Cronache da Milano sotto il coronavirus – Salute II

Ormai in Lombardia siamo al giro di boa, sono passati due mesi dall’inizio dell’allarme Covid 19, dalle prime chiusure e dai primi contagiati riconosciuti.

La coperta corta delle risorse sul territorio è stata strattonata a destra e a manca, le strutture sanitarie e le politiche scelte nelle aree più colpite hanno lasciato che un’infezione, che agli occhi di un occidentale pareva irrealizzabile, dilagasse. Nell’Insubria, nel ricco nord est, la guerra al virus è stata persa con migliaia di vittime sacrificabili e con molteplici effetti collaterali. All’alba della fase due la manfrina è cambiata, dobbiamo imparare a con-vivere con il virus, una convivenza in cui le differenze sociali creeranno anche un differenziale del rischio.

A due mesi di distanza ne abbiamo riparlato con chi lavora negli ospedali meneghini, chi usa i ferri del mestiere e chi riesce a dare un sguardo all’ambito sanitario scevro di retorica.

A Milano è andata male ma poteva incredibilmente andare peggio. La fallacia della risposta sanitaria trova spiegazione nella struttura presente e nei meccanismi di routine del servizio lombardo. La maggior parte dei presidi sono privati e la parte pubblica è fortemente depauperata di strumenti, lavorando continuamente sotto stress, dove non esiste capillarità nella distribuzione di cure, ma accentramento.

Le decisioni che amministratori e direzioni sanitarie hanno preso hanno strappato la già sgualcita coperta. Traslochi di infetti nelle Rsa, scarsità di tamponi, oppure tamponi a pagamento, investimenti edilizi al posto di maggior formazione in ambito sanitario, sospensione delle cure per i malati cronici, impossibilità ad avere una diagnosi in questo frangente. Così si sta acuendo e moltiplicando il problema sanitario. 

Qualcuno risponde alle lacune del sistema facendo di testa propria, assieme ai colleghi si organizza per riprendere tutte quelle cartelle cliniche di chi è stato lasciato indietro. Qualcun’altro si domanda come potrà non ripresentarsi più una situazione così critica, se l’origine della malattia e la dinamica del contagio è intessuta nella trama della società in cui viviamo.

 

Cronache da Milano sotto il coronavirus – Salute II

Parigi – Brigate di protezione delle guardie?

Tra gli interventi di strada proposti dalle brigate di solidarietà popolare che si stanno moltiplicando ultimamente da Milano a Parigi, passando per Ginevra, Lione, Nantes o Marsiglia, c’è innanzitutto la distribuzione di materiale di protezione ai lavoratori della loro zona.

Il fatto che i brigatisti della miseria parigina non possano impedirsi di mettere in scena la loro buona azione con foto e social network è dopotutto sintomo di un tempo dove esiste solo ciò che dà spettacolo.
Mischiano allegramente le nozioni di assistenza, aiuto reciproco o sostegno con quella di solidarietà, facendo passare quest’ultima per la distribuzione di pacchi di cibo ai poveri o per degli striscioni appesi ai balconi dei confinati. In qualche modo le riguardano, anche se ciò semina più confusione che altro.
Così eravamo noi ad essere troppo ingenui per continuare a pensare, come nel ventesimo secolo, che la solidarietà è l’attacco, che il sostegno materiale è il sostegno materiale, che l’aiuto reciproco è una forma di reciprocità e che l’aiuto umanitario è una forma di carità laica che mantiene dipendenza e miseria portando comunque consensi alla loro causa. Ma va beh..

D’altra parte, al momento, in molti si trovano privati degli stipendi provenienti dall’economia informale,  o facevano fatica già da tempo, e, logicamente, più di una persona comincia a preoccuparsi di sapere come mangiare o pagare le bollette nelle prossime settimane, visto che il confinamento rischia di durare ancora due mesi e che certe scelte non soffrono di alcuna mezza misura. Oh, non c’è bisogno di andare a Palermo o in Cile per capire che una tale privazione, passando il tempo rischia di far rima con la moltiplicazione dei tentativi di esproprio: del resto, i militari francesi dell’operazione résillence sono ufficialmente incaricati di proteggere supermercati e zone commerciali negli angoli sensibili e hanno cominciato a pattugliare in numerose città da lunedì.
Ogni poliziotto, guardia carceraria o vigilante contagiato dal Coronavirus e rimandato a casa non è in questo caso una buona notizia che porta un po’ di aria fresca a ogni ladro o rivoltoso? Non esiste una differenza fondamentale tra l’aiuto umanitario e l’auto-organizzazione di una parte della popolazione per andare a rubare nei depositi di merci? Tra l’impedire ai vigilanti di nuocere e l’aiutarli a tenere il loro posto di lavoro? Beh si, questo formidabile lavoro consiste solamente nel proteggere quotidianamente la vile merce da coloro che passano alla cassa senza pagare o con le tasche troppo gonfie.

È anche ciò che ovviamente pensano i brigatisti di parigi, ma forse non come crediamo, poiché il 20 marzo scorso durante un turno di distribuzione di 150 mascherine ai ladri dei supermercati per proteggerli dalle telecamere… eeeh… ai lavoratori dei supermercati per proteggerli dai clienti, non hanno esitato a sacrificarne per preservare la buona salute dei guardiani del riso e della pasta. Coscienti dell’importanza della loro missione in un periodo di tensione sociale, i nostri ‘moschettieri’ hanno in seguito deciso di sceglierne uno per esibirlo in foto nella loro vetrina virtuale – un vigilante fiero sia della mascherina “popolare e solidale” appiccicata alla sua bocca che del badge “sicurezza” penzolante sul suo petto. Una mascherina che potrà aiutarlo a cacciare gli affamati più a lungo, possibilmente per consegnarli alla polizia, azione per lo meno irresponsabile in piena crescita del picco dell’epidemia.
Nessun dubbio che la brigata nord-est di solidarietà popolare per un’auto-difesa dei proletari che riempiono il loro frigo impedendo ai loro simili di farlo gratis, non mancherà di rinnovare l’operazione se le si presenteranno dei nuovi carichi di mascherine.

Resta in ogni caso un piccolo interrogativo, che spaventa più del Coronavirus: com’è possibile che degli individui siano potuti passare in così poco tempo dal ruolo di animazione dei cortei di testa a quello di forza motrice dello stato per accompagnare e ammortizzare gli effetti del grande confinamento che quest’ultimo tenta di imporre ad ogni prezzo? “È tutto il problema dei ruoli, della politica e degli autoritari” mi sussurra all’orecchio un saggio anarchista. “ è anche il problema dell’assenza di prospettive in generale che, in un periodo di epidemia dove la paura, la morte e l’urgenza, che gli sono legate, hanno velocemente preso piede su ogni considerazione offensiva”, non posso che sospirare.
Con, dietro o a fianco dello stato, ma sicuramente non contro di lui- lo vedremo poi- sembra essere diventata l’antifona più prevalente tra i radicali di servizio.
Pertanto, è proprio qui e ora che succede, nella nostra stessa vita, e nessun nemico sincero dell’autorità può collaborare con il più freddo dei mostri freddi, nemmeno nel nome dell’urgenza o del meno peggio. Non è proprio lo stato ad amministrare militarmente e tecnologicamente l’epidemia? Colui che decide ogni giorno negli ospedali chi può sperare di vivere o morire? Chi, allo stesso tempo, sceglie coloro che possono essere contagiati (nelle industrie e in prigione) e coloro che devono stringere la cinghia, privarsi d’orizzonti per provare a scappare (in confinamento di massa con tutto ciò che comporta)? Chi continua senza tregua a portare avanti le sue sporche guerre oltrefrontiera?

Andiamo, la paura non può aver cancellato ogni riferimento fino a questo punto, qualche base deve pur essere rimasta. Guardate, una guardia è una guardia, un ladro è un ladro. E non chiedete ad un fautore del caos quale dei due bisogna mettere fuori gioco per frenare la propagazione del virus dell’autorità o per aprire la via ai saccheggi.

Testo originale in francese

La Nave dei Folli – Episodio 4

Episodio 4

Terminata la guerra, lo studio e il perfezionamento della macchina umana proseguono: tutte le discipline, non solo le scienze pure ma anche quelle umane (antropologia, psicologia, sociologia eccetera), convergono sotto il dato unificante dell’informazione. Per conoscerne limiti, potenzialità o il semplice funzionamento, l’essere umano è posto sotto la lente d’ingrandimento durante ricerche, test, studi vari, e le cavie non son più soltanto i soldati o i reduci di guerra ma diventano casalinghe, lavoratori, studenti.

A queste sedute partecipa anche Theodore Kaczynski che, pur provenendo da una famiglia di umili origini, ha ricevuto una borsa di studio per frequentare la prestigiosa università di Harvard, ma ora ha bisogno di qualche soldo per mantenersi. Solo in una stanza, forti luci puntate addosso, interlocutori non visibili lo interrogano e cercano di distruggere le sue idee, anche le convinzioni più profonde.

Ma la macchina Ted si rivelerà difettosa ai fini del sistema, addirittura letale. Abbandonato l’insegnamento in matematica a Berkeley, si ritirerà dalla società cibernetica andando a vivere in una casetta di legno, spartana e autocostruita, nei boschi del Montana. Quando si renderà conto che la società cibernetica arriva dappertutto, con aerei, autostrade o gli imminenti OGM, deciderà di passare al contrattacco. Firmandosi F.C., ribattezzato poi Unabomber dagli agenti federali, inizia a inviare pacchi bomba ai vertici di compagnie aeree, università, aziende biotecnologiche, fino a far pubblicare dai principali quotidiani degli Stati Uniti il suo lungo scritto, La società industriale e il suo futuro.

Riferimenti Episodio 4

• DJ Spooky, Variation Cybernetique – Rhythmic Pataphysic (Optometry, con Matthew Shipp, William Parker e Joe McPhee – Thirsty Ear, 2003).
• Manhunt: Unabomber (2017)
• Jacques Ellul – To Exist is To Resist, Intervista del 1979
• Albicastro, Sonata La Follia (1704) (Altre Follie, 1500-1750, 2005)
• Jacques Ellul, Fidatevi 1980
• Gil Evans, Angel (The Gil Evans Orchestra Plays the Music of Jimi Hendrix, 1974)
• Combat Wombat, Displaced Peoples [ft. Chris Mutiny]
• Shelter in Place, with Shane Smith & Edward Snowden. Qui l’intervista completa in inglese
• Oliver Stone, Snowden (2016)
• Sparrowhawk, Starlit Fires, Surrender the Equinox & Siskiyou Malaise (Harvest, 2013)
• White Hills, Under Skin or By Name (Glitter Glamour Atrocity, 2007)

https://lanavedeifolli.noblogs.org/

Ciao Vivi

Alcuni giorni fa è girata, tramite passaparola e articoli di giornale,
la notizia dell’omicidio di una ragazza di 34 anni di Bergamo, Viviana.
L’ennesimo atto di violenza patriarcale: picchiata brutalmente a calci e
pugni dal suo convivente per motivi di gelosia, Viviana è morta dopo sei
giorni di coma in seguito ai traumi riportati. In questo periodo in cui
lo Stato ci impone di stare rinchiusx in casa, pretendendo perfino di
decidere quali dovrebbero essere i nostri affetti principali (al cui
vertice stanno ovviamente la famiglia di sangue e la coppia stabile), i
casi di violenza di genere sono ancora più numerosi del solito. Coppia e
famiglia sono i pilastri dell’ordine sociale eteronormativo funzionale
allo Stato. Nella retorica degli ordini imposti da papà-Stato, del
#restiamo a casa e delle bandiere tricolori vengono rilanciati valori
familistici e patriottici dal marcio odore fascista. Molte donne e
persone LGBT si trovano in questo momento in situazioni di difficoltà in
quanto costrette a una convivenza forzata in relazioni oppressive o con
una famiglia che non le accetta, impossibilitate ad andarsene e private
della possibilità di raggiungere le proprie reti di supporto, composte
soprattutto dai legami di amicizia.
Alcunx di noi hanno conosciuto Viviana in uno squat o in un concerto
punk, o l’hanno magari incrociata a una manifestazione. Da diversi anni
ci si era persx di vista, ma chi l’ha conosciuta la ricorda come una
ragazza dolce, solare, amabile, che non meritava certo una fine così
orribile.
Non dimenticheremo niente e non perdoneremo niente. Perché non si dica
mai più che il patriarcato non esiste o è acqua passata. Perché le
nostre relazioni siano finalmente liberi scambi tra individui e non
gabbie di possessività. Perché questa civilizzazione assassina crolli
con tutte le sue fondamenta, comprese quelle cementate dentro di noi.

Ciao Vivi

Alcune righe riguardo un intervento della polizia di sabato 18 Aprile a Monza

Per le strade deserte di Monza succede che, in un tranquillo sabato sera, un ragazzo venga fermato dalla polizia in strada perché in stato di agitazione. Chi ha assistito alla scena racconta di aver contato, oltre a un’ambulanza, 11 poliziotti intervenuti per fermare un ragazzo che non stava facendo del male e che, evidentemente, non sarebbe stato pericoloso.

Come spesso accade, l’arrivo delle FDO ha peggiorato la situazione: se mentre uno sbirro ti dice di stare calmo e che andrà tutto bene tiene in mano un manganello, è facile mantenere la calma? Quello che è successo sabato, in queste settimane è capitato parecchie volte anche in altre città d’Italia: una persona è stata accerchiata dalle forze dell’ordine, trascinata per terra e ammanettata. Erano in tanti ad assistere e riprendere, ma alla polizia non piace essere ripresa durante un fermo. Infatti una delle persone presenti è stata accerchiata da quattro sbirri che, vedendola riprendere col telefono (fuori dal portone di casa e con mascherina), le hanno intimato di smettere perché, a detta loro, sarebbe vietato. Gli sbirri allora hanno chiesto perché questa persona (tra molte altre) fosse in strada. Il motivo di tutto questo interesse verso una sola persona era il presunto video girato. Non è mancata la classica richiesta immotivata dei documenti. Non avendoli con sé, essendo uscita di casa all’improvviso preoccupata dal trambusto, la persona è stata seguita nel cortile di casa da un agente che ha cercato di entrare nell’abitazione (gli è stato impedito chiedendo di mostrare un mandato che chiaramente non c’era).
Il poliziotto non si è fermato: non potendo entrare in casa, ha iniziato a suonare il campanello (alle 23) agitando gli abitanti ignari di tutto. Ottenuto e fotografato il documento, lo sbirro è andato via continuando a minacciare la persona con frasi del tipo “non fare stronzate con quel video”.

Intanto in strada si sentivano ancora le lamentele del ragazzo verso le FDO. La situazione è durata ancora circa 20 minuti con l’arrivo di nuove volanti, finché il ragazzo non è stato caricato in ambulanza e portato via. Per ora non sappiamo né dove sia stato portato né come stia adesso.

Con sicurezza possiamo dire sulla vicenda che non siamo stupiti dai metodi stronzi e minacciosi delle FDO, anzi altre volte abbiamo visto di gran peggio. Ci interessa sottolineare che questi non sopportino l’aiuto a chi è nelle loro mani, sempre meno abituati alle persone che si mettono in mezzo durante un controllo, un fermo o un arresto. Così cercheranno sempre di intimidire i solidali. Ogni giorno in questa quarantena vediamo comportamenti violenti e immotivati della polizia. Questo è un risultato dell’invocare sempre più polizia, con sempre meno controllo e sempre più con poteri discrezionali.

Sopratutto in un periodo in cui ci è impedito di uscire liberamente e la polizia sembra sentirsi padrona delle strade, è sempre più necessario non girarci dall’altro lato se assistiamo a una violenza in strada o dalle nostre finestre. Non permettiamolo!
Solidali non infami!

Dietro l’angolo pt.4 – Taglio netto

QUALCHE IPOTESI SU COVID 19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO

Trovarsi con l’acqua alla gola è forse una delle immagini che fino a qualche settimana fa poteva rappresentare meglio le condizioni di vita di molti. A queste latitudini, le differenze tra chi occupava i vari gradini nella parte bassa della scala sociale consistevano per lo più nel riuscire a respirare o trovarsi invece a boccheggiare quando la corrente agitava un po’ le acque.

Il Covid19 è arrivato all’improvviso come uno tsunami.

Ad esserne travolti contemporaneamente sono stati tantissimi e non solo quelli che occupavano gli ultimissimi gradini. L’impossibilità di ottenere qualche tipo di salario sta portando sempre più persone ad annaspare, man mano che si esauriscono le scorte. Le briciole elargite dalle autorità, in svariate forme, più che affrontare il problema servono a far loro guadagnare tempo e a cercar di raffreddare un po’ gli animi, in vista di frangenti che si annunciano se possibile ancor più difficili. Il quadro non è infatti destinato a modificarsi granché anche quando le acque man mano si ritireranno.

Il numero dei disoccupati, sia tra chi percepiva un qualche reddito o salario regolare sia tra quanti riuscivano a sbarcare il lunario saltando da un lavoro all’altro all’interno o ai margini del recinto dell’economia formale, è destinato ad aumentare considerevolmente. L’impoverimento generale legato alla contingenza coronavirus si intreccerà a dinamiche già in corso d’opera.

Uno dei principali fattori in grado di espellere porzioni crescenti di uomini e donne dal mondo del lavoro è senz’altro l’ulteriore salto, a livello d’automazione, legato allo sviluppo della robotizzazione e intelligenza artificiale. Un’automazione che, almeno su un piano tecnico, non sembra avere particolari preferenze rispetto ai settori lavorativi in cui svilupparsi. Sembra infatti che robotica e cervelli sintetici siano già in grado di raccogliere verdura e frutta riuscendo anche a selezionare quella già matura, a organizzare i magazzini della logistica e caricare i camion, a guidare gli stessi camion soprattutto su lunghi percorsi al di fuori dei centri urbani, e ancora a sostituire gran parte degli addetti alla vendita al dettaglio o alla grande distribuzione, o a svolgere attività come imbiancare la facciata di un palazzo, ma anche a svolgere attività più d’intelletto sostituendo in molte mansioni chi lavora in banca, negli studi legali, nel mondo della sanità e dell’istruzione…

Tale elenco delle attività in cui le macchine potranno sostituire in parte o totalmente gli esseri umani, seppure parziale, è utile per farsi un’idea della portata del fenomeno. Alcuni studi affermano che, potenzialmente, nei prossimi 10 anni il 47% delle attività lavorative rischia di subire gli effetti di quest’ulteriore automazione. E del resto se i costi di queste innovazioni continuano a ridursi, sostituire degli esseri umani con dei robot non può che essere economicamente conveniente vista la loro produttività, il fatto che non protestano e non si stancano e last but not least non si ammalano e non fanno ammalare.

L’ostacolo principale, almeno in prospettiva, ad una tale diffusione non sembra essere di natura tecnica. A pesar non poco, accanto agli scenari anche inediti destinati a delinearsi a livello macro, ci sarà la vecchia questione del conflitto di classe e l’esigenza, per le autorità, di mantenere un certo livello di coesione e pace sociale.

Un conflitto sociale, ci sia concesso un breve inciso, destinato a pesare non soltanto in una prospettiva luddista, ma in grado di modificare e stravolgere radicalmente il complesso delle dinamiche che stiamo tentando di descrivere. Di sparigliare del tutto le carte in tavola. Ci rendiamo conto che il quadro che stiamo tratteggiando, non solo in questo capitolo ma anche nei precedenti e in quelli che seguiranno, possa risultare quindi eccessivamente piano, privo di una dimensione essenziale. Come se le politiche di oppressione si sviluppassero in un ambiente vuoto, privo di resistenze e asperità. Per una chiarezza d’esposizione abbiamo però scelto di operare questa artificiale separazione tra strategie e dinamiche di esclusione e la dimensione del conflitto, su cui ci soffermeremo alla fine. Torniamo ora a volgere lo sguardo sulle carte in mano al nemico.

Già da tempo lo stesso termine “disoccupato”, che descrive una condizione – almeno a livello teorico – temporanea, appare sempre più inadeguato a descrivere una condizione che si annuncia essere piuttosto permanente o almeno a corrente alternata. Una questione tutt’altro che terminologica o di pura lana caprina perché presuppone per lorsignori la costruzione di retoriche e strategie radicalmente differenti rispetto a quelle adottate negli ultimi tempi.

Nel corso degli ultimi secoli le condizioni di accesso a determinati ammortizzatori sociali in grado di mitigare la miseria sono rimasti simili nel tempo: l’impossibilità di lavorare – che a seconda dei casi poteva essere imputabile al soggetto inabile o a una dimensione sociale -, l’appartenenza del beneficiario a un certo territorio – per cui i mendici all’interno di una determinata comunità erano soggetti a misure, non certo piacevoli come il lavoro coatto, ma comunque volte alla loro reintegrazione, mentre ai vagabondi erano riservate solo misure strettamente punitive – e l’accettazione della loro propria condizione – che è il vero oggetto di scambio tra Stato e chi percepisce questi ammortizzatori.

Partiamo dall’ultima di queste condizioni, e guardiamo più da vicino cosa i governanti hanno chiesto in cambio ai beneficiari di questi sussidi negli ultimi decenni. Dagli anni ’80 in poi il discorso che si è affermato è più o meno questo: in un mondo del lavoro sempre più veloce la quantità e competenze della manodopera cambiano costantemente, chi lavora deve di conseguenza adattarsi a questa situazione diventando disponibile a impieghi temporanei e un continuo percorso di formazione per tentare di stare al passo con le esigenze della produzione e del mercato. La dichiarazione d’immediata disponibilità ad accettare altre offerte di lavoro o un qualche percorso formativo cui è subordinata l’erogazione di Naspi o Reddito di cittadinanza, rispondono a questo impianto teorico. Nella pratica, per caratteristiche proprie all’economia e alla macchina burocratiche nostrane, questa disponibilità, fortunatamente, rimaneva per lo più sulla carta.

Interessante come uno dei primi casi significativi in cui il cerchio di queste politiche workfaristiche sembra riuscire a chiudersi sia quello recente dei braccianti. Per colmare il vuoto lasciato dagli immigrati stagionali che non possono rientrare in Italia causa coronavirus, c’è chi chiede una qualche regolarizzazione degli immigrati presenti in Italia – non certo per un qualche afflato antirazzista ma perché ritenuti più abituati ai ritmi e alle condizioni di lavoro nei campi – e chi propone invece di inviarci i beneficiari di Naspi o reddito di cittadinanza. Accantoniamo in questa sede la questione di come l’aumento del numero di disoccupati andrà a modificare la gestione dei flussi migratori e quali saranno le conseguenti ripercussioni in termini di conflitti tra manodopera indigena e immigrata. Resta da vedere se questo rimarrà un caso isolato, legato a una contingenza extraordinaria e difficilmente preventivabile, o se invece il notevole aumento di persone senza lavoro, beneficiarie o potenzialmente tali di qualche forma di sostegno al reddito, consiglierà a padroni e governanti di trovare un modo per oliare meglio la macchina workfaristica andando così a spingere ulteriormente al ribasso le condizioni lavorative generali. Sembra in ogni caso difficile ipotizzare che quest’attività possa risolvere i problemi di un numero considerevole di disoccupati, specie quando l’imbuto dell’accesso al lavoro sarà reso ancor più stretto dal processo d’automazione cui abbiamo accennato.

Una dinamica che nel ridurre il numero necessario di braccia e cervelli aumenterà la selezione all’ingresso richiedendo competenze sempre più specialistiche a chi dovrà affiancare le macchine nella loro attività. La mera disponibilità richiesta ai beneficiari di Naspi o reddito di cittadinanza ha quindi un’indubbia funzione disciplinare. Rappresenta quell’accettazione esplicita della propria condizione che è requisito fondamentale per poter entrare, pur restandone ai margini, nel recinto dell’inclusione. L’individuo ideale che l’ideologia workfaristica vorrebbe creare ha le sembianze di un Sisifo che non ha altro orizzonte se non quello di una precarietà che – tra un impiego, una collaborazione e un lavoretto – si ripete eternamente come la propria condizione definitiva.

Con l’ulteriore infoltirsi della schiera di disoccupati, il proliferare di nuove misure di selezione nel mondo del lavoro e l’irrompere di esigenze di natura sanitaria, le politiche workfaristiche sono probabilmente destinate a intrecciarsi ed essere affiancate da altri ordini del discorso e strategie. Alla base delle nuove forme di sostegno al reddito cambierà la logica del do ut des, e non sarà più legata principalmente alla sfera lavorativa: non crediamo insomma che attualmente le autorità abbiano bisogno di far costruire torri per poi farle buttare giù come accadeva in Irlanda ai beneficiari di sussidi durante le carestie del XIX sec.

Un buon esempio della direzione verso la quale potranno essere riorientati i criteri di inclusione può essere il credito sociale cinese. Uno strumento attraverso cui lo Stato, in collaborazione con la piattaforma di e-commerce Alibaba, valuta a chi redistribuire determinati beni sociali e in che misura farlo in base all’affidabilità mostrata dai singoli cittadini. Gli elementi alla base di questa valutazione unitamente ad un’affidabilità diciamo creditizia (pagamento di multe, mutui, bollette etc.) si legano ai più variegati aspetti della vita quotidiana: dall’attenzione nella raccolta differenziata, al tempo passato davanti a dei videogiochi, alle caratteristiche dei propri profili social (con particolare attenzione a possibili commenti sull’operato delle istituzioni naturalmente). A rielaborare questa mole di dati per stabilire il grado di inclusione degli uomini e donne monitorati sono degli algoritmi. È di questi giorni la notizia che anche la mobilità, la possibilità di potersi spostare o viaggiare in tempi di epidemia, dovrebbe rientrare nel paniere di beni da redistribuire in base a queste valutazioni. Consapevoli delle differenze sotto vari punti di vista tra l’Italia, e in generale l’occidente, e la Cina, con questo esempio non vogliamo certo dire che lo strumento del credito sociale verrà mutuato in toto e applicato anche a queste latitudini per delineare i contorni dell’inclusione sociale. Sono diversi però i segnali di come anche qui si stiano riconfigurando in maniera simile il concetto di cittadinanza e parallelamente di nemico: dai criteri sempre più stringenti per poter lavorare in quello che è il comparto pubblico, a una retorica sempre più bellica utilizzata da uomini delle istituzioni per descrivere comportamenti illegali, cui corrisponde un attività legislativa volta a ampliare sempre più la sfera dell’illegalità e estendere l’ombra del carcere ben oltre le mura dei penitenziari con l’aumento di misure limitative della libertà oltre a quelle strettamente custodiali, fino ad arrivare alla recente decisione di negare i buoni spesa a chi è ritenuto colpevole di determinati reati (ad esempio l’associazione a delinquere).

Introiettare una mentalità da Sisifo non è più sufficiente: della società salariale e della coesione sociale che quel mondo riusciva in qualche modo a garantire non resta granché. Con il ridursi del perimetro dell’inclusione sociale i criteri di selezione sempre più stringenti tenderanno a concentrarsi sulla vita quotidiana, nelle sue molteplici manifestazioni.

L’epidemia in corso ci ha catapultato in una situazione che ci sembra renda quanto mai chiare le dinamiche e i criteri relativamente nuovi di selezione che si stanno affermando. Se da un punto di vista strettamente sanitario l’intensità dell’emergenza è certamente proporzionale, come un po’ tutti riconoscono, alla riduzione delle capacità del sistema sanitario nel suo complesso, la speranza che quest’evidenza possa da sola far invertire rotta alle politiche statali in materia è con ogni probabilità destinata a rimanere tale.

Per quanto la natura contagiosa di quest’emergenza sembra possedere una certa capacità di convincimento in questo senso, visto che a livello economico non ci si possono permettere altri lockdown di queste proporzioni e durate, le strategie che verranno adottate ci sembra vadano o almeno proveranno ad andare in altre direzioni, specie in prospettiva. E ruoteranno attorno alla possibilità di permettere a chi ci governa di adottare meccanismi di selezione di chi sarà sacrificabile, in maniera quanto più indolore per il resto della popolazione e soprattutto per le esigenze del Capitale. Meccanismi che andranno a braccetto con i tanto sbandierati test sierologici che affibbiando patenti di immunità di durata e gradi ancora dubbi – veri e propri passaporti da pandemia – , contribuiranno a tracciare una linea d’inclusione su basi genetiche di cui è difficile prevedere gli esiti.

Un criterio di sacrificabilità già adottata del resto, in maniera certo molto raffazzonata per l’impreparazione generale, rispetto a strutture chiuse come le carceri, i Cpr o le Rsa. Se per i primi due la selezione dei sacrificabili è stata operata scegliendo scientemente di far ammalare e nel caso lasciar morire chi si trovava ristretto, guardie comprese, senza adottare strategie alternative per l’importanza strategica e simbolica della carcerazione; nel caso delle Rsa gli anziani e gli operatori sono stati abbandonati al loro destino, dopo che queste strutture sono state riempite di positivi provenienti dagli ospedali, man mano che la coperta si faceva sempre più corta e si è scelto quali porzioni di mondo si potevano lasciar scoperte.

Per affinare questi meccanismi di selezione, oltre a misure e dispositivi materiali efficaci riguardo la necessità di isolare e limitare i movimenti di pezzi della popolazione, sarà necessario costruire un discorso in grado di giustificare e rendere quanto più pacifiche le decisioni adottate. E il discorso neoliberale sulla colpevolizzazione dei poveri, funzionale alle politiche workfaristiche, non sembra del tutto adeguato e con ogni probabilità dovrà essere ricalibrato. A livello di digeribilità sociale un conto è limitare l’accesso a determinati beni e servizi arrivando a causare la morte di chi ne è escluso, come è stato fatto in passato con i tagli alla sanità, un conto invece è isolare e lasciar morire deliberatamente, a causa di un male che per di più minaccia contemporaneamente tutti.

Questo non vuol dire che il taglio delle prestazioni sanitarie smetterà di presentare il suo conto, a cominciare dal collo di bottiglia che si sta già incominciando a intravedere nelle regioni in cui l’emergenza Covid19 ha allentato un po’ la pressione. E in cui l’aver trascurato a livello di cura e diagnosi buona parte delle altre patologie minaccia di produrre conseguenze molto gravi, accentuando le differenze di classe tra chi potrà accedere alle corsie della sanità privata. Emblematico il dibattito che in questi giorni contrappone governo e governatori regionali sul tema sanità: continuare a lasciarla in mano alle Regioni o riportarla sotto l’ala del governo centrale? Un bivio che da una parte conduce a una sanità pubblica uniformemente inadeguata a livello di risorse e dall’altra a un modello federalista in cui alla polarizzazione sociale continuerà ad aggiungersi quella geografica, con Regioni che per la loro fiscalità possono garantire uno standard di servizi un po’ più elevato di altre. Come nel caso del Veneto che si è fatto garante con gli istituti di credito, per l’anticipazione delle casse integrazioni in deroga che a livello nazionale tardano ad arrivare.

Abbandoniamo ora l’ambito sanitario per soffermarci brevemente sul settore dei trasporti pubblici di cui avremo modo di assaggiare a breve le novità. Limitandoci all’ambito urbano, l’unica certezza è che autobus, tram e linee della metro dovranno ridurre notevolmente il numero di viaggiatori per garantire una certa distanza di sicurezza e che questo provocherà enormi problemi man mano che aumenterà il numero di viaggiatori. Che la controparte brancoli nel buio rispetto a come farvi fronte è evidente e il ventaglio di soluzioni di cui si sta discutendo risponde piuttosto all’esigenza di ottimizzare il servizio e riempire per quel che si può ogni singola corsa. Una delle proposte è quella di rendere obbligatoria la prenotazione dei posti e filtrare poi con l’installazione di tornelli chi ha diritto a viaggiare. Elaborando poi i dati di queste prenotazioni, oltre a organizzare le singole corse sarà possibile anche riorganizzare nel suo complesso questa nuova mobilità urbana. Le linee da implementare per soddisfare il maggior numero di prenotazioni e quelle invece da ridurre ulteriormente, tagliando fuori delle zone o almeno degli isolati in cui si è tradizionalmente restii a pagare una corsa, figuriamoci a prenotarla. Una dinamica del resto già in atto, a Torino come in altre città, con la raccolta dati sui viaggiatori paganti garantita dai biglietti bippabili. Facile prevedere poi che le aziende di trasporto, già in rosso da tempo, tenteranno di mettere una toppa alla diminuzione di entrate aumentando prima o poi il prezzo dei biglietti. E già da più parti si ventila l’ipotesi di introdurre “leve tariffarie”, ossia tariffe diverse a seconda degli orari, così da ridurre l’affollamento nelle ore di punta con degli sconti su quelle meno frequentate. E chissà che anche al Ministro dei trasporti nostrano non venga in mente di dichiarare, come il suo collega cileno alla vigilia della rivolta di ottobre, che «chi vuole pagare meno può sempre svegliarsi qualche ora prima, per andare a lavorare». Tra aumento dei prezzi, riduzione strutturale dei posti e selezione di chi si potrà spostare è lecito attendersi che il trasporto pubblico sarà un focolaio di forti tensioni sociali.

Ci sembra superfluo, alla luce del quadro che abbiamo tentato di tratteggiare, soffermarci sulla sensatezza del dibattito tornato prepotentemente alla ribalta in questi giorni su un reddito universale. Indipendentemente dalle varie declinazioni di questa forma di sostegno al reddito – che arriva fino ad esser dipinto come un tassello fondamentale di quel “comunismo di lusso completamente automatizzato” sbandierato in maniera imbarazzante da qualche accellerazionista di sinistra –, l’ipotesi che le autorità assicurino la possibilità di vivere o sopravvivere gratuitamente e indistintamente va nella direzione opposta a quella verso cui ci si era da tempo incamminati e verso cui si sta ora correndo.

Il termine universale, perlomeno nella sua accezione positiva, non solo non è contemplato nelle strategie politiche che daranno forma a questo mondo, ma è destinato a scomparire anche dagli stessi vocabolari cui attinge la retorica politica.

Dietro l’angolo pt.4 – Taglio netto

Prove di lotta ai tempi del corona

Imparare a lottare ai tempi del Coronavirus. Questa l’esigenza al centro del corteo che questa mattina è partito da corso Giulio Cesare 45. Un’esigenza quanto mai impellente viste le crescenti difficoltà economiche che attanagliano tanti e tante, in una spirale che neanche i più ingenui e ottimisti ritengono possa essere fermata dalle iniziative messe in campo dal governo.

Iniziare ad impare a lottare ai tempi del Coronavirus, a partire dal trovare un modo per stare in strada, sentendosi al sicuro da un punto di vista sanitario, e facendo sentire al sicuro chi volesse avvicinarsi. Tutti i manifestanti indossano quindi una mascherina e mantegnono una certa distanza l’uno dall’altro. Chi distribuisce volantini indossa i guanti, e dei pezzi di stoffa usa-e-getta vengono utilizzati per coprire il microfono quando qualcuno vi parla. Attenzioni che accompagnano anche gran parte degli interventi in cui si descrive come comprensibile la paura nello scendere in strada per il timore di contagiare o essere contagiati, ma si ripete con altrettanta insistenza l’importanza di trovare i modi per affrontarla.

Se non ci sono ricette pronte su come fare, per l’assoluta novità di questi problemi epidemiologici, possiamo però esser certi che restare in casa non può essere la soluzione.

Alla lunga, e si tratta di una lunghezza difficilmente misurabile visto che il rischio contagio non sparirà certo con l’inizio della Fase 2 e potrebbero ripresentarsi misure antiassembramento dure a morire, alla lunga, dicevamo, rinchiudersi in questo isolamento e trovarsi da soli a cercar di capire come pagare l’affitto e le bollette, come mettere assieme i soldi per fare la spesa e per tutte le altre esigenze che abbiamo, non farà che aumentare la disperazione e il senso di impotenza.

Rimandare il problema a un futuro quanto mai indefinito non potrà esserci d’alcun aiuto.

Una notevole attenzione e diversi segnali di condivisione e incoraggiamento hanno accompagnato la prima parte del corteo su corso Giulio Cesare fino all’incorocio con corso Palermo. Non appena la manifestazione si è diretta verso corso Vercelli si è trovata alle calcagna alcune camionette della polizia. Allo stesso tempo, alla testa del corteo, è stato sbarrato il passo da un numero ancor più ingente di blindati: alcuni manifestanti sono riusciti a sfuggire alla morsa della polizia e una trentina sono invece rimasti intrappolati. Una trappola che ha fatto saltare tutte quelle misure di distanziamento messe in campo fino ad allora e che ha attirato l’attenzione di numerosi uomini e donne affacciatisi ai balconi e alle finestre per vedere cosa stava accadendo. Dopo un tentativo tanto goffo quanto inutile di portar via microfono e impianto, la polizia si è limitata ad accerchiare i manifestanti mentre altri celerini davano intanto la caccia alle persone sfuggite al fermo. Una situazione di stasi, durata un paio d’ore, che è stata l’occasione per parlare della situazione che stiamo vivendo con i tanti rimasti affacciati ai balconi e con quelli scesi in strada.

Le sensazioni avute in precedenza si sono ulteriormente consolidate in questo imprevisto presidio in corso Vercelli. Dai pollici in alto mostrati da chi non si sentiva di fare di più, agli espliciti applausi provenienti da diverse finestre e balconi, a quanti in strada hanno sfidato il fare minaccioso dei celerini per lanciare delle bottiglie d’acqua o delle merendine o si sono uniti ai tanti cori che intramezzavano gli interventi al microfono. Una solidarietà palpabile che ha permesso di comprendere un po’ meglio l’aria che tira in quartiere, di cui si era già avuto un assaggio domenica scorsa.

Un’aria di cui devono essersi rese conto anche le forze dell’ordine che dopo un primo approccio muscolare hanno optato per una linea più soft, anche se i continui battibecchi tra i dirigenti di piazza mostrano che evidentemente non tutti erano d’accordo. Non accollandosi di caricare tutti di forza sui furgoni e non sapendo bene che pesci pigliare, i questurini hanno alla fine proposto ai manifestanti di lasciarli andar via a gruppi di cinque, distanziati gli uni dagli altri di qualche metro. Le persone bloccate hanno rilanciato chiedendo il rilascio delle due persone fermate nel trambusto e durante le cariche, condizione accettata. Avuta la sicurezza che i due fermati erano liberi, il presidio è tornato ad essere un lungo serpentone, che si è diretto verso corso Giulio Cesare 45, non prima di aver salutato gli uomini e le donne solidali con cui per qualche ora si è condivisa quest’inaspettata esperienza.

Occorrerà continuare a parlarsi e sperimentare forme di lotta in grado di contrastare la miseria che ci si para davanti senza però incrementare il rischio contagio. La manifestazione di oggi è stato un primo tentativo, di certo non esauriente. Una cosa però si respira nell’aria…il coraggio e la voglia di lottare potrebbero diventare contagiose.

 

Prove di lotta ai tempi del corona

Profezie virali

In un sito che non si occupa di medicina né di critica sociale, ma di filosofia ed estetica, è uscito, a marzo, un singolare articolo che, partendo dal film L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gillian, arriva alla gestione dell’attuale epidemia da coronavirus. L’autore sviluppa dei ragionamenti che ci sono sembrati interessanti sulle pretese predittive della scienza e sul loro uso politico. Ve lo proponiamo.

Profezie virali

di Diego Ianiro

(25 marzo 2020, antinomie.it)

1.

Voglio che il futuro rimanga un mistero[1]

(James Cole/Bruce Willis – 12 Monkeys)

12 Monkeys è un’opera che, nella pur complessa produzione di Terry Gilliam, supera Brazil per densità di temi affrontati e per la raffinatezza con cui vengono consapevolmente confezionati per il circuito mainstream. Grande metafora della malattia mentale e dei sistemi preposti al suo riconoscimento e contenimento, il film fa scorrere ed elabora su questo binario principale una serie di problemi a volte antinomici, come l’aleatorietà della rudimentale tecnica del time travel ivi adottata in confronto all’irrimediabile stabilità del principio di autoconsistenza di Novikov, che riescono soprendentemente a intrattenere lo spettatore: senza restare in sottotraccia, tali questioni si incastrano perfettamente nel tessuto narrativo fantastico in cui la minaccia che governa la storia, a ben vedere, non è mai davvero resa visibile. Con ciò viene tra l’altro rispettata, evidentemente, la peculiarità stessa di una minaccia virale, vale a dire il suo essere empiricamente rilevabile, a un livello sensoriale brutalmente immediato, solo a partire dagli effetti del suo passaggio – quindi solo ed esclusivamente dopo il suo effettivo avvenimento.

È in questa stratificazione tematica dei contenuti – dunque non per l’aspetto formale/produttivo – che il film travalica ampiamente i limiti (voluti) dell’opera di Chris Marker da cui trae ispirazione, laddove il non visibile e il non rappresentato non riguardano (solo) la minaccia futura – che infatti non è di natura virale, ma bellica – ma l’intera struttura della pellicola, «un photo-roman» in cui la continuità dell’immagine-movimento, l’effetto di realtà, viene discretizzata in intervalli fotografici che lasciano allo spettatore il compito ermeneutico di “riempire” la storia. Se questo non avviene nel film di Gilliam, se tutte le tematiche – a eccezione, appunto, dello stesso contagio virale – vengono esplicitamente mostrate a incastro, è anche e soprattutto grazie al lavoro di sceneggiatura di David e Janet Peoples, la cui production draft risale al 27 giugno 1994.

Scorrendo la sceneggiatura ci si imbatte in quelle battute della dottoressa Kathryn Railly, riprese poi integralmente nel film, che in modo forse stucchevolmente didascalico richiamano il mito di Cassandra alla platea riunita in occasione della presentazione del suo libro:

Cassandra, lo ricorderete dalla mitologia greca, era condannata a conoscere il futuro ma anche a non essere creduta, e di conseguenza all’angoscia della preveggenza si aggiungeva l’impotenza di fronte agli eventi.[2]

La battuta immediatamente successiva tocca invece al Dr. Peters, il personaggio che solo alla fine del film (qui siamo ancora intorno alla metà) si scoprirà essere il reale responsabile del futuro, apocalittico contagio virale. Nella calca che circonda Railly per farsi autografare una copia del libro, Peters si rivolge all’indaffarata e distratta dottoressa con le seguenti parole:

Il suo discorso ha peggiorato la già cattiva reputazione degli allarmisti. Esistono dati reali che confermano che la sopravvivenza della terra è compromessa dagli abusi della razza umana. La proliferazione dei dispositivi nucleari, i comportamenti sessuali smodati, l’inquinamento della terra, dell’acqua, dell’aria, il degrado dell’ambiente… in questo contesto non le sembra che gli allarmisti abbiano una saggia visione della vita, e il motto dell’homo sapiens “andiamo a fare shopping” sia il grido del vero malato mentale?[3]

La scena si svolge in un ipotetico 1996 ed è stata scritta nel 1994; indipendentemente dal suo presunto quanto volontario profetismo, ex post potenziale pane per le teorie del complotto più ardite, si tratta certamente di una delle battute più importanti del film, quella in cui si svelano le motivazioni ideologiche che hanno fatto agire la mano dietro il contagio, la mano che il protagonista non riuscirà a fermare ma che, come nel più classico degli stilemi tragici, contribuirà indirettamente ad armare.

Quando L’esercito delle 12 scimmie venne distribuito in Italia avevo da poco compiuto diciotto anni, ricordo di averlo visto con un amico in una sala semivuota di provincia, primo pomeriggio, ricordo un senso di disagio che mi restò attaccato addosso per ore. In seguito l’ho rivisto altre volte, sempre tendendo a ridimensionarlo nel suo contesto storico, focalizzando l’attenzione sul montaggio e le inquadrature, tralasciando la storia, ormai nota. In breve, distratto come Reilly mentre le viene rivolta la battuta decisiva. Qualche sera fa, chiuso in casa e a letto, dopo il lavoro e nel rispetto dei decreti emergenziali, ho deciso di rivederlo assecondando il desiderio latente di omaggiare quel particolare settore della fantascienza che da decenni ci intrattiene con il brivido pandemico. E, dopo anni, complice forse la prossimità emotiva con gli eventi narrati nella finzione spettacolare, sono riuscito a seguire nuovamente la storia e ad accorgermi di come la forma con cui Railly richiama il mito di Cassandra sia volutamente didascalica, dal momento che, tra tutti gli altri, il «Cassandra Complex» è il tema centrale del film.

Ciò appare evidente allorquando il protagonista, sopraffatto dall’irrimediabilità degli eventi, tenta di abdicare alla realtà auspicandosi che la sua condizione sia davvero il frutto di una patologia mentale, e che il futuro non sia altro che una proiezione da essa derivata: «I want to become a whole person. I want this to be the present». E l’unico modo per essere una persona intera, l’unica condizione possibile per vivere il presente, è che il futuro rimanga inconoscibile.

2.

Se gli uomini definiscono come reali certe situazioni, esse sono reali nelle loro conseguenze[4]
(William Isaac Thomas e Dorothy Swaine Thomas, The child in America: Behavior problems and programs)

Facendosi interprete della cospicua tradizione greco-latina inerente alla leggenda della profetessa, Igino sintetizza così la maledizione di Cassandra nelle sue Fabulae: «cum vera vaticinaretur, fidem non haberet». Da questa formula appare chiara una questione fondamentale: ciò su cui Cassandra non viene creduta è il vero, non il probabile. La capacità predittiva di Cassandra, in quanto relativa a eventi certi del futuro, eventi la cui certezza non può mutare e non può essere messa in discussione, è potentissima e impotente a un tempo, dal momento che non può essere utilizzata in alcun modo. Del resto a cosa servirebbe, se gli eventi non possono comunque essere modificati in quanto veri nel futuro?

Il genio del mito greco coagula nella figura di Cassandra un paradosso fondamentale: il controllo degli eventi e la loro gestione futura è possibile solo a partire dal probabile e dal verosimile, che necessariamente non è e non sarà mai il vero, il reale. E in occidente per molti secoli l’unico antidoto a questo paradosso, al netto delle indiscutibili verità rivelate dalla successiva tradizione cristiana in pari con la stringente ratio della dialettica, sarà la conoscenza storica, la conoscenza degli eventi passati come faro interpretativo del presente a sostegno delle azioni da compiere per il futuro. Detta nella celebre formula ciceroniana: «historia vero… lux veritatis… magistra vitae» (De oratore, II, ix, 36).

La fede generalizzata nelle capacità predittive delle analisi quantitative e dei modelli matematici nelle scienze della gestione e dell’amministrazione sociale, i cui albori sono rintracciabili nell’aritmetica politica del XVII secolo, finisce per scalzare definitivamente quella nella storia, intesa come catalogo di esperienze teoricamente ripetibili e sempre valide, solo nel contesto tardo-positivista. Un’opera come Das Kapital, per dirne una, sarebbe infatti inconcepibile fuori da questo processo, basti pensare a un concetto chiave come la caduta tendenziale del saggio di profitto. La stessa strategia politica del novecento finisce per adattarsi alla statistica inferenziale indipendentemente dalla sua natura ideologica, anzi, in particolare a supporto di quest’ultima.

Ferma restando la natura del tutto ipotetica di questo folle excursus, che necessiterebbe di tempi e luoghi adeguati, si potrebbe ragionevolmente affermare che alla predittività oracolare e numinosa del mito greco come supporto alle decisioni politiche e amministrative è stata sostituita, nel corso di oltre due millenni, quella della statistica inferenziale. Entrambe sono accumunate dall’idea di probabile e di verosimile, tuttavia entrambe portano inesorabilmente a cedere alla tentazione di appiattirli sul vero, sul reale: da un lato, infatti, la predittività è funzione del sacro, dall’altro essa è funzione della verificabilità empirica, due ambiti ai quali, anche se con modalità diversissime, pertiene l’assenza di fallacia. Ciò invece non accade per la predittività fondata sulla historia, il cui motore analogico è pur sempre umano e, in quanto tale, fallibile.

Succede così che lo scarto tra vero e verosimile, tra probabile e reale tenda ad assottigliarsi fino a sparire nelle analisi predittive basate su modelli matematici, vale a dire in quella che volgarmente chiamiamo scienza e alla quale affidiamo la definizione stessa della realtà. Ciò però non avviene tanto da parte di chi la scienza la fa, da parte degli oracoli che conoscono benissimo il carattere probabilistico della definizione di alcune situazioni, nonché l’eventualità dei mutamenti paradigmatici sempre dietro l’angolo; avviene soprattutto da parte di chi interpreta il dato scientifico per prendere decisioni, affidando acriticamente al primo la responsabilità delle seconde. È in questa dinamica che una situazione definita come reale sarà reale nelle sue conseguenze, come il teorema di Thomas insegna. Contravvenendo al paradosso di Cassandra, nel quale il carattere vero/reale della profezia non può in alcun modo operare nel presente, il carattere probabilistico della predittività scientifica, interpretato come vero/reale da chi prende decisioni operative in base ad essa, diventa reale nelle sue conseguenze sul presente.

3.

L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha [sic] permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane
[Annalisa Malara intervistata da Giampaolo Visetti – la Repubblica, 6 Marzo 2020]

Il 22 Gennaio 2020, con circolare n. 1997 avente come oggetto Polmonite da nuovo coronavirus (2019 nCoV) in Cina, il Ministero della Salute italiano fornisce le prime disposizioni ufficiali sull’epidemia di Wuhan da quando è stata riconosciuta come tale (31 dicembre 2019); l’Allegato 1 del documento indica i tre criteri secondo i quali è possibile segnalare i casi sospetti di infezione; tra questi, solo il secondo lascia aperta la possibilità di considerare infetto un paziente «senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio». Cinque giorni dopo, con nuova e omonima circolare, nella sezione Definizione di caso per la segnalazione questo punto salta completamente; i casi da considerare restano quindi solo due (A e B), entrambi associati a contatti diretti con aree contaminate della Cina o alla frequentazione di soggetti già contaminati[5].

Nella circolare del 31 Gennaio, lo stesso giorno della “Dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, la Definizione di contatto a rischio riguarda solo chi è entrato in contatto con un caso di infezione confermato. Tale definizione resta operativa almeno fino al 20 Febbraio, giorno della conferma del cosiddetto “paziente uno” di Codogno. Ciò significa che, prima di quella data, sarebbe stato possibile somministrare un tampone esclusivamente a chi fosse rientrato nei criteri A e B di cui sopra o a chi fosse stato in contatto con un caso di infezione confermato.

Solo aggirando lo stesso protocollo sanitario è stato dunque possibile effettuare il tampone che ha portato alla scoperta del “paziente uno”, come spiega l’anestesista che lo propose:

Lei non è un’infettivologa: perché il caso è stato affidato a lei?

Il paziente e tutti noi siamo stati salvati da rapidità e gravità dell’attacco virale. Dalla medicina è arrivato in rianimazione. Quello che vedevo era impossibile. Questo è il passo falso che ha tradito il coronavirus. Giovedì 20, a metà mattina, ho pensato che a quel punto l’impossibile non poteva più essere escluso.

Cosa ha fatto?

Ho chiesto un’altra volta alla moglie se Mattia avesse avuto rapporti riconducibili alla Cina. Le è venuta in mente la cena con un collega, quello poi risultato negativo.

Il tampone è stato immediato?

Ho dovuto chiedere l’autorizzazione all’azienda sanitaria. I protocolli italiani non lo giustificavano. Mi è stato detto che se lo ritenevo necessario e me ne assumevo la responsabilità, potevo farlo.

Vuole dire che il paziente 1 è stato scoperto perché lei ha forzato le regole?

Dico che verso le 12.30 del 20 gennaio [in realtà è febbraio, si tratta di una svista] i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva.

Tarati sull’interpretazione dei dati scientifici (che potremmo tradurre con “è altamente improbabile la presenza di un focolaio endogeno senza una fonte infettiva esterna alla quale ricondurlo con chiarezza”), i protocolli sanitari adottati “in stato di emergenza” hanno fallito completamente l’obiettivo, e nei giorni immediatamente successivi alla scoperta del “paziente uno” la macchina procedurale ha continuato sulla stessa strada ricercando spasmodicamente un fantomatico “paziente zero” che confermasse quanto imponeva la predittività di quegli stessi dati – presa per realtà. Mentre con ogni probabilità il virus circolava in soggetti asintomatici e/o con sintomi non gravi già da settimane.

4.

Quello che chiamiamo “paziente uno” era probabilmente il “paziente 200”.[6]

Nella pretesa di controllare l’espansione del contagio sulla base di un modello proiettivo dal quale è stata completamente rimossa la componente probabilistica, il dato percentuale dei pazienti asintomatici – così come fornito dalle rilevazioni effettuate in Cina – è stato trascurato in quanto fuori dal presupposto iniziale (quello di una fonte chiaramente individuabile). Cosa che ha portato in brevissimo tempo a tre conseguenze:

  1. la rapida espansione del contagio, non essendo stato possibile un campionamento degli asintomatici;

  2. un tasso di mortalità decisamente superiore a quello riportato in Cina, in primo luogo perché la percentuale viene calcolata sui tamponi effettuati, la stragrande maggioranza dei quali proveniente da pazienti sintomatici;

  3. l’esposizione al contagio dell’intero personale sanitario, i cui protocolli non contemplavano inizialmente i casi asintomatici e/o lievi e che si è così trasformato in amplificatore involontario dell’infezione.

L’effetto paradossale di questo processo è che lo “stato di emergenza” preventivo su una minaccia considerata più grave di quanto forse non fosse ha avuto come conseguenza la realtà di un’emergenza sanitaria grave alla quale è seguita un’emergenza sociale. A cascata, il tentativo di controllare l’espansione epidemica su una situazione definita come reale – ma che era già ampiamente fuori controllo[7] – ha generato conseguenze reali nella vita dei cittadini attraverso la pesante restrizione delle libertà individuali disposta, de facto in temporanea deroga alla carta costituzionale, dai decreti del Presidente del Consiglio e le ordinanze dei governatori regionali.

Non è tanto nelle singole responsabilità politiche o tra i presunti decisori occulti, quanto nell’illusione di controllo fornita dalla fede nelle proiezioni statistiche che bisognerà andare a indagare quando ci interrogheremo sull’adozione coatta dei dispositivi coercitivi in cui ci troviamo. Senza mai dimenticare, come James Cole, che un futuro sconosciuto è sempre preferibile a un futuro prevedibile o, peggio, già previsto.

PS: per tornare alla historia, si può sempre trarre beneficio dal Consilio contro la pestilentia di Marsilio Ficino:

[175] Non si debbe mangiare o bere con vasi da morbati, né tocchare cosa che tocchino loro. Debbesi viver lieto, perché la letitia fortifica lo spirito vitale; vivere continente et sobrio, perché la sobrietà et continentia del vivere è di tanto valore che Socrate philosopho, con questa sola, si conservò in molte pestilentie extreme che furono nella citta d’Athene.

[25 marzo 2020]

[1] «I want the future to be unknown» (si riporta qui la versione del doppiaggio italiano).

[2] «Cassandra, in Greek legend you will recall, was condemned to know the future but to be disbelieved when she foretold it. Hence, the agony of foreknowledge combined with impotence to do anything about».

[3] «I think, Dr. Railly, you have given your alarmists a bad name. Surely there is very real and very convincing data that the planet cannot survive the excesses of the human race: proliferation of atomic devices, uncontrolled breeding habits, the rape of the environment, the pollution of land, sea, and air. In this context, isn’t it obvious that “Chicken Little” represents the sane vision and that Homo Sapiens’ motto, “Let’s go shopping!” is the cry of the true lunatic?».

[4] «If men define situations as real, they are real in their consequences». [William Isaac Thomas e Dorothy Swaine Thomas, The child in America: Behavior problems and programs, New York 1928, p. 572]

[5] Ivi, Allegato 1: A. Una persona con Infezione respiratoria acuta grave […] (febbre, tosse e che ha richiesto il ricovero in ospedale), E senza un’altra eziologia che spieghi pienamente la presentazione clinica […] E almeno una delle seguenti condizioni: -storia di viaggi o residenza in aree a rischio della Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia; oppure – il paziente è un operatore sanitario che ha lavorato in un ambiente dove si stanno curando pazienti con infezioni respiratorie acute gravi ad eziologia sconosciuta. B. Una persona con malattia respiratoria acuta E almeno una delle seguenti condizioni: -contatto stretto con un caso probabile o confermato di infezione da nCoV nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia; oppure -ha visitato o ha lavorato in un mercato di animali vivi a Wuhan, provincia di Hubei, Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia; oppure -ha lavorato o frequentato una struttura sanitaria nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia dove sono stati ricoverati pazienti con infezioni nosocomiali da 2019-nCov

[6] [Fabrizio Pregliasco in Jason Horowitz, Emma Bubola e Elisabetta Povoledo, Italy, Pandemic’s New Epicenter, Has Lessons for the World, in The New York Times, 21 marzo 2020]

[7] Una ricerca pubblicata il 20 marzo sembra confermare la diffusione del virus in Lombardia già a gennaio.

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