Immuni e DiAry: perché le App per il tracciamento non sono la soluzione ma un ulteriore problema

Immuni e DiAry: perché le App per il tracciamento non sono la soluzione ma un ulteriore problema

Di Redazione rivista Malamente

“Fase 2. È ora di usare Digital Arianna!”, recita il 18 maggio lo spot dell’applicazione dell’Università di Urbino per il contenimento del contagio da Covid-19.

Digital Arianna, per gli amici DiAry, disponibile da metà aprile negli store Android e iOS, è l’App sviluppata all’interno dell’università urbinate, dalla start-up Digit in un progetto coordinato dalla cattedra di Sistemi di Elaborazione delle Informazioni. Un bel vantaggio essere arrivati prima della tanto annunciata App governativa Immuni, con la quale, assicurano, non c’è concorrenza, ma una prevedibile integrazione.

I due sistemi lavorano su principi diversi: mentre Immuni utilizzerà la tecnologia Bluetooh, DiAry punta sulla geolocalizzazione: “due strategie diverse ma che possono interfacciarsi per diventare complementari” in vista di una finalità comune, ovvero monitorare e tenere traccia degli spostamenti e dei contatti quotidiani di ogni individuo, cosicché in caso di positività al Covid-19 sia possibile risalire ai luoghi e alle persone frequentati durante il periodo di incubazione. In poche parole, Immuni rileva e registra ogni contatto ravvicinato tra cellulari di persone diverse, Diary mantiene memoria dei luoghi in cui ogni giorno sostiamo: il bar, l’ufficio, il negozio, la casa della zia o dell’amante.

Quando una persona risulta positiva, le autorità sanitarie tramite App lanciano un alert che raggiunge i telefoni di chi è entrato in contatto con l’infetto nei giorni e nelle settimane precedenti, in modo da allertarlo e possibilmente metterlo in quarantena.

Tutto molto bello e funzionale, a prima vista.

In realtà, nell’attesa indefinita che questo virus scompaia da solo o che un vaccino lo debelli come un colpo di bacchetta magica (con quale sicurezza e a quale prezzo non è dato sapere), ci si trova totalmente impreparati ad affrontare la situazione e non avendo altre strategie da mettere in campo per proteggere la popolazione, governanti e scienziati giocano la carta techno-friendly dell’App

Una misura prima di tutto psicologica. Innanzitutto serve a dare l’impressione che chi ci governa stia facendo “qualcosa”, che questo qualcosa si riveli del tutto inutile se non controproducente non importa, purché passi il messaggio che una tecnologia salvifica è al nostro servizio; in secondo luogo, il lancio di queste App va incontro alla spasmodica ricerca di “sicurezza”, inculcata nel profondo di tutti e tutte dal terrore sparso a piene mani in questi mesi (senza voler negare che è bene mantenere un livello di coscienzioso timore della pandemia).

Insomma, non si vede un piano di potenziamento della rete sanitaria territoriale, non ci sono massicci investimenti in tamponi, né un programma di distribuzione capillare di mascherine e guanti (tra l’altro, è troppo chiedere investimenti per utilizzare materiali meno inquinanti di quelli attuali?): si spera che la doppia App da una parte risollevi la reputazione di una politica sanitaria catastrofica, dall’altro porti un po’ di lustro a un’Università di provincia.

Inoltre, non si capisce bene quale distanza e quale durata del contatto con un positivo vengano considerate potenziale pericolo, come sia valutato il contesto ambientale in cui si svolge l’incontro, come sia possibile tenere in considerazione i diversi livelli di protezione individuale adottati e l’eventuale presenza di barriere di vetro o plexiglass. Senza contare il margine di errore dello strumento; sul sito di DiAry si legge testualmente: “commette errori di posizionamento dell’ordine di 5 metri, ma all’interno degli edifici o in strade molto strette è meno accurato”… non sembra proprio una garanzia di affidabilità!

Soprattutto, queste App trasformano la prossimità in allarme, mentre non è affatto scontato che la vicinanza con un malato comporti l’ammalarsi. Sarà solo la diagnosi a dare la necessaria certezza della positività, ma nel frattempo, visto che i test vengono centellinati con esasperante parsimonia, quando lo schermo si colora di rosso per l’arrivo dell’alert, ci si ritrova pieni d’ansia nel limbo e nelle restrizioni del “probabilmente ammalato”. Quello che è davvero probabile, è la valanga di falsi allarmi che travolgerà gli utilizzatori dell’applicazione.

Se vi siete già posti la questione privacy la risposta è: non preoccupatevi!” [fonte]. Le pubblicità di queste App promettono in tutte le lingue che i dati e le informazioni raccolti saranno nella sola e piena disponibilità dell’utente che li ha prodotti e non verranno diffusi per uso esterno all’App se non in forma volontaria e come dati statistici nel completo anonimato. Vogliamo credere che sia così – anche se gli unici dati realmente a prova di divulgazione sono quelli che non esistono – ma è evidente che non c’è bisogno di essere sotto dittatura perché il sapersi costantemente tracciati finisca per essere una fonte di conformismo e sottomissione (chi si unirà alla protesta di piazza con l’App di tracciamento attiva?).

E poi, una volta ricevuto l’alert da DiAry sul focolaio epidemico trovato in un certo luogo, dove siamo stati un certo giorno, non è forse normale che chiunque cerchi di ricordarsi la circostanza. Chi c’era? Chi era il malato? Forse Tizio… e infatti non lo vedo da tre giorni, deve essere sicuramente lui! Adesso lo scrivo nel gruppo whatsapp… Evidente è il rischio di stigmatizzazione sociale per i positivi, o per chi è identificato, magari erroneamente, come l’untore di turno. Non solo: ci sono situazioni in cui l’anonimizzazione tanto sbandierata dai promotori di queste App è semplicemente falsa, con tanti saluti alla privacy sulle condizioni di salute difesa a spada tratta fino a ieri.

Facciamo qualche esempio con Immuni e il suo sistema Bluetooth:

– Il Sig. Rossi è talmente preso male dalla pandemia che esce solo per andare al piccolo negozio di alimentari del quartiere: se la sua App lo allerta, il malato è senza dubbio il negoziante.

– Il Sig. Bianchi vuole sapere se c’è un ammalato nel suo condominio: prende il suo vecchio smartphone, ci installa l’App e lo infila nella cassetta della posta: se arriva l’alert, qualcuno del palazzo è sicuramente positivo, facile capire chi sia.

– Un’azienda vuole assumere una persona tramite colloquio di lavoro ma si vuole assicurare che non si ammali nel periodo tra il colloquio e la firma del contratto. I tre candidati entrano uno alla volta, l’esaminatore ha sul tavolo tre telefoni con l’App installata e li accende a turno, uno per ogni candidato. Se nelle settimane successive uno dei tre telefoni riceve l’alert si saprà chi è il candidato da non assumere.

– Il sig. Paparazzo vuole avere informazioni sullo stato di salute dell’attore Caio. Si mette d’accordo con un qualunque ragazzo che lavora alla produzione del film di Caio per avvicinare uno smartphone a quello dell’attore. Poi lo smartphone resta sempre nell’ufficio di Paparazzo: se si accende è pronto lo scoop sulla malattia di Caio.

Gli esempi potrebbero continuare a decine. Questi li abbiamo ripresi da www.risques-tracage.fr. In ogni caso, ci rassicurano, l’installazione dell’App non è obbligatoria. Per ora. Ma non è un esercizio di fantascienza pensare che una volta messa in campo potrebbe diventarlo, se non per forza di legge per lo meno subdolamente: averla sul proprio telefonino potrebbe essere la discriminante per accedere a certi luoghi, o per salire su un treno, oppure certi datori di lavoro potrebbero consigliarla così caldamente ai propri dipendenti da non lasciare loro scelta. Chi si rifiutasse di installarla verrebbe automaticamente posto fuori dal consorzio sociale e sospettato delle peggiori cose. L’App diventa in questo modo un certificato di immunità, pur non essendoci nessuna relazione valida e provata tra l’avercela installata sullo smartphone e la propria non contagiosità. Si chiama falsa percezione di sicurezza e il suo risultato è esattamente l’opposto del contenimento del contagio.

Infine, ma non ultimo, la diffusione di queste App e quindi la convivenza con il tracciamento costante dei propri spostamenti – sotto il costante inganno del “tanto non ho niente da nascondere”, anzi “lo fanno per il nostro bene” – apre la strada all’accettazione sociale di altre tecnologie del controllo che fino ad ora erano state malviste dalla maggior parte delle persone dotate di buon senso, come le telecamere capaci di riconoscimento facciale negli spazi pubblici (dando un bel colpo di spugna a tutte le problematiche relative al possibile abuso dei dati biometrici) o l’utilizzo dei droni per la sorveglianza.

C’è anche un altro piccolo dettaglio, talmente ridicolo che ci limitiamo ad accennarlo. A DiAry è legato un sistema di accumulo punti WOM, estrema storpiatura dell’idea di “moneta sociale”, in realtà molto più vicina a una pericolosa gamification (cioè l’introduzione di elementi tipici del gioco, come i punti, i livelli, la classifica, in un contesto sociale non ludico), dove il punteggio è facile che diventi reputazione. In pratica, tanto più tempo l’App è attiva sul proprio telefono, e tanto più tempo il sistema di localizzazione rileva che sei fermo nella tua abitazione, tanti più punti accumuli. Usare l’App e stare a casa sono cioè azioni ritenute socialmente positive che danno diritto a un credito spendibile in esercizi commerciali che, un po’ come per la lotteria della scuola di fine anno, mettono a disposizione beni, servizi e sconti.

Secondo noi, abbiamo bisogno di diagnosi e di cure, di una strategia non demenziale di distanziamento sociale (del tipo fabbriche di mobili aperte e sentieri del bosco vietati) e probabilmente anche di buone tecniche di indagine epidemiologica per circoscrivere l’epidemia, senza confidare nelle dubbie capacità dell’ultimo ritrovato tecnologico. Abbiamo bisogno che le informazioni sulla salute non finiscano in mano ai datori di lavoro, ai vicini, alla polizia. Abbiamo bisogno di responsabilità individuale e di una riflessione collettiva sulla gestione della salute, di prenderci cura gli uni degli altri, di accesso ai servizi di base per tutti/e, di fare rete con la propria comunità, di autonomia nella gestione materiale della propria vita: tutti aspetti che richiedono un cambio di rotta che non va nella direzione di stingersi sempre più in simbiosi con il proprio smartphone, fino al punto che tanto varrà farselo impiantare sottopelle.

Link utili

dall’estero

Immuni e DiAry: perché le App per il tracciamento non sono la soluzione ma un ulteriore problema

Da Bologna ricomincia il ritorno alla “normalità”?

La “Fase 2” vera è propria è cominciata. Finalmente dopo mesi di clausura, controlli, caccia all’untore, infami alle finestre (con accanto il tricolore), ci si può muovere senza più autocertificare niente.
Insomma, per i più ottimisti, siamo ad un passo dal “ritorno alla normalità”!
Ma la vera domanda è: – ma ci torneremo davvero alla normalità preCovid? Perché, oltre al fatto che già quella aveva parecchi aspetti inquietanti, la “normalità” di prima sarà aumentata da droni, controlli, smart-working, app, delatori, guerra fra poveri e tutto il resto, che la gestione dell’emergenza Covid lascerà in eredità.
In questi giorni ne abbiamo avuto il primo assaggio: l’operazione dei ROS di Bologna che ha portato in carcere 7 compagni e compagne, oltre ad altri/e 5 con obbligo di dimora e firme giornaliere. La motivazione degli arresti è la classica, 270 bis, reato associativo schifoso usato da decenni per appioppare anni di galera. L’unica vera differenza, forse proprio dovuta al fatto di vivere nel “Post-Covid”, è l’arroganza del palesare le motivazioni da parte dei ROS con questa dichiarazione: “L’intervento della magistratura e dei Carabinieri assume una strategica valenza preventiva per evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturibili dalla pandemia per il Coronavirus, possano insediarsi altri momenti di più generale “campagna di lotta antistato” oggetto del programma criminoso di matrice anarchica.”
Leggendo queste parole si evince come alle Forze dell’Ordine non serva più nemmeno nascondersi dietro al dito della democrazia, possono benissimo palesare arresti preventivi, basati sulle idee (cosiddetti reati d’opinione) come in una qualsiasi dittatura. E tutto questo col plauso dei benpensanti cittadini dal cervello svuotato da tanto internet e tv, rinchiusi in casa senza parlare “realmente” con nessuno per mesi.
Certo, queste cose succedevano anche nel Pre-Covid, ma la sfrontatezza del potere è cambiata di molto.
Le motivazioni che portavano a vedere la democrazia come forma di potere non così diversa dalla dittatura, bensì complementare ad essa, sono ancor più sotto gli occhi di tutti. Infatti, dalla democrazia parlamentare alla dittatura dei camici bianchi il passo è stato davvero rapido!
La vera sfida da affrontare, come anarchic* e rivoluzionar*, sarà proprio quella di dover combattere lo stesso schifo di sistema Pre-Covid con tutti i mezzi tecnologici che sono stati sperimentati durante l’emergenza Covid (d’altronde erano anni che venivano scritti manifesti, fatte azioni, contro 5g, tecnologie varie, robotizzazione dell’esistente, droni e controllo). Anche se ce l’eravamo immaginato, forse ai più sembrava pura fantasia. Ora come ora, il fatto che questo sia realtà è sempre più palese: quindi non sarebbe male che per una volta i timori degli sbirri si avverassero!
Il fatto che la notte dopo gli arresti alcune centraline internet a Rovereto siano state danneggiate lasciando senza rete migliaia di persone ci mostra già un punto di partenza: l’attacco!
Tornando ai compagni e alle compagne arrestati/e a Bologna, non possiamo che esprimere la nostra più profonda solidarietà e vicinanza. Riprendendo un motto letto su uno striscione fuori da un tribunale durante un altro processo per associazione sovversiva: “Se sono innocenti hanno tutta la nostra solidarietà, se colpevoli ancora di più”.
Elena, Guido, Zipeppe, Stefi, Nicole, Duccio, Leo, Otta, Angelo, Martino, Tommi ed Emma LIBER* SUBITO!
Fuoco allo Stato e alle carceri!
Per l’anarchia

Centro di documentazione anarchico l’”Arrotino”

 

testo in pdf:

Da Bologna alla normalità

Un sussurro da nessun luogo

Saluti da nessun luogo
 
Cari amici e compagni,
È da molto tempo che mi porto dietro l’idea di farmi risentire. Ovunque io sia, qualunque cosa succeda, qualsiasi difficoltà o bella esperienza mi accada all’esterno della prigione fisica — ho sempre sentito il bisogno di rendervi partecipi. Dopo tutto, siete una parte indispensabile della mia vita che ha messo profonde radici nel mio cuore.
Ma ogni volta che mi sedevo davanti a un foglio bianco, mi mancava la capacità di scrivere. Di raccontare. Ogni volta rimanevo in silenzio e questo mi rattristava. In che modo le parole possono veramente trasmettere quel che sento? Continuavo a torturare la mia mente con questa domanda quando mi ritrovavo seduto alla mia scrivania a fissare quella pagina bianca davanti a me. Mentre cercavo le parole, il mondo si metteva a roteare più velocemente, per poi fermarsi bruscamente. Se all’inizio di febbraio di quest’anno qualcuno avesse seriamente voluto farmi credere che il virus proveniente dalla città cinese di Wuhan avrebbe messo metà del pianeta sotto una campana di vetro nel giro di poche settimane, avrei scosso la testa ridendo. Ma eccoci oramai in pieno processo autoritario di trasformazione radicale dello status quo.
 
«Ritorno alla vecchia normalità!», implorano i reazionari nostalgici. Come sempre interessati a salvarsi il culo e a chiudere a chiave la propria porta il più in fretta possibile.
«Avanti verso una nuova normalità!», predicano i liberali della cibernetica. Piccoli collaboratori di Stato risvegliati, sempre animati di buone intenzioni…
E i potenti cosa fanno? Sono divisi, unanimi, esitanti, determinati, totalitari, ragionevoli, scientifici, religiosi… La tavolozza è infinita ma illustra comunque la stessa cosa: agiscono secondo la massima della conservazione del potere. Sempre ed esclusivamente a tale scopo.
Disquisire fra «vecchia» e «nuova», o in altre parole di come vogliamo essere amministrati e tenuti al guinzaglio, non è questione che possa interessare gli individui che aspirano all’autodeterminazione. Come possiamo opporci al diktat delle leggi e dei loro valori, come sabotarlo col pensiero e con la dinamite e aprire così una breccia per qualcosa di nuovo — ecco una musica per le orecchie di chi è in cerca di terra sotto l’asfalto.
Sono in fuga da quasi 4 anni, il che mi impedisce di discutere con voi codeste questioni cruciali. Di formulare o respingere certe ipotesi con voi, di elaborare approcci al vostro fianco e di testarli col cuore in mano. Ovviamente, questo mi fa stare male. Poiché una tale discussione significherebbe che posso vedervi, ascoltarvi, sentirvi e risentirvi. Non potete neanche immaginare quanto mi manchi questa vicinanza immediata — quanto mi manchiate tutte e tutti enormemente!
Sia chiaro, non sono insieme a voi ma sono al vostro fianco — su una traversa laterale di nessun luogo da dove vi saluto e vi sussurro i più calorosi saluti. Non lasciamo che il tempo che scorre s’interponga fra noi e offuschi a poco a poco i momenti vissuti insieme e le esperienze comuni.
Grazie a voi, sono felice di aver ritrovato le mie amate parole e il desiderio di raccontare, siete formidabili.
Restiamo in contatto.
 
In solidarietà e in affinità bruciante di libertà,
il vostro amico e compagno da nessun luogo
 
metà maggio 2020
[Trad. da SAD]
 

La nave dei folli – Episodio 8

Il compito che si prefigge la cibernetica è lottare contro l’entropia, l’implacabile seconda legge della termodinamica per cui in ogni sistema isolato l’ordine diminuisce e il disordine aumenta. Per uscire da questo vicolo cieco, la Terra è considerata – a differenza dell’Universo – un sistema aperto e l’umanità un «isolotto di entropia decrescente» che, grazie al trattamento dei dati, può affermare la realtà del progresso.

Dato che il caso è un principio strutturale che governa l’Universo, bisogna migliorare il controllo delle informazioni, basandosi sulla comunicazione considerata prerequisito necessario per qualunque forma di organizzazione. E per supplire ai sempre più evidenti difetti umani, bisognerà creare una macchina in grado di controllare, prevedere, governare.

Secondo questa prospettiva, la disorganizzazione e il caos che minacciano la società sono considerate il male agostiniano dell’imperfezione. E, con la sua irrazionalità e le sue debolezze, ora il nemico è l’uomo.

Riferimenti Episodio 8

per ascoltare:

https://lanavedeifolli.noblogs.org/

Atene, Grecia – Rivendicazione di quattro attacchi incendiari a domicilio da parte dei Gruppi Anarchici di Visita Notturna

Viviamo nell’era dell’iper-informazione, del costante flusso e della produzione di notizie. Il potere dominante è definito dal controllo del flusso di informazioni e dei big-data. Il controllo della forza umana è ora possibile attraverso la continua analisi dei dati raccolti quotidianamente a partire dalle tracce digitali di chiunque, mirando all’asservimento volontario sotto l’ordine dominante. Queste condizioni imposte sono totalmente differenti e maggiormente riverniciate rispetto agli anni precedenti. La strategia contro-insurrezionale e la repressione preventiva contro i dannati è stata strutturata nel contesto delle nuove tecnologie distopiche, da conoscenze specialistiche e da metodi di indagine e raccolta delle prove ancora più fluidi e complessi.

La costante mappatura dei nostri ambienti anarchici da parte delle forze di polizia, ovvero i procedimenti giudiziari e gli arresti per affissione di manifesti e per gli interventi, o i localizzatori GPS e le micro telecamere posizionate nelle case e nei veicoli dei compagni, mirano al costante arricchimento della banca dati utilizzata dall’infrastruttura statale.

Ancora una volta vediamo una sistematica imposizione di narrazioni razziste e di estrema destra da parte dei media. In tale maniera giustificano l’immagine degli spazi pubblici militarizzati e le schiere di poliziotti che si sparpagliano in ogni strada e piazza. Il soggetto nazionale sta radicandosi negli aridi terreni della propria eredità in declino, sostenendo nuovamente l’ascesa dei neo-nazisti e dei fascisti che si nascondevano sotto l’ombrello del patriottismo e della «frustrazione». Notiamo anche un’intensità crescente nelle loro azioni, insieme allo sviluppo operativo dei mezzi che impiegano, e un equivalennte apparente sostegno da parte dello Stato. Le vigilanza armata dei cittadini di Evros, sotto la tolleranza e la copertura delle forze di polizia, è una tetra rappresentazione del futuro. Tutti coloro che formalmente o informalmente avevano firmato una tregua con il precedente governo a causa della sua presunta mediocrità socialdemocratica, hanno perduto l’«accordo» dopo luglio. Tutti coloro che sostenevano la politica di Syriza per una similitudine ideologica con essa, ora stanno gridando a gran voce, cercando di convincerci che si trattasse del male minore.

Nell’attuale congiuntura storica lo Stato greco sta fronteggiando il nemico interno applicando una intensa strategia, imponendo condizioni di eccezione e dottrine «legge e ordine», erigendo monumenti alla vittoria contro i nostri compagni imprigionati e perseguitati, adoperandosi per l’instaurazione della normalità capitalistica e l’intercettazione di ogni movimento insurrezionale. È nostra responsabilità sviluppare una infrastruttura militante e pianificare attentamente i nostri prossimi passi verso la formazione di un movimento anarchico preparato, capace di ergersi a barricata contro il totalitario attacco capitalista. Negli ultimi mesi, le azioni di insorgenza individuale e collettiva si fanno più frequenti, dipingendo la tela metropolitana notturna con incendi, fragorose melodie di esplosioni e bagliori di cospirazioni riuscite.

Gli attacchi incendiari a domicilio come una delle belle arti

Il quadro della relazione capitalistica dominante non è composto solo da anonime reti di violenza del capitale e dalla incessante riproduzione dei rapporti sociali da queste imposti. Non è composto solo dalla nostra mutilazione mentale, dalla nostra frammentazione, dal ripetuto svolgimento del rituale capitalista all’interno della fabbrica metropolitana che distrugge la nostra memoria, la nostra immaginazione creativa, la nostra identità. Non è composto solo dal dilatarsi del capitale su ogni secondo della nostra vita quotidiana, anche oltre la dimensione lavorativa; un processo di snaturamento che distrugge ogni singola cellula non ancora infetta dal capitale presente nella nostra individualità. La struttura capitalistica è composta anche da esseri umani che ne diventano parte integrante adempiendo ad un ruolo sociale, economico, politico. Essi sono una delle numerose espressioni della brutalità del capitale; sono il suo corpo e la sua voce, i suoi occhi e le sue orecchie, le sue armi che ci prendono di mira, la sua irruenta propaganda.

La strategia dell’individuazione mirata del nemico serve a molteplici finalità politiche e tattiche. Trasferisce la paura e il terrore – coltivato e praticato contro gli oppressi – nelle case dei dominatori, nei luoghi in cui si sentono sicuri e non vulnerabili. Dimostra che quando si è organizzati e si ha la volontà siamo in grado di poterli colpire; dimostra che, quando scegliamo il tempo e il luogo, quando scegliamo la metodologia della guerriglia come strumento di lotta e di conflitto, possiamo essere il fronte del contrattacco contro la strategia contro-insurrezionale dello Stato e del capitalismo. Il ricordare agli zelanti guardiani del mondo capitalista che possono incontrare una decisa resistenza se ci accorgiamo delle effettive proporzioni della guerra sociale, se vivifichiamo le conseguenze materiali che ricadranno a tutti coloro che sono al servizio delle moderne tenebre, è nelle nostre mani.

Se prendiamo la decisione di diventare davvero pericolosi e di organizzare noi stessi, portiamo la guerra nel loro giardino, nella loro vita quotidiana. Poiché, anche se le persone che ricoprono posizioni importanti nella gerarchia autoritaria sono comunque sacrificabili, è sempre di grande importanza politica restituire loro la paura e il dolore psicosomatico che hanno esercitato sui soggetti oppressi. Trasformiamoci nella minaccia che costantemente incombe sulle loro teste; quella che li rende bisognosi di una sicurezza armata per 24 ore su 24, sette giorni su sette, presso le loro case o durante gli spostamenti, di telecamere ad ogni angolo, e infine di un intero apparato di ricerca, prevenzione, raccolta di dati, repressione e giustificazione della loro vergogna. Facciamo sì che questa minaccia dia loro la caccia. I sostenitori attivi della distopica normalità neoliberale sono presi di mira. Sarebbe quindi opportuno che calcolino le loro scelte e le loro parole, rivendicando l’importanza che intendiamo imputare loro contando i loro stessi indirizzi.

Spiegando le nostre radici e le nostre origini nella dimensione pubblica

Ecco da dove proveniamo: dagli appartamenti del miserabile isolamento metropolitano. Dalle fallite crisi di coscienza tentate dai media attraverso il lavaggio del cervello e l’inversione della realtà; dalla cultura di massa del consumismo e della pubblicità che costruiscono pseudo-necessità volte a riempire le tasche dei padroni; dalla repressione delle percosse e dei pestaggi alle stazioni di polizia e durante le proteste, quando decidiamo di opporci al potere; dall’ideologia «non violenta», che non è altro che un umiliante inchino e un invito ai dominanti a continuare il loro operato assassino; dalla depressione, massicciamente diffusa dal capitalismo attraverso la pressione asfissiante, lo stupore virtuale, la degradazione di ogni sano rapporto sociale – con l’intento di fornirci la «soluzione» e guarirci attraverso le droghe psicofarmaceutiche, lasciandoci zoppicanti, inconsapevoli, vaganti vittime della decadenza postmoderna.

Di fronte al violento presente dei nostri tempi, ci rammarichiamo di essere rimasti servi indifferenti e patetici spettatori. Vogliamo contrattaccare; contro le funzionalità di gestione e riproduzione della realtà del capitale, contro il «bellum omnium contra omnes», contro l’individualizzazione e l’antagonismo costante. Vogliamo erigere barricate di resistenza contro uno Stato che fa crescere il nazionalismo e il razzismo; che divide la popolazione in autoctoni e stranieri; che decide per la vita o la morte alle frontiere terrestri o marittime, sotto il suono dei tamburi di guerra e delle urla della fascistizzazione sociale in espansione.

L’anarchia – qui intesa come incarnazione della costante guerra per la libertà – è un monito perenne a chi è al servizio delle istituzioni autoritarie, un monito che può essere percepito come una vendetta da compiere su piccola scala per tutti coloro che percepiscono che il capitalismo è la morte sociale camuffata, una ferita aperta da cui il sangue dei dannati del mondo si sparge dovunque. Una vendetta su piccola scala per tutti noi che sentiamo di aver perso migliaia di belle giornate chiusi nei luoghi di lavoro, producendo profitto per i padroni; che abbiamo perso migliaia di bellissimi giorni imprigionati nei campi di concentramento, nei loro centri di detenzione aperti o chiusi e nelle carceri; che quotidianamente distruggiamo i nostri corpi per far fronte alla ridicole richieste del datore di lavoro; che diveniamo sacrificabili per non turbare la ricerca di profitto del capitalismo. Ecco perché queste azioni sono anche un segnale di solidarietà a chi, nella lettura di questo testo, troverà una parte di sé; una promessa che la lotta continua; una sfida aperta, perché abbiamo bisogno di compagni con cui creare legami militanti e prospettive collettive. Cerchiamo di realizzare la visione della libertà e della resistenza, così da diventare il peggiore incubo di chi ci vorrebbe con la testa china.

Le nostre relazioni e le nostre convinzioni sono piantate come un seme nella profondità del terreno. Fioriscono fuori dal gelido cemento come fenditure di vegetazione. Fioriscono ovunque e sempre. Questa volta, sono fiorite dalle fiamme e dai frammenti degli ordigni incendiario-esplosivi che abbiamo collocato esternamente e direttamente nelle proprietà di alcuni seguaci dell’abiezione capitalista, soggetti di cui abbaimo esperienza e che combattiamo all’interno del nostro territorio.

Assumiamo la responsabilità per gli attacchi incendiari contro le abitazioni di:

– Manolis Asariotis, giornalista della polizia per l’ANT1 (azienda greca attiva nell’ambito dei media e della comunicazione). Il suo ruolo di persona che sostiene appieno lo Stato ed esprime la propaganda del governo nei propri discorsi pubblici, essendo di fatto una sua estensione fisica; la sua totale coordinazione con gli ambienti (s)conosciuti dell’unita’antiterrorismo, che pubblicizza informazioni false in modo da prendere di mira i compagni; l’opportunismo e l’astio contro gli anarchici, due aspetti che lo conducono a costruire un «reality show» attorno alle vite personali degli anarchici combattenti, riproponendo i racconti della polizia, costruendo la colpevolezza per molte persone, preparando il terreno alla loro repressione; il suo ruolo nel coprire tutti i crimini della polizia greca contro i combattenti, i migranti, gli esclusi; queste sono alcune dei motivazioni per cui siamo andati a trovarlo. La prossima volta in cui divulgherà notizie false e prenderà di mira le persone, che sia consapevole del fatto che la sua abitazione è conosciuta presso i nostri ambienti.

– Thanos Tzimeros, politico fascista. Il suo ruolo di pittoresco, anche se potenzialmente pericoloso, politico; le sue infami dichiarazioni pubbliche sui nostri morti, come Alexis Grigoropoulos e Pavlos Fissas, la sua immondizia razzista e xenofoba contro i migranti, la ripugnante riproposizione della teoria degli opposti estremismi (la teoria del ferro di cavallo), e l’equiparazione tra nazismo e comunismo; queste sono alcune tra le decine di ragioni per cui lo abbiamo visitato. Per chiarire la questione del nostro povero Thanos: forse non ha occupato alcuna posizione politica – anche se ha eletto tre membri nel consiglio regionale dell’Attica. Però è ancora una evidente voce dell’ala di estrema destra, del polo neoliberale, della narrazione conservatrice. La sua stupidità ci ha sorpresi ancora una volta, appena abbiamo saputo che sta effettuando una raccolta di fondi per raccogliere denaro e riparare l’entrata della sua abitazione che è stata incendiata. Stia tranquillo che adesso, conoscendo la sua casa, forse inaspettatamente gli offriremo il nostro contributo alla raccolta fondi.

– Ioanna Mandrou, giornalista di SKAI (azienda greca attiva nell’ambito dei media e della comunicazione), e suo marito, giudice. Nei media non si è riferito dell’attacco incendiario alla casa della coppia di autoritari. Il suo ruolo di predicatrice per i reportage giudiziari, ruolo basato sull’«obiettività» e sull’«informazione valida» che fuoriesce direttamente dal marito, che occupa una posizione importante nella gerarchia del sistema giudiziario; le sue costanti calunnie contro i prigionieri politici (ad esempio, nel caso della decisione negativa riguardo le giornate con permesso di uscita dal carcere per Dimitris Koufontinas) e i combattenti perseguiti; i suoi commenti offensivi contro Magda Fissa (che durante il processo è stata provocatoria nei confronti dell’assassino di suo figlio Pavlos Fissas); la sua responsabilità nella costante copertura di ogni scandalo politico ed economico (vedi, ad esempio, Novartis), in quanto instaura costantemente un’atmosfera di giustificazione sociale per le assoluzioni giudiziarie già stabilite in precedenza; il fatto che è politicamente organica al partito Nea Dimokratia [«Nuova Democrazia»], e che può essere notata ad ogni incontro, visita o riunione dei politici della ND (vedi il video del suo ballo all’evento del Ministro degli Affari Marittimi, Giannis Plakiotakis, insieme a tutta la feccia di estrema destra); il fatto che è una fanatica sostenitrice del fascismo, dei memoranda, della disuguaglianza sociale, della repressione statale; tutto questo ci è bastato per individuarla e colpirla. Facciamo sì che sia lei che suo marito tengano a mente che abbiamo ancora delle questioni in sospeso con loro. La scelta di Mandrou di esercitare pressione sui nostri compagni mediante calunnie, menzogne e altre fissazioni, aprendo le porte alla merda giudiziaria – come suo marito e i suoi compari di «alta classe», che hanno appeso i nostri compagni al cappio della prigionia – non resterà senza risposta.

– Manolis Themelis, poliziotto con una lunga carriera che ora è divenuto un politico locale accanto al sindaco (ed ex membro del Pasok) della municipalità di Nea Filadelfia, Giannis Vouros. Anche questo attacco non è stato menzionato dai media. Si tratta di un militante fascista, con un ruolo attivo nel trasmettere la strategia di governo nel suo quartiere. Ha lavorato come poliziotto presso la stazione di polizia di Omonoia – nota per la mole di brutalità e omicidi compiuti dai suoi poliziotti – occupando (tra le altre cose), negli ultimi anni, una posizione di rilievo nella tortura, nell’aggressione, nella vessazione e nell’umiliazione degli immigrati. Ha operato presso la polizia greca in svariati modi, replicando sempre la morale cannibalistica e sfruttatrice dominante. È uno dei tanti poliziotti «anonimi», ben sepolto nella melma del presunto anonimato garantito dalla loro posizione come organi esecutivi sacrificabili. Lo abbiamo fatto riemergere come esempio per ogni equivalente spazzatura umana, per ricordare loro che hanno preso scelte di vita molto specifiche e indelebili. Forse un regalo incendiario alle loro auto o all’ingresso delle loro case può aiutarli a ricordare che sono in prima linea nella guerra contro i rivoluzionari e i dannati, e che questa posizione per loro potrà avere un costo a livello personale.

La nostra più totale solidarietà ai compagni Kostantina Athanasopoulou, Dimitra Valavani e Giannis Michailidis, attualmente in carcere, a seguito di una operazione antiterrorismo.

Forza per i quattro compagni perseguitati per la loro partecipazione alla presunta organizzazione «Compagni», a seguito di un’operazione stupidamente orchestrata che tendeva a terrorizzare il movimento anarchico in generale.

Segnali di solidarietà e di forza al nostro compagno Gabriel Pombo da Silva, alle due compagne arrestate per l’incendio di un bancomat a Madrid, ai «tre della panchina» in Germania e a tutti gli anarchici, antiautoritari e antifascisti prigionieri in Russia e in Italia.

Il nostro pensiero per i detenuti che si rivoltano contro la condizione di isolamento all’interno delle carceri italiane, dopo la situazione di emergenza generalizzata.

Dentro i nostri cuori, le fiamme dell’insurrezione cilena stanno ancora bruciando, e non dimentichiamo né i morti, né i reclusi, né le persone che hanno conosciuto la brutalità della feccia in uniforme.

E siccome la memoria è un’arma a portata di mano, Lambros Fountas accompagna sempre i nostri cuori e le nostre lotte. Il 10 marzo non muore nessuno, il 10 marzo nascono i guerriglieri.

Gruppi Anarchici di Visita Notturna [Αναρχικές Ομάδες Νυχτερινών Επισκέψεων]

P.S.: Consideriamo come non appropriato all’attuale situazione fare solo una frammentaria menzione sulla questione del Covid-19. Vorremmo giusto concentrarci similmente sugli esercizi forzati di distanziamento sociale, alienazione, auto-segregazione, solitudine, insicurezza e paura delle persone accanto a noi. Esercizi di consolidamento dello stato di emergenza, della militarizzazione della metropoli, della ristrutturazione capitalistica in termini di gestione militarizzata delle battaglie in campo sociale, della regolazione fluida ed elastica dei rapporti di lavoro attraverso il lavoro domestico e gli impegni temporanei, della distruzione di ogni sentire collettivo all’interno degli spazi di lavoro o nei terreni della riproduzione sociale. Esercizi a bocca e a occhi chiusi di fronte al moderno controllo panoptico aggiornato, telecamere termiche o di analisi biometrica immediata, droni silenziosi, giustificazione del tracking telefonico. Esercizi di insensibilità e apatia di fronte al totale dispiegarsi della moderna politica della morte e all’esclusione sociale di migranti, detenuti, senzatetto, persone che praticamente non potrebbero seguire il famigerato «restiamo a casa», perché non hanno una casa, o forse perché la loro «casa» è un luogo dove sono invisibilmente accumulati, senza cure mediche, perché non sono considerati come «persone normali», come «cittadini», ma come corpi superflui.

La gestione di questa «crisi sanitaria» in termini di guerra, è solo un altro punto della guerra sociale e di classe. È un attacco diretto dal regno dei privilegiati contro gli esclusi, perché non c’è una cella d’oro che li rinchiuda stoicamente, ma precari e sottopagati lunghi orari di lavoro, orari estenuanti, sprovvisti dei mezzi necessari per l’igiene, licenziamenti e disoccupazione, caccia di elemosine, grande ansia e insicurezza per ciò che verrà. La pacificazione di classe che si sta per inaugurare, affrontando il «nemico invisibile che minaccia la società», rende ancora più visibile dove dirigere il nostro fuoco. Ciò di cui abbiamo profondamente bisogno per comunicare con i nostri compagni, è che – al di là dei temi fondamentali della solidarietà, del mutuo appoggio e dell’autodifesa – questa circostanza ci trovi preparati. Mettiamoci nell’ottica di comunicare – parlare – organizzarsi – prepararsi. Così da poter stare sul nostro terreno, affrontando l’imminente crisi del capitale e la guerra contro di noi.

Lecce – Epidemie!

Gli arresti investivano case e strade intere a mo’ di epidemia.
Come la gente si trasmette il contagio, senza saperlo, con una stretta
di mano, il respiro, la trasmissione di qualche oggetto,
così con una stretta di mano, il respiro, un fortuito incontro per la
strada si
trasmettevano il contagio di un immancabile arresto.
A. Solženicyn

L’ex deportato che scriveva queste righe una sessantina di anni fa,
certo non immaginava quanto si sarebbero rivelate profetiche, seppure a
parti capovolte. Nell’associare gli arresti di massa del totalitarismo
bolscevico ad una epidemia coglieva perfettamente l’aspetto
preponderante del totalitarismo democratico palesatosi in questi mesi,
il quale ha approfittato di una epidemia per imporre un arresto di massa
di carattere nazionale, sebbene all’interno delle proprie abitazioni, e
per di più senza nessuna forma di resistenza che, invece, sempre
accompagna gli arresti di massa e i totalitarismi.
Può sembrare azzardato paragonare i regimi totalitari a quelli
democratici, e sicuramente i secondi sono privi di buona parte della
brutalità che ha accompagnato i totalitarismi del Novecento, ma pur
diversi nella forma, numerose similitudini sono invece nella sostanza;
una sostanza che è fatta principalmente di controllo pervasivo ed
ossessivo, dove le ronde sono state soppiantate dai droni e la
propaganda ideologica ha invaso ogni anfratto della vita sociale, o per
dir meglio social, tramite una enorme intromissione tecnologica i cui
terminali sono nelle mani di ogni essere vivente occidentale. Un
reticolato invisibile di migliaia di chilometri di fibra ottica opera
senz’altro meglio dei carri armati agli angoli delle strade. Polizia e
infamia degli zelanti cittadini, invece, sono rimasti praticamente
uguali.
Un altro aspetto comune è la sparizione di alcuni cittadini. Se il
totalitarismo bolscevico li faceva sparire nelle segrete delle carceri o
nei sotterranei dei conventi, fucilati dalla Ceka e portati via in
camion, cosa ricordano i camion militari che trasportano le bare di
centinaia di morti, usciti vivi dalle proprie abitazioni e mai più
rivisti dai loro cari? Alcuni di loro neanche mai identificati con nome
e cognome, ma semplicemente con un numero. E le fosse comuni negli Stati
Uniti non richiamano forse orrori che speravamo di non rivedere mai più?
Esseri umani senza volto né nome, pura statistica…

L’arrestologia è una branca importante del corso generale di
carceronomia
e le è stata data un’importante base di teoria sociale.
A. Solženicyn

In un tale contesto, non meraviglia l’arresto di sette anarchici e le
restrizioni imposte ad altri cinque, nel corso di un’operazione a
Bologna dieci giorni fa. Si incarcerano dei compagni perché hanno
solidarizzato con chi si è rivoltato in carcere in periodo di epidemia.
All’arrestologia dei Ros dei carabinieri, è la stessa Procura bolognese
che ha fornito un’importante base di teoria sociale, affermando che il
suo intervento repressivo «assume una strategica valenza preventiva
volta a evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale,
scaturibili dalla particolare situazione emergenziale [l’epidemia,
appunto…] possano insediarsi altri momenti di più generale “campagna di
lotta antistato”».
Per fortuna, in Italia, il totalitarismo è solo un ricordo lontano…

Biblioteca Anarchica Disordine
Via delle Anime, 2/b – Lecce
disordine@riseup.net
disordine.noblogs.org

Epidemie

Volterra – Contro la “Fase due” della repressione preventiva! Basta montature! Solidarietà e libertà!

Apprendiamo che il 13 maggio nel quadro di un’operazione repressiva coordinata dal PM Dambruoso della Procura di Bologna e dal ROS dei Carabinieri è stato perquisito lo spazio di documentazione anarchico Il Tribolo di Bologna, sette anarchici sono stati arrestati e cinque sono stati sottoposti a obbligo di dimora. Agli arrestati viene contestato l’art 270 bis “associazione sovversiva con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico” che prevede la reclusione da 5 a 10 anni.

In una fase in cui sono vietate e sanzionate tutte le libertà di riunione, manifestazione e sciopero, accuse e arresti politici sono inaccettabili.

L’apparato repressivo statale si scatena, non a caso, in un momento storico in cui forme di protesta contro simili provvedimenti vengono perseguite e il riunirsi ed il manifestare sono resi formalmente illegali, mentre la fanfara mediatica distoglie l’attenzione e invoca l’unità nazionale.

Esprimiamo solidarietà verso chi è stato colpito da questa operazione repressiva, vogliamo libertà per gli arrestati e per chi è stato sottoposto all’obbligo di dimora.

Ancora una volta il ROS cerca di confezionare accuse di associazione sovversiva e terrorismo per criminalizzare chi lotta contro il governo. Stavolta però la montatura repressiva è apertamente dichiarata dagli stessi Carabinieri a un noto quotidiano locale «le misure cautelari, sottolineano i carabinieri, assumono “una strategica valenza preventiva volta ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale”, derivati dall’emergenza coronavirus, “possano insediarsi altri momenti di più generale ‘campagna di lotta antistato”».

Questo zelo preventivo dichiarato dai Carabinieri serve a coprire l’inconsistenza dell’inchiesta giudiziaria che, come spesso accade poggia in gran parte l’accusa di reato associativo sulla produzione e diffusione di testi di propaganda. Per la stessa Procura di Bologna infatti, l’associazione avrebbe «l’obiettivo di affermare e diffondere l’ideologia anarco-insurrezionalista, nonché di istigare, con la diffusione di materiale propagandistico, alla commissione di atti di violenza contro le istituzioni». Un castello di carte che non sta in piedi.

L’operazione repressiva rivolta contro il Tribolo è un’intimidazione nei confronti di tutti coloro che si pongono contro il governo, che vogliono che si rompa il silenzio sulla situazione nelle carceri, sui 14 morti durante le rivolte carcerarie di marzo.

Libertà per tutti!

Spazio Libertario Pietro Gori – Unione Sindacale Italiana (USI-CIT)

Volterra, 21 maggio 2020 – Via Don Minzoni 58

A bassa voce

Arrabbiati. Alle nostre latitudini, gli individui affetti da rabbia venivano sottoposti a severe misure di detenzione fino all’inizio del XIX secolo, poiché si pensava che la malattia di cui soffrivano potesse trasformarli in animali selvatici. Oggi si vogliono rinchiudere gli arrabbiati che non rispettano né i limiti di spostamento né i gesti-barriera quotidiani (tre multe e potenzialmente si è arrestati, grazie allo stato di emergenza prolungato al 23 luglio), giacché si ritiene che il male dell’insubordinazione di cui soffrono necessiti della loro trasformazione in esseri addomesticati. Ma ciò significa dimenticare troppo in fretta che la rivolta può scoppiare anche nel cuore di questi luoghi di infamia, come ad Uzerche (Corrèze) lo scorso marzo, dove duecento prigionieri hanno devastato e poi incendiato circa 300 celle. In questa grande prigione sociale a cielo aperto, l’attuale laboratorio del «deconfinamento» significa null’altro che un tentativo di stringere le sbarre delle gabbie in cui tentiamo di sopravvivere, e di cui la galera sarebbe sia il punto cieco che l’apice (come punizione e come minaccia). Distruggerle tutte non è quindi solo una necessità per avanzare verso l’ignoto di una pratica esagerata di libertà, è anche uno slancio di vita elementare — siano esse di cemento munito di torrette, di cavi interrati o di servitù volontaria.
 
Attaccare. Lo Stato e i suoi alleati occasionali a tratti sconcertanti che raccomandavano di autorecludersi in massa nel nome del bene comune mentre il dominio si dava carta bianca, ci sono rimasti male. Sia in periferia, dove gli scontri con la polizia non si sono fermati — con incendi di telecamere, di volanti e di edifici istituzionali —, che durante le passeggiate al chiaro di luna che hanno provocato un po’ dovunque la distruzione di decine di strutture di telecomunicazione, questi 55 giorni di confinamento nell’esagono sono stati anche contrassegnati da una certa conflittualità. Non quella di manifestanti che rivendicano un cambiamento dall’alto, ma quella di piccoli gruppi mobili che agiscono direttamente senza aspettarsi né chiedere nulla a nessuno, prendendo di mira due pilastri indispensabili a questo mondo: gli sbirri e i gendarmi garanti di un ordine spietato, e le reti di dati che gli consentono di funzionare in ogni circostanza (dal telelavoro alla telescolastica, dall’economia alla telegiustizia). Se già si sapeva che la guerra sociale non conosce tregua, è rimarchevole che alcuni ribelli e rivoluzionari non abbiano ceduto al ricatto volto alla pacificazione della mano del potere che cura a suo piacimento (selezionando, ad esempio, chi deve morire o vivere), mentre lava l’altra che colpisce, mutila, assassina e imprigiona. Ora che queste due mani si congiungono esplicitamente per formare gli sbirri in camice bianco delle Brigate Sanitarie e altri dispositivi di tracciamento; ora che i poteri di polizia si estendono a una miriade di tirapiedi armati della loro buona coscienza sanitaria (seguaci dei braccialetti elettronici, secondini col volto ben mascherato, controllori di temperature troppo alte, guardiani delle distanze di sicurezza); ora che è più che mai evidente che la digitalizzazione della nostra sopravvivenza continuerà ad accelerare… questi differenti attacchi e sabotaggi condotti in condizioni più difficili del solito potrebbero avere qualcosa da dirci: la normalità è la catastrofe che produce tutte le catastrofi. Non si tratta di implorare il suo ritorno urgente o la sua educata revisione a chi sta in alto, ma di impedirne il ritorno, sia teoricamente che praticamente, attraverso l’auto-organizzazione e l’azione diretta.
 
Dati. Dai campi in cui gli input chimici permanenti sono misurati da droni e satelliti, fino agli esseri viventi addomesticati dall’ecologia della catastrofe munendo gli alberi di sensori e gli animali di chip, attraverso città intelligenti che intendono valorizzare il minimo flusso, dobbiamo affrontare continuamente questa economia del dato che quantifica il mondo riducendolo a una serie di cifre ingurgitate dai computer (presto quantistici), ma anche ad astrazioni matematiche che permettono ogni potere. Cosa c’è di più apparentemente oggettivo dei dati, se non fosse che questi sono influenzati dalla scelta arbitraria di ogni loro misura e criterio iniziali la cui domanda contiene già la risposta e che questa elaborazione di modelli è proprio ciò che consente di integrare l’autorità della gestione senza mai mettere in discussione le cause del problema, per concentrarsi sulle sue sole conseguenze previste? Come affermavano qualche anno fa alcuni feroci oppositori del nucleare e del suo mondo, dopo la distruzione volontaria di rilevatori di radioattività nei pressi di centrali nucleari: «Staccata dai suoi usi, la misura è un surrogato di sapere, quale che sia la sofisticazione delle conoscenze che vi sono investite per farla apparire. Essa diventa uno strumento ideologico quando, come il denaro, permette di modulare le effettive disuguaglianze senza rovesciare i rapporti di dominio che ne sono la causa».
La moltiplicazione di rilevatori di calore con droni e termocamere, la modellizzazione epidemiologica mediante algoritmi di comportamenti sociali ed interazioni umane per registrare, sorvegliare e tracciare, alla fine non fanno altro che consacrare una misurazione di tutto ciò che non può essere risolto dagli individui singolari, per farli rientrare nei ranghi o isolarli. Per l’ennesima volta, se l’epidemia di covid-19 non è che il pretesto per accelerare e consolidare una griglia tecnologica e sociobiologica non prevista, costituisce nel contempo il suo schema ideale nel nome di ciò che è in gioco: il pericolo di una morte improvvisa che rinvia alla vita in sé e non alla sua qualità. È così che finiamo per belare «viva la vita» come qualsiasi mistico religioso, piuttosto che cercare di rafforzare ed estendere il legame tra quest’ultima e la rivolta contro l’esistente che le dà un senso.
 
Distanziamento sociale. L’integrazione di distanze di sicurezza asettiche tra gli esseri umani nelle strade, nei trasporti, nelle caserme di addestramento o in quelle di sfruttamento è in linea col progetto di un dominio su corpi-soggetti atomizzati che interagiscano essenzialmente in modo telematico. In un momento in cui ciascuno è chiamato a diventare un imprenditore autonomo che valorizza anche il suo capitale-salute, perché rischiare l’ignoto al di fuori della famosa cerchia familiare che costituisce notoriamente un modello di salubrità fisica e mentale? Il distanziamento fisico permanente tra individui permetterebbe così che il gregge si mantenga in buona salute e produttivo malgrado l’epidemia in corso e quelle a venire, facilitando la sorveglianza, l’identificazione e l’isolamento dei corpi sospetti, indocili o superflui grazie ad una massa circolante meno compatta. Allo stesso modo consentirebbe di accelerare una ristrutturazione del flusso dei contatti e dei rapporti umani ottimizzandoli maggiormente affinché non si perdano più in tutti questi eccessi di vita troppo umani e decisamente improduttivi. Ammettiamo che contestare un tale progetto verso un mondo meglio ordinato e più fluido che arriva fino alla minima nostra interazione fisica sarebbe a dir poco irresponsabile!
Un simile progetto di massa non può beninteso funzionare in modo unilaterale grazie al solo manganello, e cosa c’è di meglio di un’epidemia col suo corteo di morti per poter contare sulla partecipazione di una maggioranza di cittadini impauriti che preferiscono la sicurezza alla libertà, la gerarchia accettata alla reciprocità senza delega, l’autorità rassicurante all’auto-organizzazione incerta? A titolo di esempio, gli occhi del potere che già si esercitavano a individuare ogni assembramento sospetto, a reprimere qualsiasi movimento incontrollato di massa, a regolare i comportamenti imprevedibili al di fuori della circolazione ordinaria non sono più soli: «mantenete la distanza» e che ognuno rimanga chiuso nel suo perimetro invisibile, rischia di diventare una delle ingiunzioni più banali, sia essa sbraitata da un drone poliziesco o borbottata da qualcuno perso nel suo schermo.
Il fatto che le misure di distanziamento sociale siano seguite ben oltre situazioni e relazioni interindividuali particolari, dal senso di colpa o dal riflesso di obbedienza, mantiene soprattutto l’illusione che questa società di concentramento e di flussi non sia la fonte dell’epidemia di covid-19, ma che sia sufficiente gestire bene questo momento adattandosi alle nuove condizioni perché tutto l’orrore di questo mondo possa continuare a propagarsi (quasi) come prima. Il diffuso rispetto per questo distanziamento da sé e dagli altri, insostenibile senza grossolane contraddizioni, è il risultato di un esercizio difensivo di temperanza e autodisciplina — integrato perfino in alcuni incontri o manifestazioni — che non solo non agisce contro l’esistente mortifero, ma per di più rafforza solo l’insieme delle separazioni che già lo attraversano. Separazioni in seno alla pienezza della vita per estrarne la sfera del lavoro che consenta l’economia, o quella del sapere condiviso che permetta l’educazione; completa separazione tra ciò che produciamo e le sue finalità; separazione, inoltre, tra il pensiero e l’azione, che apre la strada alla politica.
Una volta che la vita viene sezionata in pezzi catalogati e staccati gli uni dagli altri, una volta che il mondo interiore, il linguaggio e l’immaginario vengono ridotti a riprodurre un eterno presente col dominio come unico orizzonte, non restava ancora che distanziare radicalmente gli atomi fra di loro e con il loro ambiente immediato all’interno della massa informe: la crescente virtualizzazione dei rapporti vi sta in parte provvedendo, il distanziamento fisico generalizzato potrebbe completare questo lavoro di separazione dal reale, trasformando senza ritorno ciò che resta di direttamente sensibile in ognuno di noi.
 
Virus. Se ciò che preoccupa le belle anime del movimento è frenare la diffusione su scala collettiva del covid-19, si pensa veramente che moltiplicare i piccoli gesti individuali distanziati, mascherinati e di barriera cambierà la situazione, come si autogestisce la propria dose di radioattività in territorio contaminato per continuare a consumare e a produrre? Non è ovvio che gli imperativi economici li rendano altrettanto vani a livello globale quanto il differenziare i rifiuti per salvare il pianeta? Anche a costo di comportarsi da amministratori responsabili del disastro, perché non tentare allora di sradicare i principali focolai di contaminazione che ormai sono noti a tutti, come il trasporto pubblico, i commissariati, le scuole, le fabbriche e i magazzini? Tanto più che si conosce da secoli anche un comprovato rimedio contro i virus: il fuoco. Certo, questo rischierebbe di provocare tutta una serie di altri problemi, come quello di un mondo che ci ha reso completamente dipendenti, ma alla fine bisogna pur sapere cosa si vuole: cercare di frenare il virus chiedendo allo Stato più mezzi per gli ospedali e la ricerca, così come il rigoroso tracciamento delle persone contaminanti, oppure occuparsene direttamente da soli devastando l’organizzazione sociale ed economica che lo favorisce e lo propaga. Sempre che si voglia salvare qualcosa, ovviamente.
 
[Avis de tempêtes, n. 29, 15/5/20]
 

La Nave dei Folli – Episodio 7

Episodio 7

Dal marzo 1946 al 1953 si svolgono dieci conferenze patrocinate dalla Fondazione newyorkese Josiah Macy, nata per sostenere la ricerca medica. Vero e proprio debutto in società della cibernetica, riunisce personalità già affermate nelle rispettive discipline, oltre a Wiener, Shannon e Von Neumann, il neurofisiologo Warren McCulloch, il medico Arturto Rosenblueth, il sociologo Paul Lazarsfeld, lo psicologo Alex Bavelas, lo psichiatra Ross Ashby, il linguista Roman Jakobson o i coniugi Gregory Bateson e Margaret Mead tra gli altri.

Feedback Mechanisms and Circular Causal in Biological and Social Systems, il titolo della prima conferenza, indica come fosse già ben radicata l’idea di riunire in un unico modello esplicativo, basato su retroazione e causalità circolare, organismi viventi, macchine e società. Questi incontri, che dal ’49 adottano ufficialmente il termine cibernetica, hanno il compito di «attraversare il golfo che separa scienze naturali e scienze sociali» per diffondere e applicare i suoi principi nei vari ambiti di ricerca.

Frattanto, quasi in parallelo, nel 1951 il biologo Julian Huxley – primo direttore dell’UNESCO e membro fondatore del WWF – conia un nuovo concetto, transumanesimo, da adoperare al posto di eugenismo diventato tabù dopo il nazismo. Preso atto che la vita umana, nel corso della storia, è stata un «miserabile espediente basato sull’ignoranza», Huxley si fa portavoce di una «missione cosmica»: determinare la futura direzione dell’evoluzione su questo pianeta.

Riferimenti Episodio 7

• Coil, Penetralia (Horse Rotorvator, 1986)
• David Fincher, Fight Club (1999)
• Rob Angus, Hiabla (Ethnoloopography, 1993)
• Giorgio Cesarano, Manuale di sopravvivenza (1973)
• Mamoru Oshii, Ghost in the Shell (1995)
• Giorgio Moroder, I Wanna Funk with You Tonight (Single Version, 1976)
• Rupert Sanders, Ghost in the Shell (2017)
• Abnoba, Tourdion (Vai facile, 2006)
• Ridley Scott, Blade Runner (1982)
• Speed Caravan, Idemo Dalje (Kalashnik Love, 2008)
• Terry Gilliam, L’esercito delle 12 scimmie (1995)
• Casino Royale, Sei in fila (Sempre più vicini, 1995) (testo)

https://lanavedeifolli.noblogs.org/