Milano – 13 giugno presidio solidale e informativo verso il corteo del 20 giugno

SABATO 13 GIUGNO
Dalle 17:00
PRESIDIO SOLIDALE con le arrestate e gli arrestati dell’operazione
“Ritrovo” di Bologna
BANCHETTO INFORMATIVO: riflessioni e spunti sulla situazione attuale,
l’operazione “Ritrovo” E SUL CORTEO IN PROGRAMMAZIONE PER IL 20 GIUGNO A
MILANO.
RINFRESCO BENEFIT per le spese legali
Rotonda Via Giocosa – Via Padova
MILANO

“Il 13 Maggio tra Bologna e Milano sette compagni e compagne anarchici
sono stati arrestati e altri 5 sottoposti a misure cautelari.
L’accusa è di 270bis: associazione con finalità di terrorismo.
Viene imputato loro di aver portato solidarietà ai prigionieri di
carceri e CPR (centri di permanenza per il rimpatrio) e di aver lottato
contro questo sistema capitalistico fatto di controllo tecnologico e
sfruttamento.
Questa operazione ha lo scopo, dichiarato dalla procura stessa, di
prevenire le tensioni sociali dovute alla crisi economica che seguirà
quella sanitaria.
Proprio in questo momento in cui lo Stato da un lato reprime e
dall’altro affama ancora più del solito crediamo sia importante prendere
parola e avere il coraggio di tornare in strada a lottare.
A scuola e sul lavoro, nelle carceri e nei CPR, nelle case e nelle
strade con l’avanzare della crisi lottare sarà l’unico modo per poter
respirare.”

Solidali e anticapitaliste/i

 

DIETRO L’ANGOLO PT.8 – UN LATO OSCURO. ANCORA SU GUERRA CIVILE E INSURREZIONE

QUALCHE IPOTESI SU COVID-19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO.

Nel corso dell’attuale epidemia di Covid-19, e soprattutto nel suo portato di misure di contenimento sanitarie e sociali sono apparse blande seppur allusive manifestazioni di una questione inquietante. Una questione complessa che, a memoria, è emersa all’interno della teoria e analisi anarchiche con tremenda urgenza durante uno degli avvenimenti che più hanno ecceduto gli schemi logici con cui sino ad allora si affrontavano gli scenari bellici: il massacro jugoslavo. Ci sembra che il libretto Guerra civile di Alfredo M. Bonanno1 sia un contributo inaggirabile per l’elaborazione rivoluzionaria, non solo per l’originalissima prospettiva analitica, ma soprattutto per le questioni etiche che tale tema pone, non lì esplicitamente affrontate e per questo tutte da svolgere.

Le righe che seguono riprenderanno la tematica non solo per affrontare questo imperativo, ma anche perché non ci sembra peregrino riproporre e riprendere l’analisi di questo complesso teorico (e pratico) proprio in un momento che, come allora, ci costringe a fare i conti con una eccezionalità che ha stravolto, stravolge e stravolgerà il modo di vivere a cui tutti, con più o meno agio, eravamo abituati.

 

Lungo il corso del testo apparirà euristicamente quella che probabilmente è una definizione minimale e scolastica di guerra civile come conflitto anomico, diffuso e infra-nazionale, caratterizzato da violenza indiscriminata potenzialmente senza limiti.

Una premessa doverosa: faremo di certo torto all’intelligenza di tante lettrici e lettori, ma vorremmo sottolineare a priori come per chi scrive lo scenario di ‘guerra civile’, per quanto a noi sconosciuto, disgusti profondamente.

Tuttavia, ad essere onesti, non pare sufficiente contrapporvi il concetto di ‘guerra sociale’, ovvero non sia sufficiente indirizzare programmaticamente i nostri sforzi pratici e analitici verso momenti di lotta in cui si contrappongono chiaramente (interessi di) sfruttati e sfruttatori. Non è sufficiente sostenere la necessità della guerra sociale contro la mostruosità della guerra civile. Siamo certi che questo in nessun modo potrebbe metterci al riparo, facendoci imboccare i retti binari della rivoluzione emancipatrice.

Non è difficile sostenere che le dinamiche insurrezionali, necessarie per aprire possibilità di liberazione collettiva, non hanno mai uno svolgimento lineare, animate come sono da tensioni variegate e contraddittorie, di cui spesso è difficile dare un significato etico univoco. La ‘guerra civile’ ci pare non certo il contesto auspicabile in cui agire (lo ripetiamo ancora una volta), ma di certo uno tra i probabili esiti di certe rotture o svolte improvvise nella quotidianità alle nostre latitudini.

Per concludere. Il tema ‘guerra civile’ ha peso e sembra ancora una volta inaggirabile perché ha tutte le carte in regola per essere l’impensato dell’insurrezione, il suo lato oscuro. Da una parte, abbiamo a che fare con un campo teorico e pratico in cui ci si è mossi – perlomeno dal punto di vista teorico – in lungo e in largo, con indubbia originalità e elaborazioni concettuali tuttora preziose e valide. Dall’altra, abbiamo una certezza: chiunque pensi e agisca con la pretesa di scatenare o partecipare a lotte con sbocchi insurrezionali non può non avere ben chiaro che il loro probabile svolgimento avrà di certo a che fare con quella che può essere definita ‘guerra civile’.

La presente pandemia di Covid-19 ha causato e causerà imponenti fratture nella quotidianità di praticamente tutti gli abitanti del pianeta. In questo luogo non verrà affrontata la cosiddetta narrazione dominante sul Covid-19, piuttosto la pandemia verrà considerata da un unico e pur complesso lato: come un momento di rottura, di profonda crisi del sistema capitalistico nazionale e trans-nazionale.

Come tale, come improvviso e imprevisto avvenimento critico chiama in causa, seppur da un’angolazione inedita, la teoria e la pratica rivoluzionaria: molteplici strutture del potere, a più livelli, vengono intaccate e messe parzialmente o totalmente fuori uso. Una crisi del genere, a nostro parere ha più differenze che analogie con le crisi economiche che, anche di recente, minano il funzionamento del sistema capitalistico avanzato: le sue ripercussioni sono molto più immediate sulla vita delle persone e probabilmente questa ha ricevuto molta meno attenzione in termini di previsioni e relative contromosse economiche e politiche.

Una spaccatura di tale portata ridisegnerà, tra le altre mille cose, gli equilibri nello scontro tra sfruttati e sfruttatori. Se da una parte le misure antiepidemiche si innestano organicamente su efficienti per quanto inedite modalità di produzione, distribuzione e consumo (e della loro difesa), dall’altra costringono e costringeranno altissimi numeri di sfruttati in spazi angusti di vivibilità e di accesso ai beni primari.

Non risulta quindi peregrino un tentativo ulteriore di analisi della guerra civile, nelle sue intensità più variabili, nelle sue forme oscure che paiono potersi ripresentare ed acuire perfino in latitudini che si reputavano al sicuro da bubboni di brutalità e di scontro anomico.

Qualche anno fa, un brillante articolo2 pubblicato da un mensile anarchico, si inseriva nel minuscolo dibattito sull’analisi del concetto di ‘guerra civile’, apportando preziose critiche ad un precedente scritto sul tema3.

Schematicamente lo scritto sosteneva che:

  • la guerra civile, perlomeno nella presente epoca, non si manifesta come un conflitto capace di eccedere ogni limite; un tale conflitto, pur iscritto nel profondo di ogni organismo sociale, non è mai scollegato dal contesto principale in cui avviene, anche nei casi di crisi irreparabile;
  • non è possibile immaginare il retrocedere di uno Stato-nazione con i suoi apparati sullo stesso piano di azione di emergenti formazioni organizzate, eventualmente partecipanti al conflitto;
  • lo Stato è infatti ‘ciò che, in ultima istanza, decide delle sorti della guerra civile’, ovvero ha una funzione che nel corso della sua durata (ma che perdura anche nel caso di sua dissoluzione) si articola come sapere di Stato = capacità di dare forma ad un conflitto e potere di Stato = capacità di esercitare il monopolio della forza;
  • questo significa che lo Stato esiste, quando è in salute, come agente di sospensione della guerra civile, non del suo annullamento: sulla minaccia sempre presente di esplosione di suoi focolai costruisce il suo consenso;
  • ma questo significa infine che la guerra civile gode di un’esistenza strisciante, sotterranea all’interno delle società organizzate in Stato e che perciò segue e si sviluppa su assi e traiettorie isomorfe ai rapporti di forza consolidatisi in esso;

Terremo a mente questi punti per sviluppare il presente elaborato, il cui punto di osservazione è il suolo italico, nello specifico un contesto urbano semimetropolitano.

Ancor prima dello sconvolgimento della quotidianità cittadina via decreto, a fare data dal 9 di marzo, le caratteristiche proprie della epidemia hanno dispiegato una dinamica antica, la caccia all’untore, che, come proveremo ad argomentare non può fare a meno di richiamare la figura più arcaica e fondamentale del capro espiatorio.

Già dagli inizi di febbraio possiamo reperire notizie grottesche e realissime di fobia isterica, spesso incarnata in attacchi fisici, verso persone fisiognomicamente asiatiche, e cinesi nello specifico. Presunti veicoli del virus, i e le cinesi, i negozi e i ristoranti da essi gestiti son stati individuati da ampie porzioni di popolazione come ‘il’ problema, come luoghi e corpi di cui sospettare, da tenere a distanza, da evitare quando non da attaccare.

Il rapido evolvere della situazione, le successive e sempre più stringenti misure di contenimento hanno fatto scivolare la psicosi verso il Celeste Impero in secondo o terzo piano (non volendo entrare nel grottesco dibattito sulle presunte colpe ab origine di diffusione epidemica, come se il virus fosse un gattino scappato sui tetti del vicinato).

Dopo la Cina altre figure hanno rapidamente occupato la casella funzionale del capro espiatorio, in una sequela di ruoli sempre più improbabili e, fattore non di secondaria importanza, vaghi, cioè non immediatamente riconoscibili – senza più gli occhi a mandorla, o meglio, non solo –.

A questo punto del discorso è utile presupporre la funzione fondamentale e fondativa che il capro espiatorio svolge all’interno delle comunità, macro o micro che siano. Seppur sia stato molto importante il ruolo dello Stato nell’individuazione del colpevole dello spargimento del virus – chi non sta a casa, chi corre, i furbetti, chi non rispetta il distanziamento sociale –, ci pare tuttavia che in frangenti di crisi generale, di difficile comprensione, di incertezza, il colpevole, la funzione di colpevole svolga una cruciale importanza sia su un livello individuale sia su uno collettivo.

Non si può non collocare il concetto di capro espiatorio all’interno di una costellazione di altri concetti: danno, colpa, violenza, sacrificio/sanzione, obliterazione/soluzione del danno.

Per trivializzare: di fronte ad un danno se ne cerca la causa, che è immediatamente colpa; attraverso la violenza (con le sue forme più raffinate e accettabili fino alle più brutali) si persegue la soluzione del danno, la sua riparazione; tale processo ha come passaggio obbligato, come punto d’equilibrio, il capro espiatorio, la sanzione del colpevole (tale o presunto).

A ben vedere, da questo schema non eccedono neanche modelli alternativi di capro espiatorio: si pensi semplicemente al – sacrosanto e più preciso – modello teorico e pratico proposto dalla ‘nostra’ parte, laddove il ‘colpevole’ è individuato tra le file del nemico di classe.

Non è questo il luogo per provare a sondare la validità di questo schema, né tantomeno immaginare soluzioni alternative. Ci accontenteremo di dimostrare che proprio perché, volenti o nolenti, ci si trova a muoverci in un contesto di questo tipo, le conseguenze saranno più buie e drammatiche di quanto ci si possa aspettare.

Ricapitoliamo quanto esposto finora:

  • lo Stato versa in un momento di crisi di cui esso stesso non conosce la fine né gli effetti che avrà nella vita del corpo sociale (ovvero non conosce a priori gli effetti che le misure post-crisi potranno dispiegare nella società);
  • ogni comunità non si può sottrarre alla dinamica del capro espiatorio di fronte a quelli che vengono interpretati come danni o torti, ed è pronta, al di là dei limiti democratici, progressisti, umanitari, razionali, ad agire in modo violento verso il colpevole supposto;
  • la guerra civile non è uno scenario che sostituisce il presente stato di cose in determinati momenti di anomia, ma esiste in maniera strisciante, in qualche modo controllata, nel ventre della cosa pubblica; e che i suoi rapporti di forza dormienti seguano le linee tracciate dalla strategia gestionale di controllo e repressione statali;
  • la presente pandemia di Covid-19 avrà ripercussioni imponderabili non solo sulle economie globali, ma immediati riverberi sull’esistenza di gran parte della popolazione: dal punto di vista occupazionale, dei consumi, dei costumi;

Tutto ciò può fare legittimamente presagire una serie di turbolenze sociali.

Da qualche parte sono già iniziate. Da qualche altra esistono strutturalmente.

Se si guarda con attenzione ai periodi di crisi in cui non appaiono fasi di sovversione diffusa sufficientemente incisive, non si può che notare l’acuirsi della ferocia con cui i poveri organizzano la propria sopravvivenza. Non ci si riferisce qui a un’antropologia negativa del tipo homo hominis lupus:non dobbiamo pensare ad una natura umana – concetto molto problematico – cattiva, quanto piuttosto a dinamiche dalle coordinate precise, spesso pianificate e ampiamente previste da analisti e governanti.

Finito il sogno illuminista e novecentesco di un’emancipazione comune, quando l’esistenza materiale pone alle strette, il risultato quasi deterministico è quello dell’accaparramento di ciò che è necessario, con mezzi e fini a tratti insostenibili. L’esistenza di molti, al netto del niente in cui si riproduce, si arrabatta già ora tra l’affitto di un posto da dormire su un marciapiede, tra i furgoncini in cui il caporalato organizza il lavoro tra i campi, strappando elemosine dal collo di un’anziana, in una busta di roba all’angolo. Tra le spire di un mercato sommerso, con prezzi esosi, capace di distribuire beni a cui ai più è negato un accesso formale, il cui controllo è spesso appannaggio di soggetti parastatali capillari, autodifesi e abili nella riscossione di crediti.

Fenomeni che individualmente possono essere ascritti a dinamiche di un ultra-sfruttamento ferocissimo e cannibale, ma che, moltiplicate e complicate nei sistemi complessi che sono le città e le metropoli, si traducono in dinamiche che afferiscono a ciò che definiamo guerra civile.

Il conflitto endemico all’interno della classe sociale degli esclusi potrebbe dunque con la crisi economica della pandemia portare all’inasprimento ulteriore delle dinamiche di cui sopra. Guerra che non solo vedrebbe i sovversivi in difficoltà rispetto alla sua intellegibilità, ma che li costringerebbe a far fronte a tensioni che spostano inevitabilmente il punto dalla lotta contro padroni e governanti a quello di doversi guardare le spalle da pericoli moltiplicati e su fronti inediti. Non si descrive qui uno scenario da tetra fantapolitica, ma quello che accade conseguentemente alla trasformazione di ogni pezzo di questa Terra in spazio di mercato dalle risorse limitate e dalla repressione spudorata. Un conflitto acuto e diffuso che rende poco vivibili per tutti le strade dovrebbe essere affrontato con rigore ideale e cautela ferrea. Per non subire o ignorare da una parte le angherie e le violenze di cui è composto, dall’altra per non finire nel derubricarlo come inevitabile “delinquenza”, dimenticando di fatto la questione sociale e abbandonandosi alla guerra tra bande.

Ad ogni modo. siamo convinti che nei momenti di crisi reale e vissuta molti nodi vengano al pettine, a discapito dei diversi piani di retorica, naif, caramellosi, ecumenici che l’inesauribile macchina ideologica che è lo Stato ha per questi frangenti: abbiamo letto del malcontento montato nel settore sanitario e produttivo in generale; possiamo immaginare che le dinamiche di potere, nella loro intollerabilità, emergano con più chiarezza rispetto ai periodi di ‘normalità’.

Non siamo tuttavia sicuri che, all’acuirsi della tensione, ci si ricordi delle responsabilità precise.

Che tipo di scontro potrà mai esplicarsi in società che non solo non esprimono da decenni capacità di analisi e organizzazione di classe ma soprattutto che non hanno più dinamiche interne capaci di dimostrarne chiaramente la struttura di classe? Chi sono oggi gli sfruttatori? Chi è oggi, o meglio ancora, domani, il nemico?

Temiamo che per distribuire e sanzionare le colpe sia sempre più facile imboccare le strade già battute: gli altri in generali, poveri, stranieri, marginali, furbetti di turno, non allineati, avversari corporativi e via elencando.

Qualche anno fa un compagno scriveval’insurrezione fa splendere il sole a mezzanotte perché in essa gli individui sentono, avvertono, evocano e vedono la potenza che hanno sempre avuto: quella di negare la propria condizione.

Non sappiamo se ci saranno insurrezioni. Sappiamo che ci saranno malcontento, rabbia, paura, incertezza, e sappiamo che queste cose sono il combustibile delle insurrezioni.

Un ulteriore punto sarebbe capire cosa significhi negare la propria condizione: a noi piacerebbe che si negasse la condizione di sfruttati, subalterni, oppressi. Che ci si batta per negare la propria condizione e quella degli altri in cui ci si possa riconoscere.

Invece è probabile che nel presente stato di cose e soprattutto nell’immediato futuro, l’esigenza prioritaria di ogni sfruttato sarà quella di riappropriarsi di quanto appena perso, a discapito soprattutto dei più prossimi, di tutti quelli che versano in frangenti simili. Probabilmente con modalità e strumenti inimmaginabili, propri di una crisi inaudita.

Non potremo però girarci per non vedere. In primo luogo perché, come sfruttati, la questione ci riguarderà da molto vicino. In secondo luogo perché se è vero che le insurrezioni non sono mai pure, sono impure in entrambi i sensi. Mai solo rivoluzione, mai solo reazione.

Anche nei contesti di più difficile lettura e intervento, ci sono sempre stati momenti di rottura che, pur frammisti ed intrecciati ad altri di segno opposto, hanno alluso o costituito passaggi di emancipazione.

Postilla di fine maggio ’20

Questo testo è stato redatto intorno alla metà di marzo, nell’ottica della collazione di testi in uscita sul blog Macerie e storie di Torino. Ad una rilettura due o tre punti che sarebbero inevitabilmente suonato come superati dagli eventi son stati aggiustati, altri li abbiamo lasciati volutamente come erano. Indubbiamente molti punti trattati, nonostante le aggiunte continue, hanno necessità di approfondimento ulteriore.

Il bacino di esempi e fatti di cronaca da pandemia, allo stesso tempo agrodolci, grotteschi, inaccettabili e catartici, che potrebbero supportare quanto scritto sopra è vastissimo.

Se dovessimo circoscrivere qui dei campi di forze – si badi, non dei soggetti – particolarmente fecondi per innescare o alimentare dinamiche da guerra civile, potremmo eleggere:

  • gli effetti selettivi e distributivi della previdenza sociale, riscopertasi fondamentale ai tempi del Covid-19, che, con i suoi bizantinismi creerà diverse categorie di persone dipendenti dal sostegno al reddito. Come ogni differenziazione anche questa sarà facilmente radice di cannibalismo sociale e scontro indiscriminato;
  • quel magma eterogeneo e confuso, distillato di differenti tensioni che si potrebbero definire complottiste, populiste, sovraniste, corporativiste, che ha dimostrato insofferenza palese alle varie misure di ministri e governatori soprattutto sui social network (un esempio locale, il cosiddetto Movimento dei Forconi a Torino); ad ora un popolo da tastiera, ma uno spettro significativo di cosa ribolla nello stomaco di quello che fino a ieri l’altro si chiamava proletariato;
  • la meta-distinzione tra salute e malattia, tra chi può e deve essere sano e chi invece rimane o può rimanere o deve nella casella del malato, del non salvabile, del sacrificabile; un taglio che si va ad aggiungere tra le innumerevoli linee di esclusione, inclusione e inclusione forzata che attraversano le società contemporanee, e i cui effetti, soprattutto in quelle sotto capitalismo avanzato, potrebbero scompaginarne le strutture;
  • non ultimo le vecchissime e nuovissime identità regionali, se non etniche, riemerse in un contesto dove la diffusione a macchia di leopardo del virus ha reso diversamente efficaci (o gradite) le misure del Governo centrale, emesse su una dimensione nazionale; per ora lo scontro è soprattutto politico istituzionale, ma scriviamo che ancora gli spostamenti tra Regioni sono vietati.

1 A. M. Bonanno, Guerra civile, Edizioni Anarchismo, Catania, 1995.

2 Invece n° 22, Combattere la guerra civile, marzo 2013.

3 Invece n° 18, Campo di battaglia, novembre 2012.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Nord sud ovest est

Taglio netto

Il mondo inabitabile

Macchine, sensi e realtà

Lockdown, quarantene e zone rosse

https://macerie.org/index.php/2020/06/03/dietro-langolo-pt-8-un-lato-oscuro-ancora-su-guerra-civile-e-insurrezione/

Dietro l’angolo pt.7 – Lockdown, quarantena e zone rosse.

La produzione di spazi sicuri

Le zone rosse hanno oramai una loro lunga storia. Da misure di prevenzione attuate per difendere i capi di stato durante i grandi summit come il G8 (ad esempio a Genova 2001), erano poi state utilizzate per difendere le zone di interesse strategico nazionale (inceneritori, discariche e le grandi opere infrastrutturali come il cantiere di Chiomonte ) e ultimamente avevano fatto capolino, tra gli altri, nei quartieri torinesi più movimentati dal conflitto sociale. In questi ultimi episodi aveva decisamente stupito la sproporzione tra le misure di controllo attuate rispetto alla reale minaccia da contenere e alle conseguenze che queste misure imponevano alla popolazione residente.

Nel caso dello sgombero dell’Asilo, avvenuto il 7 febbraio del 2019, era stato circoscritto al traffico pedonale e automobilistico un quadrilatero di strade limitrofe all’edificio nelle quali si poteva accedere solo attraverso l’esibizione di documenti che comprovassero la residenza o l’attività lavorativa in quella zona. Nonostante le ben immaginabili conseguenze per l’economia del territorio le misure si erano protratte per un paio di mesi. Lo stesso è avvenuto per lo sgombero del mercato delle pulci del Cortile del Maglio dove per qualche tempo, nei giorni di mercato, è stata istituita una sorta di zona rossa, interdetta al traffico, nella piazza dove si svolgeva abitualmente questo mercato.

Al netto della comprovata volontà da parte delle forze dell’ordine di una dimostrazione muscolare in aree metropolitane poco obbedienti alle norme e alle leggi imposte ciò che balzava agli occhi in questo fenomeno era in sostanza una banalizzazione dell’utilizzo delle zone rosse senza alcun riguardo nei confronti delle reazioni che queste potevano scatenare in chi era costretto a subirne le conseguenze. È importante, ora, per comprendere l’utilizzo delle zone rosse nello scenario pandemico sottolineare alcune questioni legate a questa tecnica di militarizzazione dei territori.

La tecnica delle zone rosse è una misura concepita all’interno dei manuali di controinsurrezione e nasce con lo scopo di isolare porzioni del territorio dove l’ordine costituito viene messo in discussione, al fine di costruire degli spazi sicuri al movimento delle truppe e per le attività della popolazione collaborante (le cosiddette Green zone). La teoria delle zone rosse è quindi funzionale all’instaurarsi di questa dialettica tra spazi sicuri e spazi insicuri. Nel caso dell’emergenza Covid italiana ci si è trovati per un lungo periodo in assenza di questa dialettica. Ciò comporta due valutazioni differenti e per certi versi paradossali: la generalizzazione di questa tecnica, tra l’altra adottata con strumenti giuridici cangianti e contraddittori, che in sostanza sentenzia un fallimento dello Stato nel controllo della pandemia, non è una sofisticata strategia ma duna sorta di coprifuoco o quarantena adottata di fretta e con scarsi mezzi, uno strumento antico e quantomai abusato. La seconda valutazione riguarda la sua banalizzazione. L’estendersi indefinito della zona rossa e quindi il suo scarso significato strategico ha, però, sicuramente inculcato nella popolazione un precedente quantomai inquietante. Non è tanto, quindi, la misura in sé, dalla scarsa efficacia, ad essere preoccupante ma soprattutto il suo carattere storico e simbolico. Storico, perché rende comprensibile a chiunque cosa significhi una zona rossa e come ci si debba comportare in quella situazione. Simbolico in quanto allena gli spiriti a una ginnastica dell’obbedienza quantomai contorta e non così facilmente sbrogliabile.

Per tracciare quindi un filo rosso, che lega l’attuale gestione dell’ordine pubblico nell’emergenza con i suoi antecedenti, vorremmo sottolineare due aspetti che permettono di delinearne una continuità. Il primo riguarda essenzialmente la protezione degli interessi economici e dei capitali investiti nel territorio: che si tratti di accordi internazionali tra capi di stato oppure di aree soggette a investimenti infrastrutturali, o che si tratti invece di riqualificazione di quartieri semiperiferici oppure di contenimento di una pandemia che rischia di far collassare il sistema sanitario, la zona rossa compare laddove l’interesse economico è messo in discussione da circostanze esterne. E su questo punto, e in particolare rispetto alle questioni riguardanti gli investimenti nella riqualificazione, è chiaro che nell’incertezza e nella precarietà che contraddistinguono determinati quartieri marginali la capacità di difendere i capitali investiti non è un capitolo supplementare al bilancio dell’investimento ma è un capitolo organico alla strutturazione dell’investimento stesso.

Confrontando quest’ultima considerazione con l’attuale scenario epidemico, il cui decorso non è in nessun modo chiaro, è possibile comprendere quanta importanza rivesta economicamente l’efficacia delle misure di contenimento attuate da uno stato anche nell’ottica della competizione internazionale. Un secondo aspetto, che è già stato trattato nei testi precedenti, e che probabilmente risulterà maggiormente significativo nell’evolversi della gestione della pandemia, riguarda la delimitazione di spazi all’interno dei quali far stare la porzione di popolazione sacrificabile diminuendo il rischio per tutti gli altri. L’esempio dell’occupazione abitativa Salem Palace a Roma è significativa a riguardo: si tratta di un edificio occupato nel quale vivono 700 profughi ai quali è stata comminata una quarantena con tanto di presidio militare all’esterno a fronte di una trentina di positivi al Covid riscontrati all’interno.

Accanto a questioni prettamente tecniche si aggiunge la selva di decreti, decretucci, provvedimenti e ordinanze comunicati spesso la sera precedente alla loro entrata in vigore (alle 22 a reti unificate) che hanno reso indecifrabile quali fossero i comportamenti legalmente corretti e a quali sanzioni si andava incontro. In questa confusione si è fatto spazio violentemente il carattere soggettivo della legge e dell’ordine incarnato nello sbirro che ti ferma e da cui ci si può aspettare di tutto. Non c’è effettivamente niente di più indefinto che una situazione nella quale ogni singolo poliziotto può decidere la legittimità o meno di un tuo spostamento. Se a questo si aggiunge il fatto che i militari di Strade sicure dopo dieci anni di lavoro gregario si possono finalmente avvalere delle prerogative di un funzionario di polizia (e che nella fase 2 saranno integrati di 500 unità) il piano per il futuro è presto fatto.

La carica morale che permea il lavoro dei rappresentanti dello stato va di solito di pari passo con l’innalzarsi della loro brutalità. È sicuramente in questo aspetto dell’attività repressiva che si ritrova oggi meglio incarnato l’imperativo controinsurrezionale di produzione di una popolazione collaborante. In questo senso è importante rimarcare anche il ruolo che, perlomeno, in provincia e fuori dai grandi centri abitati hanno avuto la protezione civile e la protezione boschiva nel presidio del territorio, in particolare dei supermercati, durante i periodi più recrudescenti di questa fase 1.

Non da ultimo c’è la questione degli assistenti civici, in discussione in questi giorni che prefigura un’organizzazione e una messa al lavoro della pratica della delazione così ampiamente sollecitata dalle forze dell’ordine nei mesi precedenti. Sarebbe, però, troppo facile semplificare la situazione analizzandola come una prova o un esercizio controinsurrezionale comandato da una volontà precisa e chiara. Si tratta qui piuttosto di chiedersi cosa effettivamente sia stato appreso dai difensori dell’ordine costituito nel far fronte a minacce future. Del resto non è casuale il nesso, spesso metaforico ma non per questo meno pregnante, tra controinsurrezione e contenimento delle epidemie, fin dalle origini del pensiero controinsurrezionale. Il maresciallo Bugeaud, a capo della repressione dell’insurrezione parigina del 1834 e di quella algerina del 1841 presentava il suo libro La guerre des rues et des maisons come costituito “da consigli pratici del genere delle istruzioni contro il colera”. È necessario allora provare a ragionare e a intravedere come le tecniche apprese in questi mesi possano convertirsi ed essere usate in caso di conflitti sociali violenti e/o estesi.

Un esempio, al contrario, ma decisamente interessante riguarda la app meteorologica dell’Arpa Lombardia. Nata nel dicembre 2019 “AllertaLOM “ aveva come scopo, attraverso l’utilizzo delle tecnologie Gps, di avvertire gli utenti nel caso si trovassero in prossimità di un evento meteorologico pericoloso. L’applicazione, di proprietà della Protezione Civile, si è tramutata prima, senza tanto clamore, in un sistema statistico di valutazione del rispetto del lockdown e si è evoluta in una app per il tracciamento dei contatti Covid con tanto di questionario sui sintomi. Altro elemento interessante rispetto a queste tecnologie “dual use” è l’utilizzo dei droni, di cui durante questa pandemia si è ampliato e regolamentato il traffico e lo sviluppo di software capaci di monitorare automaticamente il rispetto del distanziamento sociale. “Social distancing” è un progetto che l’Aeroporto di Genova avvia con l’Istituto Italiano di Tecnologia, usando le telecamere di sorveglianza, che può generare una mappa dell’ambiente e circoscrivere un raggio intorno a tutte le persone presenti, segnalando quando sono troppo vicine. Grazie al progetto sarà possibile capire quali siano le aree a maggior rischio assembramento e generare avvisi in tempo reale in caso di mancato rispetto del distanziamento. Inutile sottolinearne i potenziali usi per questioni che nulla hanno a che fare con un’epidemia. Altri strumenti ancora, come il termoscanner, non fanno altro che radicalizzare il concetto di dual use. Si tratta infatti dell’introduzione di nuovi strumenti di controllo (che altro sono i termoscanner se non telecamere intelligenti?) giustificata tramite questa pandemia ma che materialmente posso essere utilizzati per tanti altri scopi. E’ necessario semplicemente sostituire il software al loro interno. L’unico ostacolo alla loro implementazione è oramai un problema tecnico.

In questa prospettiva le parole di questa discussione tra un esperto di controinsurrezione e un organizzatore di eventi riportate nel libro Out of the mountains. The coming age of urban guerrilla assumono un significato ancora più pregnante: “Iniziammo a speculare. Come si potrebbe combinare ciò che ho imparato a Baghdad rispetto alla protezione della popolazione dalla violenza estrema, con ciò che le law enforcement agencies sanno rispetto alle politiche community-based, i governi delle città rispetto al mantenimento di un ambiente urbano e ciò che la comunità olimpica conosce rispetto alla fornitura di sicurezza orientata alla preservazione dei flussi urbani? […] Possiamo modellare un approccio che replichi il modello sicurezza-più-servizi dei mega eventi sportivi ma su base permanente? […] Possiamo disegnare nella città stessa un sistema di sicurezza pubblica che mantenga la popolazione sicura e allo stesso tempo mantenga aperti i flussi che gli scorrono attraverso? Possiamo costruire questo, basandoci su ciò che gli architetti conoscono rispetto al metabolismo urbano, mettendo in sicurezza la città intesa come un organismo vivente, e non solo come un pezzo di terreno urbanizzato? E se possiamo farlo sulle città esistenti, possiamo inoltre costruirne delle nuove sulla base di queste conoscenze?”

Per questo, forse, è miope scandalizzarsi troppo per le misure adottate in questi mesi di lockdown sarebbe piuttosto necessario ragionare sui loro possibili effetti di ritorno e sui loro inaspettati aspetti “dual use”. Ragionare, quindi, sulla creazione di spazi smart, tendenza questa non inedita ma che subirà una forte spinta accelleratrice. Si prova, infatti, un profondo senso di vertigine a riandare con la memoria dal passato prossimo prepandemico al deserto del lockdown fino al labirinto attuale della cosiddetta fase 2. Lo spazio, che nell’accezione comune appare spesso come ciò che sommamente resiste alla forza umana, ne è invece da questa sempre profondamente plasmato e con velocità inaspettate.

Un aspetto altrettanto preoccupante che è necessario sottolineare è quello legato alla retorica che si è imposta a riguardo dell’epidemia trasformando il contenimento di una malattia in una metafora di guerra. La militarizzazione del linguaggio, dalla “guerra al virus” per arrivare alla comparazione dei morti da Covid con quelli dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, è un tentativo di mobilitazione popolare realmente pericoloso. C’è qui in gioco il tentativo di far ricomprendere il proprio destino misero e tragico in una missione collettiva dai confini incerti.

Il mondo attuale si avvia per questioni geopolitiche difficilmente aggirabili – tra le quali le più pressanti sono l’approvigionamento di risorse energetiche e la mancanza di liquidità monetaria – a una competizione interstatale sempre più feroce, la guerra guerreggiata anche su ampia scala diventa uno scenario sempre più plausibile. Questa esercitazione ideologica di massa fatta di morti, di eroi, di prime linee e retrovie, di bandiere e inni patriottici assume contorni quantomai inquietanti. L’emblematica immagine dei camion militari che portano via le salme dall’obitorio di Bergamo esprime una verità statale alquanto triste: quanto meno l’apparato sanitario e medico è in grado di gestire una situazione come questa tanto più la polizia e la militarizzazione avanzano.

L’ambito civile e quello militare non sono, quindi, due ambiti separati ma convivono in una sorta di continuità dove il prevalere dell’uno sull’altro è determinato dalla capacità di far fronte ai problemi che lo Stato si trova davanti. Ma l’avanzare del lato marziale dello Stato, per una strana legge ben nota ai suoi nemici, una volta avviato, non è un processo che si inverte automaticamente.

Lo spazio che si sono presi sarà necessario toglierglielo.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Nord sud ovest est

Taglio netto

Il mondo inabitabile

Macchine, sensi e realtà

 

Dietro l’angolo pt.7 – Lockdown, quarantena e zone rosse.

Uno sguardo su Aurora e Barriera

Da quasi un mese abbiamo lasciato sul fuoco una pentola bollente senza più curarcene, ma è giunto il momento di provare a fare il punto su come le istituzioni cittadine hanno deciso di provare a serrare il coperchio.

Dopo che in un paio d’occasioni decine e decine di persone erano scese in strada a guardare, contestare e in un caso tentare di mettersi in mezzo davanti ad altrettanti fermi di polizia e che un corteino aveva attraversato le vie del quartiere in pieno lockdownuna seduta straordinaria del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza ha disposto una serie di misure ad hoc per contrastare e prevenire l’insorgere di ulteriori disordini in quel pezzo di città.

Insomma, Aurora e Barriera sono diventati quartieri sotto “sorveglianza speciale”.

Accanto all’annunciata implementazione della videosorveglianza e del coinvolgimento di non meglio identificate associazioni, è stato subito evidente il dispiegamento di forze messo in campo per mostrare i muscoli. In poco meno di un chilometro, lungo e attorno corso Giulio Cesare, nel punto dove si sono verificati i recenti accadimenti, sono state posizionate, a due a due, quattro camionette fisse con agenti antisommossa, 24 ore su 24. Per non parlare delle volanti di polizia, carabinieri e di quelle in borghese che fanno su e giù per questi quartieri, e degli agenti della municipale che stazionano tutto il giorno ad alcune fermate di tram e autobus, a dar manforte ai controllori della Gtt, da quando la parziale riapertura delle attività cittadine è tornata a riempirli un po’.

Un’esibizione muscolare che non si limita poi a questo quadrante di strade con le camionette che nelle giornate di maggior ressa sono solite sostare anche davanti al mercato di Porta Palazzo o ad esempio in corso Verona davanti all’ufficio immigrazione, dove il 25 maggio, giorno della sua riapertura, se ne potevano contare ben sei a guardia dell’ingresso e a monitorare la lunga fila di avventori.

Negli ultimi giorni la pressione sembra leggermente scesa, con i presidi fissi che almeno di notte paiono levare le tende fino al giorno dopo. Tuttavia è difficile capire se e quanto questa vistosa presenza poliziesca sia destinata a durare e soprattutto se alla lunga si mostrerà efficace nel soffocare il prevedibile acuirsi dell’insofferenza e della tensione sociale, in questo come in altri quartieri della città, o se piuttosto non faranno che gettare benzina sul fuoco.

 

Uno sguardo su Aurora e Barriera

Le futur n’est pas écrit – Une contribution sur les possibles développements de la situation actuelle

J’ai décidé d’écrire ces quelques lignes pour tenter d’imaginer certains des scénarios futurs de la crise actuelle, car je pense que celle-ci, si ce ne sera pas la plus grande crise du système de domination actuelle, ce sera certainement un événement qui changera le monde tel que nous l’avons connu jusqu’ici, en ouvrant la voie à des restructurations et à des événements jusqu’ici jugés impossibles, dans les interstices desquels l’action anarchiste qui vise à la destruction de toute forme d’oppression pourra trouver l’occasion de s’exprimer, et peut-être de se révéler appropriée à la réalisation de nos rêves les plus profonds et inavoués.

Commençons par admettre que cette crise nous a tous et toutes pris par surprise, bien que de nombreuses prévisions avaient déjà annoncé une possibilité de ce genre quant au futur proche de l’humanité (NATO URBAN OPERATION, ça vous dit quelque chose ?). Une possibilité à laquelle les États et leurs institutions se préparent depuis quelque temps, mais à laquelle ils semblent encore heureusement incapables de répondre de manière adéquate. Cela devrait déjà nous suggérer une première réflexion : à défaut des analyses qui voient le pouvoir comme un système d’administration organique et parfaitement huilé, dans lequel toutes les parties participent de manière adaptée, avec leurs contributions parfaitement synchronisées, nous devons reconnaître que les gouvernements n’étaient pas préparés à cette pandémie, sur presque tous les niveaux. Cela devrait nous suggérer que malgré les efforts de nos ennemis, des forces différentes et même opposées se pressent sur les trônes du pouvoir, à défaut d’une gestion des choses homogène et ponctuelle.
Imaginer des scénarios futurs n’est pas un simple exercice de la fantaisie sans but, ni une activité visant à titiller agréablement nos propositions destructives. Cela ne devrait pas non plus être un prétexte pour continuer à nous répéter plein de joie la litanie exténuante du « nous l’avions prévu ». Cela devrait plutôt servir à aider à développer sérieusement des projectualités d’intervention dans le futur immédiat. Au cours des derniers jours, sur les sites du mouvement, des contributions continuent à sortir sans cesse, n’ajoutant rien à ce que nous savions déjà, une quantité de textes qui semblent plus chercher à donner raison aux analyses produites au cours des dernières années, qu’à construire des moyens utiles pour nous orienter dans la situation actuelle. Des contributions imprégnées par cette idéologie de l’insurrection, qui cherchent partout les possibilités d’une révolte, sans jamais oser imaginer de la provoquer, ou à la recherche des conditions objectives d’une crise du capitalisme, manquant de l’imagination nécessaire pour envisager une intervention autonome qui mette finalement et véritablement en crise l’existant, et en révélant une nouvelle fois jusqu’à quel point les toiles d’araignées théoriques du passé recouvrent encore les analyses qui proviennent de ce qu’on appelle le milieu anarchiste.
La grande quantité d’écrits qui circulent dernièrement se limite en effet en grande partie à décrire, avec des tons alarmistes, les dérives sécuritaires et paranoïaques des derniers temps, chose qui n’aide pas beaucoup à imaginer une issue de cette situation qui pue le totalitarisme. Au contraire ! Ça plombe le moral, en augmentant la quantité de données négatives avec lesquelles il faut faire les comptes, et en reproduisant en substance l’atmosphère de peur que l’on respire partout, et donnant de l’écho aux pires nouvelles en circulation. Allez ! Croyez-vous vraiment qu’il y a encore besoin de décrire l’évolution autoritaire de l’actuel système de domination ? Cela fait des années qu’on le fait, et cela n’a que contribué à développer des attitudes pessimistes concernant les possibilités de bouleversement du système, en obscurcissant notre imaginaire avec des nuages noirs de négativité, de frustration et de découragement. À mon humble avis, je crois au contraire qu’il nous faut un rayon de lumière à la fin du tunnel, il nous faut entrevoir des possibilités réelles d’interventions dans le présent, pour pouvoir saisir et ainsi trouver de nouveau un élan pour l’agir. Autrement mieux vaut renoncer maintenant, se livrer aux drogues (qu’elles soient technologiques ou chimiques) ou à d’autres genres de distractions, pour profiter agréablement de ce lent anéantissement de nous-mêmes et de la planète, sans continuer à s’autoflageller.
Cette considération m’amène à suggérer qu’il y a besoin en urgence d’un récit des
événements qui échappe à celui imposé par la domination. Depuis quelque temps,
on répète comme un mantra que l’on n’a pas le pou de la situation (surtout sociale),
car nous vivons dans des ghettos antagonistes autoconstruits, et aujourd’hui plus que
jamais, vu que nous ne sommes pas dans les rues et que nous ne prenons pas le bus,
en somme aujourd’hui où nous sommes coupés du monde, il est difficile de se faire
une idée du vent qui souffle, et il faudrait prendre avec des pincettes ce qui passe sur
différents types d’écrans peuplant notre espace domestique. En ce moment, la ma-
jeure partie des informations que nous avons à disposition sont celles fournies par des
organes mass médiatiques et celles qui rebondissent sans contrôle sur les réseaux so-
ciaux, chose qui augmente la dépendance intellectuelle de ce système, et restreint nos
capacités à produire une pensée autonome, contaminée comme elle est par l’hystérie
et la peur qui circulent. L’imaginaire, même dans le soi-disant réseau subversif, est
de fait colonisé par des données insignifiantes et des informations poubelles, défor-
mant la perception de la réalité, et empêchant le développement de projectualités qui
dépassent les rives de la pensée commune. On est en train de payer l’absence ces der-
nières années de critique des médias et des moyens d’informations, comme les réseaux
sociaux. Ou, pour mieux le dire, on l’a considéré comme évidente, alors que toujours
plus de compagnonnes et de compagnons s’alignent sur les tendances communica-
tives de la masse, en se mettant un smartphone dans la poche, en se racontant (et en
racontant autour d’eux) qu’ils l’utiliseraient « consciemment ». Un fait déconcertant,
et c’est peu dire. Bien que tous connaissaient les conséquences que l’utilisation de
certains appareils a sur la sociabilité, ainsi que les rechutes indiscutables en matière
de contrôle, nous nous sommes simplement conformés, peut-être par peur de rester
isolés, peut-être avec la sincère intention de les utiliser au mieux. Le fait est que nos
milieux et que nos espaces vitaux, avec une superficialité dangereuse, ont été remplis
d’encore plus d’oreilles et d’yeux fonctionnels au pouvoir, en offrant des milliers d’in-
formations à ceux qui s’occupent de les surveiller, par exemple à propos des profils et
des pages web que l’on visite, des personnes avec qui l’on communique, les réseaux
de contacts etc. Et le gouvernement se demande maintenant si oui ou non suspendre
les droits de privacy en utilisant des applications, afin de contrôler nos déplacements.
Il est triste de reconnaître une nouvelle fois cette tendance contemporaine qui prévoit
une participation de ceux d’en bas dans la construction de leurs propres cages.
Sans parler des conséquences que l’usage des réseaux sociaux a sur la capacité des
personnes à supporter cette condition d’isolement imposée. Qui sait, ces jours-ci,
combien de personnes remercient les monstres sacrés de la domination technolo-
gique, pour leur avoir donné la possibilité de communiquer avec leurs proches. Sans
eux, ils seraient peut-être déjà descendus dans la rue, ils auraient inventé mille et un
plans pour s’évader des interdictions, en se rencontrant de visu, ne pouvant pas re-
noncer plus encore à ce contact humain si important pour le bien-être psychophy-
sique. Et cela vaut aussi pour les révolutionnaires, ou pour les militants de toute sorte.

Possibles scénarios dans un futur proche

Des protestations et des révoltes pourraient aussi advenir dans les temps à venir. En
effet, de nombreuses personnes auront bientôt des difficultés pour subvenir à leurs
besoins. Au cours des derniers jours, le Ministre pour le Sud et la Cohésion Territo-
riale est intervenu pour mettre le gouvernement en garde face à la possibilité d’une
explosion sociale. Même les services de renseignements se dont dits préoccupés.
On commence à prendre connaissance de tensions liées à la satisfaction des besoins
alimentaires vitaux, ceux qui s’occupent normalement de l’assistance sociale ne sont
pas en mesure d’affronter la grande quantité de demandes d’aide qui les submergent,
et le gouvernement se précipite pour distribuer à la hâte certaines miettes, en cher-
chant maladroitement à jeter de l’eau sur le feu. Entre-temps, il prie littéralement
l’U. E. de l’aider à soutenir l’économie et les besoins de la population face à cette
crise. Aujourd’hui est arrivée la nouvelle de la création d’un fonds de 100 milliards
d’euros dans ce but. Il est certains que ceux qui siègent dans les étages supérieurs
commencent à être préoccupés par les possibilités que provoqueront le prolongement
des mesures de limitations de la contagion, et que pour les éviter ils commenceront à
puiser dans leurs réserves. Mais comme je le disais au-dessus, nous devons considérer
que le pouvoir n’est pas un organisme parfaitement synchronisé, et l’Europe en est un
parfait exemple. Les puissants aussi peuvent commettre des erreurs d’évaluation. Il
est alors possible que ces mesures ne soient pas suffisantes pour contrôler la situation.
Il suffit de penser au grand nombre de migrants en situations irrégulières qui n’auront
droit à rien, aux travailleurs au noir ou à ceux qui gagnent leur pain au jour le jour ;
c’est probable qu’assez vite il commencera à y avoir des conflits entre pauvres pour
accéder aux aides des associations caritatives et d’assistances. En Italie, il existe une
tranche de la population entière (surtout au Sud) qui vit grâce à une économie « pa-
rallèle », que le gouvernement, et plus généralement les différents technocrates, ne
tiennent pas en considération, tellement leurs esprits sont obscurcis par des chiffres
et des statistiques sur l’économie « officielle ».
Dans d’autres pays, des gouvernants avec un peu plus de bon sens (ou d’instinct
d’autoconservation ?) ont immédiatement bloqué le paiement des emprunts et des
factures, fixé les prix des produits alimentaires, dans certains cas ils ont taxé les plus
riches (c’est le cas du Salvador). Certes, là-bas les possibilités d’un soulèvement po-
pulaire sont sûrement plus concrètes, mais il n’empêche qu’ici aussi les conditions
d’une véritable bombe sociale se créent peu à peu.
Etant donné que la fin de la réclusion ne semble pas proche, nous verrons d’ici peu
s’ils sont en mesure d’apaiser les consciences en remplissant les panses et les bouches
de carottes, ou s’ils doivent bientôt recourir au bâton pour maintenir la situation sous
contrôle.
À courts termes, il est aussi possible que les prisons explosent de nouveau, car je
doute que les réponses mises en place par l’administration pénitentiaire et par le gou-
vernement face aux revendications et aux exigences des détenus soient capables de
contrôler encore longtemps la situation. Il y a des nouvelles concernant une augmen-
tation des contagions à l’intérieur des prisons, aussi bien parmi les détenus que parmi
le personnel médical, et même des morts. Ne pas se retrouver impréparés face au sur-
gissement de cette probabilité, mais commencer dès à présent à réfléchir sur comment
intervenir (être présents dans des endroits pour aider en cas d’évasion à faire perdre
les traces des évadé-e-s ? Bloquer les rues par où arriveront les renforts des flics ?
Frapper ailleurs ?) me semble plus que jamais souhaitable.
Une fois sortis de la crise actuelle, nous sommes quasiment certains que s’ouvrira
une période de réajustement, que ce soit du point de vue économico-politique ou du
point de vue sociale.
L’économie commence déjà à connaître des problèmes, et les différents gouverne-
ments mettent en circulation d’importantes quantités de capitaux pour prendre des
mesures d’urgence. Une fois sortis de la crise, ils tenteront de toutes les manières de
faire remonter la consommation et les économies nationales pour favoriser une nou-
velle croissance. Aux quatre coins de la planète, de nouveaux projets de dévastations
seront mis en œuvre dans ce but, empirant alors la situation environnementale. Re-
lancer la croissance, coûte que coûte, sera le diktat mis en œuvre un peu partout et
soutenu par toutes les forces politiques.

Face à cette problématique et aux autres, l’U. E. pourrait réellement et finalement
entrer en cris.

L’incapacité de cet organisme supranational à adopter des mesures nécessaires pour
surmonter la crise est en train d’être démontrée ces derniers jours également, dans
les discussions entre le gouvernement et les pouvoirs forts de l’Union. Le fossé entre
l’Europe du nord et les pays du sud s’accentuera, augmentant les contrastes et la dis-
tance entre les États. Pensons par exemple au fait que pour aider les pays en difficulté
comme l’Italie (un pays avec une des dettes publiques la plus importante du monde
et gardé à flots grâce à l’entrée permanente de capitaux de la part des autres États de
l’Union) les technocrates européens ont eu le courage de proposer comme solution
l’utilisation du MES, c’est-à-dire ce fond « sauve-Etat » que nous pourrions définir
sans hésitation comme un système de prêt à usure institutionnalisé. Il suffit de voir
dans quelles conditions il a réduit la Grèce avec son intervention.
Ce scénario pourrait certainement se révéler intéressant, car il ouvrirait les portes à
une période de grande instabilité économique pour les pays périphériques de la zone
euro, tout comme l’Italie, qui risquerait sûrement le « défaut de paiement » si elle ne
trouvait pas rapidement un nouvel allié capable d’en soutenir la dette. Et ici la Russie
pourrait entrer en jeu, ou plus probablement la Chine, les seuls pays en mesure d’en
acheter la dette. Je ne vais pas plus loin sur les prévisions, car je ne suis pas un éco-
nomiste, mais je pense que nous pouvons facilement imaginer ce qui pourrait arriver
si nous devenions des vassaux de puissances économiques qui ont tout intérêt à créer
une tête de pont en Europe et à y conquérir toujours plus de marchés, des puissances
qui ne sont assurément pas en première position dans la défense des « libertés démo-
cratiques » ou des prétendus « droits de l’homme » (concept complètement vidé de
sens aujourd’hui, bien sûr, mais on s’est compris).
Il est probable qu’en même temps, et parallèlement à cela, il y aura des protestations
liées aux conséquences que les mesures actuelles auront entraînées ; des protestations
dans le secteur de la production, le secteur industriel et le secteur agricole en premier
lieu, mais aussi dans les petites entreprises ; des protestations des fournisseurs de ser-
vice comme le tourisme ou les transports, qui sortiront de ce moment de blocage total
en grande difficulté ; des protestations des précaires, de ceux qui ont vu ces dernières
semaines se dissiper les quelques économies mises de côté avec difficultés. Des pro-
testations dans et pour la santé, pour dénoncer des années de coupes budgétaires qui
ont inévitablement contribué à aggraver et à accélérer l’effondrement des structures
sanitaires pendant les pires phases de la pandémie. Des protestations dans le secteur
de l’éducation, en raison de l’absence de budget et de moyens avec lesquels on a dû
affronter la fermeture des écoles et des universités, et le déplacement complet de l’ap-
prentissage sur le plan télématique et multimédia.
À côté de cela il pourrait arriver que de nombreuses personnes commencent vérita-
blement à mettre ce système en discussion. Au-delà de ceux qui lutteront uniquement
pour rétablir les conditions de vie d’avant la pandémie, ou pour voir changer deux
trois visages dans les sphères du pouvoir, ou pour un welfare meilleur et de meilleurs
services pour le citoyen, il y aura peut-être aussi ceux qui commenceront à exiger des
changements structurels dans le système de production et de consommation. Les
causes de cette crise sont sous les yeux de tous et de toutes (d’autres les ont longue-
ment indiqués et décrits ces derniers temps, j’éviterais donc de les répéter), et bien
que beaucoup continueront à garder la tête sous le sable, jugeant trop compliqué et
fatiguant d’imaginer une manière différente d’habiter la planète, d’autres sont déjà
en train de commencer à se poser des questions auquel la politique, ou les différents
mouvements réformistes, ne seront pas en mesure de donner une réponse. Une partie
de ces personnes sont déjà actives dans des organisations ou des associations envi-
ronnementales, ou dans des mouvements écologistes comme Fridays for the Future,
ou Extinction Rebellion. Nombre d’entre eux pourraient rapidement se radicaliser et
être disponibles à d’autres formes de luttes plus conflictuelles.
À ce stade on pourrait créer une rupture sociale entre ceux qui demanderont à haute
voix un retour à la normalité, le sauvetage de l’économie et le maintien d’un style de
vie consumériste, et ceux qui au contraire voudrait tout remettre en question. Les dif-
férences de perspectives accentueraient les divisions sociales déjà évidentes, condui-
sant ainsi à un scénario de guerre civile. Je voudrais que l’on garde à l’esprit les pos-
sibilités réelles que se manifeste cette éventualité, afin que l’on commence à réfléchir
sérieusement. Imaginer de lutter, même jusqu’au dernier souffle, que ce soient contre
les forces de la répression, la police, l’armée, ou les militants d’extrême droite, contre
lesquels se sont formés notre haine et notre mépris, est certainement plus facile que
de penser à des combats fratricides, dans lesquels l’ennemi pourrait être x voisin de
maison, x proches ou x ancien ami. Quand une situation se radicalise à l’extrême, ou
bien quand les termes de l’affrontement en acte sont inconciliables, on en arrive à
un affrontement qui ne peut se résoudre, de manière figurée, que par l’expression
simpliste mais réaliste du « ou toi ou moi ». Quand l’enjeu ce sera le futur de cette
planète et les formes de survie que l’on devra adopter pour survivre (par exemple état
totalitaire ou révolution), jusqu’à quel point sera-t-il opportun d’être prêts à affronter
ce scénario jusqu’à ses conséquences ultimes.
Néanmoins, une autre conséquence de la possible disparition de l’U. E. du pano-
rama géopolitique, et dont on parle déjà au niveau institutionnel, c’est bien sûr celui
d’un renforcement des nationalismes, et plus en général de l’extrême droite. Depuis
quelque temps, nous assistons déjà au lent et inexorable déplacement des gouverne-
ments de nombreux pays vers la droite, causé aussi bien par l’incapacité de l’U. E.
d’être autre chose qu’un organisme pour protéger les intérêts des pays économique-
ment plus forts à travers ce qui a été défini comme un « nouveau colonialisme éco-
nomique » réalisé aux détriments des pays « faibles » de l’Union, que par les consé-
quences de la « crise des migrants ». Les concepts du 19e siècle comme la « solidarité », l’ « égalité », la « fraternité humaine », ou d’autres plus religieux comme la « pitié ou
la charité chrétienne », ayant désormais disparus de la conscience du citoyen moyen,
les populations européennes s’abandonnent à leurs peurs les plus mesquines, entre-
tenues par divers leaders et droitiers, avec l’aide terroriste des médias et des réseaux
sociaux. De groupes d’extrême droite patrouillent déjà aux frontières balkaniques de
l’Europe, s’exerçant aux techniques de survie et de guérilla. Dans ces moments de
paranoïa pandémique, ils jubilent déjà à l’idée des possibles conséquences sociopoli-
tiques, signalant à leurs membres de se tenir prêts. Il est en effet assez sûr que la faute
de cette crise sera refilée par beaucoup aux déplacements incontrôlés de personnes et
de populations, avec comme conséquence une augmentation de la xénophobie. Les
frontières de celle que l’on surnomme déjà l’Europe Forteresse deviendront, selon
toutes probabilités, encore plus surveillées et impénétrables pour les masses de dé-
sespérés qui depuis des années font pression à l’extérieur pour accéder à des espoirs
de vies meilleurs (et peut-être aussi que celles à l’intérieur de l’Europe ne seront plus
traversables comme nous y étions habitués avec Schengen).
Nous savons que ces groupes de droite sont plus préparés et équipés que nous pour
affronter un scénario dans lequel l’État ne serait plus en mesure de tenir les rênes de
la situation. Mais cela n’est pas une surprise, n’est-ce pas ? Cela fait des années que de
différents endroits parviennent des alarmes concernant la mobilisation de l’extrême
droite sur tout le continent. À ce sujet, il serait important de commencer un sérieux
travail de recherche et de cartographie permettant d’intervenir à temps pour désa-
morcer ce danger, quand celui-ci cherchera à sortir sa tête du trou. En Allemagne cela
fait des années que l’on travaille dans ce sens, avec l’aide fondamentale des geeks qui
publient en permanence des adresses, des plaques d’immatriculations, des propriétés
des membres des mouvements de droite. Un sérieux travail dans ce sens serait bien
sûr aussi utile ici. Cependant, même dans ce cas-là, l’affrontement pourrait rapide-
ment évoluer vers des niveaux de violence auxquels nous ne sommes généralement
pas habitués.
Enfin (du moins en ce qui concerne mes capacités imaginatives), la normalisation
de l’état d’urgence, le renforcement et la consolidation des instruments de contrôle
et la fin des pseudo-libertés démocratiques sont une autre possibilité sur laquelle pa-
rier sans risque d’être traités de pessimistes. Dans ce cas, les processus en cours de
digitalisation et d’hyper-technologisation de la production et de la vie connaîtraient
sûrement une gigantesque accélération. Le renforcement de la connectivité passerait
immédiatement à la première place de l’agenda des puissants, et le réseau 5G serait
déployé en toute hâte pour permettre les modernisations logistiques et productives
nécessaires. La quatrième révolution industrielle nous tomberait dessus sans même
que l’on ait le temps de s’en rendre compte, et l’agriculture de précision avec ses
drones, ses capteurs et ses plantes modifiées serait l’unique possibilité pour subvenir
aux besoins alimentaires dans un monde vidé d’humains.
Vivre à la maison deviendrait la normalité, on travaillera et on socialisera à travers l’or-
dinateur, on fera des achats en ligne, des robots de divers types circuleront à notre place
dans les rues et dans les habitations pour accomplir tout type de tâche fondamentale, des
réparations à la livraison de nourriture.
Pour ceux qui ont grandi avec les dystopies, il n’est pas difficile d’imaginer un futur
comme cela. En réalité, c’est la direction vers laquelle les choses étaient en train d’aller,
même avant l’état d’urgence, la seule différence c’est qu’elles se réaliseront plus vite et
avec moins d’obstacles du point de vue de l’opposition humaine. Si elle était présen-
tée comme l’unique possibilité de salut pour le genre humain et pour son style de vie
moderne, à qui viendrait-il à l’esprit de protester ? Cela fait des décennies que notre
imaginaire est bombardé par des centaines de films, de livres, de bandes dessinées et de
séries télévisées qui décrivent des futurs catastrophiques, des crises environnementales
et des sociétés futuristes technocratiques et autoritaires, leur accomplissement pourrait
donc ne générer aucun choc, et donc aucune réaction suffisamment désespérée pour
l’empêcher.
Dans tous ces scénarios, les possibilités d’interventions dont multiples, selon la fan-
taisie et les modalités d’action choisies sur la base de l’approche de chacun ) la lutte et
à l’existence. Comme on dit, à chacun le sien. Il faudrait toutefois qu’une chose soit
claire : je n’ai pas décrit ces scénarios possibles pour suggérer d’attendre leur appa-
rition pour passer à l’action. Les prétextes et les raisons pour agir sont nombreux,
même dans ce moment d’enfermement forcé, tout comme ils étaient auparavant. Au
contraire, les conditions pourraient même être plus favorables aujourd’hui plutôt que
dans le futur, étant donné que les rues sont vides et que les forces de l’ordre sont
fatiguées et engagées sur de nombreux fronts. Chaque jour qui passe de nouvelles me-
sures restrictives et de nouveaux moyens de contrôles s’ajoutent à la liste des obstacles
à surmonter. Aujourd’hui, les drones contrôlés par la police municipale patrouillent
dans les parcs publics, demain qui sait…

Un retour à la normalité ?

La question qui émerge spontanément, c’est de savoir si les prétendus révolution-
naires ou subversives attendent un retour à la « normalité » de la domination, celle
dont on avait l’expérience avant la crise pandémique que nous vivons actuellement,
pour reprendre la conflictualité avec l’existant. Car comme quelqu’un l’a déjà exposé
clairement, il n’y aura pas de cette normalité, ou du moins, ce ne sera plus la normalité
à laquelle nous étions habitués (et que l’on déclarait vouloir saboter). Et il vaut mieux
commencer à se préparer à cela. Les conditions et les paramètres avec lesquels nous
étions habitués à analyser la réalité pour planifier l’intervention la plus simple pour-
raient tout simplement ne plus exister. Pour donner une poignée d’exemples aussi ba-
nals qu’emblématiques, à qui donner un tract quand les rues sont vides et que l’on doit
garder un mètre de distance entre chaque personne, en considérant que ce supermar-
ché sera en outre contrôlé par des CRS (comme cela est arrivé dans certaines villes du
sud de l’Italie) ? Qui lira un écrit sur un mur ou une banderole attachée à un pont ? Et
les drones qui patrouillent le ciel disparaitront-ils à la fin de la crise ? Les mouvements
continueront-ils à être tracés avec les app du contrôle ? Et quels objectifs viser, quand
un sabotage ferroviaire ou l’incendie d’un pylône seront pointés du doigt par la ma-
jorité comme l’œuvre de chacals qui veulent entraîner le monde vers le chaos ? Aura-
t-on le courage de poursuivre nos rêves de destruction en nous foutant du consensus
et de la compréhension, quand il suffira peut-être d’un petit coup de pouce pour jeter
dans le gouffre ce qu’il reste de ce système ? Il est plus que jamais urgent que chacun
cherche au plus vite à apporter des réponses, à partir également des hypothèses et
des scénarios envisagés au-dessus (ainsi que d’autres scénarios imaginables). Que ce
monde soit destiné à s’effondrer, voilà l’espoir de notre génération, dans ce nouveau
millénaire de déséquilibres climatiques et de restructurations de la domination. Si cela
advient à cause des conséquences de cette pandémie, ou plutôt à cause d’une autre
catastrophe encore plus terrible et plus épouvantable, ce sera aussi grâce à des indivi-
dus conscients qui, armés de leur volonté, feront en sorte de cet écroulement fleurisse
la possibilité d’une autre manière de vivre en société et d’habiter cette planète. Car
si nous admettons qu’aujourd’hui plus que jamais, le futur n’est pas écrit, alors c’est
aujourd’hui plus que jamais le moment d’agir, en laissant derrière soi les hésitations
et les doutes, pour donner forme à une substance à des décennies des spéculations
théoriques, et se lancer enfin vers l’inconnu d’un monde miraculeusement inconnu.

en otage

La réalité n’a jamais autant pris en otage l’imagination qu’au cours de ces derniers jours. Nos désirs et nos rêves les plus fous sont dominés par une catastrophe invisible qui nous menace et nous confine, en nous liant les pieds et les mains au licol de la peur. Quelque chose d’essentiel se joue en ce moment autour de la catastrophe en cours. Ignorez les quelques Cassandre qui lancent des avertissements depuis des décennies, nous sommes désormais passés de l’idée abstraite au fait concret. Comme le démontre l’urgence actuelle avec toutes ses interdictions, ce qui est en jeu ce n’est pas seulement la possibilité de survivre, mais quelque chose de bien plus important : la possibilité de vivre. Cela signifie que la catastrophe qui nous poursuit aujourd’hui n’est pas tant l’extinction humaine imminente – à éviter, nous rassure-t-on en haut comme en bas, avec l’obéissance absolue aux experts de la reproduction – mais plutôt l’artificialité omniprésente d’une existence dont l’omniprésence nous empêche d’imaginer la fin du présent.
« Catastrophe » : du grec katastrophé, « bouleversement », « renversement », substantif du verbe katastrépho, de kata « sous, en bas » et stréphein « renverser, tourner ».

Depuis l’antiquité ce terme a conservé parmi ses significations celle d’un événement violent qui porte avec lui la force de changer le cours des choses, un événement qui produit en même temps une rupture et un changement de direction, et qui par conséquent peut être un début comme une fin. Un événement décisif, en somme, qui en brisant la continuité de l’ordre du monde, permet la naissance de tout autre chose. L’image facile et immédiate de la charrue qui brise et retourne une motte de terre sèche et épuisée, revivifiant et préparant le terrain pour un nouveau semis et une nouvelle récolte, rend bien l’aspect fécond présent dans un terme habituellement associé au seul épilogue dramatique.

D’où l’ambivalence, dans un passé lointain, des sentiments humains suscités par la catastrophe, allant de la peur panique à la fascination extrême. Au-delà et contre toute peur de la mort, pendant de longs siècles, les êtres humains ont participé à l’infini à travers la destruction catastrophique, en cherchant en lui la fulgurante révélation physique de ce qui n’était pas. Du Chaos primordial à l’Apocalypse, du Déluge universel à la Fin des temps, de la tour de Babel à l’an Mille, nombreux sont les imaginaires catastrophiques autour desquels l’humanité a cherché à se définir dans sa relation avec la vie et le monde sensible, sous le signe de l’accident. Le sentiment de catastrophe a été très probablement la première perception intime du potentiel explosif de l’imaginaire, une fissure permanente dans la (présumée) uniformité de la réalité. Se rapprocher des bords de cette fissure, en suivre la ligne, cela signifiait céder à la tentation d’interroger le destin, et non pas afficher la prétention d’y répondre. Imaginaire ou réelle, la catastrophe possédait la force prodigieuse d’émerger en tant qu’objectivation de ce qui excède la condition humaine la plus triste.

C’est seulement vers la fin du XVIIIe siècle, suite à la découverte des restes de Pompei en 1748 et le grand tremblement de terre de Lisbonne de 1755, que le mot catastrophe a commencé à être utilisé dans le langage commun pour définir un désastre inattendu aux dimensions gigantesques. Un glissement de signification facilité par le fait qu’après 1789 et la prise de la Bastille, il y aura un autre mot employé pour indiquer un renversement, une rupture irréversible de l’ordre préexistant, en mesure de préparer l’avènement d’un nouveau monde. Né au siècle des Lumières, le concept de révolution ne pouvait qu’avoir un caractère intentionnel, fortement lié à la raison, voilà pourquoi il a été lié à l’accomplissement d’un processus, à l’évolution d’une idée, au résultat d’une science. Voilà la différence profonde entre la révolution et la catastrophe qui l’a précédé et qui, d’une certaine manière, l’accompagne. Là où la révolution est l’incarnation de l’histoire, la catastrophe est son interruption. De la même manière que la première est programmée dans ses structures, projetée dans ses buts, organisée dans ses moyens, la seconde est inattendue dans ses temporalités, imprévue dans ses formes, inopportune dans ses conséquences. Elle n’élève pas les hommes et les femmes en les satisfaisant dans leurs aspirations et leurs convictions, qu’elles soient originelles ou induites, mais elle les précipite en dehors de leurs communes mesures et de leurs représentations, jusqu’à les réduire à des éléments insignifiants d’un phénomène sans aucune loi.
Plus encore que la révolution, l’explosion catastrophique du désordre balayait le vieux monde, ouvrant la voie à d’autres possibilités. Après la matérialisation de l’impensable, les êtres humains ne peuvent plus rester les mêmes, car ils n’ont pas vu s’écrouler de leurs propres yeux uniquement leurs maisons, les monuments, les églises et les parlements. Mais aussi les fois, les théories, les lois – tout a été réduit en décombres. L’ancienne fascination pour la catastrophe naît ici, de cet horizon chaotique irréductible à tout calcul, au moment où un bouleversement sans précédent brise brusquement toute référence stable, posant brutalement la question du sens de la vie dont les répercussions infinies exigent, en réponse, un excès d’imagination. La catastrophe est servie à l’individu, dans la découverte dramatique de quelque chose qui va au-delà de son identité, pour se confondre à nouveau avec la nature, le sol primordial où la source de la création.
Mais à partir de la fin de la deuxième guerre mondiale, marquée par la première explosion atomique, qu’est-il arrivé ? La perspective révolutionnaire s’est peu à peu éteinte, effacée des cœurs et des esprits. Ainsi, en leur intérieur, une seule forme possible de bouleversement matérielle est restée incontestée, qui plus est en possession des formidables moyens techniques ultérieurs pour se manifester. Mais la catastrophe actuelle n’a que très peu de choses en commun avec celle des temps jadis. Elle n’est plus cette foudre de la nature ou de l’œuvre d’un Dieu, qui met l’être humain face à lui-même – c’est un simple produit de l’arrogance scientifique, technologique, politique et économique. Si les catastrophes du passé, en mettant sens dessus dessous l’ordre établi, incitaient à regarder l’impossible en face, les catastrophes modernes se limitent à creuser ultérieurement dans le possible. Au lieu d’ouvrir l’horizon et de mener loin, elles l’enferment et elles le clouent à ce qu’il y a de plus proche. L’imagination sauvage laisse le pas au risque calculé, faisant en sorte que l’on ne désire plus vivre une autre vie, mais que l’on ambitionne de survivre en gérant les dégâts.
Les unes après les autres, les catastrophes qui ont eu lieu ces dernières décennies défilent devant nos yeux comme si elles n’étaient que des conséquences de la myopie technoscientifique et du mauvais gouvernement, à dépasser grâce à des techniciens et des politiciens plus attentifs et clairvoyants. Les catastrophes actuelles et celles du futur deviennent donc inévitables, ou pour le moins réductibles seulement à un contrôle toujours plus grand des activités humaines, placées dans des conditions d’urgence pérenne. L’effet de cette logique, c’est que les désastres « naturels » sont immédiatement oubliés et refoulés dans un contexte distant, comme si c’étaient des événements mineurs, alors que seuls les désastres « humains » occupent le centre de la scène d’un récit qui nous invite à accepter l’inacceptable. S’ils nous terrorisent, c’est exclusivement parce que notre survie physique en tant qu’espèce est menacée. Et c’est cela que l’on devrait craindre plus que toute autre chose, la catastrophe invisible de la soumission soutenable, de l’administration du désastre, celle qui enchaîne et paralyse notre envie démesurée de vivre en imposant des distances et des mesures de sécurité.

Finimondo

Notes éparses sur la maladie qui sévit

I
La vérité n’est ni au milieu, ni sur le côté

Dans les moments de grande incertitude, on tend à rechercher plus que jamais la « vérité », dans la tentative de s’y agripper pour donner un sens à une situation que l’on n’arrive plus à comprendre ni à contrôler. Sous la loupe de cette considération banale, on peut observer une grande partie des dispositions et des attitudes mises en acte récemment, partout où le coronavirus SARS-CoV-2 semble se diffuser, pouvant développer la maladie du Covid-19.
Des médecins et des chercheurs de toute sorte tentent de reconstruire les scénarios de la première contagion, à la recherche du patient « zéro », en disant tout et son contraire ; des commentateurs à deux francs décrivent dans les détails les symptômes de la maladie (évidemment de ceux qui présentent des symptômes graves, évitant souvent de rappeler qu’il existe toute une série de personnes avec des symptômes simil-grippaux, ou des asymptomatiques qui sont les vecteurs par excellence) et ils invoquent le vaccin ou la énième thérapie comme la panacée de tous les maux.

Si, d’un côté, il est indubitable qu’il y a un grand nombre de personnes ayant besoin d’être hospitalisé – le Covid-19 aggraverait les situations cliniques déjà précaires, soit en raison de l’âge ou d’autres pathologies, même si les exceptions ne manquent pas –, de l’autre, il est aussi indubitable que l’État et en train de réagir à cette situation inédite de la seule manière qu’il connaît et qui lui plaise, avec l’autorité et la peine. En somme, face à la situation perçue comme incertaine, grâce à la fanfare médiatique martellante des spécialistes du « progrès », suit sans surprise la certitude de la répression facile : des interdictions de déplacement – sauf pour des raisons de travail, de santé ou pour des courses, rien de plus ordinaire et fonctionnel pour le capital – des patrouilles massives dans les rues, le tracement des personnes à l’aide des signaux téléphoniques ou du GPS, des drones qui surveillent les sentiers et les cimes des montagnes à la recherche des réfractaires à la maladie de l’autorité.
Si ce n’était pas au prix de son indépendance (au fond nous n’avons jamais pu savourer la « liberté » de cette manière) et de son bien-être que l’on paie ces dispositions, on rirait à en mourir face au spectacle de l’absurde à la recherche de solutions faciles qui n’existent pas. Car si selon certains cette épidémie pouvait être prévue – pas dans l’absolu, mais dans son imminence –, à l’inverse totalement imprévisibles sont les conséquences de la dévastation environnementale des écosystèmes et de la nature sauvage qui est accomplie par les mêmes techniciens du désastre (auprès de qui on cherche maintenant des réponses) et par tous ceux et celles qui ont cru jusqu’à aujourd’hui, ou qui croient encore, vivre dans le meilleur des mondes possibles, si bien qu’ils veulent le préserver à tout prix.
D’ailleurs, reconnaître que la réduction de la complexité du réel à la dichotomie problème-solution ou cause-effet est le produit d’une certaine mentalité peut nous aider à reconnaître le caractère toujours plus dogmatique et contestable de la parole scientifique. Maintenant plus que jamais, il semble que la parole scientifique soit sûre, vraie dans l’absolu, et non plus perfectible (ce qui est vrai l’est jusqu’à preuve du contraire). Le monopole du savoir est dans les mains des spécialistes en blouse blanche, et dans cette situation de « véritable urgence », il vaut mieux que les communs des mortelles sans la moindre compétence ne mettent nullement en doute les affirmations de ceux qui pensent avoir en poche la vérité du moment. Mais, entre l’obscurantisme – entendu comme l’attitude de ceux qui s’opposent à tout changement et, dans un sens plus large, la non-volonté de connaître, l’absence de curiosité – et le scientisme – attitude de ceux qui prétendent appliquer la méthode scientifique à chaque aspect de la réalité –, il y a autre chose. Et c’est dans cette zone grise que les passions peuvent s’insurger, la sensibilité et la sensation, le corps redécouvert et maître de soi, les désirs les plus profonds et sauvages de ceux qui aspirent à com-prendre l’existant, sans avoir la prétention d’y arriver totalement. Et c’est dans cet interstice que nous pourrions faire naître notre critique radical de l’existant.

II
Le temps de la roulette russe

Pourquoi cette pandémie ? D’où ce virus est-il arrivé ? Et maintenant, que faire ? L’étonnement l’emporte, renforcé par la clameur médiatique, et favorisé par la sensation déplaisante de se sentir piégé, même dans les cas où on décide consciemment de ne pas respecter l’isolement forcé.
Pour certaines personnes, la sensation d’être pris au piège, ou pire, d’avoir déjà atteint un point de non-retour, est quelque chose de latent et de viscérale qui émerge avec prépotence chaque fois que l’on fait une promenade en montagne et que l’on entrevoit le énième pylône qui lacère l’horizon, la mine qui détruit la roche, et un autre glacier qui se retire, devenant encore moins imposant que l’année d’avant. À chaque fois que l’on voit disparaître sous nos yeux une partie toujours plus grande de plage, perforée et creusée par une pelleteuse qui doit laisser place à des dockers ou à des touristes, c’est-à-dire à une tranche de profit toujours plus grande. Chaque fois que nous ressentons que notre regard s’habitue à la vue d’une centrale nucléaire ou d’un bois rasé au sol, et peut-être remplacé par une plaine semée d’éco-monstre pour le parc d’éolienne (ah, le tournant green du capitalisme !). Chaque fois que l’on touche avec la main à quel point le monde dans lequel nous vivons est artificiel, totalement non-naturel, quand nous observons l’ours, le python, le dauphin ou la lionne derrière une cage, un grillage ou une vitrine, des vivants non plus sauvages et enfermés dans le énième parc animalier ou tracés dans la réserve naturelle.

Mais si après cet étonnement, une mise en discussion totale et profonde du monde tel que nous le connaissons suivait… voilà que d’autres horizons existeraient alors, et que les questions posées seraient certainement bien différentes, par exemple, la question soulevée il y a quelques jours : « existe-t-il une corrélation entre la diffusion du Covid-19 et la pollution de l’air ? ». Nous déserterions ainsi la bataille dialectique entre ceux qui s’aperçoivent de la dévastation principalement à travers le degré de la température moyenne de la superficie terrestre, ou bien par les tonnes d’émissions de Co2 – qui, dans ce cas particulier, diminuent à cause du blocage temporaire de nombreuses activités productives, ainsi qu’à cause de la réduction des transports, du smog et du trafic.
Nous ignorerions alors les considérations de ceux qui répondent à cette question en ayant toujours exclusivement en tête des nombres et des courbes : « en février les mesures adoptées par la Chine ont provoqué une réduction de 25 pour cent d’anhydride carbonique par rapport à la même période en 2019 […].
D’ailleurs, selon une estimation cela a épargné au moins cinquante mille morts causées par la pollution atmosphérique, c’est-à-dire plus que les victimes du Covid-19 à la même période ». De la même manière, nous ne nous laisserions pas tromper par ceux qui, au contraire, ont la prétention de sembler clairvoyant, en faisant appel à la soi-disant transition énergétique, destinée à l’échec : « […] l’évolution des émissions ne dépend pas seulement de celles de l’économie globale, mais aussi de ce que l’on appelle l’intensité d’émission, c’est-à-dire la quantité de gaz à effet de serre émise par chaque unité de richesse produite. Normalement, l’intensité d’émission diminue avec le temps, en conséquence du progrès technologique, de l’efficacité énergétique, et de la diffusion de sources d’énergie moins polluantes. Mais pendant les périodes de crise, cette réduction peut ralentir ou s’interrompre. Les gouvernements ont moins de ressources à investir dans les projets vertueux, et les mesures de stimulation tendent à favoriser la reprise des activités productives traditionnelles. Si, comme beaucoup le redoutent, dans la tentative de faire repartir l’économie, la Chine devait relancer la construction des centrales à charbon et d’autres infrastructures polluantes, à moyen terme les effets négatifs pourraient supprimer toute amélioration due à la baisse des émissions ».

La liste pourrait aussi s’arrêter là, mais parmi les technocrates qui se sont donnés du mal dans l’étude de cette mystérieuse corrélation, il y a une autre déclaration qui mérite d’être prise en considération car, plus que toutes les autres, elle est emblématique de l’absurdité et du plus profond désespoir (dans le sens étymologique d’« absence d’espoir ») que certains font désormais reposer sur le genre humain. Car, si d’un côté il n’est pas vérifié que ce que l’on appelle particule fine ait agi comme vecteur du coronavirus, favorisant sa diffusion, et si de l’autre il est bien connu que le fait de vivre dans des zones particulièrement polluées a des incidences sur la présence de maladies respiratoires ou cardiovasculaires chroniques, « la covariance entre des conditions de faible circulation atmosphérique, de formation d’aérosol secondaire [qui comprend des particules dérivées de processus de conversion, par exemple des sulfates, des nitrates et d’autres composants organiques], l’accumulation de Pm [le particulat, c’est-à-dire l’ensemble des substances répandues dans l’air], la proximité du sol et la diffusion du virus doivent toutefois être compris dans un rapport de cause/effet ». Et donc, dépourvu de la seule clé interprétative de la réalité, suit la conclusion qui semble une blague de très mauvais goût : « on considère que, dans l’état actuel des connaissances, la proposition de mesures restrictives de limitation de la pollution pour combattre la contagion est injustifiée, même s’il est indubitable que la réduction des émissions atmosphériques, si elle est maintenue pendant une longue période, a des effets bénéfiques sur la qualité de l’air, sur le climat et donc sur la santé générale ». En deux mots, pourquoi limiter les émissions, s’il n’est pas scientifiquement prouvé que le particulat atmosphérique a directement favorisé la diffusion du virus, dans un lien de cause-effet ? Pourquoi les limiter en général, si nous savons que leur réduction a une incidence « seulement » sur la qualité de l’air, sur le climat et sur la santé du corps ?
Soyons clairs. Nous ne comptons demander à personne de réduire les émissions, car nous ne trouvons aucun interlocuteur, ni parmi les spécialistes à deux balles, ni parmi les politiciens des conférences sur le climat. Nous nous livrons cependant à un rire du cœur spontané, quand nous nous souvenons qu’une bonne partie de la dévastation de l’environnement dépend de ces chercheurs-kamikazes ; quand nous oublions de reconnaître dans cette mentalité un fondement de la domination de la technoscience, avec l’argent vil et les rapports de pouvoir-oppression. Laissons ces pensées de côté un moment, ou bien notre rire risque de devenir un ricanement amer. D’ailleurs, nous nous trompons nous-mêmes, nous ne devrions pas nous étonner ainsi face à tout cela car, comme quelqu’un l’a écrit il y a quelque temps : « la civilisation est monolithique, et la manière civilisée de concevoir tout ce qui est observable est elle aussi monolithique »
« Nature as spectacle. The image of wilderness vs. Wildness », traduit et publié en français par les éditions Delenda Est, dans la brochure intitulée Anthropocentrisme et Nature – Regards Anarchistes (février 2018).. Et il a malheureusement vu juste : dans ce monde technoscientifique, la complexité du réel ne peut qu’être aplatie jusqu’à la parodie d’elle-même, afin de légitimer la progressive (auto) destruction de la planète et du vivant.
Dans le passé, beaucoup de sorcières ont défié l’existant, transmettant des savoirs anciens sur la nature et sur le corps non-démonisé, en refusant la loi du père, du prêtre, de l’érudit et du roi, et nous croyons que dans une version contemporaine, elles n’admettraient pas non plus la validité des questions reportées au début de ce texte, vu qu’il ne peut pas y avoir de réponses absolues, mais seulement des raisons concomitantes, des doutes et des interrogations. Dans nos dernières réflexions, nous voulons suivre les traces de ces sorcières.
Considérons les tous premiers foyers de diffusions du Covid-19 – la province industrielle du Hubei en Chine et la Pianura Padana en Italie (entre la basse Lombardie et l’Emilie : Lodi, Codogno, Piacenza, Bergamo e Brescia) : même s’ils ne confirment pas la mystérieuse corrélation, ils font allusion au fait que des zones similaires, si densément peuplées, industrialisées et polluées, sont un terrain fertile pour des agents pathogènes, car d’une certaine manière elles en favorisent la prolifération, et parce que la santé physique de ceux qui y vivent est déjà affaiblie. Par-dessus tout, on ne peut pas savoir si c’est l’une ou l’autre ou les deux raisons ensemble, et dans quelle mesure elles se combinent entre elles, avec d’autres facteurs encore. Asthme, diabète, obésité, tumeurs, maladies (neuro)dégénératives, maladies respiratoires et cardio-circulatoires chroniques – en plus de l’âge avancé – semblent être des facteurs ultérieurs du risque pour ceux qui pourraient souffrir du Covid-19, étant donné que cela pourrait développer des symptômes graves, dont les plus connus sont les crises respiratoires aiguës. Certaines de ces pathologies, d’ailleurs, sont appelées « maladies civilisationnelles », car leur apparition semble être liée à la consommation de nourriture raffinée, parmi laquelle font partie les produits industriels des cultures et des élevages intensifs.
Et encore : cette épidémie s’insère dans la longue série de celles qui se sont suivies au cours des siècles, et qui sont devenues plus fréquentes en présence d’agglomérations urbaines et de voyages intercontinentaux qui, en tout cas, ont remis en question le contact entre l’animal humain et le non-humain. Juste pour citer les épidémies de maladies zoonotiques (c’est-à-dire qui se transmettent de l’animal non-humain à celui humain, en réalisant le « saut d’espèces ») des cinquante dernières années : le Sars et le Mers (tous deux syndromes respiratoires, dans le deuxième cas il est dit du Moyen Orient), l’Hiv/Aids, la grippe porcine et aviaire, la fièvre Dengue, l’Ebola et maintenant le Covid-19. Les deux derniers semblent, entre autres, avoir en commun la chauve-souris comme animal non-humain duquel serait originaire le premier passage à l’humain de service, qui prend le nom de « patient zéro ». Dans le cas de ce coronavirus, à part les fameuses soupes de chauve-souris ou de serpent (l’exotisme le plus vulgaire n’est pas encore mort en occident !), il semble que la contagion puisse avoir eu lieu dans le marché noir où sont commercialisés les animaux sauvages, ou en marge des périphéries urbaines, où les chauves-souris vont à la recherche de nourriture. Quel que soit le cas en question, il nous semble important de reconnaître le déconfinement d’un des protagonistes de la contagion, dans la sphère vitale de l’autre : quel plaisir pendrait en effet la chauve-souris à être au milieu des personnes, si son habitat de toujours n’était pas aujourd’hui devenu une partie de la ville ? Sûrement très peu, surtout si nous pensons qu’elles risquent d’être insérées de force dans la contrebande d’animaux sauvages comme de la marchandise d’échange, aux côtés d’autres animaux de différentes espèces. Il s’agit d’ailleurs d’une activité mondiale florissante, à laquelle participent aussi souvent des petites communautés indigènes qui, dépossédées d’une partie de leur territoire (à cause de la déforestation ou des multinationales agroalimentaires), se replient sur le braconnage, et parfois sur la contrebande du bois, afin de survivre. Ainsi, la marchandisation est véritablement totale, même les rapports de coexistence symbiotiques et séculaires entre ces communautés, le vivant, et ce qu’il restait du sauvage autour d’eux, doit disparaître pour faire de la place à l’autodestruction dictée par le profit. Rien ne peut résister à l’innarêtable avancée du progrès, aucun lieu ne peut fuir à la contamination humaine de ceux qui croient dans la validité de la « civilisation ».
Enfin, en cascade : l’urbanisation et les concentrations démographiques insalubres, les élevages intensifs de l’horreur, les immenses monocultures liées aux cycles de famines et à l’appauvrissement de la terre, le flux incessant de marchandises et de personne en mouvement aux quatre coins du globe, la dévastation environnementale de tout écosystème et la disparition du sauvage, l’énième nuisance justifiée du système énergivore, l’écroulement de la biodiversité, les OGM à bon marché et tous les processus de manipulation génétiques du vivant promus par les biotechnologies… Quand donc arrêter l’énumération des méfaits de la dévastation ? Il n’y a rien à faire, car trop d’équilibres ont été brisés ; dans certains cas nous avons déjà constaté les conséquences néfastes de cette rupture, dans d’autres cas nous aurons bientôt la possibilité de les découvrir. La partie semble déjà perdue dès le départ (et c’est peut-être déjà le cas pour le genre humain, non pas pour les autres vivants) mais cela vaudrait néanmoins la peine de faire une dernière tentative. Last shot.
Au lieu de faire écho à l’impasse des questions initiales (« pourquoi cette pandémie ? D’où provient ce virus ? ») ces sorcières se donneraient la possibilité et, telles que nous les imaginons, elles risqueraient le tout pour le tout afin d’ouvrir d’autres horizons. En hasardant ainsi des questions différentes : « Où trouvons-nous la dévastation ? Qui sont ceux qui la réalisent et de quelle manière ? Et maintenant, que faire ? » – mais sans se demander il y a combien de temps cette dévastation totale a commencé, car le risque est de nous perdre dans les méandres de l’histoire et des interprétations, mais surtout de nous faire perdre cette sensation du ventre, qui nous donne la sensation d’être en échec et qui alimente notre rage. Il nous suffit de savoir que la dévastation existe et qu’elle est permanente. Nous ne pensons pas que c’est une catastrophe car ce n’est pas un événement inattendu, mais bien au contraire, c’est la prévisible (bien que pas dans l’absolu) conséquence d’une guerre au vivant, perpétrée quotidiennement par des personnes, des entreprises, des recherches et des institutions – les tentacules de cette domination technoscientifique mortifère.
Aujourd’hui, 28 mars 2020

Une sorcière ennemie de toute couronne

P.S. L’expression, présente dans le titre, « maladie qui sévit » n’entend avoir aucun rapport avec les vers de quelques nationalistes italiens. Et la maladie dont nous parlons n’est certainement pas le Covid-19.