Dove non arriva l’app… arriva il braccialetto: sull’IIT e le sue responsabilità

Il braccialetto elettronico del futuro: questo è quanto viene studiato all’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia). Il braccialetto intelligente è pensato da far indossare nella fase 2 dell’emergenza Covid-19 per potere monitorare la distanza di sicurezza tra persone e la temperatura corporea. Il prototipo, nominato iFeel-You, sfrutta i risultati di ricerca ottenuti nell’ambito del progetto europeo An.Dy dedicato anche allo sviluppo di una tuta sensorizzata capace di monitorare alcuni parametri del corpo umano.

Il prototipo nasce dallo sforzo dell’IIT di fronteggiare l’emergenza sanitaria applicando il proprio know-how nell’ideazione di nuove tecnologie da rendere disponibili alla società attraverso il coinvolgimento di aziende e investitori: insomma creare opportunità di profitto attraverso il controllo sociale. Nel mentre, giungono anche le ultime novità per quel che riguarda l’App Immuni ed il suo funzionamento.

In questi giorni, però, si sprecano anche gli articoli che cercano di focalizzarsi sul ruolo che potrà avere l’Intelligenza artificiale nella fase 2. Da un lato sempre l’IIT distribuisce gratuitamente un software per la biometria da aggiungere agli impianti di videosorveglianza delle città, dall’altro lo Stato di polizia, sogno represso di ogni governante, progetta come giungere a violare persino la mente delle persone.

Che dire: chi quel 24 dicembre 2018 decise di bussare alla porta dell’Istituto aveva già ben chiare molte cose.

 

San Ferdinando – Proteste e repressione nella tendopoli in tempi di pandemia

Nell’Italia chiusa dal lockdown in seguito alla pandemia causata dal covid-19, è particolarmente difficile la situazione di chi è costretto a vivere nei ghetti e nei campi di stato, come la tendopoli di San Ferdinando in provincia di Reggio Calabria.

Il 1° aprile un gruppo di abitanti della tendopoli ha protestato contro l’intenzione di Regione Calabria,Caritas e Protezione Civile di allestire presso la tendopoli una cucina da campo per la somministrazione di pasti.

La protesta come al solito è stata pesantemente criminalizzata da politici locali, sindacati e media, come ogni volta che gli e le sfruttatx hanno provato a far sentire la propria voce e lottare per i propri bisogni.

Per il Sindaco “Si è assistito, infatti, da parte di un gruppo di facinorosi, a un incomprensibile e inatteso rifiuto del servizio di mensa, accompagnato da atteggiamenti minacciosi e provocatori che invece di essere circoscritti e neutralizzati, venivano tollerati da una maggioranza silenziosa e passiva.

Sarà necessario avviare una riflessione su quanto è accaduto, senza negare la gravità di comportamenti a cui è doveroso reagire con fermezza ma determinati a evitare qualunque demonizzazione sommaria”

Per Rosi Perrone – Segretario generale Cisl Reggio Calabria “I fatti di San Ferdinando non vanno derubricati con leggerezza e con filosofia. Vanno condannati perché ogni protesta dai connotati violenti non può trovare alcuna giustificazione.”
Il vicepresidente della Regione Calabria, Nino Spirlì aveva dichiarato “Sono sconcertato, addolorato e intristito. È inaccettabile che i migranti rifiutino il cibo con la violenza, mentre migliaia di calabresi, che noi stiamo comunque aiutando, non hanno nemmeno un euro per entrare nei supermercati.”

15 giorni dopo, il Sindaco di San Ferdinando Andrea Tripodi ha disposto ben 25 daspo urbani e l’allontanamento dalla tendopoli delle persone che avevano protestato, segnalate dalla cooperativa Exodus che gestisce la tendopoli e dalla polizia, per violazione del regolamento e “comportamenti gravi e non compatibili con la permanenza nel campo”. Nell’ultimo anno sono stati 40 i Daspo emessi dal Comune di San Ferdinando.

Solo attraverso il Comitato lavoratori delle campagneRadio Onda Rossa e Radio Blackout, si sono potute ascoltare le parole di chi vive nella tendopoli che spiegavano le vere ragioni della protesta.

“Adesso il loro obiettivo è che nessuno della tendopoli possa uscire per andare a Rosarno per comprare la spesa. Attualmente ci sono carabinieri e polizia sulla strada per Rosarno. La Caritas è venuta a portare i pasti cucinati da loro, ma da anni i ragazzi della tendopoli stanno dicendo che vogliono che nessuno cucini al posto loro. Già la polizia sta impedendo alle persone di uscire dalla tendopoli. Perché queste provocazioni? Volevamo andare al Comune di San Ferdinando a dire al Sindaco “Basta con questa vergogna” perché da anni le persone dicono che non vogliono questo, che vogliono essere trattate come le persone normali, perché dall’inizio di questa emergenza nessuno è venuto per chiedere come va la situazione, come state. I Carabinieri hanno detto che se andavamo al Comune di San Ferdinando ci facevano una multa di 5/600 €. È dal 2018 che la nuova tendopoli è militarizzata, il controllo aumenta ogni anno. Attualmente ci sono due furgoni dei carabinieri, 4 macchine della polizia e due della guardia di finanza, nessuno può uscire o entrare nella tendopoli senza essere stato controllato. Il problema è che loro non danno nessuna informazione, non ci dicono cosa possiamo o non possiamo fare, in questo modo le persone potrebbero capire, e invece non spiegano niente e se qualcuno esce gli fanno un verbale e una multa. Ci sono altri ghetti qui, e tutti chiamano per capire la situazione.”

e ancora…

“Lo sapete tutti, in questo momento la situazione in Italia è difficile, sia per immigrati o per italiani è difficile. Parliamo della tendopoli perché sui giornali e su facebook abbiamo visto che il sindaco di San Ferdinando ha detto che tutto il dispositivo [sanitario] è a posto. Nella Piana di Gioia Tauro gli immigrati sono stati abbandonati durante questa emergenza perché non c’è nessun servizio sanitario, mancano le informazioni e ci sono tantissime difficoltà. Chi dalla tendopoli vuole andare a fare la spesa a Rosarno non può farlo, possiamo andare a San Ferdinando ma tutti qui sappiamo che lì non possiamo comprare quello che ci serve. Hanno già fatto il verbale a alcune persone per non farle andare a Rosarno. Attualmente la difficoltà è anche delle persone che vivono [nei ghetti] a Russo e a Rizziconi, che devono spostarsi per fare le spese e andare a lavorare in campagna. La maggior parte non sta lavorando e quindi ci sono molte difficoltà. Non ci sono informazioni.

Il Comune di San Ferdinando ha pubblicato su facebook che la Caritas ha portato la pasta in tendopoli e le persone hanno rifiutato ma nessuno ci ha chiesto spiegazioni sul rifiuto. Dall’inizio dell’emergenza né la Caritas né il sindaco sono mai venuti a chiederci come stiamo o a capire la nostra condizione. Sono usciti fuori i soldi e la Caritas ha portato la pasta anche se da anni le persone dicono di non volere i pasti cucinati dalla Caritas. Le persone si vogliono cucinare per conto loro e se la Caritas si presenta con la pasta tutti la rifiutano. Qui le persone lottano per il problema dei documenti e per il problema abitativo, la soluzione non è la tendopoli, la soluzione non è portare la pasta cucinata dalla Caritas. La soluzione è documenti per tutti e casa per tutti perché in tendopoli c’è una situazione molto difficile e sta diventando come la baraccopoli che hanno sgomberato. Hanno abbandonato tutti e durante questa emergenza manca l’acqua e la luce, ci sono tantissime difficoltà.
La realtà è che neanche ci possiamo parlare, anche qui in tendopoli se si è in 2 o 3 la polizia interviene. Il vero problema è che non esce mai quello che raccontiamo, anche con i giornalisti esce solo quello che dice lo Stato.

Il vero problema è la comunicazione. Anche se i giornalisti e altre persone vengono a chiedere, quello che noi diciamo non esce mai fuori. Quello che dicono loro esce sempre fuori. Per questo le persone hanno deciso di rimanere zitte, perché tutto quello che noi diciamo non è mai uscito fuori. Perciò noi reagiamo come vogliamo qui, quando qualcuno viene a provocare noi glielo diciamo direttamente. Le persone l’altroieri hanno deciso di andare al Comune di San Ferdinando per dire al Sindaco di vergognarsi, perché già da tanti anni loro stanno giocando con la vita delle persone, loro giocano con la pelle delle persone, è tempo di dire basta, devono vergognarsi, perché tutti quello che loro raccontano agli italiani è che i ragazzi sono violenti. Noi abbiamo capito tutto quello che loro stanno facendo, il problema è che la nostra voce non esce mai fuori qui nella Piana di Gioia Tauro, perché tutti i giornalisti che vengono fanno quello che vogliono. Le condizioni della Calabria, parliamo direttamente della regione Calabria: ci sono tantissime disuguaglianze, perché non è solo la Piana di Gioia Tauro, ci sono altri ragazzi che abitano da altre parti, Sibari etc, ci sono tantissime disuguaglianze, e anche loro stanno chiamando per chiedere che cosa devono fare. È da un mese che loro sono a casa, non c’è nessun servizio sanitario, anche se qualcuno si sente male non c’è nessuno a cui dire qualcosa, se chiamare un medico, lasciarlo così o fare qualche altra cosa.
La nostra lotta è stata già sfruttata da associazioni e sindacati perché loro non vogliono che noi lottiamo, loro non vogliono che noi ci autorganizziamo nella Piana di Gioia Tauro. Anche se noi proviamo a fare qualcosa qui loro sono contro la nostra lotta, c’è tantissima repressione, e anche queste associazioni e sindacalisti, tutti sono dalla parte dello stato italiano. Quando facciamo qualcosa, sempre dicono che noi siamo violenti, sempre dicono che non dobbiamo fare questo, che dobbiamo passare dal sindacalista. Ma tutto quello che diciamo ai sindacalisti, poi non succede nulla, non c’è mai soluzione per il nostro problema. Noi stiamo cercando una vita migliore ma nella Piana di Gioia Tauro sta andando peggio, perché tutte le cose che facevamo prima stanno diventando difficili da fare. Il giorno 6 dicembre abbiamo fatto qui una grandissima protesta, è stata organizzata dagli immigrati di tutta Italia, con una grandissima riunione a Roma, per organizzarci, con l’aiuto di solidali italiani. Però a tutti quei solidali italiani che aiutano gli danno i fogli di via, gli mettono tantissima pressione. Loro [le autorità] quai sono contro l’autorganizzazione, per loro dobbiamo passare sempre dai sindacalisti. E anche adesso, tutti sanno che c’è il problema del coronavirus, anche se vogliamo fare una manifestazione o uno sciopero è difficilissimo, perché già l’altroieri hanno detto che se uno prova a fare una manifestazione ti fanno una multa di 400/600 €. Questo è il problema. Perché le persone vogliono lottare, vogliono chiedere i propri diritti. Con questo coronavirus ci sono delle possibilità, come vediamo in altri paesi dove stanno facendo qualcosa per gli immigrati. Però attualmente qui in Calabria ci sono tantissime difficoltà per gli immigrati, dobbiamo stare a casa chiusi, e noi qui siamo trattati come animali, non abbiamo diritto ad avere informazioni, non abbiamo diritto di uscire, di andare a Rosarno a comprare la nostra spesa, dobbiamo andare ogni giorno a San Ferdinando e loro lo sanno che lì la nostra spesa non si trova.”

Proteste e repressione nella tendopoli di San Ferdinando in tempi di pandemia

The Road to Hell Is Paved with Good Intentions: COVID-19, Corbyn and ‘Crisis’ (UK)

Text from the UK reflecting on anarchy, “democracy”, coronavirus, and responses to the pandemic…

PDF: The Road to Hell Is Paved with Good Intentions: COVID-19, Corbyn and ‘Crisis’

We started to write this text last December, just after the general election in England, in response to the huge number of anarchists who voted…. then coronavirus hit. Struggling to make sense of the new context we are in, we wondered if our critique of “democracy” (and the surge of Labour voting anarchists) in the UK was appropriate. Some may read this text as an unsympathetic distraction from a global “crisis”.

We hope our humble (but fiery) reflections will spark some much needed discussion. Now is the time for difficult questions….and as there will be no return to “normal”, we decided to publish it now. Email us at theroadtohell [at] riseup [dot] net

Alcune righe riguardo un intervento della polizia di sabato 18 Aprile a Monza

Per le strade deserte di Monza succede che, in un tranquillo sabato sera, un ragazzo venga fermato dalla polizia in strada perché in stato di agitazione. Chi ha assistito alla scena racconta di aver contato, oltre a un’ambulanza, 11 poliziotti intervenuti per fermare un ragazzo che non stava facendo del male e che, evidentemente, non sarebbe stato pericoloso.

Come spesso accade, l’arrivo delle FDO ha peggiorato la situazione: se mentre uno sbirro ti dice di stare calmo e che andrà tutto bene tiene in mano un manganello, è facile mantenere la calma? Quello che è successo sabato, in queste settimane è capitato parecchie volte anche in altre città d’Italia: una persona è stata accerchiata dalle forze dell’ordine, trascinata per terra e ammanettata. Erano in tanti ad assistere e riprendere, ma alla polizia non piace essere ripresa durante un fermo. Infatti una delle persone presenti è stata accerchiata da quattro sbirri che, vedendola riprendere col telefono (fuori dal portone di casa e con mascherina), le hanno intimato di smettere perché, a detta loro, sarebbe vietato. Gli sbirri allora hanno chiesto perché questa persona (tra molte altre) fosse in strada. Il motivo di tutto questo interesse verso una sola persona era il presunto video girato. Non è mancata la classica richiesta immotivata dei documenti. Non avendoli con sé, essendo uscita di casa all’improvviso preoccupata dal trambusto, la persona è stata seguita nel cortile di casa da un agente che ha cercato di entrare nell’abitazione (gli è stato impedito chiedendo di mostrare un mandato che chiaramente non c’era).
Il poliziotto non si è fermato: non potendo entrare in casa, ha iniziato a suonare il campanello (alle 23) agitando gli abitanti ignari di tutto. Ottenuto e fotografato il documento, lo sbirro è andato via continuando a minacciare la persona con frasi del tipo “non fare stronzate con quel video”.

Intanto in strada si sentivano ancora le lamentele del ragazzo verso le FDO. La situazione è durata ancora circa 20 minuti con l’arrivo di nuove volanti, finché il ragazzo non è stato caricato in ambulanza e portato via. Per ora non sappiamo né dove sia stato portato né come stia adesso.

Con sicurezza possiamo dire sulla vicenda che non siamo stupiti dai metodi stronzi e minacciosi delle FDO, anzi altre volte abbiamo visto di gran peggio. Ci interessa sottolineare che questi non sopportino l’aiuto a chi è nelle loro mani, sempre meno abituati alle persone che si mettono in mezzo durante un controllo, un fermo o un arresto. Così cercheranno sempre di intimidire i solidali. Ogni giorno in questa quarantena vediamo comportamenti violenti e immotivati della polizia. Questo è un risultato dell’invocare sempre più polizia, con sempre meno controllo e sempre più con poteri discrezionali.

Sopratutto in un periodo in cui ci è impedito di uscire liberamente e la polizia sembra sentirsi padrona delle strade, è sempre più necessario non girarci dall’altro lato se assistiamo a una violenza in strada o dalle nostre finestre. Non permettiamolo!
Solidali non infami!

Aggiornamenti processo Scripta Manent

Per la data del 1° luglio è stata stabilita la prima udienza di appello del processo Scripta Manent presso l’aula bunker delle Vallette di Torino. Le date fissate per le udienze di appello sono queste: 1, 8, 10, 15, 17, 22, 24, 29 luglio; 9, 11, 16 settembre.

Nonostante la pandemia, il Tribunale di Torino è fra quelli che hanno garantito lo svolgersi di processi “importanti”, e con detenuti, già in calendario per questa estate. Quindi presumibilmente questa data rimane in effetti confermata.

I/le compagni/e imputati/e sono accusati di 270 bis e per varie azioni antimilitariste, contro i CPR, in solidarietà agli anarchici prigionieri, contro caserme, sedi e uomini delle istituzioni a firma FAI e FAI/FRI, dal 2003 ad oggi. Gli imputati prigionieri saranno in videoconferenza, come in tutte le ultime udienze del primo grado.

Infatti durante il periodo delle udienze preliminari non c’era ancora nessuna legge che imponesse la videoconferenza. Poi, all’inizio del primo grado è passata la legge che però concedeva un anno di tempo a carceri e tribunali per adeguarsi, imponendo in quell’anno di adeguamento la videoconferenza solo agli imputati accusati di essere ai vertici delle “associazioni”. Passato l’arco di tempo di un anno, la videoconferenza è stata applicata a tutti/e come previsto.

All’udienza dell’11 febbraio 2019, sempre nell’aula bunker del carcere di Torino, un nutrito gruppo di compagni e compagne ha espresso la sua calorosa solidarietà agli anarchici/e sotto processo. Il PM Roberto Sparagna, è stato impossibilitato a prendere parola per formulare la sua requisitoria. Dopo diversi slogan e la lettura del testo sottostante, la Corte ha interrotto l’udienza. L’aula è stata sgomberata dall’intervento delle squadre antisommossa.

Coerentemente alla strategia impiegata dagli inquirenti fino ad ora, tesa a isolare i prigionieri e minare il sostegno espresso loro, perseguendo le varie manifestazioni di vicinanza e solidarietà, la questura di Torino in seguito alla presenza in aula di febbraio, ha emesso una sessantina di fogli di via dalla città, e sette denunce per interruzione di ufficio ed oltraggio in concorso.

Rimane importante continuare a dimostrare la nostra solidarietà agli/le imputati/e.

«Qui si stanno mettendo sotto accusa 20 anni di storia dell’anarchismo.
Non siamo imputati, ma questa è la nostra storia ed il nostro percorso rivoluzionario.
E proprio a questo percorso appartengono le pratiche oggi sotto processo.
Siamo tutti coinvolti e i boia dello stato non possono definire né comprendere le nostre idee e le nostre vite.
Solidarietà ai prigionieri anarchici e rivoluzionari!
Non un passo indietro, Sempre A Testa Alta.
“Fermamente e senza compromessi verso il nostro obiettivo”.
Per l’Anarchia!».

SOLIDARIETA’ E FORZA AI COMPAGNI PRIGIONIERI DELLA GUERRA SOCIALE!
LIBERTA’ PER ANNA, MARCO, ALFREDO, NICOLA E SANDRO!

Pensiero stupendo

Un fatto di cronaca locale. Non si sa quando, non si sa chi, non si sa perché, si sa solo dove. E ciò basta per aprire il cuore, anche se ciò che è successo pare non abbia avuto molto successo. Ma, come si sa, in certe cose è il pensiero che conta.
Un pensiero come quello che lo scorso fine settimana qualcuno ha lasciato sul muro di cinta di una ditta, alla periferia di Lecce. Non era un manifesto, né una scritta, no, era una pentola piena di benzina con attaccate un paio di bombolette di gas, il tutto corredato da un innesco rudimentale forse difettoso. Una grande fiammata c’è stata, l’esplosione no. Nel darne notizia, gli organi di informazione locali non sanno specificare quando ciò sia avvenuto. Boh, tra venerdì 24 aprile sera a lunedì 27 aprile mattina? Non dicono nemmeno chi possa essere stato, e per quale motivo. Boh, un atto di intimidazione o di ritorsione da parte di qualche malavitoso o squilibrato? In compenso sono stati molto precisi sul dove si sia verificato: in via del Platano 7, nel rione Castromediano, sede della Parsec 3.26.
Ma di cosa si occupa codesta Parsec 3.26? È un’azienda informatica specializzata in tecnologie digitali per la pubblica amministrazione. Ad esempio, ha creato il software usato dalla polizia e dalle banche per il riconoscimento facciale di chi viene ripreso dalle telecamere di videosorveglianza. Ah, tutto qui? Sarà stata presa di mira solo perché, come si apprende scorrendone il sito dall’insopportabile linguaggio tecno-anglo-cretinizzante, la sua «passione è l’E-Government»? Solo perché «ha avviato una divisione denominata Reco 3.26, attiva nella produzione di sistemi software nell’ambito smart recognition… nella ricerca in sistemi biometrici e si avvale di team interdisciplinari che includono Ingegneri e Scienziati… I settori maggiormente nei quali va a impattare questa tecnologia attualmente sono i trasporti, finanza, sicurezza (pubblica e privata). La crescita è spinta soprattutto dalle iniziative dei governi in tema di sicurezza. Le aziende appartenenti a settori come quello del retail e quello bancario stanno adottando sistemi di riconoscimento facciale per l’identificazione dei clienti e il monitoraggio del loro comportamento. Ad oggi le soluzioni prodotte Parsec 3.26 rappresentano lo stato dell’arte delle tecnologie di riconoscimento in Italia per la pubblica sicurezza. Difatti la società si è contraddistinta, per aver realizzato una soluzione di riconoscimento biometrico ad oggi utilizzata dal Ministero dell’interno – Direzione Centrale Anticrimine nell’ambito del sistema SARI»?
È mai possibile che ci sia qualcuno ostile a questa «contraddistinta» società solo perché aiuta lo Stato a riempire le patrie galere e le banche a proteggere le proprie casseforti? Chi lo avrebbe mai detto!
Ecco, il fatto che in tempi di confinamento, posti di blocco, autocertificazioni, tracciamento, sorveglianza coi droni e quant’altro… — roba da far vergognare quelle mammolette dei regimi totalitari del passato — qualcuno abbia avuto un simile pensiero poco prima, durante o poco dopo l’anniversario della Liberazione dal nazifascismo, ci lascia incantati. Sarà anche stata solo una fiammata, ma quanta splendida luce in mezzo alle tenebre dell’odierna servitù volontaria.
Luce di vendetta, luce di dignità, luce di libertà.
***
La notizia sui media locali:

Il passato è passato…

“Perché il desiderio di estraneità non diventi mutilazione rassegnata, ma si armi contro ogni forma di autorità e di sfruttamento. Perché dal Potere del dialogo (con cui si pensa di risolvere tutto) e dal dialogo del Potere (che invita tutti ad una ragionevole contrattazione) si passi ad un sentimento di radicale inimicizia verso l’esistente, di distruzione di ogni struttura che aliena, sfrutta, programma e irreggimenta la vita degli individui. Il nero del cane (questo animale cui generalmente si associa l’idea di sottomissione, di servile mansuetudine) è proprio la volontà di uscire dal gregge della servitù volontaria e di aprirsi alla gioia della ribellione. Non il nero in cui tutte le vacche sono uguali (sia pure nel loro essere contro o fuori), bensì quello in cui scompare il confine tra la demolizione e la creazione, tra la difesa oltranzistica di se stessi e la costruzione di rapporti di reciprocità con gli altri.”

Oggi, in questo periodo di emergenza sanitaria, diventa di particolare importanza condividere e approfondire riflessioni sui temi della malattia e della sicurezza della vita. Per questo riproponiamo dei testi di Canenero, scritti tra gli anni ’94 – ’95, che possono aiutarci ad avere uno sguardo più lucido sulla situazione, poiché inseriti al di fuori del flusso mediatico delle notizie in cui invece noi siamo immersi.

Questa pandemia ha trovato impreparati tutti: dall’individuo che non si era mai posto tante domande su questa società a chi ha sempre trovato assurdo accettare di passare l’intera vita a respirare polveri sottili per poi ritrovarsi con un tumore. Ma anche negli ambienti cosiddetti radicali la critica sulla sicurezza della salute è venuta meno. Quello che sentiamo e leggiamo quotidianamente dai media e dai giornali è il costante bombardamento di notizie sui morti e i malati che il Coronavirus ha fatto. Dunque, come viene intesa la malattia e perché questo terrore di essa e della morte? In questa società la medicina è riuscita a creare l’opinione comune – o luogo comune – secondo il quale la salute deve essere necessariamente medicalizzata, ogni malattia o sintomo devono essere nell’immediato curati, spesso senza chiedersi nemmeno troppo l’insieme delle cause che li hanno generati. La maggior parte delle persone, di fronte al rischio di ammalarsi, si affida ciecamente nelle mani dei medici e degli esperti, rassegnandosi all’espropriazione della propria vita in cambio di una esistenza menomata ma garantita.

Infatti, sotto questa coltre di paura collettiva che lo stato e i media hanno creato, in particolar modo riguardo alla diffusione del virus, le persone si fidano del parere degli esperti senza porsi più di tanto la domanda se la distanza di sicurezza, la mascherina e i domiciliari forzati possano davvero essere la soluzione a questa pandemia.

L’idea della sopravvivenza a tutti i costi, l’idea di una vita (sopra)vissuta il più a lungo possibile anche senza goderne intensamente, per quanto qualcuno di noi possa non trovarsi idealmente d’accordo, ci porta comunque ad affidare i nostri corpi nelle mani di chi quei corpi li vede solamente come macchine funzionali alla volontà dello stato di continuare a perpetrare il suo potere.

Nei diversi testi emerge, ad esempio, la critica alla tecnica e alla paura del nulla e dell’ignoto in quanto attraverso la lotta contro il terrore del nulla può essere letta l’intera storia della civiltà della tecnica. Perché, mentre per la società la sopravvivenza è un dovere, c’è chi pensa che la propria vita appartenga esclusivamente a se stessi. Qualcuno, di fronte alla consapevolezza di non voler più continuare ad esistere, decide, senza chiedere permesso a nessuno, di togliersi la vita, qualcun altro, di fronte all’incrollabile speranza di guarire dal tumore, decide di sottrarsi alla medicina e di fuggire dalla paura della morte andandole incontro. E altri spunti, per tentare, ancora un’altra volta, di dare alla ribellione la gioia randagia e l’impulso di una distruzione tanto auspicata da chi si sente straniero in territorio nemico. E questo territorio dicasi mondo intero.

Qui trovate il PDF per leggere e scaricare i contributi di Canenero:

Il tempo è finito

Rileggendo l’editoriale del numero 10 della rivista anarchica “i giorni e le notti” – in cui si accenna al rapporto tra la finitudine dell’esistenza umana e il sogno dell’immortalità – abbiamo trovato degli spunti non inutili, forse, per questi tempi di confinamento e di percezione di qualcosa che incombe. Quanto il sentimento della paura venga alimentato e sfruttato dallo Stato e dai tecnocrati per accelerare la digitalizzazione della società e la macchinizzazione dei corpi, non sfugge ormai a nessuno. E il sogno rivoluzionario di affrontare umanamente i limiti della nostra condizione (sì, possiamo ammalarci, sì, prima o poi moriamo), in che stato di salute è? Ci sembra che nelle analisi circolate finora – e ne abbiamo lette di buone e anche di ottime – manchi proprio il lato soggettivo di quello che stiamo vivendo. Gli scenari che si aprono, gli interventi sovversivi possibili… – tutto questo è necessario quanto urgente. Ma noi, ciascuno di noi, di fronte al rischio di ammalarci e di far ammalare, alla vista delle strade deserte, siamo rimasti esattamente gli stessi di qualche mese fa? Non abbiamo riscontrato, anche fra compagni, un certo disorientamento? E dal lato esistenziale si torna a quello pratico-operativo. Non è detto che in futuro – come stiamo sperimentando anche in queste settimane – potremmo fare affidamento sulla dimensione collettiva (gli incontri, le assemblee, lo scendere in piazza insieme e in modo annunciato). Saper cogliere le occasioni, certo. Approfondire le affinità e affinare la capacità di agire anche in pochi, senz’altro. Ma forse questo tempo ci sta dicendo altro. E a poco valgono le pose con noi stessi e con gli altri. Per cosa siamo disposti a vivere (e a morire)?

Di seguito il testo dell’editoriale

Dedichiamo gran parte di questo numero della rivista all’internazionalismo.

Non esiste oggi questione di una qualche rilevanza che non abbia una dimensione internazionale. Dai salari alla logistica, dalla produzione alle spese militari, dall’estrazione di materie prime agli oggetti di uso quotidiano, dai prezzi delle merci alla repressione, dagli affitti alle pensioni, dal ruolo dei territori alle emigrazioni, dall’urbanistica ai cambiamenti climatici, internazionali sono le cause e gli effetti, i processi e le dinamiche, le lotte e i rapporti di forza.

Di conseguenza non è mai stato tanto necessario avere una prospettiva internazionalista, come sfruttati in generale e come anarchici nello specifico.

Come cerchiamo di far emergere dagli articoli che pubblichiamo, esiste un rapporto sempre più stretto tra lotta di classe e tecnologia, tra Internet ed estrattivismo, tra il mondo virtuale e i suoi rovesci materiali su scala planetaria. I mercati capitalistici oggi in espansione – pensiamo all’agribusiness, alla bio-medicina, alla riproduzione artificiale e alla sperimentazione di nuovi farmaci – seguono precise linee di classe, di genere e di “razza”. Dietro c’è il saccheggio neo-coloniale. Dietro c’è la guerra.

Come dimostrano i casi incrociati dell’attacco da parte dell’esercito turco alle comunità curde e lo stato di emergenza decretato in Cile contro la rivolta seguìta all’aumento dei prezzi dei trasporti, la ristrutturazione economica oggi si impone con i militari e la guerra si rovescia all’interno contro il conflitto sociale. Dietro le mire assassine di Erdogan c’è il capitale internazionale. Più il “Sultano” attacca l’organizzazione dei lavoratori, più gli imprenditori stranieri investono in Turchia; più devasta il territorio, più le banche lo finanziano. E intanto in Siria – dove alleanze e “tradimenti” sono funzionali alla spartizione geopolitica delle zone di influenza – si sperimentano nuove armi, per la gioia dei produttori di mezzo mondo. Dietro i caroselli dei militari in Cile, dietro gli arresti di massa, dietro gli stupri e il fuoco aperto persino sui ragazzini da parte dei carabineros, c’è il capitale nordamericano.

Ma non siamo di fronte soltanto a un gigantesco Risiko fra le grandi potenze. Sullo sfondo, ci sono le lotte, le resistenze, le rivolte. Quella in corso in Cile non ha precedenti, per intensità, negli ultimi decenni in quel Paese: si è sedimentata sciopero dopo sciopero, barricata dopo barricata, molotov dopo molotov, ed ha trovato nei compagni anarchici in carcere una fonte di ispirazione e di incoraggiamento. E mentre i degni successori del neoliberista Pinochet schierano l’esercito, che non riesce a domare le fiamme, continua la rivolta sociale in Ecuador. Ben più complesso – ma necessario – il giudizio sulla guerriglia curda. Se essa è stretta da tempo nelle stesse contraddizioni che hanno segnato la Resistenza al nazi-fascismo in Italia – cercare di essere una forza autonoma dentro uno scontro inter-imperialistico –, la logica della guerra e della diplomazia ne ha trasformato profondamente i lineamenti. Se non ci siamo mai entusiasmati per la costituzione formale del Rojava – con la sua difesa della proprietà privata e i suoi governanti (tali addirittura per volontà divina!) –, abbiamo anche còlto la forza della sperimentazione sociale in corso in diversi villaggi. (Anche se da lì ai paragoni con la Spagna del ’36…). Ma quando dei guerriglieri si prestano a fare da fanteria per l’esercito statunitense (partecipando a operazioni militari ben lontane dal Kurdistan); a gestire campi profughi con migliaia di internati; a farsi carcerieri non solo di miliziani dell’Isis, ma anche dei loro familiari, continuare ad alimentare a livello internazionale il mito di un Rojava libertario è un tragico errore. Un errore figlio del taglio che si è voluto dare da più parti alla solidarietà con la resistenza curda. Averne fatto un avamposto eroico contro lo Stato Islamico (il Male assoluto contro cui ogni fronte comune è giustificato), ha allontanato la solidarietà dall’analisi materiale delle forze capitaliste in campo e allo stesso tempo da tanti proletari arabi, che conoscono per esperienza diretta la politica e la retorica democratiche contro il “fondamentalismo islamico”. Non sono certo, queste, buone ragioni per lasciare lo Stato turco massacrare le comunità curde. E non c’è bisogno che ci si ricordi ogni volta che noi possiamo formulare i nostri giudizi critici comodamente lontani dalle bombe e dai massacri, e che non ci siamo mai trovati ad affrontare una situazione così drammatica. Lo sappiamo. Ma non è certo meno comodo riempirsi la bocca di Kurdistan e poi non danneggiare concretamente gli interessi dello Stato e del capitale turchi. Senza rinunciare mai allo spirito critico, c’è un terreno in cui non si sbaglia mai: quello internazionalista dell’attacco ai padroni di casa nostra, dell’azione contro chi organizza da qui ciò che succede laggiù (basta pensare a Leonardo-Finmeccanica e a Unicredit, tanto per citare i responsabili più diretti).

Internazionalismo è anche conoscere e sostenere le lotte che gli anarchici portano avanti in Paesi lontani dal nostro, dove condizioni di vita, conflitto sociale e forme di repressione non si possono appiattire sul nostro spazio-tempo. Basta leggere la traduzione che pubblichiamo di un testo scritto dai compagni russi sul significato del gesto di Michail Žlobickij, l’anarchico diciassettenne che si è fatto esplodere in una sede dei servizi segreti di Putin. A colpire profondamente non sono solo la brutalità della repressione e il coraggio di quel giovane compagno, ma il linguaggio impiegato dagli anarchici russi. Concetti come sacrificio, eroismo e immortalità sembrano provenire da un’altra epoca, quella dei grandi romanzieri dell’Ottocento o dei proclami anarchici dei primi del Novecento. Concetti che stonano con il nostro materialismo della gioia. Eppure fanno riflettere. Non c’è dubbio che la lotta anarchica richieda grandi sforzi, lontana com’è tanto dalla mistica religiosa quanto dalle sirene del comfort tecnologico. E non c’è dubbio che tanta retorica del piacere – non a caso assorbita dal linguaggio della merce e della pubblicità – abbia contribuito ad infiacchire la disponibilità all’impegno e al rischio. Ma è proprio la falsa dialettica fra le litanie della militanza come sacrificio – invero oggi sempre più rare e fiacche – e le cattive poesie della soddisfazione immediata, che la passione rivoluzionaria dovrebbe far saltare. Eppure. Come diceva il materialista Leopardi, la vita non può fare a meno di illusioni necessarie. La ragione che irride i grandi sogni contribuisce a rimpicciolire gli animi. Un popolo di filosofi, tagliava netto Leopardi, sarebbe un popolo di vigliacchi. Pensiamo agli esordi del socialismo rivoluzionario. A infiammare la gioventù ribelle sono stati i regicidi e le barricate della Comune, ma anche il desiderio di “immortalità” da conquistare con la rivolta. A lungo il linguaggio dell’emancipazione sociale ha attinto al messianismo religioso (pensiamo alla giustizia come redenzione immediata, che prorompe con forza da I tempi sono maturi di un Cafiero, o al titolo Fede! dato a un giornale anarchico). Il sogno della rivoluzione sociale non è stato solo un orizzonte che rovesciava la promessa religiosa mantenendone l’intensità – il paradiso da conquistare sulla Terra –, ma anche la tensione individuale nel corpo a corpo con la finitudine della vita. Di fronte al fatto piuttosto seccante che si deve morire, il materialismo rivoluzionario non ha proposto la gelosa conservazione della vita, ma un sovrappiù di rischio, di gioia, di bontà, di coraggio che proietta nel futuro la memoria del proprio passaggio sulla Terra. Non la fama, che è legata ai corsi fortuiti e meschini del successo, ma la gloria, che è legata alla virtù, cioè alla giustezza delle scelte, indipendentemente dai risultati ottenuti. Concetti antichi, non c’è dubbio. Eppure a quel sogno di immortalità – illusione necessaria, ancorché non confessata – risponde oggi la potenza che ha quasi soppiantato la religione, cioè la tecnologia. Le tre maledizioni che nel racconto religioso seguono la Caduta, cioè dover morire, partorire con dolore e guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, sono proprio le condizioni che l’apparato tecnologico promette di abolire. La riproduzione artificiale dell’umano, la robotizzazione della produzione e la crioconservazione sono i perni dell’utopia totalitaria, il sogno macchinico di superare la finitudine umana. In attesa di eternizzare i corpi, l’intelligenza artificiale promette di conservare nella memoria dei computer i segni di una vita intera. Che tutto ciò non possa prescindere dal saccheggio del pianeta e dalla fatica di qualche miliardo di iloti non intacca, purtroppo, la forza della religione tecnologica. Né deve sorprendere che, a rovescio, per milioni di poveri il riscatto assuma le forme del radicalismo religioso, che è insieme arcaico e perfettamente contemporaneo. O meglio, che fa a brandelli il discorso progressista della contemporaneità, perché rivela che il mondo è attraversato da avvenimenti, tendenze, aspirazioni tra loro non-contemporanei, come se l’epoca attuale racchiudesse numerose epoche co-presenti. Il che non vale solo per il dominio, ma anche per le lotte. Siamo, qui in Italia, contemporanei delle lotte in Cile, in Ecuador o in Libano? Siamo contemporanei della guerriglia curda? Sì, nel senso che le date del calendario sono le stesse. No, nel senso che il nostro spazio-tempo è altro, e così i problemi, i sentimenti, l’urgenza che ci pungola. Altrimenti saremmo di un’indifferenza disumana e potremmo definire la nostra disponibilità al rischio comune come micragnosa. Il tempo – anche quello della percezione e del sentimento, quindi della solidarietà – non è affatto lineare. Essere contemporanei delle rivolte in giro per il mondo non è un dato; è una scelta, uno slancio, una tensione. Una tensione letteralmente utopica e ucronica.

[…]

«Il rischio è un bisogno essenziale dell’anima», scriveva Simone Weil. Da questo punto di vista, la democrazia – che contiene al suo interno le tendenze fasciste – è penetrata negli animi. Svuotandoli di ogni ideale, la cui ispirazione sola rende «a poco a poco impossibile almeno una parte delle bassezze che costituiscono l’aria del tempo che respiriamo». Qualcosa per cui valga la pena vivere, e morire: ecco cosa manca drammaticamente. Mentre una parte crescente dei dannati della Terra vede nel martirio portatore di morte una promessa di riscatto, si fa sempre più suadente e concreta la cattiva immortalità delle macchine, il prolungamento infinito dell’effimero, l’immensità dell’insignificante. Condannati a questa eternità (la domanda di grazia, respinta – chioserebbe Ennio Flaiano). Che forza esprime, di fronte a queste contrapposte narcosi del sentimento di finitudine, il sogno rivoluzionario? Per rispondere, dobbiamo attraversare lo specchio.

A proposito di tempo. Le ultime sentenze contro gli anarchici hanno proiettato nel nostro orizzonte l’ombra di lunghi anni di carcere. Un tempo che fa male. Un tempo che non si scalfisce con gesti effimeri né con fiammate di estasi. Bensì con un ideale, con la tenacia, con una sentita, poco retorica e rinnovata disponibilità al rischio.

La virtualità avanza, le vie di fuga si sprecano. Come ammoniva già il saggio Eraclito, «unico e comune è il mondo per coloro che sono desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare». Stiamo entrando nella notte artificiale dell’idiozia generalizzata (laddove idíotes deriva da ídios – chiuso in se stesso). Tenersi desti richiede e ancor più richiederà un faticoso sforzo di attenzione, la facoltà umana contro cui l’intera organizzazione sociale muove la sua quotidiana guerra.

Il tempo a disposizione di ciascuno di noi è letteralmente finito, cioè limitato. Ciò che non ha limiti, viceversa, ma soltanto delle soglie, è la sua intensità. Che poi è il contenuto della vita. L’intensità non è faccenda di adrenalina, né di muscoli. È una questione etica. Nelle sue soglie si trovano, materialisticamente e fuori da pose superomistiche, nel silenzioso dialogo dell’anima con se stessa, nel confronto sincero con i propri compagni, il senso del giusto, l’eroismo, la nostra finita, umana immortalità.

«L’etica applicata alla storia è la teoria della rivoluzione, applicata allo Stato è l’anarchia» (W. Banjamin).

novembre 2019

 

Il tempo è finito

Appell an die bevÖlkerung,eine ansteckung zu vermeiden

Wenn ihr einen Straßenhändler*in auf der Straße seht, ruft nicht die Polizei, um die Person anzuzeigen. Geht hin und kauft etwas von dem Verkäufer*in.

Wenn ihr merkt, dass sie keine Maske tragen, schreit sie nicht an, sondern versucht, denen eine zu besorgen. Seid keine Bullen.

Wenn ihr hört, dass der Nachbar*in Symptome zeigt, solltet ihr nicht aus dem Fenster schauen, um zu sehen, ob er oder sie einkaufen geht. Fragt sie, ob sie etwas brauchen. Seid keine Bullen.

Wenn ihr Leute in eurer Nachbarschaft herumlaufen seht, versucht, nicht das Schlimmste anzunehmen, ruft nicht die Polizei. Vielleicht mussten sie zur Arbeit gehen. Viele Menschen haben nicht das Privileg, sich zu Hause mit einem vollen Kühlschrank einzuschließen. Seid keine Bullen.

Wenn ihr einkaufen gehen müsst, blickt die Menschen um euch herum nicht aus Angst vor einer Infektion hasserfüllt an. Sagt einfach Hallo. Unterhaltet euch. Andere Menschen sind nicht eure Feinde. Seid keine Bullen.

Wenn ihr jemanden trifft, der oder die auf der Straße lebt, überquert die Straße nicht aus Angst. Wenn ihr könnt, bietet ihnen Essen, eine Maske und Wasser an. Seid keine Bullen.

LASST UNS DAS BULLEN-VIRUS NICHT VERBREITEN.

Es ist ein Virus, das uns nicht in Ruhe lassen wird

 

https://enough-is-enough14.org/2020/03/31/lasst-uns-das-bullen-virus-nicht-verbreiten-es-ist-ein-virus-das-uns-nicht-in-ruhe-lassen-wird/