Il colera avanza…

La stampa ha aperto una nuova rubrica. Accanto a quelle degli Incendi, degli Assassinii, dello Sport e dei Teatri, sorge terrificante: Il Colera.

La tragica avanzata dell’epidemia è seguita passo passo e i cadaveri che essa semina sulla sua strada sono ansiosamente contati. La paura ne fa moltiplicare il numero in modo fantasmagorico, allorché la prudenza ne fa nascondere il quantitativo, con un calcolo ridicolo.

Tutti i giorni, vi sono centinaia di morti.

Da Manila a Pietroburgo, attraverso l’Asia intera, la Cina e la Siberia, il flagello entra nel cuore dell’Europa. Traverserà le acque del Pacifico, guadagnando quelle dell’Atlantico, disdegnando di percorrere lo stretto sentiero di Panama per prendere la grande strada delle terre, allo scopo di ammucchiare cadaveri su cadaveri? Nessuno lo sa.

Tutti i giorni vi sono centinaia di morti. Cos’è questo se non l’olocausto pagato al mostro per soddisfare la sua fame di morte, la sua sete di vendetta? Ma questo lavoro di necrofilo non interromperà la sua marcia. Esso va, va…

Il colera avanza.

Allora, coloro che sono felici, coloro che per assicurarsi la loro felicità giocano con la vita degli altri, coloro per cui la sofferenza degli altri, i mali degli altri non contano, costoro sono presi dalla paura.

Davanti ai soliti disastri, l’epidemia ordinaria, il ricco fugge lasciando la città attaccata in preda al flagello. Ma il colera avanza, avanza sempre e, se va lentamente, procede sicuro. Fuggire davanti ad esso, non è che ritardare l’istante in cui vi prenderà allo stomaco, per portarvi alla morte.

E dove scappare, d’altronde? Se esso è dietro di noi, verso Pietroburgo, non è anche davanti a noi, verso Manila? E se non gli costa niente attraversare gli immensi deserti di terra del Gobi e della Siberia, che gli costerà superare gli immensi deserti di mare del Pacifico?

Il colera avanza… bisogna dunque arrestarlo.

Uno strano desiderio di solidarietà nasce da questa paura e da questo bisogno. Gli uomini sentono infine che sono uomini, e che non vi è ricco e povero di fronte a questo nemico del genere umano, di fronte al colera.

L’indifferenza del ricco si fonde, davanti alla prova comune, con la debolezza del povero.

I fortunati si accorgono d’un tratto che vi sono dei disgraziati che vivono dei resti della loro tavola, delle briciole della loro felicità. Si accorgono che accanto ai loro palazzi, alle loro ville, alle loro confortevoli dimore, vi sono dei tuguri, delle capanne, delle caserme, in cui si intasa il resto dell’umanità. Si accorgono che il loro lusso è pagato dalla miseria altrui.

Essi hanno paura… e capiscono, di colpo, che una solidarietà li lega agli altri uomini, che sono qualcosa solo per essi, e che lo stesso male che uccide il povero ucciderà anche loro senza pietà…

E il ricco preoccupato sente il suo cuore aprirsi alla pietà, sanguinare alla vista del dolore del povero.

I giornali ci dicono che a San Pietroburgo “è stata aperta una sottoscrizione nazionale, e i crediti che permetterà di realizzare saranno impiegati per dare ai poveri della città un nutrimento più sano e dell’acqua bollita”.

Amara ironia… Il ricco che non ha saputo consacrare qualche istante della sua vita per preservarsi, si sente minacciato nella sua stessa vita se non partecipa alla difesa contro il male che prende tutti.

La solidarietà lega gli uomini attraverso le frontiere della fortuna, le demarcazioni delle patrie, gli odi delle razze. E quel patriota che ride della fame in Indocina, quel cattolico romano che gioisce delle persecuzioni che si abbattono sulle razze semitiche, quel ricco indifferente al male della fame e del freddo che distrugge il suo vicino, tutti sono obbligati a riconoscersi solidali con coloro il cui dolore non li interessava.

La fame ha portato gli Indiani a gettarsi su innominabili rifiuti e il colera li ha presi; i Semiti, scacciati dalla persecuzione, hanno trasportato il male e i Poveri, al di fuori di tutte le leggi dell’igiene, sono stati, rapidamente, il terreno di coltura che ha permesso al male di espandersi in pieno nelle città civilizzate.

Questa solidarietà mostra tutta la debolezza, tutta la menzogna dell’attuale società; di questa organizzazione in cui si pensa di potersi occupare solamente del benessere di una minoranza, senza pensare che anche al di fuori dei processi rivoluzionari, le leggi di affinità rendono comuni, un giorno o l’altro, i mali che colpiscono la maggioranza.

E tuttavia, trovo che il tributo pagato dall’umanità sia stato abbastanza leggero. Vorrei che vi fossero più morti e che il mostro fosse più insaziabile di vite umane.

Il colera avanza…

E tuttavia, trovo che va molto lentamente, troppo lentamente, e, costi quello che costi, vorrei vederlo passare attraverso quella Germania militarista e questa Francia coccardiera che gioiscono anche adesso dei recenti successi delle differenti manovre.

Sì, vorrei che la lezione fosse più crudele ancora e che, davanti al male terrificante, gli uomini apprendessero infine che devono utilizzare tutte le loro forze, tutte le loro possibilità per lottare in comune associazione contro la natura per il più grande benessere di tutti.

Sì, vorrei che gli uomini comprendessero che non è possibile disinteressarsi del male di alcuno e che un’organizzazione sociale in cui qualcuno è dimenticato porta in sé la fessura che scuoterà tutto l’edificio.

Governanti, economisti e politici, finanzieri e legislatori, voi avete scatenato il colera sull’umanità: sono le vostre cattive leggi, è la vostra avidità di guadagno, il vostro desiderio di godimento mai sazio che fanno sì che milioni di uomini siano la preda designata dell’epidemia.

Sfruttati economicamente, pecoroni polizieschi, operai ed elettori, voi avete scatenato il colera sull’umanità: è la vostra tacita accettazione, la vostra passività di fronte allo sfruttamento, la vostra rassegnazione davanti alla sofferenza, davanti alla miseria, il vostro consenso all’abiezione e alla sporcizia che fanno di voi tutti il campo in cui scorazzeranno presto i corvi della morte.

Il colera avanza…

E che, è dunque così temibile, questo bacillo, che gli uomini tremano di paura quando lo si evoca?

Sì, è temibile e sarà temibile fintanto che le forze umane si consacreranno a togliersi l’un l’altro il pane necessario, a disputarsi la loro parte di felicità e di vita.

Sarà temibile fintanto che gli uomini saranno divisi da forze contraddittorie che lottano fra esse: fintanto che vi saranno Tedeschi e Francesi, Russi e Giapponesi; fintanto che vi saranno padroni ed operai, ricchi e poveri.

Sarà temibile fintanto che gli uomini useranno la loro vita per costruire fucili, sciabole e cannoni per lottare contro altri uomini; fintanto che le donne sapranno da altre persone delle minaccie di guerra o dei corsi delle borse finanziarie. Allorché questi uomini potranno lottare contro il male aumentando la ricchezza di tutti; allorché queste donne potranno dedicarsi ai fanciulli per farne uomini sani e robusti; gli uni e le altre potranno conoscere ed applicare le leggi dell’igiene che li preserveranno dagli attacchi del male.

Perché questa lezione sia proficua, per dimostrare a chiare lettere a tutti l’atrocità delle leggi sociali ed economiche, l’assurdità criminale della proprietà e del salario, la menzogna del patriottismo e delle religioni, non sono sufficienti le molte migliaia di cadaveri sparsi nei campi di battaglia e durante gli scioperi; non sono sufficienti le tante vittime delle rivoluzioni e del grisù; non sono sufficienti nemmeno le migliaia e migliaia di esseri umani uccisi sotto i continui e atroci attacchi della miseria…

… Tutto questo non basta, oh povero, per vincere la tua passività, la tua rassegnazione; oh ricco, per vincere la tua arroganza, la tua lussuria e i tuoi appetiti…

… Ebbene sia,… che il colera avanzi…

Che avanzi presto attraverso l’Europa corrotta dal lusso e dalla miseria, che si apra varchi attraverso l’umanità; che svuoti i palazzi e le capanne sotto i suoi terribili attacchi …

… Allora, può essere, gli uomini si ricorderanno che sono uomini e agiranno come uomini; allora solamente, consacrando tutto il loro spirito, tutte le loro forze contro il comune nemico, scacceranno il male e potranno conoscere la felicità.

Il colera avanza…

24 settembre 1908

 

Tratto da.

Il culto della carogna 

di Albert Libertad

 

Il colera avanza…

 

Il senso della critica in epoca d’epidemia – e non solo

La critica oggi

Ovunque sentiamo parlare di unità nazionale. Insieme si vince.

Un’idea fertile del movimento anarchico, a livello storico, è stata piuttosto che non ci fosse vittoria da ottenere ma un continuo tendere alla libertà ed alla perfettibilità delle relazioni sociali e che all’unità fosse preferibile l’ordine sparso dei desideri e delle passioni.

Eppure, come far sopravvivere in questi tempi uniformanti queste idee? Solo con la critica è possibile ciò. Ma cos’è la critica?

Riprendendo Bonanno, nella critica verso chi condivide parte di una strada con noi occorrerebbe tenere a mente che: “critichiamo costruttivamente tutti coloro che si attardano su posizioni di compromesso col potere o che ritengono ormai impossibile la lotta rivoluzionaria.”

Ora, dando per scontata la buona fede di chi lotta, all’interno dell’ambiente anarchico ci sono molte visioni e sfaccettature di cosa significhi una posizione di compromesso col potere o di cosa si intenda per lotta rivoluzionaria. Appare chiaro come a seconda delle visioni e delle riflessioni riguardo a questi concetti altre posizioni e tensioni appaiano manchevoli.

Quindi, in primo luogo, nelle nostre critiche reciproche dovremmo essere in grado anche di enunciare e chiarificare cosa significano per chi scrive la critica quei concetti e come noi abbiamo interpretato nel testo che leggiamo e stiamo criticando quei concetti.

Tuttavia, in primo luogo, dovremmo tenere a mente la prima parte della frase di Bonanno: cosa significa criticare costruttivamente? Noi non critichiamo costruttivamente lo Stato, ma lo critichiamo con l’attacco. Non critichiamo costruttivamente gli autonomi, perché essi non si attardano in posizioni di compromesso con il potere, essi sono un potere (o quanto meno vorrebbero divenirlo), e perciò vi è una distanza con loro tale che nulla può e vuol colmarla.

Quindi, in primo luogo, dobbiamo trovare un senso al concetto di critica costruttiva, un senso nuovo che abbia un significato nel mondo di relazioni differente creato dalla virtualità diffusa. Come confrontarsi con l’aumento straripante dell’anonimato a firma di certuni scritti? Non che sia un male, è solo una trasformazione del modo di rendere pubbliche le riflessioni o di avere dibattiti e confronti. Magari una volta avvenivamo maggiormente di persona oppure su determinati giornali che permettevano meglio di ricostruire i percorsi linguistico-significativi. Su un sito internet contenitore, invece, ogni testo è a se, senza retroterra, ed ogni termine deve essere risignificato continuamente. A meno che non riusciamo ad intuire chi ha scritto il testo, operazione sbirresca che punta a rompere il velo del voluto anonimato ma che ci aiuta talvolta a comprendere il senso e la logica di determinati testi reinserendoli in un (presunto) contesto di vita, lotta e pensiero.

Con cosa ci troviamo invece a confrontarci oggi? Giudizi abbozzati ed arroganti su chi scrive e non su cosa è scritto; non critiche al vetriolo in grado di scalfire le autogiustificazioni o le costruzioni traballanti di idee e concetti ma soliloqui dettati dalla noia o dal desiderio di mostrarsi più “sul pezzo” o più “compagn*” in assoluto.

Oppure si percepisce, nel modo in cui sono scritte determinate cose, come avviene in uno degli ultimi testi apparsi su Macerie, una certa superficialità e supponenza riguardo a chi sceglie per la propria lotta di esprimere le idee in un determinato linguaggio particolarmente immaginifico:

“In genere o si tende a essere schiacciati dal polo della necessità, diventando più realisti del re, e nella migliore delle ipotesi invocando un “ritorno al passato” in cui il welfare state “funzionava meglio”, o ci si balocca a parlare di autonomia e di ignoto non tenendo minimamente in conto la sfera della necessità che, piccolo problema, è quella grazie a cui si può campare.”

Appunti sull’epidemia in corso

Partendo da queste riflessioni metodologiche sul senso della critica, e sperando di non ricadervi dentro dalla finestra, provo a sviluppare alcune riflessioni sull’ultimo testo citato, Appunti sull’epidemia in corso, a firma “alcuni compagni, in parte redattori del blog e in parte no”

Preservarsi?

“Tentare, nel possibile, di analizzare correttamente il fenomeno ha sia delle ricadute etiche che strategiche: da un lato non possiamo contribuire a mettere in pericolo altre persone e possibili complici davanti al rischio di contagio. Non possiamo ammalarci noi, compagne e compagni, che già siamo pochi e con energie risicate. Non possono ammalarsi e morire i nostri possibili complici…che si ammalino i ricchi, i governanti e i padroni, come minimo. Dall’altro dobbiamo cercare di capire come si evolverà passo passo la situazione e gli scenari che potrebbero verificarsi.”

Esiste una propaganda martellante per quel che riguarda cosa questo virus sia. Propaganda scientifica quindi, ipso facto, incerta e variabile nel tempo a seconda che determinate tesi acquistino consenso nel mondo scientifico (ebbene si, funziona per consenso la verità scientifica).

In questo paragrafo, a mio avviso, vengono riproposte due idee infauste: la responsabilità dei singoli individui nella propagazione del virus e la paura rispetto al contagio.

Un virus non si propaga perché entriamo in contatto con un virus, ma con un’insieme di virus, ovvero una concentrazione (carica virale) di virus. Inoltre, non è che ad un determinato livello di carica virale corrisponde conseguentemente l’infezione: una persona immunodepressa sarà sensibile ad una carica virale più bassa, mentre una persona fatta diversamente sarà sensibile ad una carica virale più alta. In ogni caso è un fenomeno probabilistico, non deterministico. Se vengo sottoposto nell’istante t1 e t2 alla stessa carica virale, le variabili sono talmente diverse che i risultati non sono spesso prevedibili. Pensiamo a quanto sia difficile dimostrare per via giudiziaria che è l’amianto dell’eternit a causare il tumore ai polmoni (e quindi i processi finiscono in assoluzione) mentre oggi siamo massicciamente ritenuti individualmente responsabili – quindi causa – di aver fatto ammalare altre persone….

In questo periodo sta entrando nel dibattito francese il problema del validismo. Ora, cosa cambia la situazione odierna dal dare un volantino ad un 70enne l’anno scorso senza esserci lavati le mani? Oppure dal prendere quotidianamente la macchina? Sappiamo che anche il virus influenzale uccide, e le polveri sottili fanno molti morti ogni anno.

Questo non vuol dire disinteressarsi ed appositamente infettare le persone. È giusto decidere di isolarsi se si vuole essere sicuri di non infettare nessuno. Lo scenario più probabile, tuttavia, è che buona parte di noi è già entrata in contatto con il COVID nella sua forma asintomatica e probabilmente lo ha già trasmesso all’interno del nucleo famigliare o di un’assemblea.

Inoltre la questione centrale da affrontare è quella riguardante il rischio. Esso è ineliminabile, se non nell’inazione. Quindi va bene interrogarsi a riguardo, ma anche solo fino ad un certo punto.

Noi compagni possiamo ammalarci, ebbene si. Anche perché forse si innescano i processi di immunità naturale, o forse no, il mondo scientifico è in subbuglio. Se la dinamica epidemiologica fosse come quella della Spagnola, che solo alla terza ondata cominciò ad ammazzare persone giovani ed in salute (ma poi fu il virus della spagnola o le condizioni sociali e psicofisiche prodotte dalla prima guerra mondiale?), datemi un ammalato da abbracciare. Per giunta, oggi come oggi, forse la prima cosa da esorcizzare è proprio la paura.

Dirò di più, come compagni possiamo anche venire arrestati, o morire. Conservare le forze non è una soluzione, conservarle fino a quando? Una volta discussi con delle persone di Lotta Comunista che mi dissero: “I compagni non devono farsi arrestare, serviranno il giorno della rivoluzione.”

Ebbene, io penso che il rischio debba essere accettato, non rifuggito: di ammalarsi, di venire arrestati, di morire. Certo, è chiaro che dobbiamo cercare di minimizzarlo, ma dobbiamo anche saperci preparare ad esso. Dobbiamo fare in modo che passi il testimone, altrimenti i problemi si posticipano, non si affrontano. E questo è peggio.

Darwinismo sociale ed eugenetica

“Questa logica d’emergenza risponde però anche a innegabili esigenze di contenimento del contagio ed è questa la profonda differenza tra la situazione attuale e altre situazioni di emergenza sociale o di catastrofi legate a fenomeni per cosi dire naturali. Trascurare o minimizzare questo dato o far finta di dimenticarsene non rafforzerà certo le nostre capacità di criticare e provare a contrastare i dispositivi e il processo di auto-legittimazione portato avanti dalle autorità. Sarebbe interessante, ad esempio, capire quali critiche avremmo da fare a una strategia come quella del Regno Unito volta a creare la cosiddetta immunità di gregge.”

Domanda speciosa, la cui risposta è paradossalmente semplice: ognuno può e deve decidere da sé stesso come affrontare il rischio della malattia e della morte. Un governo, che imponga di stare a casa quanto di uscire, si appropria dell’autodeterminazione dei singoli decidendo per la vita altrui. Decidendo, inoltre, solo ed esclusivamente a profitto della propria idea di dominio. Non pare così difficile imbastire una critica.

A parte che anche i fenomeni per così dire naturali sono comunque sociali, perché è indivisibile la dimensione sociale e naturale all’interno di ogni cosa che avviene, da altri lidi arrivano frasi che forse aiutano a capire il senso nascosto di questa critica, anche se ammetto che forse mi sto spingendo troppo oltre.

Ad esempio, su Infoaut, mentre veniva recensita positivamente una serie tv di Amazon viene definita l’azione di Johnson come ingegneria sociale, oppure, sempre su Infoaut, si parla anche qui di social-darwinismo riferendosi all’Inghilterra. Entrambi questi articoli sono apparsi nella homepage per molti giorni, almeno fino alla scrittura di queste righe.

A parte un’evidente ignoranza del concetto di darwinismo sociale, perché si sviluppano queste critiche? Perché quando questi pezzi di sinistra non riescono a criticare il potere alla radice, perché in fondo non mettono in discussione il fatto che lo Stato possa sovradeterminare gli individui e riconoscono che sia in fondo giusto e necessario che venga imposta per legge la quarantena, allora ecco che essi criticano fermandosi al volto “militare” dell’imposizione oppure la comparano al male peggiore dell’eugenetica.

Vengono così riesumati i nazisti ed il darwinismo sociale, concetti intellettuali che in realtà vengono stiracchiati ben oltre i loro alvei di provenienza. Basti pensare che il darwinismo sociale si collega al tema della selezione naturale. La selezione naturale avviene sulla possibilità di trasmettere i propri geni sessulamente, ovvero di riprodursi. Sterilizzare le donne isteriche nei manicomi o i rom nei Lager impedisce la riproduzione e quindi la trasmissione di determinati geni per una paventata “pulizia genetica”. Che degli 80enni muoiano no, banalmente perché a 80 anni e 5 giorni non si sarebbero comunque riprodotti per evidenti limiti biologici. Quindi perché mescolare concetti ed idee? Per crearsi un’aureola ideologica di radicalità della critica che faccia passare sotto traccia l’incapacità di criticare dove davvero serve.

L’anarchismo, invece, queste armi le ha, e ben affilate. Non dovremmo avere remore dall’utilizzarle contro il pensiero dominante od aspirante tale.

Chi ha detto cosa bisogna fare e cosa bisogna sapere?

“Se volessimo guardare alle sfide che ci si parano davanti anche col focus di una scansione temporale, dovremmo iniziare a immaginarci il da farsi nella fase uscente di questa emergenza sanitaria (se e quando ci sarà), e alle ricadute sociali che porterà… con in più la possibilità di tornare in strada. Non si muoverà una foglia e tutti saranno felici del ritorno alla normalità al grido di “RinascItalia” ? Ci saranno piuttosto smottamenti tali da canalizzare una furente rabbia collettiva? Inizieranno una serie di conflitti in specifici ambiti della società (lavoratori della ristorazione, sanitari, disoccupati, persone con malattie aggravate dall’emergenza coronavirus, lotta per le bollette, etc.)? Anche qui ripartiamo dalle mancanze.

Chi più chi meno, nelle varie zone d’Italia, ha sviluppato negli anni studi e ricerche nei vari ambiti che compongono questa società, votati alla produzione e riproduzione del sistema capitalista. Spesso con l’idea di cavarne fuori qualche analisi che orientasse e illuminasse le proposte di lotta e azione. Eppure, almeno per chi scrive, se l’emergenza finisse ora e si creasse ad esempio un imbuto di visite sanitarie sospese da recuperare, col rischio per le situazioni più urgenti di doversi rivolgere al costoso privato, sapremmo anche solo sotto quale ufficio andare a rompere le scatole? Indicare nel dettaglio i responsabili, decennali e secolari, di questa condizione? Occorrerà colmare con lo studio e l’osservazione, ma anche con uno scambio con i possibili complici che conosceremo.”

Qual’è il ruolo degli individui anarchici all’interno dei conflitti? Uno solo o molteplici?

Una volta venivano immaginati diversi modi in cui potesse essere portato il contributo offensivo anarchico all’interno della realtà. Gruppi d’affinità, organizzazioni di sintesi, nuclei di base, erano tutti luoghi e modi differenti e con prospettive e premesse diverse per agire.

Sarò pure antiquato, ma penso che quelle riflessioni, più che essere superate, siano rimaste dimenticate, incomprese e quindi criticate. Prova di ciò è la capacità di chi le sviluppò all’epoca di saper condurre, ancora oggi, per l’aia del discorso un’intera assemblea giocando sulla linea sottile di distinzione tra queste diverse definizioni.

Quindi certo, può essere importante sapere nell’ambito della sanità dove andare a colpire, ma è importante saperlo ora? È su questo che occorre prepararsi? E se il conflitto si sviluppasse su altri piani? Ci saremmo allora preparati per nulla?

La potenzialità di quel modo di immaginare l’intervento anarchico è che permetteva di immaginare tempi diversi e distinti di preparazione analitica: il nucleo di base si prepara sul momento, con le persone che vi partecipano. Non avrebbe senso prepararsi a priori su qualcosa che potrebbe essere, a meno di non volersi preparare egualmente a priori su ogni possibilità che potrebbe darsi. Partendo ovviamente dal presupposto che il determinismo sociologico delle conseguenze offre una parvenza di tranquillità e solidità del pensiero fallace. Magari chi era in lista d’attesa è morto nell’epidemia e ci sarà piuttosto un miglioramento del sistema sanitario. Potrebbe piuttosto bloccarsi la giustizia, con i processi legati alle violazioni, ed allora perché non prepararsi anche in quel campo? Un’analisi è valida quanto l’altra fintanto che non accadrà qualcosa che renderà evidente la faccenda. Ma in quel caso sarà tardi per prepararsi in anticipo. Non è che allora la preparazione vada fatta a partire da altre questioni?

Le organizzazioni di sintesi ed il gruppo di affinità permettono di arrivare pronti agli accadimenti. Per questo l’impreparazione del movimento anarchico è molto più grave di quanto descritto nel testo di macerie. Non perché non sappiamo quali sono i medici stronzi, ma perché non abbiamo, forse, la capacità ed i modi di ragionare su come intervenire, non su cosa dire specificatamente nel corso dell’intervento. Così come è grave il fatto che magari i rapporti più intensi che abbiamo sono dispersi nello spazio e quindi sono stati resi inefficaci dalle intense misure di controllo sugli spostamenti.

Lasciando l’autocritica sui gruppi di affinità agli individui, perché solo loro possono conoscerli e rifletterci sopra, discutiamo del ruolo che potenzialmente potrebbero avre le organizzazioni di sintesi.

L’anarchismo, a mio avviso, dovrebbe sottolineare una dimensione di metodo, non offrire le soluzioni ai problemi specifici. E su questo concetto ci torneremo nel corso di questa critica più volte.

Il cuore del pensiero/azione anarchico dovrebbero essere i princìpi della conflittualità permanente, dell’autogestione e dell’attacco, o delle loro varianti declinate a piacere. Attraverso questi principi, portati all’interno dei diversi nuclei di base (a.e. la sanità) si sviluppano e si immaginano poi le soluzioni specifiche ai problemi specifici. Come è attraverso questi stessi principi nei diversi gruppi di affinità che si immaginano e mettono in atto altre azioni.

Quindi il problema, oggi come oggi, non è non sapere cosa fare nella specificità sanitaria, ma non avere un luogo ed un modo per confrontarsi su come diffondere e comunicare i principi della metodologia anarchica all’interno di quelli che saranno i futuri possibili ambiti di lotta, tanto animati da gruppi d’affinità che nuclei di base.

Poi è chiaro che possiamo anche trovare che queste categorizzazioni non siano più valide, ma occorre sempre riallacciare i fili con il passato, per non correre il rischio di dimenticare la trama dell’ordito.

Ideologia?

“Questo non vuol dire certo rivendicare il ruolo e le logiche della sanità pubblica come l’obiettivo ultimo verso cui tendere, ma la lotta per poter vivere liberi, lo ripetiamo, passa dalla possibilità di vivere e le ristrutturazioni nel campo della sanità sono state e continuano ad essere dei veri e propri atti di guerra contro tanti e tante sfruttate. Un venir meno della possibilità di curarsi che in un mondo come quello capitalistico, strutturalmente ostile a qualsiasi forma d’autonomia, equivale a delle vere e proprie condanne a morte, anche al di là del Covid-19. Battersi per ampliare queste possibilità, parallelamente alla costruzione di una conoscenza e di logiche altre rispetto a quelle delle sanità pubblica, rappresenta un tassello fondamentale per una prospettiva rivoluzionaria che non voglia contrapporre ideologicamente libertà e necessità di vita.”

Che vita? Cosa sono le necessità di vita? Domanda che apre un mondo.

Se intendiamo la vita come vita vissuta pienamente, allora la libertà non è assolutamente contrapposta ad essa. Se intendiamo le necessità di vita come le necessità della sopravvivenza, magari in questa società, allora questa contrapposizione esiste eccome.

Mangiare. Ma mangiare oggi o mangiare in un senso di libera condivisione? Mangiare oggi significa andare al supermercato e pagare, oppure rischiare la libertà col furto. Mangiare oggi può anche significare coltivare nel campo di proprietà, pagando le tasse e difendendone i confini. Questo mangiare si contrappone ad un senso di libertà legato al rifiuto della proprietà o del lavoro. Perché la sopravvivenza in questo sistema, anche con le sue necessità, non appartiene al mondo della libertà. Dover fare ricorso alla sanità pubblica non è un elemento di libertà. Si pensi al fatto che se un malato di tumore rifiuta la chemioterapia allora non riceve neppure l’invalidità. Oppure al fatto che se non si vuole medicalizzare la gravidanza si potrebbe essere penalmente perseguibili.

Ora, in questa società è una necessità della vita la sanità perché non è possibile alternativa, ma questa impossibilità dell’alternativa non rende la sanità parte del mondo della libertà. Questo è uno degli elementi, tra l’altro, più brutti di questo mondo: essere costretti a necessitare della sicurezza offerta dallo Stato non potendo o sapendo vivere il rischio insito nel proprio concetto di libertà.

Provando quindi a forzare la lingua scritta, e sostituendo l’ambiguo “necessità di vita” con “sicurezza di vita”, quindi con “sicurezza”, forse emerge meglio il punto. E qui la contrapposizione esiste eccome, e non può essere negata in poche righe, ma andrebbe quanto meno sostenuta meglio.

Lo Stato, storicamente, (Cfr. ad esempio Contro la storia contro il leviatano di F. Perlman) nasce come garante della sicurezza, tanto sul piano militare che sul piano della gestione dell’eccedenza e pianificazione della produzione.

Oppure riprendiamo un vecchio passaggio del testo “Sicuri come la morte”, uscito sul numero 1 di Machete:

“I cantieri della sicurezza vengono oggi costruiti sulle tombe della libertà. La sicurezza ha come obiettivo l’allontanamento di ogni pericolo, mentre l’esercizio della libertà comporta viceversa la sfida ad ogni pericolo. Non è un caso se l’espressione “mettere al sicuro” indica solitamente il gesto di chiudere sotto chiave. L’esempio tipico è quello dell’animale selvaggio strappato dalla giungla per essere rinchiuso in gabbia. In questo modo, assicurano gli amministratori dello zoo, l’animale viene salvato dai pericoli della giungla e messo al sicuro. Dietro le sbarre non correrà il rischio d’essere abbattuto dai cacciatori o sbranato da bestie feroci. Ebbene, questo animale si trova sì al sicuro, ma a un caro prezzo — la sua libertà. È risaputo: evitando il pericolo non si vive la vita, la si conserva a malapena; perché solo andando incontro al pericolo una vita viene vissuta nella sua pienezza. L’unione fra sicurezza e libertà è dunque irrimediabilmente incompatibile.”

Il problema della sicurezza e della libertà, della vita e della morte, del nostro rapporto con esse, esiste eccome, e non è un trucco fantasmagorico da scrittori per mettere in fuorigioco altri approcci di lotta. Esiste ed è un problema reale, non inventato. E come tale va saputo affrontare nella sua complessità.

Utopie e sogni

“In genere o si tende a essere schiacciati dal polo della necessità, diventando più realisti del re, e nella migliore delle ipotesi invocando un “ritorno al passato” in cui il welfare state “funzionava meglio”, o ci si balocca a parlare di autonomia e di ignoto non tenendo minimamente in conto la sfera della necessità che, piccolo problema, è quella grazie a cui si può campare. Ci si dimentica così che la condizione per poter arrivare a vivere in un mondo di liberi e uguali, è quella, banalmente, di poter vivere.

[…]

Abituati negli anni alle batoste repressive, alle difficoltà del conflitto sociale, al lato parziale delle lotte, stiamo rischiando di perdere lo slancio immaginativo e utopico. Uno slancio che per forza deve essere in grado di disegnare mondi ideali liberati dal capitalismo, ma gettare il cuore oltre l’ostacolo della rassegnazione. E pensare in grande.

Uno sguardo che, per tagliare la questione con l’accetta, oscilla tra la capacità di attacco e l’autogestione delle risorse nella riproduzione della vita in un processo insurrezionale, nonché le sue modalità organizzative. Perché se sosteniamo che alla base della crisi coronavirus sta il mondo capitalistico in quanto tale, se sosteniamo che si sta aprendo la possibilità per molte persone di acquisire questa consapevolezza attraverso una lotta dura, allora la portata è radicale.

Ci fermeremo a “sobillare” o più banalmente sostenere le manifestazioni di piazza e il loro livello di scontro, oppure ci porremmo allo stesso tempo il problema di come approvigionarci, come continuare a curarci senza riprodurre i loro modelli votati al profitto, come usare i terreni e gli spazi agricoli per produrre cibo? Come potremo difenderci dagli attacchi della controparte contro un territorio, seppur parziale, in fermento? Come dialogare con altri territori lontani da noi? D’altronde, se staccano l’acqua e la corrente alla sezione in rivolta di un carcere, perché non dovrebbero farlo con un intero quartiere?”

A parte l’incongruenza di criticare prima chi sogna per recriminare poi di essere senza sogni, occorre a mio avviso ritornare al concetto di come l’anarchismo dovrebbe diffondere prima di tutto una dimensione di metodo, non offrire le soluzioni ai problemi specifici. Partiamo da una metafora.

Se abbiamo in mente il sogno di giungere in un luogo lontano, facendo un viaggio avventuroso, proporremo di andarci, non piuttosto di andare prima alla Decathlon per acquistare le tende, poi di andare alla stazione, poi di prendere il treno, poi di scendere alla fermata giusta, poi di svoltare a destra…

Il punto è che dobbiamo proporre il senso del viaggio, non fornire il graduale tragitto per arrivarci. Se condividiamo con le persone la destinazione, lo scopo, allora anche i problemi parziali troveranno una loro dimensione differente per essere risolti.

Certo che troveremo il modo di procurarci il cibo, ma troveremo il modo di farlo prima di tutto con le persone con cui condividiamo lo scopo del viaggio, conseguentemente con coloro con cui stiamo costruendo una relazione. Possiamo pensare, e sicuramente ciò è fondamentale, a come risolvere certi problemi, ma potremo risolverli davvero solo nel momento in cui questi problemi ce li troveremo davanti, ovvero nel momento in cui la situazione lo renderà necessario.

Lo slancio immaginativo è dato dal darsi proposte su come moltiplicare i punti di contatto con il mondo circostante e quindi con gli individui, anarchici o no, attorno a noi. Partiamo da questo, senza farci sconfortare dalla mole delle cose ancora da fare. Abbiamo di fronte a noi ancora l’enigma della distruzione da affrontare e, solo in esso e come conseguenza di esso, quello della creazione. Anche perché non saranno solo le persone anarchiche a ricostruire il mondo, ma sarà un qualcosa di molto più ampio. E dipenderà, quello si, da quanto sapremo comunicare il senso dell’anarchismo come vita, non dell’anarchismo come soluzione alla fame quotidiana.

L’utopia è nelle piccole cose, non nasce dall’iperuranio del pensiero. Si realizza a partire dai piccoli desideri e dai piccoli gesti: bruciare un’antenna, ritornare a parlarsi di persona per decidere come saccheggiare il supermercato in fondo alla strada o costruire l’orto sul tetto del palazzo.

Editrice Cirtide

Ribellione ai tempi del coprifuoco

Ci troviamo in una situazione completamente nuova per tutt*: come in tempo di guerra o in carcere, la nostra libertà è ridotta al minimo, solo che questa volta il “nemico” è invisibile e la nostra prigione è la nostra casa. Disastro, stato di emergenza, coprifuoco, pandemia, bombardamento mediatico, panico, insicurezza e isolamento… A questo punto non si tratta di relativizzare o valutare le conseguenze mortali del coronavirus – a livello medico non lo posso giudicare. Ma ciò che per me conta è una critica all’ evoluzione autoritaria che sta avvenendo, cioè la dichiarazione di guerra dichiarata dallo Stato e le conseguenze che questo ha per noi e per la società. Perché mentre con riferimento agli esperti in materia di questi giorni ogni disegno di legge e ogni decreto viene sventolato e nessuno può prevedere come sarà la situazione tra una settimana, non abbiamo bisogno di esperti per sapere che lo stato di emergenza in tempi di crisi e di guerra si normalizza troppo velocemente (qualcun* ricorda la “guerra al terrorismo” o la “crisi dei migranti”?)

La miseria sociale: Isolata, digitale e obbediente

Nella società sempre in produzione, la velocità e la presenza generale delle notizie ha raggiunto un nuovo livello: sul sito „Live-ticker“ possiamo osservare il numero di persone infette cosicché più velocemente cresce la nostra insicurezza… la paura di essere infettat*, di essere malat*, dei/delle coinquilin*, dei/delle vicin*. Nel frattempo, i politici si stanno posizionando in prima linea nella guerra contro il nemico e ci assicurano di sapere cosa sia meglio fare. “Rimanete a casa! Accontentatevi” è tutto quello che dovremmo fare. Mostrare unità e seguire le esortazioni, perché dopo tutto, “questo non è il momento giusto per le critiche”. Ed eccoci qua che ci troviamo poi in uno scenario totalitario della società del controllo: non si deve più uscire di casa e segnalare inoltre chi non adempie questo decreto. Il buon cittadino prende coscienza della sua responsabilità e chiama il 110 quando sospetta che i vicini stiano dando una festa. Nel frattempo, l’uso di Internet sta aumentando esponenzialmente, perché ci viene fatto credere nell‘esistenza di un altro mondo verso il quale potremmo fuggire se non osassimo più uscire in quello che ci circonda: Il mondo digitale. Perché invece di muoversi e curare le relazioni, la vita viene dislocata nel digitale. Invece di uscire e incontrare gli amici, si può chattare assieme, guardare le serie TV, lavorare a casa, far consegnare tutto a domicilio, guardare porno, criticare e scambiare opinioni su Internet o semplicemente giocare. Nella frenesia digitale, la vita diventa artificiale e alienata, e alla fine perdiamo ogni possibilità di cambiare qualcosa della realtà che ci circonda. Stressati, non stanchi fisicamente, oberati e con gli occhi quadrati che si agitano tra le nostre quattro mura – è questo che dovrebbe essere il futuro? Permanentemente imprigionat* e spaventati*da nuove orribili notizie. In tali scenari il numero di coloro che decidono di porre fine a tale vita è generalmente in aumento, così come la violenza interpersonale e domestica, che per lo più viene esercitata dagli uomini contro le donne.

Prigione a cielo aperto a tempo illimitato

Mentre scrivo questo testo, in una qualche strada parallela più in là, un’auto della polizia scorrazza a giro annunciando a gran voce con gli altoparlanti che si dovrebbe rimanere a casa. Allo stesso tempo, alcuni politici siedono insieme e regolano in che misura le restrizioni iniziali saranno adeguate a livello nazionale. L’antenna radio sul tetto di una casa vicina raccoglie i dati di movimento e di contatto di tutti i cellulari che si trovano nelle vicinanze e le società telefoniche Telekom e Vodafone li trasmetteranno in modo da poterli poi analizzare al fine di scoprire con chi le persone infette hanno probabilmente avuto contatti e in qual misura viene osservato il coprifuoco. Tra qualche giorno, lo Stato probabilmente trasformerà il coprifuoco in un divieto e revocherà diritti come la segretezza della corrispondenza e l’inviolabilità della casa. Questo farà luce su chi è in contatto con chi e dove, chi vive dove e che posti frequenta, e quindi categorizza i soggetti statali, li divide e ordina o li separa. Inoltre, con l‘’appello all’obbedienza totale, si realizza una militarizzazione globale della società che non è mai esistita prima. Frontiere chiuse, soldati per le strade che si preparano all’azione, divieto di qualsiasi assembramento ed elicotteri con le termocamere. Il fatto che la Cina sia considerata uno stato modello nella lotta contro l’epidemia dimostra la meta del viaggio: droni che si librano sopra le nostre teste dandoci ordini, codici a barre sui nostri smartphone che, secondo algoritmi incomprensibili, ci permettono di entrare al supermercato o di metterci in quarantena forzata, l’isolamento di intere città e posti di blocco ad ogni angolo. Il fatto che un “esperto” in Italia abbia già suggerito di mettere il braccialetto elettronico alle persone in quarantena per evitare che escano di casa, dimostra che la città è stata trasformata in un carcere a cielo aperto e che i metodi di disciplina, controllo, amministrazione, punizione e sorveglianza vengono applicati a tutti i cittadini. Chi ora si accontenta di aspettare questo breve periodo di restrizione e nel mentre si distrae online non solo non ha alcun interesse per la libertà, ma non capisce che questo stato di cose durerà più di qualche giorno.

La vera crisi è la normalità

Dal punto di vista della classe dirigente non ha senso mantenere questo stato di emergenza solo per due settimane. Chi vuole congelare la società per fermare un virus, dal punto di vista virologico lo deve fare almeno per un anno . E anche se le restrizioni verranno allentate o tolte in seguito, le conseguenze saranno enormi: Chi vive una vita solitaria, digitale e obbediente si allenerà a farlo. Mentre qualche mese fa abbiamo visto esplodere a livello globale proteste e rivolte, i mezzi di contro-insurrezione e di annichilimento sociale lasceranno profonde cicatrici: Per chi vive da solo e on-line si lascia anche derubare delle opportunità e dei mezzi per discutere, ribellarsi e organizzarsi con gli amici. Mentre lo Stato si mette in scena come protettore della vita e del corpo, ci proibisce qualsiasi vita sociale. Ma sappiamo che chi uccide in modo permanente è lo Stato e la sua industria che domina questo mondo con le guerre, che lascia morire i fuggitivi alle frontiere e che da centinaia di anni distrugge e prosciuga la terra. Lo Stato svolge il ruolo di custode del bene comune, ma in realtà vuole vederci come schiavi del lavoro e soldati obbedienti, che producono profitti per la sua industria inquinante e che sono disposti a morire nelle sue guerre. Lo Stato protegge prima di tutto i ricchi e se qualcun* in questa crisi economica se ne esce con l’idea di prendere ciò che gli manca, i funzionari pubblici non esiteranno a sparare ai saccheggiatori/trici e ai ladri. Il capitalismo e lo Stato hanno bisogno di crisi e stati di emergenza per aumentare e indurire il loro potere su di noi – il virus non è la causa, ma il fattore scatenante. Lo Stato ci chiama ad assumerci la responsabilità, ma ci proibisce di organizzarci, di incontrarci e di aiutarci a vicenda. Dovremmo sederci davanti allo schermo e dire “sì” e “amen”, ma quando abbandoniamo il ruolo di soggetto, ci dichiara guerra.

Se lo Stato vuole controllare e prevenire qualsiasi nostro movimento e relazione, dobbiamo trovare comunque  il modo di muoverci e di incontrarci nonostante ciò. Quando saremo a corto di ciò di cui abbiamo bisogno per vivere, dovremmo prenderlo da dove ce n’è in abbondanza. Quando saremo separat* e rinchius*, non dovremo vederci come concorrenti o nemic*, ma come persone con cui possiamo cooperare – come possibili aiutanti e complici. Man mano che gli occhi dello Stato diventano sempre più onnipresenti dobbiamo trovare il modo di cavarli, man mano che il cappio del capitalismo intorno al collo diventa sempre più stretto dobbiamo trovare il modo di reciderlo.

    “Essere governati significa essere sotto sorveglianza sbirresca, ispezionati, spiati, indirizzati, sopraffatti dalle leggi, regolamentati, ammassati, istruiti, predicati, controllati, valutati, censurati, comandati da persone che non hanno né il diritto, né la conoscenza, né la virtù di farlo…

Essere governati significa essere tassati, brevettati, annotati, registrati, determinati, timbrati, misurati, valutati, venir patentati, autorizzati, patrocinati, difesi, esortati, ostacolati, riformati, allineati, puniti per ogni azione, ogni transazione, ogni movimento.

Significa essere sfruttati, amministrati, rimbalzati, monopolizzati, imbrogliati, spremuti, ingannati, derubati con il pretesto della pubblica utilità e in nome dell’interesse generale; infine alla la più piccola resistenza, alla prima parola di difesa possiam venir soppressi, puniti, sminuiti, insultati, perseguitati, maltrattati, picchiati a terra, disarmati, imbavagliati, imprigionati, flagellati, fucilati, condannati, maledetti, deportati, sacrificati, venduti, traditi e, per giunta,e ssere derisi, presi in giro, insultati e disonorati.

Questo è il governo, questa è la sua giustizia, questa è la sua morale. Il governo dell’uomo sull’uomo è schiavitù. Chiunque mi metta la mani addosso per comandarmi è un usurpatore e un tiranno. Io lo dichiaro mio nemico”.

Traduzione da Rebellion in Zeiten der Ausgangssperre

Mobilitazione totale, dalle trincee alle mura di casa.

Sembra di essere in guerra, in stato d’assedio. Ovunque sui media si parla di combattimenti e combattenti, di trincee, di eroi, di caduti. È solo retorica funzionale o è in qualche modo la realtà? Forse siamo davvero in guerra, quella che lo stato e il nuovo capitale digitale stanno conducendo contro i poveri e i refrattari di tutto il mondo già da tempo. 30 anni di internet, smartphone, telecamere nelle strade, repressione giuridica e poliziesca, psicofarmaci, medicalizzazione dei corpi, devastazione (riqualificazione) dei quartieri, scrittura della storia da parte dei vincitori… Tutto ciò ha cancellato ogni traccia di memoria delle lotte passate e abituato lentamente la popolazione a servire con gusto gli interessi di governi e capitale. Ed eccoci arrivati alla terapia d’urto. Senza il consenso che i governi hanno conquistato pian piano negli anni e che altri hanno pagato con morte e galera, non sarebbe stato possibile ciò che vediamo in questi giorni.

“Io resto a casa”, io non scendo in strada, non lavoro quindi ho molto più tempo da passare in fila al supermercato per ore, ordino tutto da internet, guardo Netflix tutto il tempo quindi ho bisogno di sempre più giga, seguo le lezioni scolastiche da casa quindi mi serve una connessione fissa.

Mentre “faccio” tutto questo, quando esco a far la spesa guardo con sospetto e diffidenza i pochi individui che incontro, accelerando il processo di frammentazione sociale che è stato imposto negli ultimi quarant’anni. Appena torno a casa però, quando mi metto al sicuro dietro lo schermo e ascolto le parole d’ORDINE diffuse in modo virale dai media, mi sento parte della patria in guerra, non più sospettoso e diffidente, ma collaborativo e responsabile. Sono il milite ignavo di un fronte unito, compatto, astratto da ogni differenza sociale, di classe. Godo di un’armonia calata dall’alto, tanto falsa per me quanto utile a chi mi governa. In fondo ciò accadeva anche nella vita “normale” quando aderivo ai fronti unici per l’ambiente, per la salvezza del pianeta. Ora milito per la sicurezza della nazione. Non ragiono, non metto in discussione, mi mobilito e basta. Non vado alla radice dei miei guai per individuarne i responsabili.

In fondo siamo tutti sulla stessa barca, no?

Ma certo che no. I governanti, la scienza medica che si fa politica, la forza poliziesca e militare che stanno gestendo direttamente le nostre vite non sono sulla nostra stessa barca. Mentre i governi sperimentano nuove forme di controllo di massa, mentre si riformulano gli assetti geopolitici internazionali, la scienza, quella con la esse maiuscola, a livello globale assume un ruolo predominate e inattaccabile. Nessuno più osa mettere in discussione i diktat elargiti dai professoroni con curriculum lunghi come autostrade. Ne è un esempio lampante l’Organizzazione Mondiale della Sanità che in questa particolare fase storica si è fatta carico, prepotentemente, delle sorti dell’intero pianeta. È lei che detta le linee guida che i governi devono seguire ed è lei che decide la pericolosità di una determinata malattia senza ombra di smentita. Non a caso appena è stata dichiarata la pandemia per il coronavirus grossa parte delle nazioni mondiali sono diventate enormi prigioni con centinaia di milioni di detenuti.

Se si va però a scavare, nemmeno tanto in profondità, si scopre che parecchi membri di questa organizzazione hanno interessi diretti in varie piccole e grandi aziende farmacologiche che si occupano, guarda caso, di produrre vaccini per combattere i virus epidemici.

Creare la malattia e poi creare gli strumenti per curarla è un ottimo metodo per fatturare miliardi di euro che gli stati sborseranno alla faccia di tutti noi poveri coglioni che seguiamo indicazioni “scientifiche” ridicole come lavarsi diligentemente le mani, mantenere le distanze quella rara volta che usciamo e gioire per inutili disinfestazioni. Quando saranno messi in commercio i vaccini che verremo tutti obbligati a dover fare, saranno le case farmaceutiche e gli stati a trarne grandi profitti, non certo chi è rimasto chiuso in casa fino ad ora.

È molto probabile che le restrizioni messe in atto in questi giorni non verranno ritirate una volta conclusa l’emergenza. L’ideologia del progresso non torna mai indietro e lo stato non butta via niente. Uno dei mantra di questo periodo è proprio “nulla tornerà come prima”. Rendere norma l’emergenza è l’obiettivo ormai chiaro che il potere, politico e non, si prefigge per spazzare via qualsiasi tipo di dissenso all’interno del corpo sociale.

Gli abitanti dell’Italia stanno facendo da cavie a una domanda importante. Ci si chiede come reagiranno le persone quando si addormenteranno con la pillola dorata della democrazia e si sveglieranno in un’aperta dittatura? Viene da rispondere: bene, se a risolvere il problema c’è la grande quantità di schermi, piccoli e grandi, che sembrano farci evadere dalle quattro mura di casa. Però, per favore, installate il 5 G.

A dire il vero, gli unici ad essere evasi in questo momento sono quelle decine di prigionieri che dalle carceri in rivolta hanno mostrato di essere il nervo scoperto dell’autorità e dei suoi diktat . Quanto a tutti gli altri abitanti del cosiddetto mondo libero, essi restano prigionieri nelle mura di casa e non sarà certo una connessione internet a spezzare la reclusione mentale e fisica. Saranno partecipi dell’ennesima rivoluzione delle nostre vite calata dall’alto. Quando il capitale globale si ristruttura l’unico metodo che funzioni è quello dello shock, della terapia d’urto. Quale miglior occasione che un’emergenza virale?

Insomma, emergenze di qua, emergenze di là. Ci mancava solo la pandemia oltre a quelle di tutti i giorni.

Tanto per cominciare, EMERGENZA CARCERI, che più che un’eccezione è la normalità, dato che la galera era un inferno anche prima, con la differenza che ora una trentina di prigioni si sono rivoltate e 14 detenuti sono stati uccisi dalle guardie e dal sistema carcerario.

EMERGENZA SANITARIA, forse un vero e proprio collasso, che dovrebbe finalmente sfatare il luogo comune che lo Stato serve, è indispensabile, perché può salvarci, perché da soli non ce la faremmo; perché se ci prende un’epidemia, un tumore o una cardiopatia (che l’inquinamento e lo stress ci hanno provocato), ci vogliono gli ospedali. Peccato che allo stato, per sua natura, interessino più i soldi che la salute, cosicché negli ultimi anni sono stati chiusi almeno un centinaio di ospedali pubblici; cosicché i limiti mostrati in questi giorni possono solo accelerare il processo di privatizzazione della sanità. Ciò significherà che, come in ogni altra cosa, soltanto alcuni avranno il privilegio di essere curati. Quindi lo Stato non servirà neanche più a questo. E allora sarà evidente che esso è indispensabile solo per qualcuno, e cioè per chi lo sostiene con i suoi soldi per trarne un tornaconto. Ma per chi lo alimenta col suo sudore per riceverne ordini e sottomissione, esso è solo un cappio. D’altronde si sa che la medicina può convertirsi facilmente in politica. Quando non si è in grado di curare, l’unica terapia che tenga è la repressione.

EMERGENZA MIGRANTI, loro sì che sono davvero su una barca, non quella del “bene comune” ma una delle tante fatte affondare nel Mediterraneo oppure messe in quarantena in mare , o, ancora, svuotate per deportare i passeggeri in un qualche lager. Intanto Grecia e Turchia, entrambi alleati NATO, aprono fuoco al confine. La Turchia usa le vite dei profughi come oggetto di pressione sull’Unione Europea e “libera” la frontiera verso nord nel mentre che la Grecia la chiude sparando; i nazisti, poi, mobilitati al confine danno la caccia all’uomo in sella a trattori. Milioni di persone erano e sono un problema che l’Unione Europea può risolvere soltanto finanziando un dittatore come Erdogan o chiudendo le frontiere e sparando. E quale momento migliore per alzare muri? E che dire dell’arrivo di 37.000 soldati in Europa per una esercitazione NATO chiamata “DefenderEurope”, nel mentre che la Turchia chiede aiuto nella guerra contro la Siria, a sua volta finanziata dalla Russia?

EMERGENZA CLIMATICA, il pianeta in fiamme fino a ieri, e ora vengono a dirci che in Cina grazie al blocco della produzione c’è stata una riduzione delle emissioni di CO2. A dire il vero, che fino a quando le fabbriche continueranno a produrre la natura verrà devastata e le persone sfruttate, era evidente anche prima, ma non per questo le fabbriche smetteranno di produrre. Se esse vengono chiuse dall’alto, prima o poi riapriranno e quindi niente sarà cambiato davvero. Piuttosto, ciò che sembra vogliano dirci è che la mobilitazione totale, che invece di mandarci in trincea ci rinchiude dentro casa, funziona su tutti i fronti. Funziona tanto sul fronte unito più interclassista che sia stato creato negli ultimi anni per la pacificazione sociale, ovvero quello ambientalista, quanto sul fronte del controllo sociale e della rivoluzione digitale.

Insomma, dalle emergenze di tutti i giorni alla emergenza delle emergenze. Ma, forse, non è che ciò che sta emergendo davvero è la dura realtà quotidiana dei fatti? È ciò che in fondo c’è sempre stato e che una pandemia sembra venuta a rischiarare?

È vero, ci hanno tolto gli strumenti, innanzitutto il cervello, per capire e interpretare la realtà. Gli unici mezzi per conoscerla sono quelli mediatici che la masticano e la sputano a uso e consumo del Potere, distogliendo sistematicamente lo sguardo. È il vecchio inganno del dito e della luna. Se il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito. Ma se abbiamo ancora gli occhi per vedere le conseguenze possiamo agire di conseguenza.

Molto banalmente, i nodi sono saliti al pettine: nel caso non fosse già chiaro, il carcere è un inferno, la sanità non serve a niente, il governo sciacalla sull’emergenza mettendoci agli arresti domiciliari, internet è la nostra ora d’aria mefitica.

Le parole d’ordine sono slogan che servono a costruire o a conservare, appunto, l’ordine imposto. Le forze dell’ordine servono a farlo rispettare con le armi della legge e col monopolio della violenza. Il linguaggio del potere costruisce gabbie da cui evadere e i suoi gendarmi hanno un monopolio che va spezzato.

C’è differenza tra una vita conservata in campana ed una vita vissuta senza briglie.

https://roundrobin.info/2020/03/mobilitazione-totale-dalle-trincee-alle-mura-di-casa/

Tilt – Giornale murale

Bolzano – L’evasione possibile – provviste per l’inferno

L’evasione possibile – provviste per l’inferno
In queste giornate di quarantena forzata, alcunx di noi hanno deciso di continuare a vedersi per discutere di quel che ci succede intorno: operai ed operaie mandatx al macello a lavorare senza misure di sicurezza adeguate, detenutx abbandonatx a loro stessx in condizioni più che favorevoli per la propagazione del virus all’interno delle carceri, senza fissa dimora sgomberati e depredati di coperte e sacchi a pelo ed in qualche caso pure multati perchè non sono stati a casa loro (ma quale casa?!).
Come non bastasse, sempre più sbirri e militari nelle strade con nuovi poteri e dispositivi di controllo e “sicurezza” fino ad ora mai sperimentati, e al confine dell’Europa che succede con le persone migranti?! Sembra tutto passato sotto silenzio…
In tutto questo già lugubre scenario sfavorevole ai/alle dannatx della terra, ci si mettono pure le spie! La delazione sembra esser diventata lo sport nazionale. Gente che passa la giornata ad incazzarsi ed infamare le persone che camminano sotto casa o si siedono su di una panchina o fanno una corsetta, considerandole il/la peggior nemicx: i/le famosx furbettx. Ecco queste stesse persone sentenziose che ci fanno a zonzo?! (Tu non sei imbottigliatx nel traffico… tu sei il traffico!) Siamo sempre prontx a giudicar le altre persone perché non abbiamo un briciolo di empatia e non riusciamo ad immedesimarci nell’altrx, il tutto avallato dal presuntuoso errato presupposto di essere sempre “i buoni”.
Ecco in questo delirio noi abbiamo deciso di riappropriarci di quel briciolo di libertà che ci rimane, perché fino a prova contraria non siamo in uno stato di polizia (per adesso) e vederci per parlare di tutti questi importanti cambiamenti ci sembra più che un dovere […].
Perché noi sappiamo chi sono i responsabili di tante di queste morti (e purtroppo morti future) e non saranno certo loro a dirci come affrontare tutto questo. Appelliamoci alle nostre coscienze ed armiamoci di coraggio, perché la merda sta venendo a galla e rimaner a casa è un lusso che ora non ci possiamo permettere. Incontriamoci con tutte le precauzioni del caso: se qualcunx ci spiega come uscire in bici da solx ed incontrarsi all’aperto e parlarsi a distanza l’un dall’altrx con maschere e guanti, possa esser oggettivamente pericoloso per le altre persone, siam pronti a ricrederci, in ogni caso non sentiamo affatto gli stessi rimproveri paternalistici quando si va a produrre per un padrone. “Perché il lavoro è cosa necessaria e tutto deve andare avanti”. Ma noi siamo sicurx che vogliamo tornare (ammesso di riuscirci) a come era prima?! Si stava davvero così bene?! O forse nuovamente vogliamo solo difendere il nostro privilegio? Cambiare spaventa tuttx ma questo è un momento in cui le possibilità di lotta e solidarietà con tutti i piccoli grandi momenti insurrezionali o di protesta che si possono generare sono molteplici e di portata incalcolabile. Una volta data per assodata questa possibilità di riscatto e presa di coscienza di un’intera classe, torniamo a ripetere che per noi il minimo è vederci per parlarne e non crediamo di esser degli untori ed untrici assassinx. Nessunx può dire con esattezza quanto durerà questo periodo e soprattutto se sarà mai un periodo, ma noi non siamo carne da macello e non smetteremo di organizzarci contro chi ci considera tali.
No. Noi non siamo “pronti alla morte”. Non vogliamo morire e non vogliamo che nessunx si ammali e muoia. Non ci facciamo arruolare nella fanteria destinata al massacro silente.
Siamo disertori e disertrici, ribelli e partigianx.

L’evasione possibile, provviste per l’inferno

Note epide(r)miche

Il suo nome mi è letteralmente balzato in mente la scorsa settimana. Ero andato a prendere il pane e, una volta arrivato dal fornaio, mi è venuto istintivo contare fra i clienti presenti dentro e fuori il locale quelli che portavano la mascherina. Fu lì che accadde. Mi resi conto d’un tratto che avevo appena ripetuto il conteggio del filologo tedesco Victor Klemperer, testimone e studioso dell’ascesa del Terzo Reich: «il nostro morale cambia di giorno in giorno. Contiamo quante persone nei negozi dicono “Heil Hitler!” e quante dicono “Buongiorno”. Ieri al panificio cinque donne hanno detto “Buongiorno” e solo due “Heil Hitler”: il morale risale. Oggi, dal macellaio, tutti hanno detto “Heil Hitler”… il morale scende». Lo ammetto, in quel preciso momento ho sentito un brivido dietro la nuca.
Rileggere il suo diario non è servito a placare la mia inquietudine, anzi. Ho un bell’evidenziare tutte le truculente differenze che ci separano da quegli anni, le similitudini spiccano comunque. Terrificanti, sebbene quasi prive di macchie di sangue. Anche all’epoca la popolazione era convinta di essere minacciata da un pericoloso virus, «l’Ebreo», in grado di infettarla. E nel giro di poco tempo un paese intero, noto per altro per il suo enorme apporto alla filosofia, venne travolto da una sorta di delirio di massa. Le credenze più ridicole si diffusero a macchia d’olio, spingendo uomini comuni a commettere gli atti più aberranti. E poi l’uso del sentimento per allontanare ogni riflessione critica, la martellante retorica bellica, l’ossessione tecnica per raggiungere l’omogeneità…
Sì, è in mezzo a quelle pagine che ho capito come il virus mortale che deve essere oggi debellato non sia affatto il Covid-19. Siamo noi. Noi che, come gli ebrei, non possiamo più uscire di casa. Noi, che non possiamo più frequentare biblioteche, cinema, ristoranti, parchi. Noi, che abbiamo il permesso di varcare la soglia solo per il tempo necessario a procurarci i generi di prima necessità. Noi, costretti a giustificare la nostra presenza alla prima uniforme che ci incrocia per strada. Noi, che ci consoliamo con l’identico ritornello di allora («La follia totale non può durare, una volta che sia svanita l’ubriacatura popolare, lasciando dietro di sé solo un gran mal di testa»). Noi, che parliamo la lingua del nemico. Noi, fra cui non manca neppure chi ammira le autorità. Noi, che attendiamo ogni giorno attaccati ai nostri dispositivi elettronici la lieta notizia della fine dell’incubo.
Ma non finirà mai, anzi, peggiorerà, se non saremo noi stessi a porvi fine. Come diceva l’autore di La Peste, «La speranza, al contrario di quanto si pensi, equivale alla rassegnazione. E vivere non è rassegnarsi».

Alcuni giorni fa un medico epidemiologo che insegna in una celebre università statunitense ha espresso tutta la sua preoccupazione per quanto sta accadendo. A spaventarlo non è tanto l’epidemia in corso quanto ciò che ha suscitato, ovvero una reazione politica e sociale in buona parte dettata dalla paura. A suo dire il serio rischio che si sta correndo è quello di finire come l’elefante che, in preda al panico per essere stato attaccato da un topolino, cerca di scappare lanciandosi in un dirupo. In mancanza di informazioni più precise sul pericolo effettivo del virus e soprattutto sulla profondità del dirupo, il rimedio potrebbe rivelarsi più letale del malanno. Per amor di discussione, egli arriva al punto da ipotizzare lo scenario più catastrofico (pur precisando di non ritenerlo verosimile): il virus contagerà il 60% dell’umanità causando 40 milioni di morti, una cifra pari a quella provocata nel 1918-20 dall’influenza spagnola. Con una differenza fondamentale, però. Che il coronavirus rischia di fare un’ecatombe di anziani e malati gravi, mentre la spagnola aveva seminato la morte fra tutti indistintamente, giovani e bambini inclusi. Ebbene, si domanda questo epidemiologo, quante e quali vittime ci saranno se l’elefantiaca umanità si lancerà nel dirupo? Ha senso che per evitare la morte di milioni di persone con una breve aspettativa di vita si corra il forte rischio di provocare la morte di miliardi di persone anche fra quelle che hanno una lunga aspettativa di vita?
Si dirà che si tratta di un ragionamento da ragionieri, tipico frutto del pragmatismo anglo-sassone. È vero, ecco perché potrebbe essere il più comprensibile per chi pensa solo al proprio interesse e alla propria sopravvivenza. Noi abbiamo preso atto della cecità e sordità e mutismo nazional-popolare davanti allo scempio che le misure governative stanno facendo della benché minima libertà e della dignità umana, ma i cittadini che approvano la sospensione forzata della vita pubblica prenderanno atto delle innumerevoli vittime provocate da questa isteria di massa? A partire da chi sta morendo già oggi, chi suicidandosi per timore del risultato del tampone (è accaduto in Veneto), chi venendo trucidato per aver tentato di fermare gli esasperati dalla reclusione (è avvenuto nel Lazio), chi spirando per mancanza di mezzi sanitari tutti dirottati sull’emergenza (è avvenuto in Puglia). E fra gli emarginati ed i più poveri, quelli che già ieri faticavano a tirare avanti, in quanti non avranno più scampo e soccomberanno del tutto? E dopo di loro, cosa accadrà a chi lavorava nelle molte imprese che non saranno in grado di riprendersi e si ritroverà senza più lavoro? Per non parlare di quando le azioni crollate in borsa verranno rastrellate e comprate per due soldi, permettendo a pochissimi squali di fare indigestione di moltissimi pesci piccoli e medi stremati dalla debolezza. Quanti morti provocherà, in quasi tutti gli ambiti sociali, l’esplosione di tutta questa disperazione che sta montando sotto i nostri occhi?
Se lo sono chiesto i mentecatti e sbruffoni italioti che — dopo aver indossato mascherine, essersi cosparsi di antisettico e barricati in casa — escono sui balconi a cantare in coro «siam pronti alla morte»? Lo vedremo presto, se e quanto siano pronti.

La vecchia propaganda di guerra si basava sulla disinformazione, sulla manipolazione, sulla censura. Ciò significa che, prima di essere riportati, i fatti venivano opportunamente selezionati, edulcorati o taciuti del tutto. Lo scopo era di sottrarre il più possibile la loro cruda realtà alla vista di uno sguardo attento. Oggi a queste tecniche (sempre presenti, basti pensare al silenzio imposto ai medici sanitari fuori linea) se n’è aggiunta un’altra, l’indifferenziazione per eccesso. Le informazioni vengono date con tale velocità e in tale quantità da non permettere ad una coscienza stordita e sovraccaricata di coglierne il senso, di discernere il vero dal falso. È un po’ lo stesso metodo usato da Poe nella Lettera rubata; non occorre nasconderla, per non farla vedere basta metterla in mezzo a mille altre cianfrusaglie.
Gira voce tra i «negazionisti» della pandemia in atto, che i morti di coronavirus siano pochissimi. Si tratta di una bufala, ovviamente, di una fake news (per gli antiquati del linguaggio, una notizia falsa) a cui non bisogna dare credito. La verità vera la conoscono solo gli esperti al diretto servizio dello Stato, come i funzionari dell’Istituto Superiore di Sanità. Loro sì che sanno come stanno le cose. Ascoltiamoli e leggiamoli, allora. Pochi giorni fa, nello snocciolare i numeri del quotidiano bollettino di guerra ci hanno infilato questo: stando alle ultime statistiche settimanali, le vittime di solo coronavirus sono lo 0,8% del totale dei morti attribuiti alla pandemia. Tutti gli altri erano già malati gravi, spesso più di là che di qua, a cui il virus ha solo dato il colpo finale. Se la matematica non è un’opinione e se quel dato può essere usato a parametro generale, ciò vuol dire che un paese composto da sessanta milioni di abitanti, la stragrande maggioranza dei quali gode di buona salute, si è paralizzato dalla paura per un virus che ha ucciso… sì e no una quarantina di persone sane? Ovvero lo 0,07% circa di tutti i contagiati?
Ciò non ci aiuta a capire molto bene il motivo per cui il Belpaese sia diventato d’un tratto uno Stato di polizia a tutti gli effetti, e per di più col plauso generale dei suoi novelli sudditi, ma per lo meno spiegherebbe la discrepanza esistente fra il tasso di mortalità attribuito al coronavirus in Italia e quello relativo al resto del mondo. Se in Germania si registrano molte meno vittime, ad esempio, è perché là si conteggiano solo o soprattutto i morti di coronavirus, non i morti con coronavirus. D’altronde, perché fare diversamente? In Baviera è bastato citare l’esempio italiano per terrorizzare la popolazione e farle accettare misure draconiane. È il progresso dei tempi. Hitler dovette non solo ispirarsi a Mussolini, ma superarlo in crudeltà.

Certo, è imbarazzante essere trattati da imbecilli fino a questo punto. Del resto le autorità ne hanno non solo la possibilità, ma anche la motivazione. I mass media si rivolgono a tutti indistintamente, non a ciascuno singolarmente. Quindi, se il popolo ha dimostrato in più di un’occasione la propria stupidità, i singoli che si presume ne facciano parte avranno anche tanto da lamentarsi, ma ben poco di cui stupirsi. Becchiamoci perciò in faccia pure l’ennesimo studio condotto dai soliti esperti, i quali sono giunti alla conclusione che l’avanzata del contagio del virus non abbia nulla a che vedere con l’inquinamento atmosferico come sostenuto da alcuni medici. Che l’aria sia piena di ossigeno o di anidride carbonica, per il virus non fa differenza.
Ma per gli esseri umani sì che fa la differenza, altro che! Il punto infatti non è tanto l’ipotesi che l’aria inquinata faccia da veicolo al contagio, bensì la certezza che favorisca la letalità del virus. L’inquinamento potrà forse non aiutare il virus a trasmettersi, ma di certo ne accentua la capacità di uccidere. Colpendo soprattutto le vie respiratorie, è ovvio che risulti più pericoloso laddove la salute dei polmoni sia già compromessa. Basti considerare che la stragrande maggioranza delle vittime erano fumatori o residenti nelle regioni più industrializzate d’Italia. Se si respira già male, è chiaro che una complicanza polmonare può rivelarsi fatale. E per smentire questa banale conclusione logica, irritante perché mette comunque in discussione i fumi dell’industria, cosa fanno? Spostano i termini della questione e ci assicurano che il contagio può avvenire anche all’aria fresca di campagna?

Un orgasmo multiplo e permanente, ecco cos’è in questi giorni l’esercizio del potere per chi, piccolo o grande, lo detiene. Lo stato di emergenza ha dato la stura a tutti gli appetiti, a tutte le prepotenze e a tutte le arroganze. Dal primo dei ministri all’ultimo dei sindaci, è tutto un ordinare, regolamentare, vietare, minacciare. Poco importa che questi ordinamenti siano assurdi, inutili e perfino contraddittori. Le strade e le piazze sono vuote, tutti si sono reclusi nella propria paura. Il territorio è sgombero, a totale disposizione della legge. Dopo che le forze dell’ordine e l’esercito hanno occupato le strade, ora è la volta dei droni che si stanno alzando per occupare il cielo. Tutto il paese diventerà un enorme Panopticon, una prigione a cielo aperto dentro la quale ogni sopruso sarà permesso.
E dove già si stanno scatenando i peggiori istinti umani. Dall’ultimo dei poveri al primo dei ricchi, è infatti anche tutto un osservare, sospettare, rimproverare, denunciare. Confinati nelle proprie celle più o meno confortevoli, molti detenuti ogni giorno cantano dalla loro finestra. Ma non è una battitura di protesta, è un inno alla servitù volontaria.
Tronfi e quasi increduli di questi poteri assoluti incontestati, i potenti non mostrano più alcuna cautela nel tirare fuori il loro grugno. «Torino è ubbidiente», esulta un questore piemontese. «Subito con le richieste di condanna per gli irresponsabili», tuona un procuratore pugliese. «È arrivato il momento di militarizzare l’Italia», invoca un governatore campano. La voglia di legge marziale sembra inarrestabile.
E a noi rimbomba in testa il monito lanciato in altri tempi bui da un vecchio anarchico: «È una sconfitta di cui bisogna lavarsi, ricordatelo bene; o le tigri, gli sciacalli forse meglio, dei covi giudiziari repubblicani non vi lasceranno neanche gli occhi per piangere».

Come qualsiasi operatore sanitario sa bene, la cosiddetta prevenzione primaria è la più importante delle prevenzioni perché è quella che mira ad evitare proprio l’insorgere di una malattia. Un’ottima idea, quella di anticipare la causa del male impedendole che si manifesti e provochi i suoi effetti. Ma chi dovrebbe attuarla, e come? Avendo rinunciato ad ogni autonomia, affidiamo allo Stato il compito di amministrare ogni aspetto della nostra vita. La salute non è più qualcosa di cui ognuno dovrebbe preoccuparsi per sé, è una «cosa pubblica» che in quanto tale va gestita dall’alto. E in alto si conoscono solo due maniere per occuparsene: o attraverso i vaccini, o attraverso il tentativo di ridurre i singoli fattori di rischio (imposizione di misure di sicurezza, lancio di campagne di sensibilizzazione, etc.).
Il che spiega perché oggi, in assenza di misteriose punturine magiche non ancora inventate, ci viene suggerito, quando non imposto, di indossare una mascherina prima di avventurarsi per strada. Ora, a parte il fatto che la stragrande maggioranza delle mascherine sul mercato non proteggono affatto dal virus; a parte il fatto che quelle poche che effettivamente servono a tale scopo dovrebbero essere lasciate al personale medico e ai parenti degli infettati («egoisti irresponsabili» sono semmai coloro che le sprecano per andare a fare la spesa); ma poi, come si fa a non capire che la prevenzione migliore contro qualsiasi virus è quella di aumentare le proprie difese immunitarie con un’alimentazione sana e vitaminica ricca di frutta e verdura, esercizio fisico all’aperto, tranquillità e riposo, assunzione delle più svariate sostanze naturali? E che di conseguenza, chiudendosi in casa sotto stress da panico, senza più prendere sole e respirare aria pulita, si ottiene l’effetto diametralmente opposto, cioè si indebolisce il proprio organismo rendendolo più vulnerabile al contagio?
Quanto al prevenire le cause che favoriscono le malattie, non è certo lo Stato patogeno a poterlo fare. Che questo virus sia una tipica malattia della civiltà moderna, lo ammettono persino gli stessi virologi. Non perché in passato non avrebbe potuto comparire, sia chiaro, ma perché i suoi effetti sarebbero stati ancor più trascurabili di quel che sono. Come per un terremoto, è l’attuale organizzazione sociale ad averne accentuato le conseguenze. Se sta contagiando l’intero pianeta è perché ha trovato vettori che si spostano in aereo da un continente all’altro e che vivono in città sempre più affollate. Fosse rimasto circoscritto in un piccolo villaggio remoto, chi ne avrebbe mai sentito parlare? Inoltre il passaggio di un virus dall’animale all’uomo è più probabile che avvenga se si avvicinano le due specie con la deforestazione, la costruzione di strade all’interno di territori vergini, l’urbanizzazione. Come ha riconosciuto anche una studiosa di virus, «noi creiamo habitat dove i virus si trasmettono facilmente, ma ci sorprendiamo quando ciò accade».
Quindi, qual è la migliore prevenzione primaria?

[24/03/20]

 

Cronache dallo stato d’emergenza (numero 1)

I virus non arrivano da un altro pianeta

Le malattie riflettono sempre il modo di vivere (di produrre, di mangiare, di spostarsi ecc.) di una società. Una medicina che non parta da questo dato di fatto – il che presuppone oggi una chiara messa in discussione della società industriale – può solo tamponare gli effetti delle malattie, senza risalire alle loro cause. Non a caso il primo focolaio di Coronavirus si è sviluppato in una zona della Cina di grande concentrazione urbana e di pesante inquinamento industriale. Non a caso i primi focolai in Italia si sono sviluppati nelle zone più industrializzate e inquinate. Se non si rimuovono le nocività e gli sconvolgimenti ambientali che provocano, le emergenze sanitarie si rinnoveranno.

Sanità

Personale sanitario che si costruisce delle tute di protezione con i sacchi dell’immondizia e usa le lenzuola per farne delle mascherine; l’allarme continuo sulle risorse limitate per le terapie intensive. Come si è arrivati a tutto ciò? Ecco cosa non si dice nelle quotidiane cronache della paura, affinché non si parli delle responsabilità. Dal 1978 in avanti, tra governi di destra e di sinistra, la Sanità è stata sottoposta agli effetti combinati dei tagli e delle privatizzazioni. La progressiva trasformazione della Sanità in un’Azienda ha tagliato strutture, personale, reparti e terapie non remunerativi, falcidiando in particolare tutto ciò che era legato alla medicina di prevenzione. Per questo si sono dimezzati i posti letto negli ospedali e ridotti a meno della metà quelli di emergenza. Mentre le metafore mediche e politiche sono sempre più esplicitamente militari (il virus è l’aggressore, il corpo è sotto assedio, la società è in guerra, il governo schiera l’esercito), scompare il vero nemico della salute individuale e collettiva: la logica del profitto.

Arginare il virus significa liberare tutti

A partire da sabato 7 marzo e per tutta la settimana successiva si levano proteste in una quarantina di carceri in tutta Italia. In almeno una trentina di queste si scatenano vere e proprie rivolte. Oltre seimila detenuti prendono parte alle sommosse, con sezioni distrutte e incendiate, fuoco alle auto della penitenziaria, prigionieri sui tetti, evasioni di massa, secondini presi in ostaggio e il carcere di Modena chiuso “di fatto” grazie ai danneggiamenti. Lo Stato mostra i muscoli: intervengono la celere e i reparti speciali della penitenziaria, i secondini circondano le carceri armi in pugno, in Puglia viene schierato l’esercito per bloccare gli evasi, a Modena i parenti riferiscono di aver sentito distintamente degli spari. E poi pestaggi e trasferimenti di massa. Il bilancio è pesantissimo: 15 detenuti morti. Le loro morti vengono velocemente insabbiate, si parla di decessi causati “per lo più” (e gli altri?) da overdose di psicofarmaci e metadone.

La scintilla che ha appiccato l’incendio è la sospensione dei colloqui come ridicola misura di contenimento del contagio (i parenti sarebbero potenzialmente infetti… le guardie no?) assieme alla consapevolezza di essere come topi in trappola di fronte al rischio di un’epidemia (si sono già verificati casi a Brescia, Milano, Voghera, Pavia, Lecce, Modena e Bologna), ma la polveriera è costituita dalle condizioni di vita inumane: sovraffollamento endemico, violenze delle guardie, impossibilità di accedere a misure alternative. Amnistia e indulto: le richieste dei detenuti sarebbero in questo momento niente di più che un provvedimento di salute pubblica, per limitare i danni della diffusione del contagio in ambienti sovraffollati (fino a 8 detenuti per cella). Se in Iran per arginare il contagio sono stati scarcerati 70000 detenuti con pene sotto i cinque anni, in Italia, dopo proteste, rivolte e una vera e propria strage di Stato, è stata concessa la possibilità di andare ai domiciliari per chi ha pene sotto i sei mesi, e ai domiciliari con il braccialetto elettronico per chi deve scontare pene sotto i diciotto mesi. In realtà si aggrava la situazione anziché migliorarla (la legge in vigore prevede già i domiciliari, previa approvazione del magistrato di sorveglianza, per chi ha pene sotto i tre anni e senza braccialetto elettronico). Senza contare che il 34,5% dei detenuti in Italia sono in attesa di giudizio e non hanno proprio nessuna pena da scontare. Questi deboli provvedimenti non si sarebbero comunque ottenuti senza una decisiva e coraggiosa prova di forza dei detenuti, consapevoli che la realtà non lascia loro scampo: o la prigionia e la morte, o la rivolta e la vita.

Sciopero generale!

Benché si proclami a livello istituzionale che tutte le attività non essenziali si devono fermare, molte fabbriche sono ancora aperte: anche quelle con altissime concentrazioni di operai, a stretto contatto sia durante la produzione sia durante la mensa. (E intanto le forze dell’ordine perlustrano a sirene spiegate ciclabili, parchi e boschi a caccia degli “untori”. E intanto le compagnie della telefonia mobile realizzano schedature di massa per “tracciare” gli spostamenti individuali). Anche in Trentino, come nel resto d’Italia, si sono registrati scioperi in diverse fabbriche (Dana, Pama, Fly, Siemens44, Mariani, Sapes, Tecnoclima, Ebara…), a cui si aggiungono i tanti operai che hanno deciso di stare a casa anche in assenza di sciopero. Non si tratta solo di una comprensibile reazione di paura di fronte al virus, ma di un contributo alla salute di tutti. Questi scioperi vanno sostenuti ed estesi a tutte le produzioni non strettamente necessarie. Se la salute non è compatibile con il profitto, tanto peggio per il profitto.

Tutti sulla stessa barca?

Stiamo assistendo in questi giorni a una massiccia iniezione a reti unificate di retorica nazionalista: “Tutti insieme contro il nemico comune”. In questo racconto tricolore scompaiono per magia le condizioni materiali di vita che non sono affatto uguali per tutti (per restare a casa, una casa devo avercela e potermela mantenere…). Ma guardiamo un po’ più in là. Se è impossibile fare previsioni precise sul dopo, una cosa è sicura. Gli effetti economici di questa “crisi sanitaria” avranno un peso ben differenziato nella società. Per milioni di persone si porrà il problema pratico di avere di che vivere. Gli stessi prestiti da parte della Banca centrale europea non saranno affatto gratis, bensì imporranno nuove misure di austerità che colpiranno soprattutto i più poveri. A spingere la barca sarà chi è già per metà sott’acqua. Ricordiamocelo quando spariranno le note dell’inno di Mameli.

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Cronache dallo stato d’emergenza (numero1)

Passeggiando sull’orlo… un tuffo nel nulla

I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati.
(Albert Camus, La peste)

Caos… o no?

L’arrivo dell’epidemia in Italia è il punto di partenza di uno stravolgimento non ancora conosciuto. L’economia sta crollando. Centinaia di miliardi di euro sono spariti. Gli esercizi commerciali chiudono. Uffici pubblici, scuole, palestre… tutto è bloccato. Solo i supermercati e i negozi di prima necessità restano aperti e vengono giornalmente svuotati. Le persone per lo più escono di casa solo per fare la spesa. Spaventate, non parlano tra loro, ognuno cerca di fare il più in fretta possibile. Sembra quasi uno scenario pre-apocalittico, qualcuno potrebbe pensare che questo sia il preludio di un periodo di caos. Eppure la situazione odierna è tutto meno che caotica: milioni di persone rinunciano a uscire di casa in nome di una responsabilità collettiva farcita di patriottismo, lo Stato ordina e i cittadini obbediscono, chi per paura, chi per evitare ritorsioni; le relazioni per lo più sono mediate da supporti informatici e il contatto umano è divenuto oltraggio alla salute collettiva. L’economia si orienta sulle piattaforme via web, grosse multinazionali gestiscono interamente il traffico di merce e catene di supermercati diventano il principale punto di riferimento per soddisfare i bisogni. L’istruzione avviene tramite connessione a distanza, di certo ora le aule saranno silenziose… Cosa ci sarebbe di caotico in tutto ciò?
Certo, la situazione negli ospedali è tutto meno che sotto controllo, ma perché dovrebbe poi così stupire, lo Stato si è forse mai preoccupato della salute delle persone? La malattia più che una minaccia è un’opportunità di profitto o controllo.

***

Eppure sappiamo anche che nel loro ordine, appena sotto la superficie, cova il disordine, si nasconde la ribellione, la sensazione di vita negata, più o meno raggiungibile e comprensibile dalle singole coscienze. Esiste un potenziale inespresso in termini di desiderio. Questo potenziale più viene bandito e negato più acquista pericolosità, perché potrebbe prendere fuoco in qualsiasi momento. O forse no, forse già tutto è perduto, solo noi (noi chi?) proviamo ancora passioni e desideri?
Eppure se nessuna delle due possibilità cambia la scelta individuale di continuare l’attacco al potere, cambia profondamente il modo in cui possiamo rifiutare l’idea dell’ineluttabile eterna riproduzione del presente stato di cose. Diamo forza, cercando di percepire la tensione soffocata, all’idea che un mondo altro sia possibile, e che questo non sia il migliore dei mondi, l’unico mondo possibile.

Alternativa o cogestione?

Come accade tuttavia in molti momenti storici in cui non è minata alla radice l’autorità del sistema sociale regnante, l’alternativa difficilmente riesce ad imboccare le strade dell’alterità, per ritrovarsi più spesso impantanata nella miseria della cogestione.
Cosa significa oggi aiutare a distribuire mascherine? Significherebbe o che viene concertata e coordinata la propria azione con la Protezione Civile ed il Comune oppure che è dietro l’angolo la repressione da parte di militari e poliziotti perché vengono violate le leggi ed i decreti che vietano di uscire di casa.
Questo sistema sociale ha creato un mondo dove vivono 7-8-9 miliardi di persone. Come diceva Huxley nel suo profetico romanzo “Il Mondo Nuovo”:

“La stabilità. Non c’è civiltà senza stabilità sociale. Non c’è stabilità sociale senza stabilità individuale.
La macchina gira, gira, e deve continuare a girare, sempre. E’ la morte se si arresterà. Un miliardo di persone formicolavano sulla terra. Le ruote cominciarono a girare. In centocinquant’anni ce ne furono due miliardi.
Fermate tutte le ruote. In centocinquanta settimane non ne rimane, ancora, che un miliardo; mille migliaia di migliaia di uomini e donne sono morti di fame. Le ruote devono girare regolarmente, ma non possono girare se non sono curate. Ci devono essere uomini per curarle, uomini costanti come le ruote sul loro asse, uomini sani di mente, uomini obbedienti, stabili nella loro soddisfazione. Gridando: ‘Bambino mio, madre mia, mio unico, unico amore’; gemendo: ‘Mio peccato, mio Dio terribile’; urlando per il dolore, rabbrividendo per la febbre, piangendo la vecchiaia e la povertà, come possono curare le ruote? E se non possono curare le ruote… Sarebbe arduo seppellire o bruciare i cadaveri di mille migliaia di migliaia di uomini e di donne.”

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Quali sono i nostri problemi e quali sono quelli del Dominio?
Dobbiamo forse risolvere il problema dell’inquinamento? Non ci iscriviamo a biologia, abbattiamo un traliccio dell’alta tensione per spegnere una fabbrica.
Dobbiamo forse risolvere il problema della povertà? Non fondiamo una banca etica, la rapiniamo e cerchiamo di distruggere il mondo del commercio ed anche quello della sua falsificazione “equosolidale”.
Dobbiamo forse risolvere il problema delle malattie? Non studiamo medicina, cerchiamo di abbattere questo sistema sociale. Perché l’azione rivoluzionaria non ristruttura la prigione, non la migliora. L’abbatte per creare il vuoto, per dare la possibilità alla vita di sbocciare.
L’alterità può infatti nascere solo dove non esiste il potere dello Stato, e soffoca se questi spazi in cui prova a germogliare non si allargano ma restano circoscritti a piccole sacche controllate.
Purtroppo i morti sono causati da questo mondo, dalle nostre scelte collettive di vita – anzi, di sopravvivenza. Non dalle nostre scelte individuali di lotta. Ed una rivoluzione è lastricata di sangue e di morti, perché questa è la condizione in cui questo sistema sociale ha messo l’umanità: non poter più esistere senza di esso. Come potrebbe esistere l’umanità senza la scienza del nucleare, dal momento in cui la prima centrale è stata accesa e la prima scoria prodotta? Il prezzo delle scelte di chi è vissuto prima di noi ricadrà sul futuro ancora per molti anni, ma non cominciare già da ora a pagare il debito di sofferenze non fa che aumentare le sofferenze complessive.

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Il freno d’emergenza è un pericolo.
Se non lo tiriamo, però, il Dominio continuerebbe ad approfondirsi, andando a cambiare ed a dominare anche materialmente le nostre esistenze. Per questo non è possibile accettare cogestione, né rinviare la conflittualità che dovrebbe essere permanente: perché il disastro è il loro e loro devono pagarlo. E deve finire.
Chi vuole un mondo di libertà non è responsabile dei massacri del Dominio, neppure di quelli che avverranno domani o dopo il suo crollo. Chiaramente non bisogna perdere di vista la conseguenza tra mezzi e fini, ma occorre anche saper guardare al mondo con un certo distacco.

***

Tuttavia, è anche vero che il ritmo di questi giorni è forsennato, e la coscienza del disastro diventa sempre più lampante ai più. Che accadrà quando la paura lascerà il campo al desiderio di speranza o alla speranza del desiderio?
Un mondo inaspettato
E allora? Una situazione di questo tipo coglie impreparati.
Come amanti della libertà, aspiriamo a vedere le trame di questo regime d’emergenza sfaldarsi a causa di un’ingestibile focolaio di passioni. Eppure ci domandiamo anche come cambiano le possibilità di intervento quando tutta una serie di garanzie, soprattutto le più materiali, vengono negate o semplicemente diventano non più garantite dal sistema sociale e dal suo funzionamento. Come continuare ad avere rapporti e organizzarsi, per di più se si vive a grandi distanze? Come è possibile diffondere idee senza disperderle nel regno virtuale dell’opinione, se difficilmente è possibile comunicare al di fuori di uno schermo?
Per di più, se le comunicazioni e la memoria vengono affidate esclusivamente ai social network, che hanno il potere di eliminare e censurare tutto all’improvviso, come conservare il ricordo di ciò che accade, bombardati come siamo dalle notizie prodotte dall’eterno presente? Con quali mezzi è possibile farlo autonomamente quando stamperie e tipografie sono chiuse per decreto? E quali rischi comporta il tentativo di rompere questo macabro silenzio?

Guardando al passato

Uno sguardo al passato, in questo periodo, potrebbe essere un buon punto di partenza per cercare di orientarsi sulle scelte da compiere. Senza però distogliere la mente dal presente, che ci offre una prospettiva inedita ed unica.
Esperienze passate di individui e gruppi anarchici potrebbero illuminarci riguardo all’importanza del possesso di diverse capacità, conoscenze e mezzi che hanno permesso di dare del filo da torcere allo Stato e ai suoi mezzi repressivi.
Anche in tempi di guerra o dittatura militare, in cui le condizioni di precarietà erano ben più radicali di quelle attuali, c’è chi è riuscito a continuare a lottare, diffondendo idee di rivolta e mettendole in pratica. Ma quali sono questi fantomatici mezzi e quelle capacità di cui si parlava prima? Un esempio che può sembrare tanto banale quanto lampante è la possibilità di stampare autonomamente del materiale cartaceo in grandi quantità e in tempi brevi da poter diffondere.
Nel novecento era una pratica comune che chi redigesse un giornale avesse anche le conoscenze e i mezzi materiali a propria disposizione affinché fosse possibile stampare le copie da distribuire. In molte città erano diffuse tipografie clandestine dove era possibile per i compagni stampare i propri volantini, manifesti, opuscoletti, libri e così via. Così era ad esempio in molte città della Russia ai tempi del regima zarista e di quello bolscevico, o in Argentina sotto la dittatura di Uriburu, dove un Severino di Giovanni – da latitante – poteva passare in breve tempo dal rapinare banche a stampare libri ed opuscoli.
Altre possibilità sono relative alla conoscenza approfondita del territorio in cui si vive e del sapersi muovere in esso inosservati. Pensate a un Caracremada che per decenni è riuscito a compiere sabotaggi in territorio franchista, in compagnia o da solo, varcando i Pirenei ogni volta per tornare in Francia solo settimane più tardi. Se di certo le forme di controllo assumono sembianze diverse nella storia, riflettere sulle condizioni di chi le ha eluse in passato potrebbe essere propedeutico a sviluppare forme di evasione nel presente. Come si combina la conoscenza del territorio con la propensione contemporanea al nomadismo ed al continuo spostamento nello spazio? E se le attuali restrizioni imposte fossero di stimolo ad imparare a muoversi intelligentemente su un territorio, dovendo in qualche modo evitare di essere fermati?
Eppure è solo col tempo, e non nell’immediato, che è possibile far ciò. Ed ora che scenari ci si prospettano?

Guardando al domani

Semplificando, forse all’eccesso, ci si aprono solo due alternative. Ovviamente possiamo intervenire con la nostra azione, non siamo in balia degli eventi o in attesa che la Storia faccia il suo corso. La nostra volontà ha un peso ed un ruolo in ciò che avviene, tanto vicino a noi che in lontananza. La prima possibilità è che il Dominio riesca a trovare una propria nuova stabilità, normalizzando la situazione e continuando a riprodurre il suo mondo e le relazioni da lui prodotte. L’altra è che questo Dominio cominci a perdere pezzi, ad avvitarsi su se stesso in una sempre maggiore instabilità, crollare inesorabilmente.
I tempi potrebbero essere, per qualsiasi scenario, tanto rapidi quanto inaspettati.

***

Nel primo caso occorrerebbe comprendere che cosa significa vivere in uno stato d’emergenza come questo e trovare il modo per non farsi in futuro bloccare nella propria azione da simili limitazioni esterne. C’è sempre una prossima volta.
Pensiamo a cosa accadrebbe se venissero in futuro oscurati e filtrati determinati siti. O se venissero disattivate le nostre SIM dei cellulari. Saremmo muti. Oggi più che mai, dato che non abbiamo nemmeno modo di stampare in quanto dipendiamo da aziende di stampa e copisterie e magari non abbiamo più nemmeno gli indirizzi delle persone con cui vorremmo comunicare. Pensiamo anche a tutti quegli elementi di conoscenze ed abilità che è necessario sviluppare nel tempo e non nell’emergenza. Oggi abbiamo ciò che abbiamo, i nostri limiti e la nostra ignoranza. O forse altri individui si sentono invece pronti? Ed un domani, come vogliamo sentirci? E cosa vorremmo saper fare?

***

Nel secondo caso dovremmo essere in grado in primo luogo di sopravvivere e in secondo luogo di fare in modo che il Dominio non si ripresenti sotto altre spoglie. La città è facilmente isolabile e non è in grado di autosostenersi: necessita di rifornimenti che vengano portati dall’esterno per poter continuare ad esistere.
La città è fondamentalmente un luogo che potrebbe rivelarsi all’improvviso inospitale perché costruito ad immagine e somiglianza dei poteri che l’hanno plasmata ed è quindi funzionale solo ad essi. Le reti di relazioni potrebbero venir distrutte in un battito d’ali dalla fuga verso luoghi in cui è ancora possibile la sussistenza, dove non esiste solo cemento. Con l’impossibilità di procurarsi benzina e magari non poterci telefonare o scrivere mail, vivere insieme diventa necessario per poter vivere bene e cospirare insieme. Scegliere le persone con cui stare, se vogliamo stare con altre persone, perché il futuro potrebbe essere incerto. Se ci auguriamo che le antenne saranno bruciate e le infrastrutture crollate, occorrerà capire come reinventarci la vita, e dove. E forse conviene cominciare a porsi questi interrogativi, anche se abbiamo sempre pensato che il problema della distruzione fosse così enorme da non dover mai porci, nelle nostre vite, altre questioni. E cominciare a seminare qualcosa, perché non è detto che, con la produzione just in time, esistano ancora depositi di pasta da assaltare o magazzini da saccheggiare vicino a dove abitiamo(1). Il cibo potrebbe finire anche prima che sboccino i fiori.
Forse la Comune di Parigi sarebbe durata più a lungo se dalle campagne fossero insorti gruppi di rivoluzionari che in ordine sparso avessero attaccato le retrovie dell’esercito repubblicano rompendone l’accerchiamento.

***

Quale di questi due scenari pensiamo che potrebbe essere più plausibile? A seconda dei luoghi e delle sensibilità le risposte potrebbero essere differenti.

Senza ricette, ma con le idee chiare

Usciamo dall’illusione che il crollo dello stato e del Dominio possa essere un processo uniforme. Su tutto il territorio mondiale le dinamiche e le tempistiche saranno diverse, a macchia di leopardo, rendendo in breve tempo più caotica e confusa la situazione.
Forse non avremmo mai pensato di scriverlo davvero, rassegnati come ormai siamo all’ineluttabile realtà del nostro mondo. Ma potremmo davvero riuscire a vedere la nascita di forme di vita altre. Sarà difficile giudicare, come eravamo abituati a fare, le diverse situazioni da lontano. 30 km potrebbero distanziare esperienze e modi di vita differenti, separati da un cordone sanitario di militari e polizia.
Non si possono dare ricette, oggi meno di ieri. Occorre intelligenza, generosità, sfrontatezza ed intuizione per capire cosa fare, dove e come, con che tempi. Quali sono i tempi della distruzione e della costruzione non è faccenda uniforme per tutte le sensibilità. Tuttavia una sola cosa potrà rendere traducibili le esperienze e comunicabili le intuizioni: la chiarezza di intenti. E che, in questo periodo di trasformazione, resti ben ferma la volontà di distruggere ogni forma di potere dal mondo in cui viviamo, dentro e fuori di noi.

Per l’Attacco, qui e ora.
Per la Vita, qui e ora.

Amici di penna

(1)  Riportiamo alla memoria questo vecchio contributo di A.M. Bonanno sulle prospettive insurrezionali e su alcune sue riflessioni rispetto alle capacità organizzative, mentali e fisiche che occorre sviluppare (cfr. ad esempio pg 21): https://collafenice.files.wordpress.com/2013/09/trascizione-incontro-23-giugno.pdf