Valle dell’Ouvèze (Ardèche) – Smettere di vivere? Piuttosto morire!

Attacco a un ripetitore

Sono già diverse settimane che all’insieme della popolazione viene imposto lo stato d’eccezione, sotto forma di confinamento sanitario, con la sua dose di divieti inediti, d’ipocrisia quotidiana e di promesse di salvezza.

Io non volevo morire di paura e di noia, attaccato a una flebo davanti a Netflix. Nel mese appena passato, la rabbia e la costernazione di vivere in diretta un cattivo romanzo di fantascienza sono diventate per me più che un veleno: un antidoto. Ho quindi deciso di attaccare.
Estendendo le frontiere dell’illegalità, imponendosi ovunque nelle strade, sbirri e cittadini vigilanti hanno trasformato il territorio in uno spazio nel quale abbiamo dovuto riapprendere a spostarci e a trovare il sentiero verso altri/e complici.
Dato che le croci in cima alle montagne sono state rimpiazzate dai piloni della rete GSM e della 5G, questo dice qualcosa della forma che prendono attualmente il potere e le nostre credenze di salvezza.
Era quindi l’ora di riaccendere i fuochi sulle colline, per diffondere dei messaggi più essenziali e diretti, a quelli/e che vorranno ascoltari, l’ora di bruciare queste croci fatte di nodi di fibra ottica e di reti elettriche.
Sono solo/a, da qualche parte sopra la valle dell’Ouvèze, fra Le Pouzin e Privas, domenica 3 maggio [2020], verso le 2.00 del mattino. Nelle ultime ore è piovuto molto e le ultime nuvolette di nebbia che si evapora dal suolo si alzano davanti all’alone di una mezzaluna. La notte è dolce e talmente calma.

In questi ultimi anni sembrava crescere, nei discorsi, l’impressione che lo Stato lasciasse progressivamente il posto a forme di gouvernance più liberali ed economiche, che ad un potere verticale si sostituissero già delle forme più diffuse, invisibili.

Ma lo Stato non è sparito. E’ al centro della realtà, in guerre lontane contro il terrorismo, in Mali, nella promozione di una quotidianità connessa, nella repressione generalizzata dei movimenti sociali, nella produzione di condizioni di vita sempre più normative e tecnologizzate.

All’aurora della nuova primavera, viene dichiarata di nuovo la guerra, come ultima ragione di unione, come causa comune, come dovere di fedeltà. In nome della salute e della sicurezza di tutti e tutte, eravamo destinati/e ad essere riuniti/e, contati/e, suddivisi/e, ordinati/e, assegnati/e, sorvegliati/e e studiati/e.
Chiunque deroghi alla regola imposta da ministri, esperti in salute di ogni tipo, dai prefetti e dalla loro polizia, sarà trattato da irresponsabile che minaccia la salute dei più deboli.
Non è cosa nuova che, in nome delle persone giudicate e classificate come «fragili», il potere si ritagli il suo ruolo migliore. Il potere è ambidestro. Tende la mano che protegge, quella che salva e coccola. Allo stesso tempo, colpisce e mutila. Sentiremo presto dire che ci sono delle tecniche di gestione statale della crisi migliori di altre. Si compara quello che succede a latitudini diverse. Si incriminano i poteri più totalitari, come in Cina e in Brasile. Ci si felicita del fatto che in Portogallo le istituzioni davano dei documenti a tutti i richiedenti asilo. Quasi quasi, non ci si sente poi così male, qui da noi.

Avanzo calmo/a nella penombra, qualche litro di combustibile nello zaino, una tronchese pesantemente posizionata contro la mia colonna vertebrale. Sono come assente a me stesso/a, assorto/a nel silenzio e nei mormorii notturni, preso/a dall’accuratezza dell’attività, poso i miei passi senza lasciare tracce. La cima è tranquilla. Una brezza leggera spazza la cresta, da dove vedo, ovunque in basso, il lampeggiare delle diverse installazioni elettriche della zona, campi di pale eoliche, ripetitori telefonici e pianure industriali.
Mi apro un cammino nella griglia, spaccando una catena che blocca la porta del recinto principale e della più grande delle due antenne. Preparo il materiale e faccio attenzione a rimanere al sicuro da sguardi indiscreti, sotto il passamontagna.

Avanzando, continuo a pensare: come in ogni «crisi», che sia prodotta dal nulla dal potere oppure subita e gestita come gli riesce meglio, la situazione crea un contesto inedito, un supporto per la costruzione degli anelli mancanti nel meccanismo del progresso. Centinaia di scienziati, di medici e di ingegneri-biologi sono venuti a proporci, per il nostro bene, delle ricette di balsami miracolosi, da ciarlatani del ventunesimo secolo. Molto più che venderci una qualunque medicina, ci vendevano delle ragioni per continuare ad avanzare, delle maniere di vivere. Nella sua risposta all’ira degli dei, la scienza si è offerta piena di promesse, apportando soluzioni innovative alle problematiche prodotte dal progresso.
Il dispotivo sanitario opera anche una selezione fra maniere di morire che sono accettabili oppure no. I rischi nucleari e industriali, organizzati e costitutivi dell’attività umana, contrariamente alla maggior parte dei rischi biologici, producono morte e sofferenza ogni anno, verosimilmente in quantità davvero importante. Dov’è lo Stato benevolo e protettore, quando si tratta di proteggere i suoi cittadini dai tecnocrati del nucleare?

Di fronte a discorsi che possono parere vani o a volte mancare, le mie mani guantate fanno scivolare dei pacchetti di diavolina industriale sotto liane di cavi.
Vi verso anche del gel accendifuoco e mi volto verso l’uscita del recinto, per avvicinrmi alla seconda antenna. Un mini-escavatore, fermo per la notte, è naufragato al bordo del sito. Mi spiace non poterlo prendere di mira e mancare di materiale. Piazzo di nuovo dei dispositivi incendiari sui cavi più fragili e ritorno alla prima antenna.
Una volta sul posto, inzuppo bene il tutto con della benzina ed accendo, da una parte e dall’altra della struttura, due fuochi che la brezza gonfia progressivamente.
Scendo alla seconda antenna ed opero nello stesso modo.
Mi allontano dal sito e sparisco nella notte.

La salute e la sicurezza sono diventate poco a poco i valori supremi che giustificano, da loro sole, gli sforzi e gli errori più assurdi.
Il virus e la lotta contro la sua propagazione, per il fatto che esso incarna la morte che plana e che colpisce a caso, imprevisibile ed improvvisa, è diventato lo spettro da cacciare senza tregua, aumentando di continuo i limiti dei luoghi che siamo pronti ad evitare per non morire.
Quello che è stato interiorizzato, come esperienza collettiva, e forse in maniera definitiva, sono il gusto e la necessità del sacrificio. D’ora in poi, ci chiederanno in continuazione di svendere i brandelli rimasti delle nostre vite, per non perderle.

A posteriori, non so se questo attacco ha causato dei danni importanti. Magari solo qualche cavo sezionato. Quello che conta, per me, è il fatto di essere riuscito/a ad agire, anche da solo/a, di essere riuscito/a, in questa notte strappata all’assurdo, a superare i miei dubbi e le mie angosce ed aver colpito quello che sembra essere, oggi, un nodo esenziale della società attuale: la rete di telefonia mobile e l’insieme del mondo connesso che essa permette.
Contro la società del controllo e la dittatura sanitaria.
Ho un pensiero di rabbia verso i tablet e i robot di assistenza medicale che è ormai di moda distribuire in gran numero nei mortori per persone anziane. Che le ultime persone che hanno attraversato questo secolo senza tecnologia muoiano circondate da robots e da applicazioni di ogni tipo, mi dà voglia di vomitare. Le linee di satelliti, spediti in orbita a migliaia di esemplari, che sabotano i misteri del cielo notturno, non saranno mai delle promesse di pace.
Un pensiero per le porte che restano volontariamente aperte, in questo perdiodo difficile, per quelle e quelli che cercano, costi quel che costi, di non sacrificare le loro vite davanti alla paura. Ai colpi resi e ai colpi di mano. Ai brutti colpi ed ai colpi andati storti. A quelli/e che ci provano. A quelli/e che magari non attaccano, ma che aiutano a continuare e che infrangono le ovvietà.

E allora: smettere di vivere? Piuttosto morire!

[Rivendicazione in francese pubblicata in attaque.noblogs.org].

Friuli Venezia Giulia – Nei supermercati della città solidarietà ai braccianti in sciopero!

Oggi, in solidarietà ai braccianti agricoli in sciopero (qui il comunicato) contro ogni sfruttamento, contro il vincolo del permesso di soggiorno con il contratto di lavoro, contro le frontiere ed i CPR e per un modo solidale e senza migrazioni forzate sono comparsi bigliettini nelle cassette della frutta di molti supermercati della città e sono stati distribuiti volantini in Italiano ed in inglese.

Le lotte dei braccianti sfruttati, come quelle dei detenuti nei CPR, sono lotte per la libertà di tutte e tutti. Infatti, un mondo dove esistono i CPR, dove le verdure sono prodotte e raccolte con il sangue di persone sfruttate, e dove nei subappalti c’è chi fa la fame e rischia la vita per sopravvivere, è un mondo dove nessuna è davvero libera.”

SOLIDARIETÀ AI BRACCIANTI IN SCIOPERO!

Oggi, giovedì 21 maggio, molti/e braccianti agricoli/e stanno scioperando contro la regolarizzazione fittizia contenuta nel cosiddetto “decreto Rilancio”. Il decreto prevede una regolarizzazione per soli sei mesi di una fetta irrisoria di lavoratori e lavoratrici privi di documenti regolari. 

Si tratta di un decreto squallido che, anche con l’emergenza sanitaria in corso, non mira a tutelare la salute delle persone prive di documenti, bensì a fornire lavoratori e lavoratrici usa-e-getta, da sfruttare per sei mesi e poi ricacciare nel limbo della “clandestinità”. Un decreto frutto della solita logica per cui ci sono profitti da tutelare (qui quelli della filiera agricola, dai grandi possidenti terrieri alla grande distribuzione) e vite sacrificabili per la causa. 

Si tratta di un decreto che evidenzia come la situazione emergenziale sia stata il laboratorio sociale e politico perfetto per favorire ulteriormente quella connessione tra luoghi di detenzione temporanea per migranti e richiedenti asilo e sfruttamento lavorativo in ambito agricolo e in quello del lavoro domestico. In questo modo, si definisce chiaramente una precisa volontà politica di razzializzare il mercato del lavoro: quello che un richiedente asilo o una persona  che arrivi in Italia dalla Balkan route o dalla rotta mediterranea può aspettarsi di fare, magari per essere ” regolarizzato”, è il bracciante per due euro all’ora, subendo violenze di ogni genere.

L’agricoltura made in Italy, soprattutto nelle grandi aziende del sud Italia ma non solo, è nota per il diffuso utilizzo del caporalato: le persone, solitamente non comunitarie, ci lavorano con turni estenuanti (almeno 12 ore) per paghe irrisorie (meno di 2 euro all’ora!). Le stesse persone vivono spesso nelle vicine baraccopoli (come quelle di San Ferdinando o Rosarno), segregate e senza luce e servizi igienici.

Molti braccianti sono costretti ad accettare queste condizioni perché sono privi di documenti regolari: nei loro confronti, i padroni hanno a disposizione una complessa rete di ricatti articolata dallo stesso Stato italiano. 

Il primo elemento di questa rete è il confine: per riuscire a entrare in Italia, in assenza di vie “legali”, le persone migranti affrontano viaggi spesso traumatizzanti, lunghi e pericolosi. Il tentativo di regolarizzazione, attraverso richiesta d’asilo o permesso di soggiorno, spesso non va a buon fine, costringendo le persone all’irregolarità e al lavoro nero.

Il secondo elemento è il vincolo con il contratto di lavoro: secondo la legge Bossi-Fini c’è una seconda possibilità di regolarizzarsi vincolando il proprio permesso con un contratto di lavoro; se si resta disoccupati, si perde in automatico anche la possibilità di vivere regolarmente in Italia.

Il terzo elemento sono i CPR: se le persone vengono fermate mentre sono irregolari, possono finire in uno dei CPR aperti in Italia. Nei sei mesi di reclusione, subiscono continue violenze e rischiano ogni giorno di essere deportate al Paese d’origine. I CPR sono un ingranaggio fondamentale della macchina del ricatto. Lo dimostra il fatto i CPR sono ancora aperti,nonostante l’emergenza sanitaria in corso e nonostante i rimpatri siano bloccati. Sono lì solo a dimostrare che il ricatto di essere deportati è sempre reale.

Coldiretti e la grande distribuzione hanno quindi a disposizione una grande quantità di persone ricattabili, fondamentali per i loro profitti.

Oggi, però, i braccianti stanno scioperando, nonostante il ricatto, e nonostante siano segregati e invisibili a molti in Italia: “Non vanno regolarizzate le braccia, ma gli esseri umani”, dicono. Chiedono appoggio allo sciopero non comprando le verdure oggi. 

Le lotte dei braccianti sfruttati, come quelle dei detenuti nei CPR, sono lotte per la libertà di tutte e tutti. Infatti, un mondo dove esistono i CPR, dove le verdure sono prodotte e raccolte con il sangue di persone sfruttate, e dove nei subappalti c’è chi fa la fame e rischia la vita per sopravvivere, è un mondo dove nessuna è davvero libera.

Che gli sfruttatori marciscano con le loro verdure!

Solidarietà ai braccianti agricoli in sciopero, non compriamo sfruttamento!

PS: Il caporalato, anche se non agricolo, è fortemente articolato anche in Friuli-Venezia Giulia, soprattutto nei subappalti di grandi ditte come Fincantieri. Tali subappalti prosperano all’interno di questo sistema di ricatti, di cui il CPR di Gradisca è un elemento fondamentale.

Qui il volantino


ENGLISH:

TODAY FARMHANDS ON STRIKE!

Today, Thursday May 21st, several farmhands are on strike against the fictitious regularization containedin the “Decreto Rilancio”. The decree defines a regularization of only six months for a negligible slice ofworkers without regular documents.This is a shabby decree that, even in the current health emergency situation, does not aim to protectthe health of undocumented people, but to provide disposable workers, to be exploited for six monthsand then pushed back into “clandestinity”. Such decree results from the usual logic for which there areprofits to be protected (here those of the agricultural chain, from large landowners to large-scaledistribution) and lives that can be sacrificed for the cause.

Made in Italy agriculture, especially in large farms in southern Italy, but not only, is known for thewidespread use of “caporalato”: people, usually non-EU workers, have to work with exhausting shifts (atleast 12 hours) for negligible wages (less than 2 euros per hour!). The same people often live in nearbyslums (such as those of San Ferdinando or Rosarno), segregated and without light and toilets.Many farmhands are forced to accept these conditions because they do not have regular documents: thebosses, on their side, can dispose of a complex network of blackmail articulated by the Italian State itself.

The first element of this network is the border: to be able to enter in Italy, in the absence of “legal”ways, migrant people often face traumatizing, long and dangerous journeys. Afterwards, they can try toregularize their situation through the request of asylum or residence permit, which, however, often fails,forcing people to live and work without regular documents.

The second element is the constrain of the employment contract: according to the Bossi-Fini law there isa second possibility one can try to regularize his/her condition and it corresponds to binding one’s ownpermit of stay with the employment contract; in this case if one lose the contract, he/her automaticallylose the opportunity to live regularly in Italy as well.

The third element is the CPR: if people are checked by police while they are irregular, they can end upin one of the Italian opened CPR. During the six months of detention, they face constant violence andrisk, every day, to be deported back to their country of origin. CPRs are the fundamental gear of theblackmail machine. This is demonstrated by the fact that the CPRs are still working, despite the ongoinghealth emergency and despite the fact that the deportation flights are currently blocked. They are onlythere to show that the blackmail of being deported is always real.Coldiretti and the large scale distribution of vegetables, therefore, have a large number of people attheir disposal which they can blackmail and which are fundamental for their profits.

Today, however, the farmhands are on strike, despite the blackmail, and despite being segregated andinvisible to many others in Italy: “It is not the worker’s arms what should be regularized, but thehuman beings”, they say. They demand support for the strike by not buying vegetables today.

The struggles of the exploited laborers, like those of the detained people in the CPR, are struggles forthe freedom of everyone. In fact, a world where the CPRs exist, where vegetables are produced andharvested with the blood of exploited people, and where people which work with subcontracting risktheir lives to survive, it is a world where none is truly free.

May the exploiters rot with their vegetables!Solidarity with the farm workers on strike. We don’t buy exploitation!

Assemblea no CPR no Frontiere, Trieste

PS: The phenomena of “caporalato” is strongly articulated in Friuli Venezia Giulia as well, , notespecially in agriculture but in the subcontracts working for large companies, such as Fincantieri. Suchsubcontracts thrive within this blackmail system, of which Gradisca’s CPR is a key element

Here the flyer

Lettera di Elena e Nicole da Piacenza

Lettera pervenuta alla Cassa Antirepressione delle Alpi Occidentali

Carcere di Piacenza, 15 maggio 2020

Grazie a tutti voi!

Grazie per il kit di buste e bolli!

Io (Nicole) ed Elena siamo in AS3. Siamo arrivate alle 11.30 circa del 13 Maggio, dopo un primo passaggio in una tenda posta esternamente per misurare la temperatura corporea alle nuove detenute, siamo state messe in isolamento sanitario per 15 giorni (celle singole ma adiacenti). Non possiamo accedere alla palestra e alla biblioteca, dopo che c’eravamo state per 2 giorni, causa emergenza Covid e nostro isolamento. Dopo tale misura non saremo più potenziali veicoli di infezione… dopo una nostra incazzatura ci hanno dato 4 libri e ci stanno preparando il regolamento interno (è dall’ingresso che lo chiediamo)… vedremo.

Abbiamo 2 ore d’aria al dì, da fare separatamente dalle altre sempre per emergenza Covid e quindi le facciamo assieme (con mascherina) alle 12-13 e 15-16.

Come saprete qui c’è anche Natascia che al momento riusciamo a vedere solo di striscio quando attraversiamo il corridoio, ma i suoi sorrisi sono stati e sono fondamentali. Speriamo di poterla abbracciare presto. Oggi abbiamo avuto l’interrogatorio e ci siamo avvalsi della facoltà di non rispondere. Eravamo in videoconferenza insieme a tutti gli altri.

Lunedì vedremo gli avvocati. Di ieri la notizia che dal 19 c.m. al 30/06 riprenderanno i colloqui visivi e saranno mantenuti i colloqui via Skype. Questa operazione (che ci pare aver capito chiamata “RITROVO”?) ha quali capi di imputazione l’ormai noto 270 bis e 270 bis1 (aggravante) per 11 su 12, istigazione a delinquere tramite articoli, volantini e manifesti con l’aggravante dell’uso di strumenti informatici – Tribolo.noblogs.org e la piattaforma roundrobin.info -; danneggiamento di un Bancomat BPER nel corso di una manifestazione non autorizzata il 13/02/2019; imbrattamento e deturpamento con vernice spray su edifici a Modena e Bologna con scritte comparse dal dicembre 2018 ad oggi per tutti. Incendio, per uno degli imputati più altri allo stato da identificare, ai ponti ripetitori delle reti televisive in via Santa Liberata (Bo) nella notte tra il 15 e il 16/12/2018.

Che dire?… “la commissione dei reati – fine […] non è necessaria” (cit. pag.21 ordinanza)… forse l’ennesimo tentativo dopo Outlaw e Mangiafuoco – finite in una bolla d’aria – di chiudere la bocca a chi “odia gli sfruttatori” (cit. pag.20 ordinanza)? E cosa più importante non ne fa un mistero ma lo urla al mondo. L’ordinanza porte il timbro del 6 marzo. Ci chiediamo se questi miseri esseri senza qualità abbiano deciso di rimandare il nostro arresto al 13 Maggio per risparmiarci l’ingresso in carcere nel pieno dell’emergenza Covid19 o se lo abbiano fatto per evitare in quel periodo ulteriori presenze scomode e ribelli nelle gabbie di Stato. La risposta viene da sé. Medici e guardie, fusi in un corpo unico qui come altrove, si rivendicano la loro «scelta di vita». I medici in particolare, incalzati dalle nostre domande provocatorie sul loro ruolo durante la prima visita, hanno fieramente sostenuto di svolgere il loro lavoro per la tutela della salute delle persone in galera.

A conti fatti, visti i morti e i malati di e in carcere, non possiamo che concludere e urlargli in faccia che il loro lavoro lo fanno decisamente male nonché in completa armonia con le guardie.

Non può esistere in luoghi del genere, la tutela della salute delle persone, per ciò che questi luoghi sono e rappresentano. L’unica sicurezza è la libertà per tutte e tutti.

Volevamo ringraziare tutte quelle persone che ci hanno fatto sentire la loro vicinanza con i telegrammi, tanti; forse dall’esterno sembra una sciocchezza ma qui ci hanno scaldato il cuore e lo spirito. Il nostro pensiero va, in primis, a Stefy poiché è l’unica tra noi sola nel carcere di Vigevano e a tutti i nostri amici e compagni di lotta a Ferrara e Alessandria, a quelli raggiunti da obbligo di dimora nel Comune di Bologna e alle compagne e ai compagni fuori che continuano a lottare insieme a noi.

Nicole e Elena

Lettera di Elena e Nicole da Piacenza

Rovereto (Italy) – Sabotage of telephone and internet lines

We learn that in the night between Thursday 14th and Friday 15th, May 2020, five booths for the exchange of telephone line and internet were sabotaged and put out of use. One consequence was a «blackout» of a part of the city (about 2000 users without connection). The following sentences were written and found in the site: «Let’s get rid of the technological cages», «Solidarity to the comrades of Bologna» (the seven anarchists arrested on May 13th for the “Ritrovo” repressive operation) and «Freedom for the prisoners».

https://insuscettibilediravvedimento.noblogs.org/post/2020/05/21/it-en-rovereto-italia-sabotaggio-delle-linee-telefoniche-e-di-internet-15-05-2020/

Ribellula n. 3 – Oroscopo e Aguzza la Vista

 

Spagna – Sciopero della fame e della sete del prigioniero politico basco Patxi Ruiz

Da alcuni giorni un prigioniero politico basco sta combattendo una durissima battaglia per la vita, contro la repressione carceraria e per alcuni diritti minimi nel contesto di una crisi sanitaria globale che colpisce duramente le carceri. Si tratta di Patxi Ruiz, imprigionato nel carcere di Murcia II, perseguitato fino allo sfinimento dal direttore di quel carcere e dalle guardie penitenziarie. Patxi Ruiz si è procurato lesioni per protestare contro una catena di aggressioni sistematiche, è stato portato d’urgenza in infermeria, lì ha subito insulti da parte del medico e dell’infermiera della prigione che non lo hanno assistito adeguatamente, cosicchè quando è tornato in cella ha deciso di iniziare uno sciopero della fame e della sete a tempo indeterminato, la risposta più estrema che un prigioniero politico o sociale possa fare. In questo sciopero, il prigioniero mette in gioco la sua vita. Quali sono le sue richieste: a) la libertà dei detenuti malati e di coloro che hanno quasi scontato la pena, b) che si possano effettuare visite, c) di ricevere materiale per non essere infettati dal virus (maschere, guanti, ecc.), c) di far eseguire il test su detenuti e carcerati, d) in caso di morte di un parente, di avere la possibilità di partecipare al funerale, cosa che allo stesso Ruiz era stata negata in una precedente occasione in cui era morto suo padre. A causa della sua misura estrema, Ruiz ha smesso di urinare per sei giorni e soffre di forti dolori ai reni. Ci si potrebbe chiedere, quindi, fino a che punto arriva la sofferenza in prigione perchè un uomo giovane compia una tale scelta? Le carceri spagnole sono, come tante altre, luoghi di distruzione e annientamento della persona, per questo l’unica e drammatica protesta deve essere quella di ribellarsi e continuare a combattere in qualsiasi modo.
In solidarietà con Patxi Ruiz e le sue richieste, un altro prigioniero politico basco, Mikel San Sebastián, ha appena iniziato uno sciopero simile, e altri si sono chiusi nelle celle a tempo indeterminato e rifiutano il cibo. In diversi paesi alcuni compagni hanno iniziato uno sciopero della fame e ci sono mobilitazioni di protesta in diverse città. I genitori che, attraversando tutta la Spagna, sono andati a Murcia da Euskadi per accertarsi delle sue condizioni, all’uscita dal carcere sono stati fermati e multati dalla Guardia Civil per non avere rispettato le regole del confinamento.

La vita di Patxi è appesa un filo, potrebbe morire da un momento all’altro.
Lottiamo per porre fine alla violazione dei diritti nelle carceri, che i duecento prigionieri politici baschi possano tornare a casa.

https://ilrovescio.info/2020/05/18/spagna-sciopero-della-fame-della-sete-del-prigioniero-politico-basco-patxi-ruiz/

Transfer of Gabriel Pombo Da Silva Portugal – Spain

Our comrade was handed over to the Spanish State this morning (May 13th, 2020) and is currently in the prison in Badajoz (Extremadura region). He is well and strong as ever. Surely he will have to stay 14 days in compulsory quarantine and then, we think, be transferred to another prison. So more information will follow.

Although there is no guarantee that the post office will work regularly, it is obvious that a virus will not be responsible for the fact that he may not receive letters from his loved ones and comrades in solidarity. It would be better to send registered letters (also considering some recent problems in the prison of the Oporto Judicial Police where only by documenting the registered mail Gabriel was able to receive the correspondence).

This is the current address:

Gabriel Pombo Da Silva
Carretera de Olivenza, km 7.3
06001 Badajoz — España

Freedom for Gabriel!
Freedom for everyone!
Long live anarchy!

We also report the bank account opened in support of the comrade:

Accountholder: Elisa Di Bernardo
Bank: Bankinter
Iban: ES06-0128-0180-3601-0009-8696
Bic/Swift code: BKBKESMMXXX

Below is a link where you can listen to a recording of the comrade Elisa about Gabriel’s situation: https://www.ivoox.com/monografico-pombo-da-silva-n-xxiv-segunda-epoca-audios-mp3_rf_50693190_1.html

Empty places

Dear Friends,   

I’ve been inspired by letters circulated recently by Ill Will Editions, which have offered a helpful window for thinking through the current global pandemic. Reading them, it struck me that several have circled around something like a disjunction or asymmetry between two distinct yet overlapping lines of thought: on one hand, there is the understandable fear that the forms of social control presently implemented will be sustained beyond the pandemic (not unlike they were after 9-11), a concern that directs our attention to state power; on the other hand, there is the disruptive force of the virus itself, like a  non-human agency conducting itself across us, and operating beneath and beyond the waves of governmental and economic measures by means of which the elites in the political class scramble to maintain an increasingly tenuous veneer control and authority. Orion addressed the latter in his letter when he described the virus as a power that has “constructed its own temporality, which immobilizes everything,” a power “capable of extending beyond what the insurrections proved incapable of doing, and actually shutting down the economy.” Two types of agency, two asymmetrical lines of force—how are we to parse their peculiar overlap in this moment, those of us who have never been friends of their ‘normal time’? 

I write to you now from Chile, a place that has been in a state of unrest since October of last year. As it happens, the pandemic’s arrival within the context of an unfolding insurrection provides a moment to  reflect on the modalities of crisis politics and control in the current moment.

Our situation might appear quite the same as anywhere else these days: the Chilean government followed the example of governments around the globe, declaring a national emergency in response to the COVID-19 pandemic. In point of fact, this most recent state of exception is the third that the government has declared in the past decade, since it follows not only the uprising this past October, but also the catastrophic earthquake of 2010. In each of these cases, the maintenance of public order was handed over to the military, which did not hesitate to implement nightly curfews and military checkpoints  restricting and surveying movement. 

Have we shifted from one form of upheaval to another? If so, the relevant distinction would not be between normal and exceptional states, between the rule of law and emergency measures, but rather, in this shift, who is in control over the territory, and how are we inhabiting it? Under what conditions can this question no longer be answered? If it is possible to assess continuity and divergence in our present moment in Chile, one can do so only by looking at the experience of, and contestation over, collectively inhabited territory.  I’d like to share with you a few examples of such experiences, through several portraits of everyday life that capture the myriad of ways people and institutions have responded to the COVID pandemic amidst contestations over territory. 

Variable enforcement 

On March 15th, 2019, in a televised, national press conference, the Chilean Board of Medicine (colegio de médicos) criticized the current Ministry of Health for improperly implementing its protocols. Since the government was failing to control the outbreak that started in Santiago, they asked everyone in the city to begin a full 14-day quarantine: no work, no school, no leaving the house. Many in the city followed this quarantine—bars and nightclubs owners closed their businesses in the name of social responsibility, and mall employees staged walk-outs and went on strike until the city closed the shopping malls.

It wasn’t until March 20th that the Chilean government finally implemented quarantine measures in Santiago, including full quarantine in territories with high rates of COVID-19, such as the rich neighborhoods of Santiago and the city’s downtown. Those who live inside the quarantine zone must now fill out a form on the police department’s website and download a “temporary pass” before leaving their house. On the form, we must select an option from the list of permitted reasons to travel from our homes, and declare where we are going. We can request a 4 hour pass 2 times a week for basic necessities, a 12-hour pass to go to a doctor’s appointment, and a 30-minute pass to walk their dog. Essential workers can request a salvoconducto, a permit to travel during military curfew or cross military checkpoint. At the beginning of the quarantine, police stations had lines around the block, with people waiting to apply for a salvoconducto.

Along the border of Santiago’s quarantine zones, only a dozen or so military checkpoints exist. We quickly realized we could walk past the handful of guards stationed there. Furthermore, city buses appear to be affected by these quarantine measures. In effect, those who opt to remain at home in the quarantine zone often do so because they are complying with the medical board’s recommendation, rather than the official quarantine measures.

Meanwhile, the official quarantine measures have not been extended to the combative poblaciónes, home to the greatest number of participants in the October 2019 Chilean uprising.  These neighborhoods at the periphery of the city were formed by massive squatter movements in the 1950s and 60s, when residents collaborated to build houses, defend each other from eviction, and negotiate with the government for city infrastructure, schools, and clinics. If you’ve seen videos of riots during the March 29th Day of Combative Youth (Dia del Joven Combatiente), the footage is more than likely from these neighborhoods. 

Back in October, the rebellious tendencies of the poblaciones were no longer confined to those specific areas but proliferated all over, as people circulated in the downtown, metro, supermarkets, pharmacies, and shopping malls. The attacks weren’t against the police and metro—the two obvious symbols of state power—but also targeted the formal economy itself. 

This year, despite the military curfews and fear of the pandemic, the poblaciónes celebrated the day of combative youth by taking the streets and confronting the police. Unlike in central Santiago, public space continues to be open in the poblaciónes. Although there are fewer protests and social life has diminished, the pandemic has not yet fully interrupted life in these areas. Initially, protestors who congregated in Plaza de la Dignidad feared that the government would use its official quarantine measures as an attempt to regain social control after months of Chile’s social uprising. In the end, no heavy effort was made to enforce quarantine measures in those spaces where they would anyway be contested: the boundaries of the quarantine zones and the rebellious territories of the poblaciónes

Control of public space

With the new norms of quarantine and social distance, the pandemic has interrupted the shared experiences of protests in the streets and neighborhood events in the plazas. Since October, upheaval has structured our everyday life where we live, rendering our neighborhood projects both possible and necessary. Neighbors formed assemblies in response to the upheaval of the massive street demonstrations. Through assemblies, we hoped to meet each other, and sustain the forces in the streets and life in the neighborhood. People used assemblies to organize and publicize new neighborhood events such as community kitchens, flea markets, children’s theater, and open-air concerts. Meeting in parks, our assemblies would be constantly interrupted by the life of the neighborhood: street dogs greeting us and playing in the middle of the circle, people asking for cigarettes, sitting with us and ranting, and old insurgents saying we should stop talking and start lighting barricades. 

The pandemic has radically interrupted this everyday life. Now, the neighborhood assembly is online. Assemblies, mutual aid, and online workshops are coordinated and announced in their corresponding Whatsapp groups. Uninvited neighbors can no longer drop in spontaneously. My capacity to write in a café was enabled by the possibility that I would be interrupted by an old friend walking in with someone new to meet, or that protesters would spill into the café from Plaza Dignidad to evade the spray of the guanaco (the police’s water cannon tank), interruptions that conferred sense of structure and situated meaning on my work. Could it be that all activity becomes meaningful only when conducted in the public? In any case, we were wrong to have ever looked upon the possibility of interruption as a nuisance or distraction. In fact, the more entangled they were with the lives of others who inhabit our world, the more meaningful our activities became. The quarantine signifies the interruption of this shared sensibility and with it, made all the other interruptions that followed from it impossible as well.

Who imposes restriction of movement?

And yet, things are still happening in Chile: in other regions, residents have continued participating in the uprising by blockading the industries that destroy their territories. In Patagonia, for instance, several towns have been engaged in a decades-long conflict with the players in the salmon industry. By dumping antibiotics, feed, and waste, salmon farms have decimated the waterways on which local fishermen rely, while industrial freight trucks ravage the narrow country roads that connect towns to one another.

When things kicked off back in October, the breadth and depth of the upheaval became apparent to us only after learning that, while Santiago was burning, rural communities were also erecting barricades on country roads and interrupting Chile’s major industries. These same towns blockaded the roads that brought workers and supplies to the Salmon farms. In those days, to get a reading of the situation within one’s city, it sufficed to walk down the street, and yet it was comparatively difficult to gather news of the protests elsewhere in the country. Despite this difficulty, “Free Chiloe” (Chiloe Libre) graffiti proliferated on buildings throughout Santiago. 

When the COVID outbreak began to spread outside Santiago, residents on the Patagonian island of Chiloe blocked ferries carrying salmon industry workers. Eventually, the government restricted transportation to the Island to prevent the spread of Coronavirus; yet, when a ferry arrived bringing additional police forces to enforce the quarantine, Chiloe residents attempted to block that ferry, too. 

A determinate ambiguity

In his recent reflection on Agamben and the legacy of the Chilean state of exception, Gerard Munoz offers some insight into why the state’s emergency measures ultimately failed to take any effective hold during the October uprising:

The Chilean debate is in a better position to arrive at a mature understanding of the state of exception, not as an abstract formula, but as something latent within democracies. The dispensation of Western politics into security and exceptionality is not a conceptual horizon of what politics could be; it is what the ontology of the political represents once the internal limits of liberal principles crumble to pieces (and with it, any separation between consumers and citizens, state and market, jurisprudence and real subsumption).

In order to function, the deployment of a state of emergency relies on the liberal distinction between market and state, citizen and delinquent. The Chilean government appealed to the “security of the state”, but the uprising had already disproven the liberal principles of the post dictatorship Chile, and to such an extent that a reversal of course had for a time become strictly unthinkable

In the months following the social explosion, we could not have conceived any event that could bring any swift conclusion to the life of the streets. There was no amount of heavy-handed police repression that could have convinced us of a self-evident need for law and order; no over-hyped constitutional assembly or impending financial crisis could convince us that there was a real, external force that would interrupt the social explosion.  

And yet, here we are: the pandemic has brought an abrupt halt to the uprising in ways we had thought to be impossible. From the first week of the COVID outbreak, Plaza de la Dignidad has been quiet. There has been no lootings, even despite the lack of supplies. Conflicts with the police remain confined to the poblaciones

To what does it owe this power? The pandemic interrupted the uprising because to many , it appeared as an external force. If it possesses a power that no governmental ordinance can rival, this is because its presence tends to shatter the various separations on which the administration of this world depends because it doesn’t recognize the gap between state and market, consumer and citizen, jurisprudence and subsumption. As a result, we know longer know if we are taking care of ourselves in resistance to the state, despite the state, or in subordination to the state. As the pandemic moves through this world, it interrupts the positive contact with which this world is based.  In the absence of such contact, we are left with scrambled claims of obedience and contestation, resistance and self-assertion. 

This is not the place to recall the extent to which the fictive ideals of liberal democracy depended on the growth of a fracture between interior and exterior realms of experience: public reason and private obedience, faith and confession, moral conscience and political right, etc. Where once there appeared a world, full and filthy with attachments, heresies, and allegiances, only a subject—a self-possessed and autonomous citizen—would be left to remain. Was this not the project of modern economic governance? 

Not only has the experience of space been re-liberalizing, but also the forms of care have followed suit. As the insurrection recedes, and with it, the bustling and rich horizon of shared attention and concern, the forms of care that now replace it already bear the stain within them of that absence to the world that defined the modern liberal subject. While we, like everyone with a conscience, are moved to care for others more vulnerable than us in this moment, we must not confuse the notions of care wrapped up within practices social distancing with the practices we developed together before the pandemic, and which are only possible by fully inhabiting a shared territory. We are told this crisis threatens the vulnerable, the infirm, the elderly; that, in taking care of ourselves, we are taking care of others; that our role, as participants in a ‘shared world’, is to reduce the spread through social distancing and isolation. Yet, to be deprived of social life and the use of public space, is to be deprived of those very experiences that confer meaning on concepts such as care, support, and community action. After all, to experience a common world is to participate in the activities that make it not merely possible, but real; only through combination and encounter can our singular capacities reveal to us all that outstrips them, all that can only belong to anyone, to everyone. In quarantine, we risk being denied the conditions that make possible an awareness that we inhabit a shared world.  

-Emilio, Santiago de Chile, April 24th, 2020

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