Cronache dallo stato d’emergenza (Numero3)

Nulla sarà più come prima

Questo ci stanno dicendo. Siccome non si può mettere in discussione la società industriale – la cui costante fuga in avanti produrrà epidemie sempre più letali con frequenza sempre maggiore –, dobbiamo spingere ancora di più sull’acceleratore delle soluzioni tecnologiche. Siccome non si possono fermare la deforestazione, l’estrazione forsennata di materie prime, l’avvelenamento di aria e acqua, l’agricoltura e l’allevamento intensivi, la produzione di cibo artificiale e la devitalizzazione degli esseri umani, dobbiamo abituarci a convivere con le pandemie. Il 75% delle nuove malattie infettive sono trasmesse agli umani da animali selvatici a cui è stato distrutto ogni habitat naturale; a fare da “autostrade del contagio”, poi, ci pensano le polveri sottili prodotte dall’inquinamento (come ha scritto di recente un membro della Società italiana di medicina dell’ambiente). Quindi? Rendiamo a ciò che resta della fauna selvatica i suoi spazi e fermiamo questa corsa demente? No. Avanti tutta, sotto comando digitale!

Nulla dovrà essere più come prima

Questo lo diciamo noi. Apriamo il prima possibile spazi di discussione e di organizzazione dal basso. Nelle città, nei quartieri, nei paesi. E affrontiamo insieme tutto ciò che riguarda le nostre vite, dai bisogni materiali immediati alla medicina, dalla ristrutturazione economica che arriverà feroce alla direzione che vogliamo dare alla società. Che non vengano a dirci che dobbiamo pagare noi, ancora una volta. Che non ci vengano a parlare di Grandi opere per rilanciare la loro economia, di automazione della produzione, di 5G e di altre porcherie. Il virus non è la causa, ma la conseguenza della malattia industriale. E da quella dobbiamo partire, finalmente.

Sciopero internazionale degli affitti

È la proposta che dal 1° aprile si sta diffondendo in diversi Paesi (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Svezia, Cile, Spagna…). Scrive, ad esempio, il Sindacato Inquilini di Gran Canaria, nel suo invito “all’intera classe operaia e agli inquilini a sostenere lo sciopero generale e lo sciopero degli affitti a tempo indeterminato”: «La situazione attuale non potrebbe essere più allarmante, non solo a livello sanitario, ma anche a livello economico e sociale. Le misure adottate dal governo, che ha dichiarato lo stato di emergenza in risposta al Covid-19, sono palesemente misure anti-operaie, del tutto superficiali (moratoria sui mutui limitata) e se ne fregano delle esigenze di base: migliaia di famiglie che vivono alla giornata, che sopravvivono con lavori mal retribuiti, persone che sono state licenziate illegalmente, famiglie rimaste senza reddito a causa dell’isolamento; tutti devono far fronte all’impossibilità di pagare l’affitto». E propone, in aggiunta: «Le case abbandonate nelle mani di fondi, società finanziarie e bancarie (in particolare quelle che sono state salvate con denaro pubblico) devono essere socializzate e rese disponibili alle migliaia di persone o famiglie che si trovano oggi senza alloggio».

Parole e barriere

“Un tiranno ha sconvolto la nostra vita, e si chiama coronavirus”. Gli ospedali diventano “trincee”, mentre i morti vengono trasportati su mezzi militari. Così nella mente si aprono scenari di guerra con tutto il loro portato simbolico ed emotivo. Perché le metafore evocano immagini e i termini concetti. Il linguaggio è tutto fuorché neutro: dà forma alle opinioni, enuncia delle relazioni che si dispiegano nel tempo. Le parole creano il mondo. Agiscono su ciascuno di noi e ci portano ad agire, in un modo piuttosto che in un altro.

Trattare una malattia come fosse una guerra rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate.

La scelta fra questa o quell’altra parola non è questione di lingua, ma di decisione politica. Politici: siete voi i fautori della paura e dell’odio contro l’altro. Avete trovato nel virus un’ulteriore occasione per delineare confini ed erigere barriere.

Ora che i potenziali infetti siamo noi

I container che lo Stato austriaco aveva preparato al Brennero in funzione anti-immigrati, da settimane sono usati per i controlli anti-Coronavirus di chi arriva dall’Italia. Le “misure eccezionali” in corso dovrebbero farci riflettere su quanto da sempre accade agli ultimi, ai senza-documenti, a quella parte di umanità buona da sfruttare fin che occorre e poi lasciar morire o rimpatriare. Di là dai privilegi dietro ai quali non ci accorgiamo più di vivere, ci sono coloro che sono tristemente abituati ad una quotidianità di distanze, controlli, visti, di “chissà quando potremo rivederci”. Mentre le merci corrono e migliaia di essere umani sono intrappolati ai confini d’Europa, forse potremmo accorgerci che il virus delle frontiere non passa in qualche settimana.

Per le sommosse scoppiate nelle carceri il 7 marzo, giornali e televisioni si sono affrettati a parlare di azioni dirette dalla “criminalità organizzata”. (Lo stesso copione, non a caso, è stato poi usato per criminalizzare chi ha cercato di uscire dai supermercati senza pagare la spesa). Qualcuno ha invece parlato di “piano organizzato” da una non meglio specificata “mano anarchica”. Impensabile per lo Stato ammettere che si tratta di rivolte spontanee e in grado di comunicare velocemente tra loro, cresciute nella cattività di luoghi di tortura, anni di pestaggi, sovraffollamento endemico, condizioni igieniche repellenti; perché se ne sarebbe parlato diversamente, e se ne sarebbe parlato di più. Il fatto è che le rivolte stanno scoppiando anche in Spagna, Francia, Brasile, USA, Belgio, Venezuela, Iran, Perù, Sri Lanka, Colombia (dove, nel solo carcere di Bogotà, sono morti ventitre prigionieri)… Ora devono parlarne per forza. Persino Stati come l’Iran e la Turchia hanno scarcerato rispettivamente 110mila e 90mila detenuti. Persino il segretariato dell’ONU invita i governi ad adottare misure urgenti contro la diffusione dei contagi nelle carceri mondiali, dove sono rinchiuse 12 milioni e mezzo di persone. Sono proprio i prigionieri i primi a suggerirci che l’immenso stato di emergenza di cui oggi siamo i reclusi può e deve portare con sé le occasioni per liberarci e per liberare, guardando oltre i nostri confini.

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Cronache3

 

Cronache dallo stato d’emergenza (Numero3)

Gênes (Italie) – Solidarité avec les détenus de la prison de Marassi

On dit que l’on peut mesurer l’état de santé d’une démocratie en regardant l’état de santé de ses prisons. On peut donc dire que le patient Italie est dans un coma profond. Rien que dans l’année 2019, 143 personnes y sont mortes, dont 53 suicidées, et depuis le début de l’année 2020 on est déjà à 41 morts, dont 13 suicides. Vivement la réinsertion des détenus !

Nous ne pensons pas du tout que les prisons sont des lieux de réinsertion et de réhabilitation, à notre avis des structures de ce type doivent être détruites. Une mort en prison, quelle que soit sa raison, est toujours à mettre sur le compte de la situation d’enfermement, de ceux qui établissent et gèrent de tels enfers de béton : l’État ! Les protestations des détenus, début mars, nous ont donné du courage et de la force, on a donc pensé qu’il fallait leur faire savoir que, dehors, il y a des personnes qui les soutiennent, avec des petits gestes de solidarité. A plusieurs reprises, au début du mois, nous sommes allés devant les sordides murs de la prison de Marassi pour leur faire entendre notre complicité, à l’aide de pétards, fumigènes et en accrochant des banderoles.

Pendant que les détenus étaient à la promenade, on a lancé des balles de tennis au delà des murs, avec un texte d’information, en solidarité avec les prisonniers en lutte et des novelles sur ce qui se passe dans les prisons italiennes.

Les premières fois, la réponse a toujours été immédiate et chaleureuse, avec le temps elle s’est affaiblie, probablement aussi à cause de la pression mise par le système-prison. On a pensé que les conséquences pénales pour nous n’étaient pas un moyen de dissuasion assez fort pour éteindre notre désir d’être à côté des prisonniers qui luttent en ce moment.

Notre amour pour la liberté est plus fort que toute autorité !
Feu aux prisons !
Liberté pour tous !

 

Gênes (Italie) : Solidarité avec les détenus de la prison de Marassi

Plus que jamais, pour l’action directe

Ce texte a pour but de défendre la stratégie de l’action directe comme mode d’action à privilégier par les temps qui courent.

Le contexte répressif, s’aggravant de jours en jours, et les effrayantes dynamiques autoritaires qui se mettent en place, qui s’accélèrent et se consolident actuellement, doivent nous pousser à remettre en question nos manières d’agir.

Un constat, partagé par beaucoup, émerge depuis plusieurs mois: ni la manifestation ni l’émeute ne permettent aujourd’hui une véritable progression de nos idées, de nos revendications et de notre force collective. La manifestation, bien qu’enjolivée par la possibilité du black bloc et du cortège de tête, reste une expérience davantage existentielle que politique. Les victoires que nous y obtenons se limitent à faire reculer des flics ou détruire quelques biens, faire irruption un court instant là où on est indésirables. C’est une petite victoire, c’est vrai, celle de l’instant. Et ça fait du bien, c’est vrai, c’est un moment revendicatif fort. Mais à la fin de la journée, c’est toujours l’État qui gagne.

Nous rêvons d’insurrection, mais en plus d’une année d’émeutes, avec le mouvement des Gilets Jaunes, nous ne sommes pas parvenu-e-s une seule fois à faire durer l’émeute plus d’une journée, ni à la transformer en situation insurrectionnelle.
Et à quel prix? Le renforcement continuel de l’appareil répressif est devenu tel que manifester aujourd’hui relève du calvaire, si bien qu’on assiste à une véritable démobilisation au niveau des manifestations.
L’émeute et la casse, bien qu’essentielles, nous font le plus souvent sombrer dans la représentation et deviennent finalement stériles collectivement, car elles sont devenus routinières.
Il ne s’agit pas de dire n’allons plus en manif’ ou n’émeutons plus. Il s’agit de dire: adaptons-nous quand la stratégie ne paye plus et soyons capables de sortir de nos habitudes, de faire autre chose, de combiner des modes d’actions.
Continuer tel que nous le faisons, c’est perpétuer le cycle néfaste que nous vivons actuellement et dont nous peinons à nous sortir.

Dans le rapport de force qui nous oppose à l’État, reprenons l’initiative, et multiplions les offensives.

Si le mouvement des Gilets Jaunes a bien prouvé une chose, c’est que quand l’État tremble, il peut reculer. En Décembre 2018, l’émeute avait un sens. Elle était inattendue et spontanée, d’où sa force. Aujourd’hui, elle est attendue et donc contenue. Il faut trouver d’autres moyens.

On peut faire trembler les puissants autrement, par une action concrète sur le réel.
L’action directe permet cela. Elle est tout d’abord action physique sur du réel, elle impacte réellement, matériellement, l’état des choses. Contrairement à nos affiches, à nos tracts, à nos articles, à nos médias militants, l’action directe a un impact dans le quotidien «des gens», et ne touche pas que des «militant-e-s». Elle dépasse nos cercles habituels. De ce fait elle est pleinement politique.
Par ailleurs, elle permet de construire des dynamiques positives: une action réussie, c’est une victoire qu’on ne pourra pas nous retirer, ce qui est fait est fait. C’est un acquis. Construire des dynamiques positives, se sentir agissant sur le réel, c’est aussi créer des manières d’agir durables, car tenables psychologiquement. C’est tout le contraire des manifestations actuelles qui nous épuisent, car nous savons qu’elles sont stériles, en plus d’être devenues ultra dangereuses. L’action directe motive, car elle est une activité créative, une invention de tous les instants, et donne le sentiment de reprendre les choses en main.

A un niveau organisationnel, elle est peut-être le mode d’action offensif le plus simple à mettre en œuvre, et paradoxalement, peut-être le plus sûr. Pour réaliser un sabotage efficace, pas besoin d’être en nombre important, ni d’avoir une expérience particulière. L’action directe est à la portée de tous et toutes. Et très peu sont celles et ceux qui se font choper en réalité, car pratiquer l’action directe, c’est avoir l’initiative de l’action, c’est donc avoir un coup d’avance sur les forces répressives, pouvoir prévoir et anticiper, pouvoir se préparer. Il faut aussi absolument faire disparaître cette croyance répandue selon laquelle l’action directe est réservée aux militant-e-s aguerri-e-s, aux expert-e-s, à l’«avant-garde» du mouvement. Elle est à portée de n’importe qui, il faut l’affirmer.
Et faire une manif sauvage aujourd’hui implique plus de savoirs-faire et de risques qu’une action directe illégale.

Stratégiquement enfin, l’action directe est plus qu’intéressante. Elle permet d’attaquer concrètement nos ennemis, que ce soit le patriarcat, le capitalisme, le spécisme ou l’État. Elle permet d’infliger des dégâts réels, et de construire un rapport de force, notamment quand plusieurs actions ciblent les mêmes objectifs. Pour être efficace, l’action directe doit être répétée et permanente, c’est notre difficulté actuelle. Bien que presque tous les jours des actions de ce type soient menées, la stratégie de l’action directe peine à gagner du terrain et à s’étendre. Pourtant quand de véritables campagnes d’actions se lancent, et que des ennemis sont touchés à plusieurs reprises, nous reprenons le contrôle. C’est nous qui avons l’initiative et qui à partir de là pouvons faire craquer nos adversaires.
On peut prendre comme exemple la vague d’attaques de magasins spécistes qui a eu pour mérite de créer un véritable débat à l’échelle nationale autour de la question de l’exploitation animale. Quelques attaques de nuit qui ont eu plus d’impact que des années d’actions pacifistes ou de manifestations sur le sujet. On pourrait citer également la campagne d’attaques antifascistes visant le Bastion Social, et qui, engendrant la destruction de locaux ennemis, a provoqué un affaiblissement considérable du groupuscule fasciste, aujourd’hui démantelé. On peut évoquer l’importante campagne d’actions directes de soutien à la ZAD de Notre-Dame-des-Landes, qui a forcément pesé dans la décisions du gouvernement d’annuler le projet d’aéroport. Les exemples sont multiples, et les manières de faire diverses. Mais toujours, quand des actions directes sont coordonnées, ou simplement ciblent les mêmes objectifs, il y a des résultats probants, et un gain de temps et d’énergie énorme.

Surtout, au vu du contexte actuel encore une fois, il paraît urgent d’assumer une radicalisation de nos moyens d’agir et de nos volontés. Face à nous, le rythme s’accélère. Contre leur radicalisation vers plus de contrôle, plus d’autoritarisme, plus d’oppressions, comprenons que nous aussi nous devons aller plus loin pour pouvoir encore résister, et ne pas être balayé-e-s. Il faut faire acte de résistance, une résistance concrète, et pas seulement symbolique.

Il nous faut donc ré-interroger nos pratiques, ne pas se reposer sur nos acquis, et être conscient-e-s que nous sommes en train de perdre. Pratiquer l’action directe massivement, c’est développer un mode d’action qui peut nous faire reprendre l’avantage dans la guerre sociale actuelle, ou qui au moins, permet de créer des dynamiques positives et offensives, ce dont nous avons cruellement besoin.

Plus que jamais, pour l’action directe

¿Colapso del sistema capitalista? [Algunas notas sobre los acontecimientos actuales]

Desde el año 2019 la economía mundial ha venido dando señas de desaceleración, augurando una inminente crisis para este 2020. Si esto no fuera suficiente, desde principios de este año se ha agudizado la guerra comercial por el precio del petróleo, fraguada entre EEUU y Rusia, desembocando en la caída estrepitosa del precio del crudo, beneficiando con esto a los países que tienen las suficientes reservas (Rusia y Arabia Saudita) para amoldar su producción a los precios bajos. Por otro lado, el brote de la nueva sepa de coronavirus “Covid-19”, que ha ocasionó estragos en China desde fines del año pasado, ha rebasado fronteras y ha impactado en el resto del mundo, con ello, la inminente crisis económica no ha hecho sino adelantarse. La economía mundial ya está en plena crisis, los gestores del poder están pendientes a los grandes rescates financieros, la burguesía comienza a cerrar fábricas y despedir empleados tomando como pretexto la dichosa “cuarentena”. El desastre es inminente.

No obstante, es importante saber que las pérdidas monetarias no significan la caída del sistema capitalista. El capitalismo buscará en todo momento reestructurarse con base en medidas de austeridad impuestas a los proletarios para paliar todas las catastróficas consecuencias que traerá consigo[1]. Y esto se debe a que los “golpes” que ha sufrido el capitalismo a causa de estos fenómenos, son simplemente pérdidas en su tasa de ganancia, pero tales pérdidas no alteran en lo absoluto su estructura y esencia, es decir las relaciones sociales que le posibilitan seguir en pie: mercancía, valor, mercado, explotación y trabajo asalariado. De hecho, es en estas situaciones cuando el capital reafirma más sus necesidades: sacrificar a millones de seres humanos a favor de los intereses económicos, haciendo que la polarización entre clases sociales se agudice y revelando con más fuerza en qué posición se encuentra la clase dominante, la cual realiza todos los esfuerzos a su alcance para preservar este estado de cosas.

Y no es que la burguesía “haya planeado con antelación toda esta situación en torno a la pandemia para beneficiarse” (como rezan los conspiranoicos) al permitir que el sector más vulnerable (los ancianos) fallezca en los hospitales, en sus casas o hasta en la calle… y así ahorrarse millonarias cantidades de dinero en pagar pensiones. Esta situación, así como muchas otras, solo se dio como una maniobra oportuna que el momento exigía. Las cuestiones geopolíticas, de competición de mercados y de guerra mediática que puedan resultar de esto, son solo la consecuencia, más nunca la causa de lo que va configurándose.

Es evidente que toda esta situación que ha ganado terreno mundialmente aún yace en una fase temprana, pues las carencias y desabasto que afrontan los hospitales y las casas funerarias, rebasados en capacidad, son solo la punta del iceberg, pues aún falta ver los efectos de la escasez de alimentos y el desempleo cuando todo llegue a tope, en resumen, los efectos más adversos están aún por ocurrir.

De hecho, no es de extrañar que a raíz de este recrudecimiento se han exacerbado la locura y la histeria social, y cuyo reducto deja por resultado mayor atomización e individualismo, imperando el “sálvese quien pueda”, así como el “chivateo” de los buenos ciudadanos que secundan las labores de la policía, delatando a cualquiera que transité por las calles a pie.

Y pese a lo anterior, la lógica del capital no ha podido materializarse de manera total y uniforme. La conciencia de clase resurge y se vislumbra como única perspectiva posible entre cientos de  escombros, tal vez de manera difusa, pero su desarrollo es latente. Cada vez se generaliza más la noción de que la burguesía ha sido la responsable de propagar el virus, no sólo “porque son los burgueses los que viajan más”, sino porque ellos descansan en cuarentena mientras nosotros nos exponemos a infectarnos debido a que estamos obligados a salir a la calle para buscar el sustento diario. Es aquí donde la solidaridad de clase reaparece poniendo en común algunos medios de subsistencia básicos, participando de los saqueos y colocando barricadas para cortar las vías al turismo (como en chile). Esos resquicios de comunidad humana son una base que será decisiva en las luchas que pudieran generarse cuando la catástrofe sobrepase sus dimensiones.

Sin embargo, no debemos conformarnos ni sentirnos complacidos con esos mínimos aspectos; por el contrario debemos plantearnos ir más allá de eso. Es vital entender que mientras como clase sometida a los designios de la burguesía, permanezcamos contemplando y afrontando esta situación bajo meros paliativos reformistas que evadan la necesidad de superar definitivamente este sistema[2], todos nuestros esfuerzos solo darán tiempo a nuestros enemigos para fortalecerse y continuarnos gobernando y explotando a su antojo.

¿Qué los avistamientos de la fauna silvestre en las urbes citadinas que yacen en cuarentena, son un triunfo de la naturaleza que ahora reclama lo que es suyo?  Tal “triunfo”, aún así suponga la realización malthusiana de “acabar con la población excedente”, es solo una situación pasajera que está condenada a retornar a lo mismo de manera casi inmediata. Porque en el fondo, lo que seguirá dominando es un modo de producción que no puede prescindir de las metrópolis de concreto, asfalto y coches, de las industrias de monocultivos, las plantas de energía nuclear y de la industria pesada a base de combustibles fósiles.

Las contradicciones cada vez más agudas de este modo de producción (crisis, guerra, pandemias, destrucción ambiental, pauperización, militarización), que recrudecerán nuestras condiciones de supervivencia, no darán paso de manera mecánica ni mesiánica al fin del capitalismo. O mejor dicho, tales condiciones, aunque serán fundamentales, no bastarán. Porque para que el capitalismo vea su fin, es imprescindible la existencia de una fuerza social, antagonista y revolucionaria que logre direccionar el carácter destructivo y subversivo hacia algo completamente diferente de lo que presenciamos y conocemos ahora.

Querámoslo o no, no podemos dejar una cuestión tan importante como la revolución a rienda suelta, a la simple suerte.  Es necesario experimentar la resolución a ese problema con base en la organización de tareas que puedan irse presentando, es decir, el agrupamiento para la apropiación y defensa de las necesidades más inmediatas (no pagar adeudos, ni alquileres, ni impuestos), pero también, la ruptura con todas las ilusiones y espejismos que nos llevan a gestionar las mismas miserias bajo otra careta.

¿Fomentar la economía local?

¡Abolir el intercambio mercantil y el dinero!

¡Frente al reformismo, la ruptura radical!

¡Frente al inmediatismo, la perspectiva histórica!

¡Frente al localismo, el internacionalismo!

 

¿Colapso del sistema capitalista? [Algunas notas sobre los acontecimientos actuales]

You’ll never riot alone

Une autre pandémie est aujourd’hui en cours sur toute la planète. L’OMS ne s’en occupe pas le moins du monde, ce n’est pas de sa compétence, et les médias tentent de la passer sous silence ou de la minimiser. Mais les gouvernements du monde entier sont préoccupés par le risque qu’elle implique. Cette pandémie est en train de se diffuser dans le sillage du virus biologique qui remplit aujourd’hui les hôpitaux. Elle se répand là où passe le Covid-19, en somme. Elle coupe également le souffle. La peur de la contagion est en effet en train de provoquer la contagion de la rage. Les premiers symptômes de malaise ont tendance à s’aggraver, se transformant d’abord en frustration, puis en désespoir, et enfin en rage. Une rage suite à la disparition, sur décret sanitaire, des dernières miettes de survie qui restaient.

Il est significatif que suite à l’annonce des mesures restrictives prises par l’autorité pour empêcher la propagation de l’épidémie, une sorte d’assignation à résidence volontaire, ce soient justement les personnes qui affrontent déjà quotidiennement la réclusion derrière quatre murs, qui aient mis le feu aux poudres. Le fait d’être privés du peu de contacts humains qui leur restait, qui plus est avec le risque de mourir comme des rats en cage, a déclenché ce qui n’arrivait pas depuis des années. La transformation immédiate de la résignation en fureur.

Tout a commencé dans le pays occidental le plus touché par le virus, l’Italie, où des émeutes ont éclaté le 9 mars dernier dans une trentaine de prisons juste après la suspension des parloirs avec les proches. Au cours des désordres, douze prisonniers sont morts – presque tous « par overdose », selon les infâmes infos ministérielles – et de nombreux autres ont été massacrés. A Foggia, 77 prisonniers ont réussi à profiter de l’occasion pour s’évader (même si malheureusement pour beaucoup d’entre eux, la liberté n’a que trop peu duré). Une telle nouvelle ne pouvait que faire le tour du monde et qui sait si elle n’a pas inspiré les protestations qui, à partir de ce moment-là, se sont diffusées parmi les enterrés-vivants des quatre continents : battages contre les barreaux, grèves de la faim, refus de rentrer en cellule après la promenade… mais pas seulement.

Au Moyen-Orient, le matin du 16 mars, les équipes anti-émeute font irruption dans deux des plus grandes prisons du Liban, à Roumieh et Zahle, pour ramener le calme ; plusieurs témoins parlent de barreaux démontés, de colonnes de fumée, de prisonniers blessés. En Amérique Latine, le 18 mars, une évasion de masse a eu lieu dans la prison de San Carlos (Zulia) au Venezuela, au cours d’une émeute déclenchée là aussi suite à l’annonce des mesures restrictives : 84 prisonniers réussissent à s’évader, 10 sont abattus au cours de la tentative. Le jour d’après, 19 mars, plusieurs prisonniers de la taule de Santiago, au Chili, tentent la fuite. Après avoir pris le contrôle de leur aile, mis le feu au poste de garde, et ouvert les grilles du couloir, ils s’affrontent avec les matons. La tentative d’évasion échoue et est durement réprimée. En Afrique le 20 mars, se produit une nouvelle tentative d’évasion de masse dans la prison Amsinéné de N’Djamena, capitale du Tchad. Encore en Amérique Latine, le 22 mars ce sont les détenus de la prison La Modelo de Bogotà, en Colombie, qui se soulèvent. C’est un massacre : 23 morts et 83 blessés parmi les prisonniers. De nouveau en Europe, le 23 mars, c’est une section de la prison écossaise de Addiewell qui finit aux mains des révoltés et est dévastée. Aux États-Unis, ce même jour, 9 prisonnières s’évadent de la prison pour femmes de Pierre (Dakota du Sud) le jour même où une d’entre elles avait été testée positive au Covid-19 (quatre d’entre elles seront capturées les jours suivants). Toujours le 23 mars, 14 détenus s’évadent d’une prison du comté de Yakima (Washington DC) peu après l’annonce du gouverneur sur l’obligation de rester confiner à la maison. Encore en Asie, la libération « provisoire » de 85 000 prisonniers de droit commun en Iran ne réussit pas à étouffer la rage qui couve dans de nombreuses prisons : le 27 mars, 80 détenus s’évadent de la prison de Saqqez, dans le Kurdistan iranien. Deux jours plus tard, le 29 mars, une autre révolte éclate en Thaïlande dans la prison de Burinam, au nord-est du pays, où plusieurs détenus réussissent à s’échapper. Mais il n’y a pas que les prisons, puisque même les centres où sont enfermés les immigrés sans-papiers s’agitent, comme le démontrent les désordres qui ont éclaté au centre de rétention de Gradisca d’Isonzo, en Italie, le 29 mars. Mais si les prisons à ciel fermé surpeuplées de damnés de la Terre semblent aujourd’hui plus que jamais des bombes à retardement qui explosent petit-à-petit, que dire des prisons à ciel ouvert ? Combien de temps encore la peur de la maladie aura-t-elle le dessus sur la peur de la faim, paralysant les muscles et blessant les esprits ? En Amérique Latine, le 23 mars, 70 personnes prennent d’assaut une grande pharmacie à Tecámac au Mexique ; deux jours plus tard, c’est un supermarché de Oaxaca qui est pillé par une trentaine de personnes. Le même jour, 25 mars, de l’autre côté de l’Océan Atlantique, en Afrique, la police doit disperser à coup de lacrymogènes la foule présente sur le marché de Kisumu, au Kenya. Aux policiers qui les exhortaient de s’enfermer chez eux, les vendeurs et les clients ont répondu : « nous connaissons le risque du Coronavirus, mais nous sommes pauvres ; nous avons besoin de travailler et de manger ». Le lendemain, 26 mars, la police italienne a commencé à stationner devant plusieurs supermarchés de Palerme, après qu’un groupe de personnes a tenté de sortir avec des chariots remplis sans s’arrêter aux caisses dans l’un d’entre eux.

On ne peut pas dire que la mise en résidence surveillée imposée à des centaines de millions de personnes ait complètement stoppée la détermination de ceux qui ont l’intention de saboter ce monde mortifère. La nuit du 18 au 19 mars à Vauclin, sur l’île de la Martinique, un local technique de la compagnie de téléphone Orange est incendié, coupant les lignes à quelques milliers d’usagers. En Allemagne également, où les mesures de confinement ont été décrétées le 16 mars, les attaques nocturnes continuent imperturbablement. Le 18 mars, tandis qu’à Berlin ce sont plusieurs véhicules des concessionnaires Toyota et Mercedes qui partent en fumée, à Cologne ce sont les vitres de la société immobilière Vonovia qui sont brisées. A l’aube du 19 mars, c’est une agence bancaire qui est attaquée à Hambourg, tandis qu’à Berlin c’est le véhicule d’une entreprise de sécurité qui est incendié. La nuit du 19 au 20 mars, la voiture d’un militaire réserviste de Nuremberg est livrée aux flammes pour protester contre la militarisation croissante, à Werder ce sont trois yachts qui sont incendiés, et Berlin perd une autre automobile de sécurité. La nuit du 20 au 21 mars à Leipzig est également incendiée la énième voiture d’une entreprise liée aux technologies de sécurité. Cette même nuit, aussi bien en Allemagne qu’en France certains ont tenté d’arracher l’épine de l’aliénation. La tentative échoue à Paderborn, où les pompiers allemands sauvent de justesse une antenne de téléphonie mobile sur le point de partir en flammes. La chance n’a pas non plus souri aux auteurs de la dégradation de plusieurs câble de fibre optique de Bram, en France. Une partie du village restera sans internet et sans téléphone pendant plusieurs jours, mais les responsables seront arrêtés à cause de la dénonciation de plusieurs témoins. La nuit suivante, celle du 22 mars, la voiture d’un douanier est réduite en cendres près de Hambourg. Ceux qui ont accompli cette action diffuseront un texte où l’on peut lire : « C’est justement dans cette période de pandémie qui s’accompagne de resserrement et de restriction du mouvement de liberté, qu’il est d’autant plus important de préserver sa capacité d’action et de se montrer à soi-même, ainsi qu’à d’autres subversifs, que la lutte contre les contraintes de cette époque continue, même si elle semble folle et difficile. Si on capitule face au souhait de l’État de nous isoler, qu’on se contente d’un haussement d’épaule face à la menace de couvre-feu, on lui donne la possibilité de continuer ses machinations…». Il s’agit d’une pensée qui enflamment les esprits à travers toute la planète, aussi vrai que cette même nuit du 22 au 23 mars c’est l’aéroport international de la Tontouta, en Nouvelle -Calédonie, qui a été pris pour cible (vitrines brisées et véhicules de la douane vandalisés) par ceux qu n’ont évidemment pas d’accord avec les paroles du président du Sénat traditionnel, selon lequel « La violence ne remplace pas le dialogue. Les décisions prises dans l’urgence par les autorités publiques sans explications immédiates ne doivent pas inciter a la violence. »

Mais le fait qui plus que n’importe quel autre pourrait laisser une marque profonde, comme des braises couvant sous des couches de totalitarisme et desquelles pourraient naître des étincelles, est l’émeute qui a éclaté le 27 mars à côté de Wuhan, épicentre de la pandémie actuelle, à cheval entre les Provinces du Hubei et de Jiangxi (la seule qui soit parvenue jusqu’à nous). Des milliers de Chinois à peine sortis d’une quarantaine qui a duré deux mois ont exprimé leurs remerciements et toute leur gratitude pour les mesures restrictives imposées par le gouvernement en attaquant la police qui tentait de bloquer le passage sur le pont du fleuve Yangtsé.

De ce côté du continent, le monde tel que nous l’avons toujours connu vacille depuis un mois. Rien n’est plus comme avant et, comme beaucoup le disent tout en étant d’opinions variées, rien ne sera plus comme avant. Ce qui a remis en cause sa reproduction tranquille n’a de fait pas été l’insurrection, mais bien une catastrophe. Qu’elle soit réelle ou seulement ressentie, ne fait aucune différence. Aucun doute que les gouvernements feront tout pour profiter de cette situation et éliminer toute liberté restante, qui aille au-delà du fait de choisir quelle marchandise consommer. Aucun doute non plus qu’ils ont toutes les cartes techniques en mains pour clore la partie, et imposer un ordre social sans bavures. Ceci dit, on sait que même les mécanismes les plus solides et les plus précis peuvent partie à vau-l’eau pour un rien. Leur calcul des risques estimés, et acceptés, pourrait s’avérer erroné. Dramatiquement erroné et, pour une fois, surtout pour eux. C’est à chacun de nous de faire en sorte que cela arrive.

Traduit de l’italien de Finimondo, 30/03/20

Bourges/Maubeuge/Cherbourg – Les drones de la PJ à l’assaut des quartiers

La police de Bourges a recours à un drone pour vérifier le respect des règles de confinement
Le Berry Républicain, 2 avril 2020 (extrait)

Pour contrôler l’application des dispositions relatives au confinement contre la propagation du coronavirus et sanctionner des relâchements éventuels, la police a fait appel ce jeudi, dans les quartiers nord de Bourges, à l’assistance d’un drone. Sa mission : survoler des zones difficiles d’accès pour y guider des policiers déployés au sol, en toute sécurité.
« C’est une opération d’appui technique à une mission de surveillance d’endroits peu accessibles, explique Brigitte Siffert, directrice départementale de la sécurité publique (DDSP) du Cher, patronne des policiers nationaux. Dans ces quartiers (ici les Gibjoncs, mais aussi Turly, La Chancellerie ou le Moulon, NDLR), des riverains nous signalent des attroupements, des rassemblements, parfois autour de barbecues. Encore tout à l’heure en début d’après-midi : cinq personnes impasse Arthur-Rimbaud… Ce sont des infractions, des manquements graves aux dispositions sur le confinement. C’est ainsi que le coronavirus se propage. » Le drone prend donc l’air pour repérer les contrevenants et mener jusqu’à eux les policiers déployés au sol. Et c’est une grande première dans le ciel berruyer, d’un bleu estival jeudi après-midi.



Maubeuge: la police fait voler son drone pour mettre fin aux rassemblements dans les quartiers

La Voix du Nord, 2 avril 2020

C’est avec un drone que les policiers de Maubeuge ont mené une opération de contrôles mardi dans les quartiers sensibles de la ville, où des groupes de jeunes se rassemblent tous les jours au mépris des règles du confinement. L’engin volant a permis de les disperser.

Imaginez un drone qui prend la parole… Une hallucination ? Non, c’est bien la scène qu’ont vécue certains habitants des Écrivains, de Sous-le-Bois, du lac du Paradis ou des Présidents mardi. L’appareil était équipé d’un haut-parleur répétant en boucle les messages de prévention ou de confinement dans le cadre du Covid-19. Un engin emprunté à la police judiciaire de Lille pour une opération de contrôles inédite.


Cherbourg : deux drones déployés pour faire respecter le confinement
La Presse de la Manche, 1er avril 2020

Ce n’était pas un poisson d’avril. Ce mercredi 1er avril 2020, les services de police de Cherbourg ont reçu le soutien logistique de la PJ de Rennes pour rappeler à l’ordre les éventuels flâneurs qui tenteraient d’échapper aux contrôles en cette période de confinement.

Après un temps de calibrage, les deux drones équipés de caméras HD ont été déployés dans un premier temps au niveau de la plage verte, puis à Collignon avant une série de passages le long de la Saline pour s’assurer que les chemins n’étaient pas fréquentés. Les équipements ont une portée de 5 kilomètres sans obstacles. Il peuvent monter jusqu’à 6 000 mètres en altitude mais pour surveiller une plage, pas nécessaire de monter aussi haut.

Un des trois opérateurs formés à l’utilisation de cet outil évoque les nombreuses possibilités offertes : « Un de nos drones peut être équipé d’un haut-parleur pour diffuser les messages de prévention ou d’une caméra infrarouge pour des opérations nocturnes. »

Les caméras embarquées offrent une qualité d’images époustouflante pour les opérateurs qui sont capables de zoomer dans des endroits parfois inaccessibles. À terre, des policiers en civils ou en tenue sont dirigés par les télépilotes via une liaison radio. Ils contrôlent et verbalisent si besoin. La présence de drones sur Cherbourg surprend, notamment les promeneurs : « Je promenais mon chien sur la plage verte quand j’ai vu le drone dans le ciel bleu. Puis quelques secondes plus tard, des policiers sont venus à ma rencontre. Je leur ai montré mon attestation. Je rentrais de toute manière. On ne les entend pas. À peine un léger bourdonnement. C’est clair que c’est dissuasif. »

Le commissaire Pascal Serrand dit vouloir renouveler l’opération : « Le dispositif se veut efficace, discret et dissuasif. C’est un équipement qui vient parfaitement compléter nos moyens de contrôles. En quelques minutes, il peut contrôler une zone plus étendue. Je ne manquerai pas de faire à nouveau appel à la PJ de Rennes qui a engagé ses moyens de surveillance, habituellement utilisés dans ses enquêtes judiciaires, pour épauler cette fois les effectifs du grand Ouest. »

Depuis le début du confinement, les policiers cherbourgeois ont réalisé 216 opérations de contrôle et verbalisé 203 contrevenants. Ce mercredi, 4 personnes démunies d’attestation de déplacement dérogatoire ont été sanctionnées.

https://demesure.noblogs.org/archives/568

Baguer-Pican (Bretagne) – Pendant que le maire est confiné…

Baguer-Pican. Deux véhicules du service technique incendiés
Ouest France, 2 avril 2020

Dans la nuit de vendredi à samedi, l’atelier municipal a été visité par des personnes indélicates, qui, selon le maire, Michel Coffre, « ont profité de ces temps de confinement pour commettre leurs méfaits ». Du matériel a été volé dans l’atelier, comme deux véhicules du service technique qui ont été repérés quelques heures plus tard, mais entièrement détruits par le feu.

Le camion a été retrouvé carbonisé au niveau des Hurettes, sous le pont situé sous la RN176, la voiture sur la départementale 8, allant de La Gouesnière à Saint-Benoît-des-Ondes. « C’est non seulement du vol, mais aussi un acte de pur vandalisme, sinon quel intérêt à voler des véhicules pour les brûler quelques heures plus tard », souligne le maire. L’édile ressent beaucoup de colère, surtout en ces temps contraints et se pose cette question, « quand trouverons-nous un vaccin contre la bêtise humaine ? ». Le maire a déposé plainte à la gendarmerie, en souhaitant « que toute la lumière soit faite, et les auteurs de cet acte de malveillance retrouvés ».

https://demesure.noblogs.org/archives/556