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Approfondimenti
Di razzismo strutturale, mafia e colonialismo interno. Di nuovo da Sud.
«Il fuoco sopraggiungendo giudicherà e condannerà tutte le cose»
Eraclito, frammento 66.
Di fronte alla generosa luce del fuoco dei riots americani, molti commentatori, giornalisti, liberals ritrovati e intellettuali nostrani, hanno scoperto l’America. Lì, il razzismo omicida dei corpi di polizia, il suprematismo bianco, la povertà imposta e l’indigenza, la popolazione carceraria più grande del mondo, non sono (più) espressioni residuali di un progetto incompiuto di “democrazia inclusiva”: sono gli elementi strutturali dello stesso capitalismo americano, la precondizione dell’ “american way of life” per pochi. Si sa, questi leoni della parola sono più inclini a vedere la verità dei poteri lontani, cioè quelli che non emettono direttamente le loro buste paga1.
Deve essere per questo che gli stessi soggetti non colgono la contraddizione in loro stessi quando qui, in occasione delle rivolte nelle carceri, riportano solo il punto di vista dei sindacati delle guardie carcerarie; e quando si passa alle torture che lo Stato italiano perpetra, ad esempio nelle sezioni di 41 bis?
Non si discute, c’è di mezzo l’ombra della Mafia, dunque “tolleranza zero, pugno di ferro” eccetera.
Se uno dei meriti delle rivolte e della conflittualità non mediata è quella di stabilire un confine chiaro tra verità e menzogne circolanti nella (e sulla) organizzazione sociale, chi vuole una trasformazione radicale della vita deve affrontare uno sforzo costante, anche in tempo di “pace”, per demistificare le ideologie del potere. Durante questi ultimi giorni, una rinnovata furia iconoclasta ha saputo individuare i suoi bersagli nelle statue dei protagonisti dello schiavismo, a dimostrare che le rivolte si generalizzano quando lo spirito che le anima coniuga l’interruzione del tempo storico del dominio- il continuo presente della produzione/consumo, omogeneo e piatto- e sguardo critico sul passato. Fondamentale perché questo processo “riesca” è che, nel campo degli oppressi, non si sia spezzato il filo della memoria, che non si siano disperse né la scintilla dei tentativi precedenti di assalto al cielo né le sconfitte e i lutti. Un merito, questo, che va riconosciuto al movimento degli afro-americani.
Torniamo però alle nostre latitudini culturali e sociali, partendo da un punto fermo: il capitalismo è apartheid. Ovunque. Questo significa che nei processi sociali che hanno accompagnato la nascita della modernità capitalistica non sono stati impiegati solo mezzi militari, dispositivi di controllo della popolazione e tutti quegli elementi che compongono la parte “dura” del dominio di classe organizzato statualmente2. Una parte fondamentale dei sistemi di apartheid e di dominio coloniale è infatti il lavoro culturale, ideologico e linguistico, volto a inferiorizzare segmenti di popolazione sulla linea già tracciata dello sviluppo ineguale- che è poi la base strutturale per far partire i meccanismi del profitto e dell’accumulazione; al contempo, dividere il fronte degli oppressi e criminalizzare le rivolte, mostrificandone i protagonisti.
Una funzione quindi, quella ideologica, che opera un ribaltamento tra cause ed effetti dei fenomeni sociali e che, fin dalla nascita del capitalismo globale, ha trovato principalmente espressione nel razzismo. Nel contesto Italiano, dunque di uno Stato nazione capitalistico che ha dovuto creare le proprie condizioni di esistenza in fretta e furia, questo razzismo si è per lungo tempo organizzato sulla “questione meridionale”3.
Lo scritto che segue, tira le fila di alcune delle considerazioni presentate nel contributo, ormai pubblicato due mesi fa, dal titolo “Covid19 e Stato Totale: una prospettiva da Sud”. Quell’intervento, a cui rimandiamo, affrontava un ventaglio di questioni eterogenee e abbracciava uno sguardo di prospettiva e di futuro. Diversamente, questo attuale proporrà delle riflessioni a partire da una retrospettiva sui tre mesi che ci separano dall’inizio di questa prima Emergenza Totale- decidendo di isolare al contempo il focus di analisi ad un nucleo di argomenti che ci stanno a cuore in quanto anarchiche/ci e abitanti del Sud: carcere, mafia, colonizzazione come metodo di dominio discorsivo e politico- militare.
La tensione che ci muove è la volontà di fare emergere spunti e punti di vista che solo uno sguardo radicato nel profondo Sud può cogliere, nella convinzione che la mancanza di un simile sguardo “periferico” all’interno del movimento anarchico e radicale, produca lacune anche nelle progettualità pratiche e quotidiane che portiamo avanti. Un nodo teorico si gioca sull’uso che il dominio capitalistico fa delle cosiddette periferie: un inconscio retaggio marxiano (e taylor- fordista) vuole che le città siano al contempo luoghi della produzione capitalistica e spazio dei conflitti socialmente “centrali”, dunque niente di interessante avviene fuori. È già questa una ragione sufficiente a ripensare le periferie- o, meglio, le colonie interne- come luoghi di sperimentazione di dispositivi statal/capitalistici che poi, a cascata, si riflettono sul centro. Di esempi se ne possono fare parecchi ma si pensi soltanto all’origine del 41bis e al primo impiego nella storia repubblicana, prolungato e massiccio, dell’esercito per motivi di ordine pubblico4.
Nella prima parte presenteremo una carrellata di episodi in cui i giornalisti e politici hanno tirato in ballo l’etichetta mafiosa durante questi tre mesi, contrappuntando le cronache con note critiche, e dando risalto ad alcuni fatti che invece, non casualmente, hanno avuto scarsissima copertura mediatica.
Della Mafia…
Dall’inizio dell’emergenza la parola mafia- e il potente meccanismo ideologico, morale ed emotivo che l’accompagna- è stata scomodata almeno tre volte, in occasione di altrettante “crisi” di gestione o di immagine da parte dei pubblici poteri. Le prime due volte sono in qualche modo collegate: il suo uso, da parte di esponenti piccoli e grandi dell’apparato politico e del governo, è servito a gettare acqua sul fuoco, un riflesso condizionato per spezzare sul nascere il rischio della diffusione della solidarietà e del contagio della rivolta -già questo ci dice qualcosa sul funzionamento del meccanismo ideologico in questione e sui fini del suo impiego. La prima volta, in occasione dell’ondata di rivolte esplose nelle carceri tra il 7 ed il 9 marzo5 quando, la notizia bomba, è stata lanciata dai media (che riportavano veline della Polizia Penitenziaria) fin dai giorni immediatamente successivi, per essere ripresa in seguito con lo “scandalo” che ha portato all’avvicendamento nei vertici del DAP. Negli articoli si parla di non meglio precisate intercettazioni ambientali da cui si “evince” che non meglio precisati “mafiosi” gestivano da dietro le quinte le rivolte.
Due note in proposito: da un lato il razzismo con cui si guarda ai detenuti, esseri a metà tra l’animale e l’umano, in ogni caso non consapevoli e facilmente etero-dirigibili; dall’altro si tradisce una specie di essenzialismo genetico che dalla criminologia lombrosiana, passando per il nazismo, arriva tal quale fino ai democratici giorni (e lager) nostri. L’essere mafioso di un soggetto è per sempre, non decade una volta varcata la soglia del carcere, ossia non consiste nell’assunzione di un ruolo sociale, all’interno di un’organizzazione detta criminale, spezzato dalla repressione: è una qualità eterna di un individuo (e di una cultura di provenienza, ça va sans dire). Si potrebbe aggiungere, poi, una nota di carattere storico che chi ha frequentato le patrie galere direttamente, o ha conosciuto i suoi meccanismi tramite i racconti di compagni/e (soprattutto del ciclo degli anni’70), conosce bene: le cosiddette organizzazioni criminali hanno sempre avuto un ruolo di mediazione, disgregazione e recupero, nei momenti conflittuali in carcere. Ma si diceva, appunto, che la memoria non è un terreno neutro ma di scontro sociale.
Il secondo momento di mobilitazione dello spauracchio mafioso, sempre, si diceva, in un’ottica difensiva e denigratoria, è avvenuto in un momento di fermento sociale, quando in alcuni quartieri di Palermo (e non solo) la gente stava cominciando ad organizzarsi informalmente per andare a prendere nei supermercati il necessario per vivere. In questo caso, dal carcerario al sociale il passo è stato veramente breve: che gli slum di Palermo e del Sud siano delle polveriere lo sa tutto l’apparato repressivo che, in quel momento, difficilmente avrebbe potuto gestire dei conflitti presumibilmente ad effetto domino e, contemporaneamente, mantenere effettivo il lockdown. Che i funzionari del Ministero dell’Interno e servizi segreti abbiano vissuto momenti d’ansia è sicuro6.
A paventare la presenza di “sciacalli mafiosi” dietro la minaccia di espropri è però il sindaco di Palermo, il sinistro sempre verde Leoluca Orlando, che deve gran parte della sua fortuna politica alla mitopoiesi degli eroi anti-mafia, e che si è lanciato negli anni in coraggiosissime crociate morali, dando dei mafiosi ora ai parcheggiatori abusivi, ora agli occupanti di case, fino a tutti/e quelli/e che si oppongono ai progetti di gentrification7.
Insomma ai poveri, questa perniciosa categoria che con i mafiosi condivide il tratto saliente: l’illegalità della condizione di vita.
Sia come sia, con l’effetto combinato del bastone dello spauracchio- l’inconscio collettivo dei dannati meridionali sa cosa può lo stato in termini di sangue e sa riconoscere i suoi campanelli d’allarme- e della carota dei soldi per i buoni spesa e delle altre redistribuzioni di reddito, le acque si sono per il momento calmate.
Un’ultima tappa del ricorso alla “mafiosità” come elemento fondante l’unitarietà delle istituzioni, l’abbiamo avuta con la polemica intorno ai vertici del DAP8. È qui che si segna un passaggio da un uso difensivo ad uno offensivo del mito mafioso (in una concomitanza, a mio parere non casuale, con la proposta di mandare nei campi agricoli chi percepisce il Reddito di Cittadinanza9). La vicenda, che ci mostra l’odiosità dello spettacolo politico usato per schiacciare migliaia di vite recluse, ha un potente risultato: quello di fare dimenticare le mattanze durante le rivolte. Tutto l’arco parlamentare, da LEU alla Lega, ha di fatto criticato l’ex Direttore del DAP per la linea ritenuta troppo morbida- ci si potrebbe chiedere di quanto sangue proletario sia assetata questa gente per bene- con il solito copione: lamentele dei Sindacati di Polizia sulla “insicurezza” del loro lavoro (e che non si dica che la sinistra non difende i lavoratori!), senza rinunciare al canovaccio preparato preliminarmente dai media sulla regia occulta della mafia nelle rivolte. La conclusione della vicenda è sancita dall’intervento di Bonafede in Parlamento, in cui afferma la compattezza del “fronte anti- mafia” e presenta i progetti di ampliamento delle carceri esistenti e di costruzione di nuovi padiglioni, a dimostrare la propria lealtà verso il progetto sociale di lungo corso dello Stato e del Capitale.10 Nel frattempo, vengono rispediti in carcere tutti i presunti boss che ne erano usciti per ragioni di salute e di impossibilità di cura all’interno (a prescindere dal covid-19). Un chiaro esempio, non solo di come lo Stato Italiano utilizzi le emergenze come strumenti per fagocitare diritti formalmente riconosciuti, ma anche di come, nel vorticare delle emergenze, venga rimosso lo spirito della norma che sancisce il diritto (con buona pace dei sinceri riformisti, se esistono).
Fuori dallo schema
Concludiamo questa carrellata con una notizia in cui ci si è imbattuti per caso e per fortuna, perché riportata solo sulla stampa regionale Siciliana e sull’edizione locale di Repubblica, nonostante si tratti di uno scoop notevole. La notizia è l’approvazione della relazione della Commissione regionale anti-mafia siciliana. In questa relazione, si ipotizza che lo scioglimento per infiltrazione mafiosa di alcuni comuni siciliani sia stato usato diverse volte dal Ministro dell’Interno di turno (nel concreto, si fa riferimento alla Cancellieri), negli ultimi anni, per rimuovere quelle amministrazioni comunali che si opponevano ai propositi della potente lobby dei rifiuti11. Parafrasando: uno degli istituti introdotti dallo Stato in periodo di emergenza anti-mafia per contrastare la stessa- al contempo affermando il dispositivo simbolico della dicotomia stato/mafia- sarebbe stato utilizzato per favorire oligopoli, in un settore in cui è impossibile distinguere tra speculazione legale ed illegale12. Uno squarcio del velo di Maya che spiega come mai nessun giornale o altro media abbia dato copertura nazionale alla notizia. Tutta la vicenda infatti crea diversi corto-circuiti nel discorso (sarebbe meglio dire nel meta- discorso) dominante. L’estensore della relazione è Claudio Fava, figlio di Pippo, giornalista ucciso dalla mafia, quindi investito dalla stessa aura di santità creata dal meccanismo mitopoietico degli eroi anti-mafia; inoltre, nel denunciare il fatto, si indica un ministro dell’Interno della stessa area politica. Poco ci interessa la ragione di questa “anomalia” istituzionale, quello che è interessante sottolineare è che si può constatare quanto è sottile il velo ideologico solo quando questo si strappa. Il fatto stesso di nominare una possibile collaborazione Stato/ mafie, può far riflettere chiunque su quanto fragile e fallace sia l’ideologia che vuole lo Stato come un moderno san Giorgio contro il drago della criminalità13; e, di conseguenza, su quanto risponda ad altre logiche l’occupazione militare del mezzogiorno, fatta in nome di quella falsa guerra. Si può ora tentare di cominciare ad affrontare la genesi di questo particolare Mito, una meta-merce dotata di incredibile forza ideologica, e gli indirizzi di dominio che Stato e Capitale ne fanno.
….o della fabbricazione del mito
la cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari […]. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire
Furio Jesi, Cultura di destra
Quello che sinteticamente abbiamo fin’ora sostenuto è che quando si parla di mafia ed antimafia, sia che lo facciano esperti, giudici, politici o giornalisti, ci troviamo di fronte al dispiegarsi di quella che Furio Jesi ha chiamato “macchina del mito”. È un meccanismo potente di mobilitazione ideologica e sottomissione emotiva quella che opera attraverso il bombardamento iconico dei morti ammazzati, i racconti del terrore con cui ci hanno cresciuti, che serve ad inoculare “idee senza parole” e pratiche corrispondenti: adunate oceaniche in nome della legalità, ufficiali delle Forze dell’Ordine che danno lezioni nelle scuole, giorni del ricordo in cui venerare i Santi o, meglio, “i morti esemplari”ecc.
La Sicilia e il meridione sono, quindi, anche contesti culturali in cui lo Stato costruisce la propria mitologia fondativa e legittimativa. Questa colonizzazione culturale si aggiunge alle altre: quella estrattiva (energia, forza lavoro), la colonizzazione militare, la colonizzazione tossica (rifiuti). In concreto questo tipo di dominio culturale si traduce nella forte pressione a conformarsi alle dialettiche ideologiche del potere che si esercita tanto sui singoli quanto sulle collettività.
Come era chiaro già a Furio Jesi, che aveva individuato e descritto esemplarmente questo meccanismo nel libro “Cultura di destra”, questo tipo di produzione culturale è tipico delle società moderne ed agisce anche su soggetti che di destra non sono (o pensano di non essere)14.
In questo caso, sono proprio le persone di sinistra, generalmente di classe media e ben istruite, a farsi apostoli del verbo della legalità e della presunta anti- mafia di Stato. Questa fascia di persone non si trova soltanto al Sud o in Sicilia: organizzazioni come Libera hanno fatto in modo, negli ultimi due decenni, di diffondere la parola (non a caso, il suo fondatore è un prete) anche al Nord, rivolgendosi soprattutto alle scuole con offerte formative mirate e la costruzione di rapporti stabili e duraturi con gli insegnanti. Diversi e significativi aneddoti, a tal proposito, sono stati raccolti da quei compagni/e che, durante la campagna sul 41 bis “Pagine contro la tortura”, avevano provato a fare iniziative nelle Scuole Superiori, attaccate con un certo sacro furore, quando non impedite, proprio da insegnanti di sinistra. Effettivamente nominare la tortura, annoverandola tra i mezzi usati dallo Stato per il trionfo del sommo Bene (la legalità), deve risultare indigesto per chi si rappresenta anche come “non-violento”, per il dialogo e soprattutto per la cultura (ma non per i “mafiosi”).
Come ben ci insegna la antropologia dei miti e delle religioni, non è un caso che questa macchina, una volta messa a punto, produca dei riti espiatori. Ci si può fare però altre domande: come mai i propugnatori e i militanti di questa religione nazionale sono specialmente di sinistra? Quali contenuti di passato veicola questo mito tecnicizzato, e qual è il tono emotivo che la rievocazione crea?
Rispondere a queste domande significa cercare di capire la genesi del mito, i passaggi storici cruciali che il processo culturale- o meglio gli attori sociali rilevanti del processo culturale- metabolizza per determinarne la nascita.
La storia della mafia è fin dalle origini la storia di uno scontro ideologico di definizione. L’affacciarsi del termine sul piano collettivo e nazionale è collegato all’omicidio Notarbartolo15 contestuale al sorgere di uno dei primi movimenti di classe e di massa dalla nascita dello Stato unitario: i fasci siciliani. Le masse proletarie, gli anarchici e i socialisti che si battevano contro lo status quo- contro la concentrazione delle proprietà terriere nel latifondo e i salari da fame nelle poche fabbriche; per la collettivizzazione delle terre e un generale miglioramento delle condizione dei lavoratori- avevano individuato nel gabelloto armato una figura sociale nuova, anti- proletaria tanto in tempo di pace quanto di conflitto sociale. La presenza di questa figura in loco, cioè a difesa delle proprietà terriere, rendeva possibile alla nobiltà spostarsi nella capitale dove il neo Stato aveva centralizzato le burocrazie di potere e, al contempo, assorbiva i compiti di repressione e controllo che uno Stato quasi in bancarotta e a sviluppo discontinuo non poteva garantire: un gioco a somma positiva per tutte le classi dominanti. Il termine mafia viene associato, dal basso, a questa nascente classe che, genesi di ogni dominio, deve alla violenza la creazione della propria posizione (qualcuno parlerebbe di accumulazione originaria)16.
Questa configurazione materiale dello scontro di classe in Sicilia, in particolare, e nel Sud in generale, si è mantenuta in piedi almeno fino alla fine degli anni ’50, quando la “questione agricola” ha perso rilevanza produttiva e quindi sociale17. Si può capire bene quindi come, nel contesto che abbiamo tratteggiato, la lotta alla mafia era un tutt’uno con la lotta contro il capitalismo nazionale, nelle sue fasi di nascita e consolidamento, ed il suo Stato18. Si capisce anche come un conflitto, soprattutto dopo il ’43, si giocasse all’interno del movimento di classe tra partiti di sinistra, PCI in testa con la linea togliattiana di difesa dell’ordine, e critica rivoluzionaria che veniva dal basso. Ma questa è un’altra storia.
Tornando alla macchina mitopoietica, quanto detto sopra ci suggerisce due cose.
La prima: al giorno d’oggi l’idea della lotta contro la mafia gioca la sua capacità attrattiva sulla nostalgia di un mondo, lontano e più semplice, in cui la linea di conflitto materiale e quella della divisione morale tra giusti e ingiusti erano nettamente tracciate. Un mondo da “quarto stato” di Pellizza da Volpeda, di poveri buoni e docilmente massacrabili, in cui lo Stato era (allora) cattivo ed alleato della criminalità. La pratica della memoria delle vittime- scivolamento basato sulla rimozione sistematica degli episodi di violenza dal basso- assume allora un ruolo catartico e taumaturgico delle ingiustizie di ieri, ci si dice “perché non avvenga più”. La macchina del mito opera quindi come un diaframma ideologico che separa presente e passato. Questo diaframma allarga la psiche per fare entrare altri miti utili: il progresso (lo Stato di ieri non è lo Stato di oggi); il vittimismo pacifista; il feticismo idealista (“non dimenticare per non fare più accadere”); la delega agli esperti in materia repressiva. Tutti fenomeni che vediamo in azione anche in altri ambiti legati alla memoria ed alla sua istituzionalizzazione: shoa, resistenza ecc.
La seconda, sulle condizioni di esistenza dei miti. La conoscenza mediata dai miti si trova sul polo qualitativo opposto rispetto alla conoscenza che si basa sull’esperienza diretta, e si potrebbe dire che una condizione esistenziale generalizzata di non- vita è il migliore terreno di coltura per l’innestarsi dei miti; mentre, a contrario, una vita qualitativamente ricca, individuale e collettiva, si accompagna ad un fiorire di esperienze dirette. Nel caso in questione, la fabbricazione ideologica della mafia è cominciata quando si era già sgomberato il campo da qualsiasi esperienza significativa di lotta radicale o di intervento radicale. Per quel che riguarda la Sicilia (almeno quella occidentale19), si può individuare questo momento, semplificando, nell’uccisione di Peppino Impastato, che non a caso è stato oggetto della più spudorata operazione di normalizzazione- anche grazie alla miseria umana della maggior parte delle persone a lui vicine, ansiose di nutrirsi del suo cadavere e darlo in pasto ai politici, istituzioni ed al circo culturale.
Sono solo le lotte, infatti, che creano le condizioni per l’abbattimento dell’isolamento esistenziale care al capitale e necessarie alla circolazione delle sue ideologie. Al contempo è nelle lotte che trovano accoglienza e si approfondiscono i punti di vista radicali. È l’incontro tra questi due elementi, intensificazione relazionale e critica radicale, che produce una conoscenza non assorbibile dal potere, che è anzi un antidoto alle sue ideologie. Per dirla in altro modo, il tipo di conoscenza del mito, la sua astrattezza che “cattura” e annulla, è proprio il contrario del tipo di conoscenza che deriva dall’analisi materialistica della realtà che solo le lotte radicali possono fare. E non è un caso che la mancata analisi materialistica delle c.d. mafie degli ultimi trent’anni si accompagni ad una simile mancata analisi dello Stato che, tra le altre cose, produce il potere di “cattura” di 5 stelle e sovranisti.
Che le lotte smascherino la falsità delle dialettiche del potere ce lo conferma un altro aneddoto, raccolto direttamente da noi. Viene dall’ultima esperienza significativa in terra sicula, contro il MUOS, e ci pare interessante riportarlo. Nel commissariato della Polizia di Stato di Niscemi c’era (pensiamo ci sia ancora) un distaccamento della DIA (direzione investigativa antimafia). Uno dei punti critici sul progetto, sollevato dalle componenti moderate e anti-mafia del movimento, batteva sul fatto che a costruire la piattaforma di cemento armato su cui poggiare l’immensa parabola, fosse un’azienda senza certificato anti-mafia, che la normativa impone, vicina all’allora governatore Raffaele Lombardo. Il tutto grazie ad un affidamento diretto per un valore di 1 mil di euro. A dimostrare che lo Stato non ha nulla da temere dai falsi critici, durante il culmine della lotta, quando i blocchi mettevano in seria difficoltà la macchina operativa del progetto, la DIA di Niscemi è stata utilizzata come squadra di complemento per scortare i mezzi della ditta in odor di mafia- e, collateralmente, per identificare chi lottava. Paradossale? Ironico più che altro…
Tornando a noi, se si abbraccia uno sguardo autonomo dallo Stato, ci si può chiedere: le mafie esistono ancora come entità distinte da altri gruppi di capitale e di potere; che senso ed utilità ha una simile categoria in uno scenario di moltiplicazione della complessità della dinamica con cui i capitali permeano i territori, cambiando velocemente forma e assetto giuridico, rendendo impossibile la distinzione tra piano legale e illegale di messa a profitto? Dal punto di vista della “presa” del concetto non ha molto senso e cominciano a rendersene conto anche alcuni ricercatori che denunciano il rischio della subalternità, quando non coincidenza, di sguardo rispetto alle figure della repressione: forze dell’ordine, giudici 20ecc. Chissà se Saviano si è mai posto queste domande…
Si tratta, dal canto nostro, di fare un salto fuori dal cerchio magico del mito, del pensiero liberale o marxista, sicuramente progressista, che inquadrano le cosiddette mafie come qualcosa di totalmente altro rispetto allo sviluppo (normale e giusto, “da paese Civile”) della organizzazione capitalistica. C’è ovviamente un certo disagio a nominare un concetto altamente sfuggente come “mafia”, si ha la sensazione costante di trovarsi di fronte ad una “parola senza idee” o con idee prive di realtà.
Ci è necessario quindi uno sguardo complesso, che sappia intersecare critica dell’idea di “mafia” e analisi materialistica della storia del capitalismo italiano. Un percorso scosceso perché a ritroso e perché basato sul rifiuto di esempi e fondamenti teorici che accolgono, ritenendoli neutrali, sguardi che provengono dall’apparato statuale. Sguardi e teorie che negli ultimi decenni hanno saturato, colonizzandolo, questo campo di analisi, complice una certa riluttanza tra i sovversivi ad occuparsi degli stessi argomenti relegando così il rifiuto di quei discorsi al solo piano istintivo. Nel prossimo paragrafo, una domanda rimarrà implicita, come a fare da fondo musicale: la mafia esiste, è esistita, davvero (come soggetto distinto della dinamica capitalistica)?
Coppola e cappello a cilindro: sul capitale italiano
Partiamo dal piano delle idee o meglio dell’ideologia. Che l’idea di mafia sia intimamente permeata di ideologia spettacolare è dimostrato dal vasto campionario di immagini che immediatamente la parola evoca: coppola, lupara, Marlon Brando. La mafia rischia quindi di essere una parola senza idee ma molto ricca di icone. Il potenziale comunicativo (e di profitto) che il capitale spettacolare ha carpito del mito mafioso- che esso stesso ha contribuito a creare- ci dice qualcosa della sua contiguità con i valori dominanti. L’impresa mafiosa è infatti un’ impresa capitalistica a tutti gli effetti, basata sul perseguimento degli stessi valori della borghesia (profitto, accumulazione, dominanza), ma con i mezzi tipici di una classe svantaggiata che basa sulla violenza il suo capitale originario. Tutto perfettamente normale. Come l’eroina nei quartieri neri d’America, e nei quartieri delle classi pericolose dell’Italia anni ’70, è servita a spezzare la base solidale delle generazioni rivoluzionarie, così questa ideologia circola nei quartieri del Sud (fatta di serie tv, di miti mediatici e cantanti neo- melodici) a spezzare, in una prevenzione continua, possibilità ribelli e rivoluzionarie21.
Sebbene sia una fascia di consumo culturale diversa da quella a cui si rivolge Gomorra (la serie), la classe media di sinistra e democratica, che legge Saviano o Dalla Chiesa (Nando, figlio del massacratore di compagni), che si scandalizza per la scarsa qualità del ciarpame culturale dato in pasto ai poveri (“ché non si educano così ai valori della legalità”), condivide la stessa idea di fondo del fenomeno.
Ma questa, tra il cattivo siciliano con la coppola e il buon capitalista, possibilmente del nord e col cappello a cilindro, è la dialettica della colonizzazione. Falsa sul piano storico materiale, fuorviante sul piano etico, figlia della logica liberale applicata alla geografia dello sviluppo che predica che ogni territorio ha quello che si merita.
Possiamo individuare un “committente politico” originario di questa visione: il PCI togliattiano. Le ragioni della presa che questo Partito ha avuto sulle masse del Sud, che lo vedevano come il padre che li avrebbe condotti alla salvezza, era basata su queste premesse/promesse: qui c’è la mafia che rallenta lo sviluppo economico e tanti devono emigrare, ma se ci votate, e quindi deponete le armi della lotta rivoluzionaria, e ci darete il potere, reprimeremo la mafia e convinceremo la borghesia buona e democratica a creare sviluppo per il Sud.
Due finzioni in una: quella di una borghesia italiana disposta al compromesso con le classi subalterne e quella di un antagonismo tra c.d. Mafie e grande capitale, legale perché mai disgiunto nei fatti dallo Stato e dal suo supporto.
Nei fatti… una collaborazione senza fine. Se guardiamo senza lenti ideologiche allo sviluppo capitalistico italiano nelle varie fasi, ci accorgiamo che il ricorso delle classi dominanti e Stato a pratiche (e quindi soggetti) illegali è stato una costante. Un capitale a forte ritardo di sviluppo tecnico e produttivo rispetto ai competitori europei (con un periodo di sviluppo più lungo alle spalle, foraggiato dal colonialismo in Africa) e, quindi, con difficoltà croniche di valorizzazione e scarso margine di profitto, ha normalmente fatto affidamento su soggetti senza responsabilità pubbliche né politiche per contrarre con la violenza i costi di produzione. In quest’ottica vanno inquadrati i momenti di conflitto culminati con la nascita dei fasci siciliani: crisi dei prezzi dei prodotti agricoli da risolvere con la contrazione del costo del lavoro. Come durante le occupazioni delle terre del secondo dopo guerra anche in quel caso, il massacro dei ribelli ha visto operare spalla a spalla polizia, esercito e mafia: così non poteva non essere, dalla visuale di chi doveva salvare Stato e Capitale.
L’epoca repubblicana si è aperta con l’eccidio dei proletari in lotta nel Sud, a battezzare la nascita del new deal a trazione americana che poteva contare su una rete di supporto mafiosa ben ramificata, e a ricordare che nel nuovo assetto politico e sociale non c’era spazio per aspirazioni libertarie o anche solo di miglioramento materiale22. La struttura politica ed economica sorta con la Repubblica vedeva l’internità di soggetti che adesso verrebbero definiti mafiosi ma che facevano semplicemente parte del blocco reazionario e conservatore di potere. É solo l’ideologia sinistra del doppio Stato, o dello Stato ostaggio di torbidi interessi regressivi da “liberare”, che ha creato confusione, rinuncia alla lotta, sfiducia, senso di stordimento e tradimento tra gli oppressi. Un’eredità con cui ci troviamo a fare i conti tutt’ora.
E ora?
Come non inquadrare l’espandersi delle terre dei fuochi, lo spuntare come funghi di Inceneritori e Impanti di biomassa (inceneritori dal nome green), la svendita dei territori e della salute delle popolazioni da parte dei governi regionali per nuove discariche, il traffico illegale dei rifiuti speciali, come un servizio variegato e organico reso alle aziende del Nord capitalistico per contrarre i costi (particolarmente alti per via legale) di smaltimento delle scorie industriali?
E alla stessa logica risponde la colonizzazione dell’industria energetica, fatta di devastazione dell’ambiente e del paesaggio, di spiantamenti di uliveti secolari, di confische manu militari di terreni agricoli, per produrre energia a basso costo per il Nord industriale, ad alto costo per le popolazioni del Sud23.
Abbiamo quindi dei fenomeni sociali, economici e politici chiari interpretati con una cornice sospetta. Alcuni territori sono stati resi delle colonie, ricorrendo a qualsiasi mezzo necessario (terrorismo stragista in primis) per le esigenze strutturali del sistema economico. Il colonialismo e le mafie collegate nascono non per le qualità morali intrinseche delle culture meridionali ma per ridurre i costi di produzione di alcuni beni necessari (e tossici: filiera del petrolio , acciaio, smaltimento dei rifiuti, basi militari, energia) al capitalismo.
Cambiare prospettiva fa apparire le mafie per quello che sono: borghesie locali di un sistema coloniale vieppiù globale. Cerniere di trasmissione, quindi, tra interessi capitalistici globali alla ricerca di sbocchi territoriali e territori concreti, che si predispongono così ad accogliere progetti nocivi per l’ambiente e le collettività di abitanti.
Il concetto di mafia però, assorbito e tenuto in vita forzosamente dal sistema di potere, continua a produrre comunque dei risultati concreti, a prescindere dalla reale esistenza del soggetto a cui si riferisce.
Innanzitutto la legittimazione della presenza costante e massiccia dell’apparato repressivo, delle Polizie e dell’Esercito in alcune regioni: Sicilia, Campania, Calabria sopratutto. Sappiamo come ogni apparato di potere una volta messo in piedi produca da sé le cause della propria perpetuazione: periodiche ondate repressive che fino a un decennio fa erano criticabili perché colpivano il “basso”, la manovalanza o al più il segmento militare delle organizzazioni, con i dirigenti e i settori economici legali ben al sicuro grazie alle protezioni istituzionali e irreprimibili a causa della natura del codice penale (che si aggiorna sempre per reprimere i poveri e i ribelli, mai ovviamente per borghesie e colletti bianchi); negli ultimi anni, come abbiamo scritto precedentemente, reati di associazione mafiosa appioppati ad effimeri esperimenti extra-legali non dotati di nessuna connessione col potere istituzionale (quindi fuori dalla tipizzazione di “mafia” che ne fa la storiografia critica del fenomeno).
Un effetto importante dello sventolio della bandiera anti-mafia che lo Stato fa, e che ci riguarda sempre più spesso come anarchici/e, è la legittimazione morale del reato associativo che ne deriva.
Se nel codice penale Rocco, lo Stato fascista prevedeva l’uso dell’associazione per aggravare la posizione di chi voleva sovvertire l’ordine sociale, nel fare ciò sottolineava soltanto l’inimicizia al regime e dunque non costruiva l’immagine dei nemici dello Stato come nemici della società intera o dell’umanità24.
Con la definizione di mafia e di terrorismo- due concetti legati tanto a livello ideologico quanto operativo/repressivo- lo Stato consegue l’obiettivo di diventare etico con un continuo lavoro di manipolazione della realtà che fa sparire la violenza strutturale del sistema e fa apparire solo quella di chi si oppone, o di chi rimane fuori dai recinti dorati della legalità.
Guerra sociale, guerra di sguardi (e parole). Una conclusione
Le regioni meridionali e insulari sono quindi lo spazio di sperimentazione di discorsi e pratiche, i cui risultati vengono poi esportati divenendo di sistema. Ne consegue che l’ottica dell’anomalia, dell’arretratezza, applicata a queste stesse regioni sia del tutto ingiustificata. Semmai, qui, i rapporti di forza tra le classi che da lungo tempo vedono lo svantaggio e la rassegnazione di quelle più oppresse, hanno accelerato alcuni processi tipici della governance neo- liberista: quel potere di lasciar vivere e lasciar morire che non è certo una novità dell’emergenza Covid1925. Quest’ultima emergenza ha più che altro espresso chiaramente ciò che prima era un tacito assunto delle burocrazie e della ragion tecnica, col rischio di un importante effetto di (ulteriore) propaganda e di accettazione in basso della logica delle scelte del potere.
La fabbricazione della mafia come mito è quindi un tassello, particolarmente potente, di una più vasta operazione ideologica che tende a naturalizzare l’inferiorità (economica in primis) di alcuni territori. Al contempo rimuove le cause e le responsabilità strutturali e crea quindi un’aura di inferiorità che rinnova ciclicamente il razzismo fondativo contro le popolazioni subalterne.
Una presa si esercita tanto sui territori da piegare alle esigenze del profitto, quanto sugli spiriti, sulla mentalità di chi li abita, di chi avrebbe tutti gli interessi a ribellarsi e organizzarsi contro lo Stato centrale e i suoi progetti strategici, e non lo fa per avere accettato lo sguardo che il potere, dall’alto, gli rivolge contro.
Una subordinazione che, abbiamo detto, passa dal potere di nominare, dall’uso di parole che hanno in sé una carica repressiva.
Per spezzare l’incantesimo di siffatte parole, è il desiderio di liberazione che ci spinge a ricercarne altre che, nel descrivere la realtà, dicano anche dell’immenso desiderio di cambiarla. Per queste ragioni colonizzazione ci sembra una buona parola perché descrive materialmente il rapporto e gli usi che Capitale e Stato fanno dei territori che abitiamo e perché è un invito alla riscossa degli oppressi, alla ricerca di altri modi di abitare il mondo. Nel nostro scritto precedente battevamo principalmente sulle possibilità rivoluzionarie dischiuse da questa enorme crisi di sistema scatenata da un minuscolo virus.
Non c’è modo, qui, di affrontare l’argomento, ma pensiamo che questa rottura abbia manifestato anche la crisi di visioni, di approcci e posture tra anarchici che negli ultimi anni, complice la terrificante pace sociale, non davano più sbocchi progettuali di ampio respiro. Pensiamo che anche e soprattutto nell’attuale situazione, una contingenza che sembra normalizzarsi, una critica radicale da Sud ai progetti che lo Stato e il Capitale qui vogliono realizzare, che includa le singole nocività in una prospettiva coloniale, possa dare risultati interessanti.
Questa “contingenza” ci sembra abbia regalato una nuova consapevolezza tra compagn*, a prescindere dalle tensioni individuali che ci animano: che la riflessione sulla costruzione del contesto di vita/lotta, di azione e ricezione dei gruppi di compagn*, non sia una questione che può essere oltremodo rimandata o, peggio, relegata ad alcune frazioni di movimento considerate poco radicali. I momenti che viviamo, e che abbiamo vissuto durante la quarantena, ci suggeriscono invece come il farsi spazio nella catastrofe sarà un processo di distruzione e costruzione insieme.
Numerose capacità ci sono richieste in questo momento, non ultima, forse, il saper leggere la geografia delle possibilità dei territori che abitiamo. Non è un caso che aree che il capitale ha utilizzato come limoni da spremere (di abitanti innanzitutto), lasciando poco o nulla del suo presunto “benessere”, appaiano oggi come le più ricche di queste possibilità: fisiche (disponibilità di terre da prendersi per il sostentamento), politico/militari (relativa scarsa presenza di sbirri e militari), sociale e culturale (permanenza di saperi che aprono a possibilità di vita non capitalistiche).
Progettualità prima abbozzate, hanno l’opportunità ora di muovere i primi passi e di cominciare a parlarsi da zone diverse.
Pensiamo che parlare di colonizzazione possa essere un utile stimolo tanto nell’ottica locale di questi percorsi, quanto in una prospettiva di memoria dal basso della storia di questo Stato nazione costruito sulle centinaia di migliaia di briganti uccisi; e quali suoi usi per quelle situazioni che si occupano di lotta contro il carcere?
Concludiamo con una citazione di un libro controverso eppure importante per i temi che abbiamo qui trattato, “I dannati della terra” di Franz Fanon:
La decolonizzazione non passa mai inosservata poiché poggia sull’essere, modifica essenzialmente l’essere, trasforma spettatori colpiti d’inessenzialità in attori privilegiati, colti in modo quasi grandioso dal fascio della storia. Introduce nell’essere un ritmo suo, portato dai nuovi uomini, un nuovo linguaggio, una nuova umanità. La decolonizzazione è veramente creazione di uomini nuovi. Ma tale creazione non riceve legittimazione da alcuna potenza soprannaturale: la “cosa” colonizzata diventa uomo nel processo stesso attraverso cui si libera. La decolonizzazione implica dunque un’integrale messa in discussione della situazione coloniale. […]
Il mondo coloniale è un mondo diviso in due. Lo spartiacque, il confine è indicato dalle caserme e dai commissariati di polizia. […]
Nei paesi capitalisti, tra lo sfruttato e il potere si frappone una caterva di professori di morale, di consiglieri, di “disorientatori”. Nelle regioni coloniali, invece, il gendarme e il soldato, con la loro presenza immediata, i loro interventi diretti e frequenti, mantengono il contatto col colonizzato e gli consigliano, a colpi di sfollagente e napalm, di non muoversi.
1Un fenomeno analogo si può notare con quelle aree di “movimento” che plaudono alle rivolte, anche quelle più distruttive, quando queste avvengono lontano dalle proprie vite e latitudini e che condannano qualsiasi scoppiettio di esuberanza (giovanile e non) quando queste interferiscono con i propri piani per una serena vecchiaia.
2Intendiamoci, questi elementi rimangono comunque centrali.
3Sarebbe un errore pensare l’attuale razzismo contro gli stranieri come sostitutivo di quello contro i meridionali- semmai, l’ansia da parte di alcuni meridionali di passare da razzistizzati a razzisti si spiega con la volontà di rimuovere lo stigma, gettandolo su altri sventurati. Il dominio non getta mai nessuno strumento: che la razzistizzazione dei meridionali non sia sepolta, risulta chiaro se si considerano le recenti uscite di Feltri e di altri esponenti dell’establishment imprenditoriale lombardo/veneto. Si badi bene che il razzismo anti-meridionale non ha visto, né vede, solo esponenti di destra. A sinistra (Gramsci in testa), la cornice del discorso liberale che vuole un Sud naturalmente inferiore sul piano economico, quindi da “salvare”, non è mai stata messa in discussione ed è tutt’ora il presupposto per la legittimazione di politiche neo- coloniali. Si veda a questo proposito questo intervento:
Questione meridionale o questione dei territori?
4Ci si riferisce all’operazione Vespri Siciliani del ’92, dopo le stragi. Gradevole ribaltamento linguistico, dare il nome di un’insurrezione siciliana contro degli occupanti sgraditi a… un’occupazione militare della Sicilia!
5https://meridionews.it/articolo/86118/le-rivolte-nelle-carceri-lipotesi-di-un-ruolo-della-mafia-boss-interessati-a-creare-tensione-ma-usando-altri/
6https://www.ilmessaggero.it/italia/coronavirus_italia_sud_poverta_rivolte_indennita_governo_ultime_notizie-5140979.html
7https://www.corriere.it/politica/20_marzo_29/palermo-l-assalto-supermercati-sindaco-leoluca-orlando-sciacalli-mafiosi-dietro-minacce-1905313a-71e6-11ea-b6ca-dd4d8a93db33.shtml
8Per un approfondimento ed un’analisi rimandiamo a questa trasmissione di Radio Onda Rossa: http://www.ondarossa.info/newstrasmissioni/2020/05/bonafede-e-pm-antimafia-calpestare-vita
9A dimostrare che con il proletariato fluttuante meridionale lo Stato utilizza la strategia del “doppio bastone” (e addio carota). Se pensi di “svoltare la vita” fuori dalla legalità ti aspettiamo al varco con una bella associazione mafiosa (con corredo di 41bis e via torturando); in alternativa ti concediamo il ritorno ad una bella servitù della gleba. Al momento la proposta è congelata ma già il fatto di essere stata formulata è illuminante. https://ilrovescio.info/2020/05/12/cronache-dallo-stato-demergenza-numero8/
10https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/05/02/carceri-bonafede-sceglie-dino-petralia-come-nuovo-direttore-del-dap-sara-un-vertice-antimafia-insieme-al-vice-roberto-tartaglia/5788884/
Intervento di Bonafede alla Camera dei Deputati: https://www.youtube.com/watch?v=BuXanWc-CkU
11https://palermo.repubblica.it/cronaca/2020/05/08/news/le_ombre_sull_affaire_rifiuti_l_antimafia_indaga_su_scicli-256029289/
12Per approfondire circa l’importanza strategica di questo settore per il capitale italiano, consigliamo l’ascolto di questa preziosa intervista: https://radiocane.info/colonialismo-tossico/
13Sì, l’immagine è ripresa da Riccardo D’Este http://www.nelvento.net/riccardodeste/drago.html
14”Il linguaggio delle idee senza parole è una dominante di quanto oggi si stampa e si dice, e le sue accezioni stampate e parlate, in cui ricorrono appunto parole spiritualizzate tanto da poter essere veicolo di idee che esigono non-parole, si ritrovano anche nella cultura di chi non vuole essere di destra, dunque di chi dovrebbe ricorrere a parole così “materiali” da poter essere veicolo di idee che esigono parole”
15Primo omicidio eccellente, verso un membro delle classi dominanti, frutto di scontri all’interno della stessa classe dirigente per aggiustamenti di potere. Notarbartolo era un nobile siciliano scelto per la guida del Banco di Sicilia da Giolitti per riformare quell’istituzione considerata un ganglo del potere di Crispi nell’Isola. Per la borghesia (politica e intellettuale) e la neonata classe dirigente nazionale le società meridionali erano, e sono tutt’ora, un grattacapo difficile da risolvere. La distinzione tra “alta” e “bassa” mafia- la prima incarnazione di valori positivi propri di un signore (austerità, onore, disponibilità alla violenza per difendere la rispettabilità), la seconda espressione della pericolosità delle classi oppresse, da reprimere- derivava più dalle mode letterarie provenienti dal naturalismo francese che da una reale conoscenza delle società in questione. Questi influssi avevano ampio riflesso anche sui magistrati lombardi e piemontesi dell’epoca che cominciavano a occuparsi del fenomeno, oltre che su scrittori come il milanese Paolo Valera che all’indomani dell’attentato scrisse L’assasinio Notarbartolo o le gesta della mafia. Fin dalle origini si può vedere come aspetto ideologico e repressivo siano intimamente collegati, riflessi di dominio culturale e politico- militare, e come il discorso repressivo, spinto dall’esigenza d’ordine, passi indistintamente in rassegna criminalità organizzata e sovversione. Per approfondire v. Francesco Benigno, La mala setta, Einaudi; Giuseppe Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Donzelli.
16 Se la mafia esistesse già allora come organizzazione stabile o se fosse nata in seguito a quel momento di conflitto sociale, è questione ancora aperta tra gli storici critici del fenomeno perché, ovviamente, per un tale soggetto di ricerca il problema della fonti è rilevante. Questa genealogia di classe del fenomeno si deve a Umberto Santino.
17E in cui la mafia ha conosciuto nuove fasi di sviluppo e nuovi, ed enormemente più redditizi, modelli di accumulazione: movimento terra, infrastrutture pubbliche (v. il sacco di Palermo) e traffico di eroina e armi. Tutte attività capitalistiche che necessitano della cooperazione politica dello Stato.
18È forse a causa della derivazione idealistica della cultura della sinistra meridionale che le sinistre ingaggiano una battaglia culturale anche solo per nominare nello spazio pubblico la parola mafia (allora bandita), mentre proletari e militanti di base continuano ad essere ammazzati individualmente o in massa (Portella della Ginestra). È noto, a questo proposito, l’aneddoto di Dario Fò censurato in Rai negli anni ’70.
19 In Sicilia orientale, i gruppi anarchici del ragusano e di Catania hanno continuato a intervenire con continuità anche negli anni successivi.
20http://www.lavoroculturale.org/repressione-conoscenza-mafia/?fbclid=IwAR0-ijPXcTk_CSxkRlaHQ2NrxgeYeL87ovgegNGqUpTdanNb17kc67vsxn0
21E, non a caso, circola senza problemi in relazione diretta con la scomparsa di una significativa presenza rivoluzionaria al Sud.
22 Cfr. Storia del movimento contadino in Sicilia. https://journals.openedition.org/diacronie/2556. Su una panoramica complessiva del sangue proletario versato in quel periodo cfr. Cesare Bermani, IL NEMICO INTERNO. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943 – 1976), in cui si ricostruisce che dei 700 morti della guerra sociale in Italia, circa 400 sono solo in Sicilia.
23Che su queste operazioni agiscano anche consorterie mafiose cosa importa? Dal punto di vista di chi si vuole liberare del mondo della merce e dell’autorità nulla. Molto, a quanto pare, dal punto di vista di chi si illude di fermare il potere da posizioni di potere. https://palermo.repubblica.it/cronaca/2019/06/12/news/arrestato_arata_il_consigliere_di_salvini_per_l_energia_in_cella_anche_nicastri_re_dell_eolico-228575889/
24Per approfondire la riflessione: Prison Break Project, Costruire evasioni, Edizioni Bepress.
25 Vedere a tal proposito un lavoro di un sociologo per nulla sovversivo. Bellinvia Tindaro, Lasciar morire. Burocrazie minime, ambiente, territorio e lavoro in Sicilia, Mimesis, Milano-Udine, 2016.