizione di quanto sia accaduto, in quanto isolato, e tra i detenuti delle altre sezioni nessuno ha saputo riportare quale trattamento sia stato riservato ai prigionieri dopo la rivolta, nè notizie in merito alla persona morta nel carcere. Da dentro sono provenute nitidamente richieste di aiuto, nonchè la richiesta espressa che le guardie debbano mettersi le mascherine e l’affermazione condivisa che Bonafede voglia farli morire lì dentro. È evidente che l’imposizione dell’isolamento ai detenuti, tra loro e con l’esterno, trascende le esigenze reali di prevenzione e contenimento del contagio in carcere, se poi tanto sono le guardie stesse, potenziali veicoli del virus, a non indossare le mascherine. Secondo fonti ufficiali di oggi sembrerebbe che sia morta una persona e non due, come invece riportavano fino a stamane alcuni giornali locali, e che ci siano stati tra ieri e oggi 15 trasferimenti verso altre carceri, ma non sono note nè le persone nè la destinazione. Ai familiari e avvocati è ancora impedito di avere notizie dei propri cari, nè tantomeno di comunicare con loro o di poter inviare pacchi all’interno. I familiari dicono, tuttavia, che li tengono nel carcere distrutto a dormire ammassati per terra, che non si sa se la mensa funziona e che siano stati tutti massacrati di botte.

Le Autorità, sin dalle prime rivolte e dalle notizie delle prime morti hanno continuato a invocare il pugno di ferro nei confronti dei prigionieri, l’isolamento completo dei medesimi, omettendo di fornire ogni notizia a familiari e avvocati su dove sono stati trasferiti e sulle loro condizioni di salute, quindi impedendo di mettersi in contatto con loro, nonché di rendere nota l’identità delle persone morte di carcere nelle mani dello Stato.

Le rivolte nelle carceri di tutta Italia di questi giorni mostrano chiaramente che in situazioni di emergenza i primi che ne fanno le spese sono coloro che ogni giorno vivono le condizioni peggiori, gli stessi che tuttavia hanno deciso di ribellarsi e di scatenare rivolte per far emergere ciò che il carcere è quotidianamente. Non è solo nel momento di eccezione che la galera ci appare come qualcosa di inaccettabile che va distrutto, ora semplicemente qualcuno ha avuto il coraggio di tirare fuori questa realtà ribellandosi con decisione.

Non crediamo sia possibile mai, ma a maggior ragione di fronte a tutto ciò, limitare le prese di posizione alla richiesta di amnistia per alcuni, lasciando che gli altri prigionieri rischino quotidianamente l’isolamento e la morte nelle infami galere.

Libertà per tutte e tutti i prigionieri, che di ogni galera rimangano solo macerie.

Che le morti di stato non cadano nell’indifferenza!

Solidarietà alle/i prigioniere/i in rivolta!

Finchè ci sono prigioni che bruciano lo Stato non ha vinto.

Anarchiche/ci

https://roundrobin.info/2020/03/bologna-resoconto-rivolta-carcere/

L’insurrezione ai tempi del corona vairus

Alla fine l’evento destabilizzante, quello che avrebbe bloccato il sistema capitalista, è arrivato. E, come immaginavamo, la causa non sono le azioni di qualche groppuscolo di rivoluzionar, né un territorio, una popolazione in rivolta. L’evento nasce nel corpo capitalista e, all’interno di esso, con la stessa velocità con la quale un virus si diffonde all’interno di un corpo organico, si sta diffondendo, bloccandone varie funzioni.

Per questo in una delle tante appendici, quella chiamata italia, da martedì 10 marzo viene richiesta una nuova prova di obbedienza. Dimenticandosi di menzionare le reali cause di quella che è ormai una pandemia vengono imposti nuovi divieti, nuove limitazioni alle già limitate libertà individuali.
Uscire di casa non è più possibile se non per acquistare cibo, dato che ormai da tempo è stata tolta ai più la possibilità di auto-produrselo.
Barricarsi tra le quattro mura retweettando #iorestoacasa è la triste proposta alla quale si ritrovano costretti i bravi cittadini italioti.
E così come il dramma ecologico può essere evitato facendo la differenziata e acquistando macchine elettriche allo stesso modo la diffusione del corona vairus può essere bloccata costringendo le persone a non uscire più di casa.
Il sistema capitalista scarica le proprie responsabilità sulle spalle dei sudditi e, come la medicina moderna, interviene sul sintomo, non sulla patologia.

Un evento tutto umano, troppo umano
Tutti, o quasi, si dimenticano di ricordare che se il virus è potuto saltare da -tralasciando le tesi complottiste che, sebbene avvincenti, non cambiano la sostanza delle cose- un sorbetto di pipistrello fino alla gola di qualcuno è perché i cambiamenti climatici provocati dagli umani, rendono più adatti a certi micro-organismi ambienti prima ostili.
Si dimenticano di ricordare che si è diffuso così rapidamente per l’eccezionale concentrazione di manodopera che sono le città, pressati in milioni, sebbene distanti l’un l’altra.
Per la folle corsa che porta umani e merci -tra le quali vengono considerati anche i miliardi di esseri viventi destinati all’alimentazione umana e parte degli umani stessi- da un lato all’altro del mondo.
Ogni giorno, fino a poche settimane fa, volavano in media più di 12 milioni di persone, 4,5 miliardi
l’anno [1], potenziali vettori di un qualsiasi virus. Il corona è quello del momento.
E così la retorica dei fascisti e dell’attuale classe dirigente mondiale si smonta, le frontiere chiuse per chi non ha soldi e documenti e aperte per chi invece li ha sono le stesse che hanno permesso la diffusione del virus in giro per il mondo.
Veloce e comodo in business class.. aperitivo di benvenuto? Corona virus o Sars?

Come ti reagisce lo stato
Tutta la penisola -e a breve l’europa- viene militarizzata, sorgono nuove frontiere, posti di blocco presidiati da divise armate. La circolazione delle merci ha subito un forte crollo, quella, da sempre meno libera, delle persone è quasi stata arrestata.
Tutti a casa obbedienti al divieto, nella paura di essere contagiati o di diffondere il virus.
O semplicemente di essere puniti.
Chi non ha una casa, chi non ha i documenti richiesti dal dominio, è per la sua sola esistenza, fuorilegge. Non potendo più passare inosservato nelle città deserte, ritrovandosi alla mercé della sbirraglia senza occhi che possano vedere se non quelli, in questi casi ciechi, del controllo.

Lo stato d’emergenza permette misure eccezionali, misure emergenziali per un maggiore controllo sociale. Le misure, come accaduto per esempio con quelle adottate in tutto l’occidente per la ‘lotta al terrorismo’, diventeranno permanenti.
C’è chi propone di replicare il modello applicato in sud corea e far fronte all’epidemia tracciando gli spostamenti delle persone tramite i big data.
Deresponsabilizzando sempre di più gli individui perché non dovrebbero rendere costante il tracciamento -non solo dai giganti del tech, ma pure da parte dello stato- di tutti i cittadini con la scusa della salute pubblica o pubblica sicurezza? O meglio, entrambe? Scrosci di applausi dalle platee del dibattito pubblico.

Allo stesso modo proibire gli assembramenti per un supposto valore più alto, quello della salute pubblica, potrebbe porre fine ai movimenti di massa che negli ultimi mesi hanno messo in tutto il mondo in discussione l’attuale organizzazione sociale.
Così se le rivolte di hong kong si sono esaurite per il virus e quella cilena viene ricondotta verso orizzonti costituenti e riformisti, cosa di meglio per lo stato d’oltralpe di misure eccezionali per ‘contenere l’epidemia’ e dare una botta definitiva all’incontrollabile -anche se dalle rivendicazioni tendenzialmente riformiste- movimento dei gilet gialli?

Come si re-inventa il capitalismo
L’organizzazione capitalista, se supererà questo periodo, potrebbe approfittare dell’emergenza per traghettare tutti nella quarta rivoluzione industriale. Cercare di disincentivare le attività svolte fuori casa, la socialità e le aggregazioni -e con questo le possibilità di incontro, confronto, organizzazione, rivolta.. ci riferiamo ancora alle rivolte che hanno scosso i governanti del mondo solamente nell’ultimo anno.
Privilegiare invece la sola socialità e aggregazione virtuale -c’è già chi definisce ‘concerti’ i live streaming- il consumo online, la costruzione di ambienti sempre più su misura e meno rischiosi, portando progressivamente le persone ad essere incapaci di affrontare situazioni di conflitto reale che non possano essere risolte dalla semplice disconnessione.

Passando dal locale al globale qualche economista più lungimirante, prospetta negli anni a venire possibili ristrutturazioni del capitalismo, un serio ridimensionamento della globalizzazione e dei mercati finanziari. Ci attendono forse economie più locali e meno interconnesse, catene produttive più corte, continenti che mireranno ad una sorta di autarchia, frontiere ancora più chiuse.
Assieme alle minori interdipendenze maggiori possibilità di conflitto, perché se la mia economia non dipende più dalla tua e non sei più tu a produrre i componenti dei miei missili perché dovrei evitare di farti la guerra se sfiori i miei interessi?
Quanto ci vorrà a passare da una ‘guerra convenzionale’ alla madre di tutte le guerre, quella nucleare? Quella che in poche ore, come un domino, farebbe decine di milioni di morti? [2]
Ora sì che vediamo la liberazione del pianeta dal parassita umano più vicina..

Cosa fare? Alcune ipotesi sul futuro
Sebbene largamente previste, un’epidemia del genere ci coglie impreparate per la velocità e il rapido stravolgimento del nostro quotidiano.
Dobbiamo quindi capire cosa fare ora, che agibilità ci permetterà la militarizzazione del paese e cosa aspettarci dal futuro, cercando di prevederlo.

Nell’immediato la prima cosa che dobbiamo fare è comunicare, non isolarci. Alimentare la discussione attorno all’emergenza, confrontarsi, far girare testi e proposte, critiche. E poi cercare di condividere le situazioni nelle varie città, nei vari territori. Segnalare i posti di blocco, le forme di controllo applicate, in quante rispettano o meno i divieti. Avere un’idea più chiara del quadro generale potrà renderci più agevole spostarci, incontrarci, confrontarci, agire.
Consapevoli che i nostri spostamenti potranno causare nuovi contagi, anche di persone che non vorremmo contagiate. Ognun decida se agire per il contagio e, forse, l’estinzione -che non avverrà certo entro l’anno- o per altro. Ciò che è sicuro è che la necessità di mascherarsi apre nuove possibilità di anonimato, con buona pace dei cultori dell’immagine e dell’identificazione. Ci procureremo quindi maschere, dalle integrali in giù per poter agire in situazioni pubbliche, coperti e serene.

Poi sicuramente sostenere chi si sta opponendo alle nuove restrizioni. Per ora le persone recluse nei luoghi dove quasi tutte le libertà individuali sono negate, le carceri. Secondo i dati diffusi dai media in 6000 si sono ribellati in pochi giorni, dal nord al sud, qualcuno, sfiorato il linciaggio di una direttrice, è riuscito ad evadere.
È tra i prigionieri che si contano le prime morti violente di questo periodo d’eccezione.

Un periodo che verosimilmente potrebbe durare un paio di mesi, ma che se, come dice qualche governante, il 60-70% delle persone verrà infettata dal virus, potrebbe durare molto di più.
Un lungo periodo di quarantene, mobilità limitata, controlli, divieti d’aggregazione, ecc.
Certi divieti potranno essere allentati con nuove imposizioni: tute, mascherine e simili. Questo non basterà ad un ritorno alla normalità, semmai all’evidenza che viviamo in un periodo pre-apocalisse.
L’economia attuale, almeno per come la conosciamo, difficilmente potrà sopportare un lungo periodo di emergenza e stagnazione.
Dopo pochi giorni già assistiamo al record negativo della borsa di milano, a scioperi spontanei e non mediati dai sindacati, ai blocchi dei porti, alle rivolte di cui sopra, a diffuse infrazioni dei divieti.
Tra qualche settimana i beni di prima necessità, il cibo, potrebbero iniziare a scarseggiare.
Così persone con un ritrovato tempo da dedicare all’inusuale attività del pensare potrebbero decidere di indirizzare la loro rabbia verso chi è causa della loro fame, della loro reclusione: questo mondo e i suoi servitori più fedeli.
E le rivolte di ogni periodo storico ci dimostrano che le arrabbiate, i rivoltosi, sanno sempre cosa colpire.
Aspettare dunque che le situazioni precipitino e cercare di dare il nostro contributo rivoluzionario agli sbotti d’ira, le eventuali esasperazioni, proteste, saccheggi, rivolte.
Noi siamo abbastanza sicure che basterà aspettare..

Le impazienti potrebbero però sentire forte il desiderio di dare un immediato contributo al barcollar          -precedente al crollo?- dell’attuale sistema.
Così qualcun vorrà forse dare un ulteriore colpo al claudicante sistema produttivo tagliandogli gli approvvigionamenti energetici. Togliendo corrente a quel sistema che uccide, incatenando alla produzione miliardi di persone, e devasta i territori nei quali si sviluppa per produrre merce della quale abbisognano l’economia e il controllo, non noi.
Qualcun’altra magari deciderà di attaccare il sistema infrastrutturale, lo stesso che ha permesso al virus -e ai suoi sicuri successori [3]- di muoversi ad una tale velocità. Certo potrebbero ritardare gli approvvigionamenti alle varie città, ma non abbiamo scelto noi di slegare totalmente la produzione alimentare dai territori nei quali verrà poi consumato quel cibo.
Qualcuno di particolarmente fantasioso potrebbe invece attaccare obbiettivi originali, in questo mondo anche colpendo alla cieca, non si sbaglia -quasi- mai. E chissà se attaccando per esempio le tabaccherie, impedendo la soddisfazione di certe dipendenze, non possa finalmente esplodere la rivolta dei tabagisti e dei giocatori del lotto?
Ci aspetta un futuro di contagiosa fantasia ribelle.

Dalle stanze alle piazze
Ciò che dovremmo fare, sia che l’emergenza duri poche settimane, sia che si prolunghi, sarà evadere la quarantena, riprenderci l’aria, le strade, le piazze, i territori nei quali viviamo. Andando oltre lo slogan, significa ritornare a vivere fuori dai luoghi chiusi, abitudine che in tanti forse faticheranno a ri-acquisire, abituati alla sicurezza delle mura del proprio lazzaretto. Bisognerà scardinare la legittima paura e diffidenza che nasce in questi giorni ad ogni incontro, all’avvicinarsi troppo all’altro.
Ma possiamo immaginarci che l’apertura -o prima, la forzatura- delle gabbie della quarantena, soprattutto se la durata sarà consistente, riporterà le persone a riversarsi con fragore all’aperto.

Senza, per forza di cose, la volontà di tornare alla vita precedente, ma con quella di ritornare, con fragore appunto, nelle piazze, nelle strade, nei parchi. I luoghi dove sono scoppiati gli eventi insurrezionali cileni, come ogni altro momento insurrezionale della storia.
Ritornare e affermare con la parola e l’azione il rifiuto totale di un mondo che si basa sulla dominazione dell’altro -che sia natura, animale, umano- e quindi sullo sterminio, sulle devastazioni ambientali, sulla guerra, sul patriarcato, sul lavoro salariato e su tante altre merdate che distruggeremo.
Il rifiuto di vivere in un mondo che per sua natura favorisce la diffusione di simili epidemie e che ha infettato tutt o quasi, di lavoro. Costrizione che, oltre a far dedicare intere vite all’arricchimento e al mantenimento del potere di chi comanda, uccide sistematicamente, ogni giorno [4].
E quindi abbandonare il lavoro per la propagazione degli scioperi spontanei.

Ritornare nelle piazze e nelle strade per superare quel momento di eccezionalità che si danno spesso le rivolte contemporanee, che raggiungono altissimi momenti di conflittualità mancando però l’obiettivo di divenire permanenti.
È questo, secondo noi, il maggior limite e una delle principali cause dei fallimenti a lungo termine delle rivolte e delle insurrezioni dell’ultimo periodo.
Questa assieme all’abbaglio dato dalle proposte di assemblee costituenti, l’abbassare il tiro riducendo l’orizzonte da quello rivoluzionario a quello della riforma e del rafforzamento dell’attuale sistema.

Ripercorrendo la storia contemporanea, possiamo notare come le piazze siano state più volte i luoghi nei quali tentava di nascere una cultura altra, figlia dei secoli che la precedevano certo, ma non solo blanda alternativa di quella capitalista.
È invece la blanda alternativa che spesso, purtroppo, riproponiamo nei luoghi che viviamo.
Ma possiamo far di meglio..

In una costante ridiscussione del sé e del noi, delle nostre relazioni. Un’esplorazione fatta di fantasia, curiosità, autocritica, per decostruire la cultura del dominio in favore di qualcosa di nuovo.
Cosicché negli spazi aperti, che per natura allontanano settarismo ed identitarismo, ogni categoria, ogni identità si dissolva finalmente tra i rivoltosi e i loro fuochi.
Perché l’imprevedibile e l’eccezionale diventino il nostro quotidiano.

Un finale che vivremo
Che questo sia l’inizio della fine, o solamente un ulteriore aggravio della crisi ancora non possiamo saperlo. Quello che è certo è che questa pandemia lascerà una cicatrice indelebile nelle vite e nell’immaginario di ognun. Oltre che nel sistema stesso. Quel che è certo è che l’idea che questo sia ‘il migliore dei mondi possibili’ non potrà che abbandonare anche i più ostinati difensori del capitalismo. Se non altro quelli in buona fede.
E così, se le fondamenta ideologiche vacillano, il sistema economico crolla e le devastazioni compiute ri-schiaffano in faccia al capitale le sue responsabilità, qualcun inizia ad intravedere il tramonto dell’antropocene.
A quella visione miliardi di esseri viventi si risollevano, percependo la possibilità di un avvenire di libertà.

Davanti a noi l’inesplorato, l’ignoto. Si tratta di scegliere di abbandonare le proprie certezze per esplorare le infinite possibilità che ci aspettano. Le esploreremo con un brivido, con l’esaltazione della scoperta, della vista del totalmente nuovo.

E lo faremo con gioia

dai margini dell’abisso, verso un’alba di rivolta e liberazione

[1]    I dati sui passeggeri volanti nel 2019 https://www.iata.org/en/iata-repository/publications/economic-reports/airline-industry-economic-performance—december-2019—report/
[2] Secondo uno studio una guerra atomica tra nato e russia provocherebbe in 5 ore 34 milioni di morti https://www.vanguardngr.com/2019/09/research-how-a-war-between-us-and-russia-would-kill-34-million-in-hours/
[3] L’epidemia di ebola che ha causato più di 11000 morti dal 2013 al 2016 nell’africa centrale non si è riuscita a diffondere nel resto del mondo solo perché il flusso di persone da e per i paesi a capitalismo meno avanzato è molto inferiore rispetto al flusso tra i paesi a capitalismo avanzato, o dominante. Ma viste le attuali condizioni è molto probabile che altre epidemie si diffonderanno in futuro.
[4] Solo nello stivale nel 2019 sono morte in media 3 persone al giorno per un totale di 1089 persone. Non abbiamo trovato dati mondiali, ma saranno nell’ordine delle centinaia, se non migliaia di persone al giorno. https://www.vegaengineering.com/dati-osservatorio/allegati/Statistiche-morti-lavoro-Osservatorio-sicurezza-lavoro-Vega-Engineering-31-12-19.pdf

https://roundrobin.info/2020/03/linsurrezione-ai-tempi-del-corona-vairus/

Imola – La repressione è il nostro vaccino

una prima riflessione sullo stato d’emergenza ai tempi della pandemia

Ed eccoci nuovamente di fronte ad un’emergenza, questa volta di portata mondiale, come quella climatica, ma con una presa sicuramente diversa sulle persone. Affrontare l’emergenza climatica vorrebbe dire rimettere in discussione il proprio stile di vita, le proprie comodità, fare una riflessione seria sul nostro sistema energivoro e quindi significherebbe rinunciare ad abitudini e agi, ed evidentemente non è una strada che piace a moltx. Ma quando si tratta di rinunciare alla propria libertà, per la sicurezza di poter continuare a vivere comodamente, allora la massa si lancia in hashtag, arresti domiciliari volontari, e una venerazione del Dio Stato salvatore che ci protegge dal malvagio virus. Come le religioni promettono un paradiso che nessunx ha mai visto davvero in cambio della rinuncia ai propri desideri, alle passioni, all’essere umanx e poter sbagliare, all’autogestione, così lo Stato promette protezione contro un virus in cambio di completa assuefazione al potere costituito.

Un’emergenza che riguarda la salute in maniera evidente e diretta come può essere una pandemia è davvero una manna dal cielo per chi vuol dare una svolta alla sperimentazione del controllo e all’avanzamento della società tecnologica. La salute riguarda tuttx, non è una questione ideologica, non è il solito nemico interno o esterno su cui polemizzare, è orizzontale. La soluzione è però verticale. La offre solo lo Stato. Per una volta che ci si poteva sentire solidalx e complici, tuttx nella stessa barca… Invece la malattia, la morte, il dolore, sono cose che in questa società spersonalizzata e con una difficoltà relazionale sempre più evidente, facciamo fatica ad affrontare. Allora scatta il Panico. E il Panico lo superi solo se intorno a te puoi avere fiducia nel prossimo, se puoi circondarti di persone affini con cui parlarne. Invece dopo questo Panico c’è il vuoto, la solitudine, la reclusione volontaria. E il cittadino spaventato si affida all’unico amico che crede di avere, l’unico in ogni caso che può frequentare, lo Stato.

Perchè questo sta succedendo con l’ennesimo legiferare d’emergenza, ad essere incriminati sono i rapporti umani, la socializzazione. Perchè si può stare a contatto all’interno dell’insalubre aria di un supermercato ma bisogna avere un valido motivo per essere in un parchetto? Evidentemente ti salvi dal contagio solo spendendo soldi, facendo girare l’economia.

Perchè non si può girovagare per la città come si vuole ma si può rischiare di infettare unx commessx di supermercato? Perchè, come stanno dimostrando x tantx lavoratorx in sciopero in vari settori della produzione non toccati dalle restrizioni per il coronavirus, per il Mercato, per la Produzione, c’è chi si deve sacrificare, perché la Patria deve continuare a funzionare. Niente chiacchiere al bar, niente passeggiate nei parchi, ma a lavorare sì!

Questa pandemia ha portato ad un nuovo livello la coesione nazionale, l’amor di patria, la fiducia nelle istituzioni. Il virus è nemico di tuttx, il virus sta mettendo da parte l’odio indotto precedentemente dai vari politicanti da talk show da social contro altri “mostri”. Ora il pericolo è l’untore, colui o colei che non sottostanno alle regole, che non stanno ad un metro di distanza, che escono nonostante le restrizioni, che non recludono x bambinx in casa a disegnare stupidi arcobaleni (stupidi perché frutto di assimilazione e non di fantasia infantile)… Il nemico (per ora) non ha più un colore diverso della pelle. Il nemico è chi sceglie la libertà, chi sceglie di autogestirsi invece che farsi dire dallo Stato come comportarsi.

Non si vuole qui mettere in discussione la paura che le persone possono provare, quanto il fatto che prendere precauzioni ed evitare di contagiare persone a rischio è semplice, non c’è bisogno delle istituzioni per capire come comportarsi. Soprattutto perché alle istituzioni non interessa davvero la salute dei propri cittadini, quanto la salute del sistema. Se agli Stati interessasse davvero la salute delle persone probabilmente non si sarebbe arrivati ad una devastazione ambientale così imponente che non farà altro che rendere più rapide e facili altre pandemie, magari anche più pericolose. Infatti, non si tratta di un’emergenza sanitaria dovuta all’effettiva pericolosità del virus, quanto dello smantellamento che va avanti da decenni del sistema sanitario che ora fa sì che non ci siano più posti letto per tutelare le persone a rischio né per far fronte ad una sorta di mega influenza. Come al solito la corsa al profitto assicura x pochx ma ha conseguenze prima di tutto sulla vita degli “scarti” del sistema. Come x detenutx. Mentre il governo assicurava una protezione dal contagio tenendo lontanx x parentx dax prigionierx, allo stesso tempo, come lamentato dax detenutx stessx, i secondini sono senza guanti e mascherina, le cure mediche in carcere sono una merda e lo erano già prima della pandemia, figuriamoci ora…e le nuove regole servono solo ad isolare sempre di più le persone imprigionate e a controllarle meglio. Le rivolte scoppiate in una trentina di carceri italiane sono state molto intense, c’era tanta rabbia, tanta voglia di uscire da quella schifosa gabbia, distruggerla. La paura è potente, è ingovernabile. Ma solo se si ha ben chiaro qual è il vero ruolo dello Stato, il controllo e la garanzia al profitto di pochi.

Mentre le carceri bruciavano e distruggevano, mentre decine e decine di detenuti evadevano, paradossalmente il resto della popolazione, che si crede libera, si auto-recludeva nelle case. Una scelta possibile solo perché l’assuefazione alla vita da social, alla piazza virtuale invece che alla piazza reale, alla vita in streaming, era già la vita dx tantx. Oggi e nei mesi a venire, ci sarà bisogno sempre più di reti potenti che possano garantire uno scambio di dati ingente ai responsabili bravi cittadini italiani che ordinano online, parlano online, escono online, si relazionano online, lavorano e vanno a scuola online. Chi si lamenterà del 5G sarà un nemico della patria, perché la rete è l’unico strumento che potrà garantire all’economia di continuare a girare.

Come al solito le emergenze diventano il campo perfetto per sperimentare, per proporre soluzioni di merda che siano facilmente assimilate dai più senza troppe storie, e la distruzione dei rapporti umani basata sulla paura del contagio renderà ancora più difficile che le persone scendano in strada a protestare contro la perdita del lavoro, la difficoltà a pagare l’affitto e soprattutto la limitazione della propria libertà a scegliere se e come vivere.

Le poche persone rimaste in giro senza mascherina, a passeggio nonostante i divieti, forse inizieranno a riconoscersi come complici. E non c’è denuncia o minaccia di arresto che tenga per la sete di libertà. Che purtroppo è poco contagiosa.

Alcune e alcuni che ci tengono alla libertà

http://www.brigata36.it/2020/03/3630/