Friburgo – Attacco di vernice contro la fabbrica Starag

Tratto da https://frecciaspezzata.noblogs.org/post/2020/05/31/friborgo-attacco-di-vernice-contro-la-fabbrica-starag/

Friburgo: Attacco di vernice contro la fabbrica Starag

30 maggio 2020 – Fonte: renverse.co

I popoli della Federazione democratica del nord e dell’est  della Siria (Rojava), che hanno liberato le loro terre da Daesh, stanno ora affrontando gli attacchi dello Stato turco. Dal 2018 la Turchia ha invaso la regione, costringendo centinaia di migliaia di famiglie a fuggire. Questa occupazione, di una violenza senza precedenti è un attacco diretto al sistema democratico stabilito nel Rojava. In effetti, la prospettiva di una regione governata secondo i principi dell’ecologia e della liberazione delle donne fa tremare tutti gli Stati capitalisti e imperialisti.

27 maggio

È quindi con il sostegno dell’Unione Europea e del governo svizzero che Erdogan continua la sua guerra di occupazione. Ciò comprende il sostegno diplomatico e finanziario, nonché il sostegno militare. Così Starag è in grado di esportare le sue macchine utensili in Turchia per la fabbricazione di granate a razzo, tra le altre armi da guerra. Una delle fonti della guerra di Erdogan si trova quindi nel cuore della Gruyère svizzera. Ma dal Rojava alla Gruyère, il popolo è stufo dei governanti che si arricchiscono con le guerre. All’inizio di aprile, i nostri compagni dell’HBDH (Movimento rivoluzionario dei popoli uniti) in Turchia hanno attaccato una fabbrica a Roketsan, un produttore di … Razzi. Questa azione ha messo in risalto le molte fabbriche svizzere che collaborano con Roketsan. Vogliamo dimostrare il nostro sostegno a questa azione con un attacco di vernice alla fabbrica Starag. Le frasi “Free Rojava”, “le tue macchine uccidono” e “Le donne difendono il Rojava” sono state dipinte a spruzzo sulla facciata. Rivendichiamo questa azione a nome della brigata Sehids Bese, Çiçek e Siyajin, 3 guerriglier* cadut* sotto il bombardamento dell’esercito turco a Heftanin lo scorso novembre. Tutti e tre provenivano dal Kurdistan settentrionale e si erano uniti alla lotta della stella YJA per costruire una vita dignitosa e libera.

È qui che inizia la guerra, fermiamola alla sua fonte.

https://ilrovescio.info/2020/06/01/friburgo-attacco-di-vernice-contro-la-fabbrica-starag/

Ieri è morto un proletario antifascista

IERI È MORTO UN PROLETARIO ANTIFASCISTA

Con lacrime infuocate agli occhi, con il cuore che esplode di rabbia di amore e di odio, con la mente sovraccarica di pensieri e ricordi, desidero che tutti e tutte voi sappiate che ieri è morto un proletario antifascista.

A Medea, in una fabbrica è morto sul lavoro e di lavoro un amico, un compagno, un operaio antifascista.

Lo voglio ricordare qui oggi e domani e sempre in ogni luogo e con chiunque, perché altrimenti nessuno si ricorderà di lui.

Si ricorderanno di lui la sua compagna, orgogliosa figlia del Continente africano, i suoi amici del “Villaggio balcanico” di via Sile a Gorizia, nel quartiere operaio di Straccis dove ho vissuto per alcuni anni – alcuni anni fa – un’esperienza di vita molto importante. Loro si ricorderanno di lui. Io mi ricorderò di lui. E basta.

Il mio amico operaio, il mio compagno proletario antifascista si chiama Adnan Hodzic…”Ado” per gli amici ed è morto ieri, all’età di 31 anni, lavorando in una fabbrica di Medea, vicino a Gorizia.

Viveva a Gorizia, con la sua compagna e la bambina di quest’ultima che era come

se fosse sua figlia.

Viveva a Gorizia, mi aiutava spesso quando avevo bisogno di comunicare con persone di madrelingua serbo-croata-bosniaca, discutevamo spesso di tanti argomenti, magari di fronte a una birra di sottomarca di un discount.

“Ado” aveva partecipato alla grande manifestazione antifascista del 23 maggio 2015 a Gorizia, contro Casapound, i nazionalismi, i razzismi e la retorica militarista dei neofascisti. “Ado” era venuto anche alle altre manifestazioni antifasciste che per alcuni anni hanno agitato la città di Gorizia. “Ado” ha partecipato pure al corteo contro la X Mas del gennaio scorso. Io lo invitavo e lui veniva, lui veniva anche perché era originario della zona di Bihac, in Bosnia, e la sua famiglia era da generazioni famiglia antifascista per la “fratellanza e l’unità”.

A chi ancora pensa che il proletariato e la lotta di classe non esistano più, a chi pensa che i processi di proletarizzazione di ampi strati della società siano invenzioni propagandistiche dei rivoluzionari, a chi è convinto che ormai anche gli operai siano peggio dei padroni perché aspirano ai macchinoni e alla bella vita, io rispondo senza comizi o trattati di scienza politica ma sbattendo in faccia le biografie di tanti di noi, la biografia di “Ado” e dei morti della Tyssen-Krupp, la biografia dei braccianti e delle braccianti dei campi e di tutte le vittime della variegata geografia e morfologia dello sfruttamento del terzo millennio. “Ado” si spostava in bicicletta, altro che macchinoni!

Un quotidiano borghese locale, nel riferire la “notizia” della morte dell’operaio Adnan Hodzic, dice che il proprietario della fabbrica sig. Ugo Bernasconi, capitalista lombardo, è stato avvisato dell’accaduto e che partirà da Como per raggiungere Medea.

Si precisa però che il malcapitato lavoratore non era dipendente della Bernasconi srl bensì di una ditta esterna, la Nova SG Costruzioni e Ristrutturazioni di Gorizia: subito un solerte Sindaco di Medea, si è premurato di dire che “c’è grande dispiacere per quello che è accaduto” ma dice anche che…però… “conosco bene il titolare dell’azienda: ha sempre lavorato con grande professionalità e ha avuto riguardo e attenzione per Medea e per la comunità nella quale si è insediato”.Adnan è morto perché è precipitato dal tetto del capannone e perché il tetto ha ceduto. Mancavano evidentemente le più elementari misure di sicurezza. Quando muore un operaio per queste ragioni la colpa è del padrone e che il padrone sia dispiaciuto ora non conta nulla ed è solo una beffa e motivo di odio di classe per chi rimane in vita e deve sopravvivere e deve portare avanti sempre con più determinazione la resistenza e la lotta per rovesciare questo sistema marcio e mortifero.

Il compagno proletario antifascista, l’amico, il giovane uomo, il compagno di una donna e il burlone affettuoso “paparino” di una bimba è morto, è morto di lavoro salariato, è morto per pagare l’affitto, le bollette e la spesa alimentare in un discount, è morto producendo ricchezza e profitto per i padroni che ne estorcevano talento, competenza, tempo ed energie: questa è la verità e questi sono i motivi per cui i rivoluzionari e le rivoluzionarie non si daranno mai pace e non concederanno mai pace ai padroni sfruttatori e agli Stati al loro servizio, che hanno bisogno dei disoccupati, dei proletari e dei sottoproletari, dei migranti da regolarizzare quando fanno comodo al mercato e al sistema produttivo e da sfruttare e da rinchiudere nei lager-cpr o nelle galere quando non servono più ai loro profitti o quando alzano la testa e la voce e i pugni chiusi contro il cielo.

Ti sia lieve la terra “Ado”, non sarai dimenticato e vivrai nelle lotte di ogni giorno, in quelle da mettere in piedi oggi e nei prossimi mesi e nell’autunno che non sarà caldo ma bollente.

Gorizia, 30 maggio 2020

Un compagno, amico di Adnan “Ado” Hodzic

Qui sotto il testo in pdf:

In memoria di Ado

 

Ieri è morto un proletario antifascista

Minneapolis: Ora questa lotta si combatte su due fronti

Queste poche righe ci sono pervenute da dei compagnie e compagne americani:

E’ una insurrezione. E’ scoppiata una vera e propria insurrezione negli Stati Uniti. Credo che calerà in alcuni posti e si estenderà ad altri, muterà. Ancora scontri pesanti ad Atlanta ma senza più incendi e saccheggi. Chicago ieri [31/5 ndT], a detta di un compagno che era lì, 10 ore di saccheggi, niente polizia. Dice che il centro è una “zona abbandonata” (forsaken zone), non è più gente né sbirri, solo vetrine infrante. A New York City nella zona sud del quartiere Hudson e nel quartiere Soho, tutti negozi di lusso e costosi -Supreme il suo negozio principale lì- sono stati saccheggiati, dal primo all’ultimo. E poi Chelsea, Brooklyn, Harlem, Manhattan. A San Francisco, San José, Oakland e tutta la Bay Area, a Philadelphia non c’è altro che riot. Ora col presidente nel bunker, la destra si è presentata da qualche parte ma non così in massa come è circolato. Riot ieri [31/5 ndT] a Montreal in Canada, con saccheggi. Sta
incominciando a estendersi internazionalmente E’ importante che la gente diffonda ciò che sta avvenendo e che ci siano manifestazioni di solidarietà. Sarebbe un ottimo segnale per la gente che si sta battendo in queste strade. Sembra che applichino lo stesso schema usato con Ferguson. Al terzo giorno dissero che gli scontri erano stati pianificati da anarchici bianchi. Questa roba funziona per un paio di giorni poi la gente smette di crederci. Ora provano a far si che la polizia aderisca ad alcune manifestazioni in solidarietà e anche questo funziona solo per un paio di giorni.

Tratto da https://de.crimethinc.com/2020/05/28/minneapolis-ora-questa-lotta-si-combatte-su-due-fronti-cosa-significano-i-disordini-per-lepoca-del-covid-19

Minneapolis: ora questa lotta si combatte su due fronti

Cosa significano i disordini per l’epoca del COVID-19

Le dimostrazioni di questa settimana a Minneapolis segnano uno spartiacque storico nell’epoca del COVID-19. Come abbiamo scritto a marzo, ci sono alcune cose per le quali vale la pena morire. La perpetuazione del capitalismo non è una di queste. Ma alcuni di noi affrontano minacce ancora più mortali del COVID-19. Vale la pena rischiare la nostra vita per lottare per un mondo in cui nessuno sia ucciso come George Floyd – e ciò che sta accadendo a Minneapolis dimostra che la gente è pronta a farlo.

Anche prima della pandemia, gli Stati Uniti erano una polveriera, con diseguaglianze in rapida crescita che stavano polarizzando la popolazione. Da marzo, oltre a una disoccupazione mai vista prima, abbiamo assistito alla proliferazione di rischi letali in tutta la popolazione sulla falsariga delle disparità preesistenti legate a razza e classe. Il Governo ha creato miliardi di dollari da far confluire nelle tasche dei dirigenti, lasciando la gente comune a bocca asciutta; le multinazionali stanno costringendo chi ha ancora un lavoro a rischiare la vita giorno dopo giorno, introducendo nuove tecnologie di sorveglianza e cercando di accelerare il ritmo dell’automazione. In poche parole, siamo considerati alla stregua di una popolazione in eccedenza per essere controllati dalla violenza dello Stato ed essere decimati dal virus.

I politici di ogni schieramento sono complici di ciò che sta accadendo. Qualcuno preferisce affidarsi alla forza bruta per stabilizzare la situazione, altri a una gestione più razionale; ma nessuno tra chi è al potere ha un piano serio su come affrontare i fattori sistemici che, innanzitutto, ci hanno portato a questo punto. Nel migliore dei casi, prendono in prestito la retorica e i punti cruciali dalle campagne da noi avviate, mostrando che – proprio come nel caso del licenziamento dei poliziotti di Minneapolis a – l’unico modo in cui potremo assistere a un cambiamento sociale sarà attraverso azioni popolari portate avanti con la forza.

Fino al 26 maggio, la principale tensione sociale negli Stati Uniti sembrava essere quella esistente tra i sostenitori di Trump – che fanno finta che non vi sia alcuna pandemia in atto – e i Democratici – che vogliono passare per quelli cauti e responsabili senza però affrontare i fattori che ci costringono correre dei rischi. Lo spettacolo degli scontri tra un movimento di astroturf di estrema destra, che richiede la “riapertura” dell’economia, e agenti di polizia insolitamente frenati, che difendono le misure di chiusura statale, è servito solamente a limitare il discorso politico a una scelta fasulla tra il tipo di “libertà” promossa da capitalisti e suprematisti bianchi da un lato, e il tipo di “sicurezza” che gli Stati totalitari promettono sempre di fornire dall’altro.

La coraggiosa resistenza al controllo della polizia di Minneapolis del 26 e del 27 maggio in risposta al brutale omicidio di George Floyd mostra che un gran numero di persone sono pronte a opporsi a Governo e Polizia anche a costo di correre rischi elevati. Stiamo udendo la voce di una parte della popolazione rimasta in silenzio negli ultimi due mesi – ma quella di coloro che non sono né ricchi liberali né servili conservatori – e si scopre che insieme siamo abbastanza potenti da sconvolgere lo status quo.

Gli eventi di Minneapolis amplieranno l’immaginario collettivo – che si era dolorosamente contratto negli ultimi anni – su ciò che è possibile. Cambieranno il discorso su come avviene il cambiamento sociale. È diventato ormai chiaro che supplicare coloro che detengono il potere con mezzi elettorali è un vicolo cieco. Tentare di apportare dei cambiamenti con la forza è un azzardo ma è l’unica scelta realistica rimasta.

È significativo che la mobilitazione che ci ha fatto aprire gli occhi sia stata una risposta contro la violenza di poliziotti razzisti, iniziata da chi è vittima della supremazia bianca e di tutti gli altri vettori di oppressione. Come notammo alla fine del 2017, le rivolte contro la violenza della Polizia svoltesi in tutto il Paese, da Ferguson a Baltimora e altrove, cessarono virtualmente dopo l’elezione di Donald Trump. Non è chiaro perché ciò accadde ma, di sicuro, non finirono perché la violenza della Polizia fosse diminuita. L’insurrezione di Minneapolis riporta alla luce tutto l’irrisolto di quel periodo inserito però in un contesto completamente diverso, in cui molte più persone sono state radicalizzate, la società è molto più polarizzata ed è sempre più chiaro a tutti che – ma che sia per i proiettili della Polizia, per il COVID-19 o per i cambiamenti climatici globali – le nostre vite sono in pericolo.

Gli scontri di Minneapolis imperversano in tutti i notiziari, dalla Grecia al Cile. Nel bene o nel male, gli Stati Uniti occupano una posizione di rilievo nell’economia globale dell’attenzione – e, grazie alla pandemia, chiunque in qualunque parte del mondo sta subendo pressioni simili. Soprattutto nel Sud del mondo – Brasile, Indonesia, Sudafrica – dove una buona fetta della popolazione vive la stessa brutalità inflitta a persone come George Floyd, la ribellione a Minneapolis offrirà un esempio che altri emuleranno nei prossimi mesi.

Come risponderà la classe dirigente? Negli Stati Uniti, Trump e i suoi sostenitori accuseranno i Democratici di non poter controllare gli Stati da loro governati, usando questo per alimentare la paura razzista tra i beneficiari del privilegio bianco. I centristi Democratici affermeranno che questo tipo di disordini è ciò che accade quando lo stato di diritto non viene rispettato dalla Casa Bianca, sperando così di riconquistare potere a livello nazionale – anche se in Minnesota c’è un governatore Democratico e la legge è sempre stata uno strumento di supremazia bianca. La sinistra istituzionale si presenterà nelle vesti d’intermediaria, offrendosi di toglierci dalle strade e dal controllo in cambio di alcune concessioni.

Fortunatamente, in un momento in cui lo Stato stesso si sta disgregando in fazioni rivali, nessuno di questi gruppi ha il capitale politico di cui hanno bisogno per compiere una vera e propria repressione statale senza correre il rischio di essere abbandonati dagli altri. Sembra che ogni fazione desideri che le altre siano ritenute responsabili dell’escalation della situazione. In ogni caso, Trump non è più l’unico a dominare i notiziari. Ora questa guerra si combatte su due fronti.

Solo una settimana fa, alcuni elementi dell’estrema destra stavano cercando di inquadrarsi come anti-polizia a causa delle proteste contro la “riapertura.” Ieri notte a Minneapolis, miliziani armati si sono schierati, in modo imbarazzante, in favore delle proteste ma contro il saccheggio – una contraddizione che diventa palese non appena si nota in quale direzione puntano le loro pistole. Il probabile omicidio di un manifestante a Minneapolis commesso la scorsa notte da un vigilante di guardia a un negozio dovrebbe esplicitare in modo abbastanza chiaro che guardie giurate e sbirri sono la stessa cosa – assassini –, con o senza uniforme.

E cosa dovremmo fare? Dovremmo dire chiaramente a tutti quelli che vorranno ascoltare perché la gente si difende da sola. Dovremmo condividere le conoscenze su come proteggersi l’un l’altro nelle strade. Dovremmo rafforzare le nostre reti e prepararci a partecipare a eventi simili in tutto il mondo. Dovremmo resistere a ogni tentativo di dividere coloro che agiscono insieme in modo solidale contro la violenza della Polizia, in particolare contro le teorie del complotto sugli agitatori esterni. Dovremmo spiegare ancora una volta perché vandalismo e saccheggio sono tattiche di protesta efficaci e legittime. Ogni volta che le persone si difendono da sole dallo stato di Polizia, dovremmo mostrar loro solidarietà, preparandoci a correre gli stessi rischi che coloro che sosteniamo affrontano ogni giorno. Soprattutto, dovremmo condividere la visione di un mondo senza oppressione, senza gerarchia, senza polizia o carceri o sorveglianza e mostrare quali sono le strategie attraverso le quali possiamo crearlo.

Non siamo debitori nei confronti della Polizia che ha approfittato della pandemia per uccidere i neri in modo ancora più evidente di prima. Non è mai stata concepita per tenerci al sicuro. Non siamo debitori nei confronti dei miliardari che hanno approfittato della pandemia per intascare ancora più soldi dallo Stato e per monopolizzare il mercato. La vita della loro economia significa la morte per noi. Non siamo debitori nei confronti dei politici che hanno a malapena alzato un dito per proteggere la nostra salute o le nostre case. Hanno avuto la loro occasione. Dobbiamo cambiare tutto da soli.

L’ordine dominante è condannato. Prima o poi collasserà. La concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di un numero sempre minore di persone non è sostenibile. L’unica domanda è se lo rovesceremo prima che ci uccida e prima che decimi il pianeta. Il tempo stringe. La vita che pensavamo fosse davanti a noi ci è già stata strappata. Tocca a noi creare un altro futuro.

Grazie a tutti coloro che la notte scorsa hanno rischiato la propria libertà – e forse la propria vita – a Minneapolis e a Los Angeles per dimostrare che l’omicidio di George Floyd è inaccettabile.

Manifestazioni di solidarietà programmate

Aggiorneremo questa sezione man mano che verranno annunciate nuove dimostrazioni.

California

San Francisco/East Bay

Venerdì 29 maggio, ore 20.00

Fuck the Police: Vengeance for George Floyd (Fanculo gli sbirri: vendetta per George Floyd)/Manifestazione di solidarietà per Minneapolis a Oakland Oscar Grant Plaza, 14th e Broadway – “Resta in sicurezza, indossa una mascherina”

Colorado

Denver

28, 29 e 30 maggio, tutti i giorni a mezzogiorno presso il Denver Capitol Building: Justice for George Floyd (Giustizia per George Floyd)

Georgia

Atlanta

29 maggio, ore 16.00

CNN Center 1: Stop Killing Us! (Smettetela di ucciderci!)

7 giugno, ore 20.00

All’angolo tra Satellite Blvd e Pleasant Hill Rd

Indiana

Jasper, Indiana

30 maggio, dalle 10.00 a mezzogiorno, “Stand Up and Say Their Name” (Alzati e dì il loro nome) – ospitato da ONE – Dubois County, presso Dubois County Courthouse

Iowa

Des Moines

30 maggio, ore 13.00 – We Still Can’t Breathe (Non riusciamo ancora a respirare)

Kentucky

Louisville

29 maggio, ore 20.30

March of Freedom (Marcia per la libertà): incontro all’esterno del Muhammad Ali Center; indossare una maschera nera

Massachusetts

Boston

Venerdì 29 maggio, ore 17.00 – Peters Park, 1277 Washington Street – ”Stop the pandemic of police brutality” (Fermiamo la pandemia della brutalità della Polizia)

Springfield

Venerdì, 29 maggio, ore 13.30 Western Mass Stand-Out Protest: Stop Killing Black People (Protesta di massa occidentale: smettere di uccidere i neri)

New Hampshire

Lebanon (Dartmouth College)

Sabato 30 maggio, ore 18.00 End the Killing Now (Smettete di uccidere ora)

Manchester

Sabato 30 maggio, ore 10.00

Black Lives Matter March on Elm (Le vite dei neri contano)

Albany

Sabato 30 maggio, ore 13.00

Albany Corre/Cammina/Marcia per le vite dei neri

New York

New York City

Giovedì 28 maggio, alle 18.00

New York Solidarity with Minneapolis (Solidarietà di New York con Minneapolis), Union Square

Venerdì 29 maggio, ore 18.00

Barclay’s Center, Brooklyn; “Wear PPE, prepare to escalate, prepare to march” (Indossa i DPI, preparati a un’escalation, preparati a marciare)

North Carolina

Charlotte

Venerdì 29 maggio, ore 18.30 Justice for George Floyd (Giustizia per George Floyd)

Raleigh

Domenica 31 maggio ore 15.30 Memorial for George Floyd – In memoria di George Floyd

Ohio

Cleveland

30 maggio, ore 14.00, presso Free Stamp – SURJ NEO (Showing Up for Racial Justice – Ergiamoci per la giustizia razziale – Northeast Ohio)

Oregon

Portland

Al momento è in corso un’occupazione del polo giudiziario nel centro città in 1120 SW 3rd Avenue in solidarietà con George Floyd, annunciato dal PNW Youth Liberation Front.

Tennessee

Knoxville

Venerdì 29 maggio, ore 18-00

Raduno presso il dipartimento di polizia di Knoxville: “I partecipanti hanno chiesto di indossare mascherine e il distanziamento sociale o di partecipare alla protesta in auto se non si sentono a proprio agio/al sicuro in grandi gruppi.”

Texas

Austin

30 maggio, ore 12.00

From Austin to Minneapolis:Justice for George Floyd and Mike Ramos” (“Da Austin a Minneapolis: giustizia per George Floyd e Mike Ramos”)

Houston

29 maggio, ore 14.00

Ospitato da Black Lives Matter Houston – Discovery Green, incontro in 1500 McKinney Street e marcia verso il Municipio

San Antonio

30 maggio, 17.00,

301 E Travis St. – ospitato da Autonomous Brown Berets

San Jose

Venerdì 29 maggio, ore 14.00 George Floyd Solidarity Action (Azione di solidarietà per George Floyd)

Vermont

Burlington

Sabato 30 maggio, ore 18.00

Protest for George Floyd (Protesta per George Floyd)

Virginia

Richmond

Venerdì 29 maggio, ore 20.30

NO JUSTICE NO PEACE FUCK THE POLICE (NIENTE GIUSTIZIA NIENTE PACE FANCULO AGLI SBIRRI) appuntamento al Monroe Park (indossate una mascherina e dei guanti)

Stato di Washington

Seattle

29 maggio, ore 19.00

International District, Chinatown, Hing Hay Park

Sabato 30 maggio, ore 12.00 (mezzogiorno)

610 5th Ave. South- “March for Justice #GeorgeFloyd” (Marcia per la giustizia #GeorgeFloyd)

6 giugno dalle 14.00 alle 17.00

#SeattleJusticeforGeorgeFloyd – “Ci incontreremo sotto lo Space Needle e inizieremo a marciare verso Pike Place alle 14.00; per favore niente violenza o saccheggio” [sic]

Germania

Manifestazioni spontanee si sono già svolte a Neumunster e Brema.

Wuppertal

29 maggio, ore 18.00

Uhr vor dem City Arkaden (Alte Freiheit)

Grecia

Atene

Venerdì 29 maggio, ore 20.00 – Piazza Exarchia – “Contro il terrore di Stato ovunque.”

 

Interviste fatte il 01.06.2020 sulle sommesse in America:

https://radioblackout.org/2020/06/born-in-the-u-s-a/

 

Minneapolis: Ora questa lotta si combatte su due fronti

Milano – 13 giugno presidio solidale e informativo verso il corteo del 20 giugno

SABATO 13 GIUGNO
Dalle 17:00
PRESIDIO SOLIDALE con le arrestate e gli arrestati dell’operazione
“Ritrovo” di Bologna
BANCHETTO INFORMATIVO: riflessioni e spunti sulla situazione attuale,
l’operazione “Ritrovo” E SUL CORTEO IN PROGRAMMAZIONE PER IL 20 GIUGNO A
MILANO.
RINFRESCO BENEFIT per le spese legali
Rotonda Via Giocosa – Via Padova
MILANO

“Il 13 Maggio tra Bologna e Milano sette compagni e compagne anarchici
sono stati arrestati e altri 5 sottoposti a misure cautelari.
L’accusa è di 270bis: associazione con finalità di terrorismo.
Viene imputato loro di aver portato solidarietà ai prigionieri di
carceri e CPR (centri di permanenza per il rimpatrio) e di aver lottato
contro questo sistema capitalistico fatto di controllo tecnologico e
sfruttamento.
Questa operazione ha lo scopo, dichiarato dalla procura stessa, di
prevenire le tensioni sociali dovute alla crisi economica che seguirà
quella sanitaria.
Proprio in questo momento in cui lo Stato da un lato reprime e
dall’altro affama ancora più del solito crediamo sia importante prendere
parola e avere il coraggio di tornare in strada a lottare.
A scuola e sul lavoro, nelle carceri e nei CPR, nelle case e nelle
strade con l’avanzare della crisi lottare sarà l’unico modo per poter
respirare.”

Solidali e anticapitaliste/i

 

DIETRO L’ANGOLO PT.8 – UN LATO OSCURO. ANCORA SU GUERRA CIVILE E INSURREZIONE

QUALCHE IPOTESI SU COVID-19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO.

Nel corso dell’attuale epidemia di Covid-19, e soprattutto nel suo portato di misure di contenimento sanitarie e sociali sono apparse blande seppur allusive manifestazioni di una questione inquietante. Una questione complessa che, a memoria, è emersa all’interno della teoria e analisi anarchiche con tremenda urgenza durante uno degli avvenimenti che più hanno ecceduto gli schemi logici con cui sino ad allora si affrontavano gli scenari bellici: il massacro jugoslavo. Ci sembra che il libretto Guerra civile di Alfredo M. Bonanno1 sia un contributo inaggirabile per l’elaborazione rivoluzionaria, non solo per l’originalissima prospettiva analitica, ma soprattutto per le questioni etiche che tale tema pone, non lì esplicitamente affrontate e per questo tutte da svolgere.

Le righe che seguono riprenderanno la tematica non solo per affrontare questo imperativo, ma anche perché non ci sembra peregrino riproporre e riprendere l’analisi di questo complesso teorico (e pratico) proprio in un momento che, come allora, ci costringe a fare i conti con una eccezionalità che ha stravolto, stravolge e stravolgerà il modo di vivere a cui tutti, con più o meno agio, eravamo abituati.

 

Lungo il corso del testo apparirà euristicamente quella che probabilmente è una definizione minimale e scolastica di guerra civile come conflitto anomico, diffuso e infra-nazionale, caratterizzato da violenza indiscriminata potenzialmente senza limiti.

Una premessa doverosa: faremo di certo torto all’intelligenza di tante lettrici e lettori, ma vorremmo sottolineare a priori come per chi scrive lo scenario di ‘guerra civile’, per quanto a noi sconosciuto, disgusti profondamente.

Tuttavia, ad essere onesti, non pare sufficiente contrapporvi il concetto di ‘guerra sociale’, ovvero non sia sufficiente indirizzare programmaticamente i nostri sforzi pratici e analitici verso momenti di lotta in cui si contrappongono chiaramente (interessi di) sfruttati e sfruttatori. Non è sufficiente sostenere la necessità della guerra sociale contro la mostruosità della guerra civile. Siamo certi che questo in nessun modo potrebbe metterci al riparo, facendoci imboccare i retti binari della rivoluzione emancipatrice.

Non è difficile sostenere che le dinamiche insurrezionali, necessarie per aprire possibilità di liberazione collettiva, non hanno mai uno svolgimento lineare, animate come sono da tensioni variegate e contraddittorie, di cui spesso è difficile dare un significato etico univoco. La ‘guerra civile’ ci pare non certo il contesto auspicabile in cui agire (lo ripetiamo ancora una volta), ma di certo uno tra i probabili esiti di certe rotture o svolte improvvise nella quotidianità alle nostre latitudini.

Per concludere. Il tema ‘guerra civile’ ha peso e sembra ancora una volta inaggirabile perché ha tutte le carte in regola per essere l’impensato dell’insurrezione, il suo lato oscuro. Da una parte, abbiamo a che fare con un campo teorico e pratico in cui ci si è mossi – perlomeno dal punto di vista teorico – in lungo e in largo, con indubbia originalità e elaborazioni concettuali tuttora preziose e valide. Dall’altra, abbiamo una certezza: chiunque pensi e agisca con la pretesa di scatenare o partecipare a lotte con sbocchi insurrezionali non può non avere ben chiaro che il loro probabile svolgimento avrà di certo a che fare con quella che può essere definita ‘guerra civile’.

La presente pandemia di Covid-19 ha causato e causerà imponenti fratture nella quotidianità di praticamente tutti gli abitanti del pianeta. In questo luogo non verrà affrontata la cosiddetta narrazione dominante sul Covid-19, piuttosto la pandemia verrà considerata da un unico e pur complesso lato: come un momento di rottura, di profonda crisi del sistema capitalistico nazionale e trans-nazionale.

Come tale, come improvviso e imprevisto avvenimento critico chiama in causa, seppur da un’angolazione inedita, la teoria e la pratica rivoluzionaria: molteplici strutture del potere, a più livelli, vengono intaccate e messe parzialmente o totalmente fuori uso. Una crisi del genere, a nostro parere ha più differenze che analogie con le crisi economiche che, anche di recente, minano il funzionamento del sistema capitalistico avanzato: le sue ripercussioni sono molto più immediate sulla vita delle persone e probabilmente questa ha ricevuto molta meno attenzione in termini di previsioni e relative contromosse economiche e politiche.

Una spaccatura di tale portata ridisegnerà, tra le altre mille cose, gli equilibri nello scontro tra sfruttati e sfruttatori. Se da una parte le misure antiepidemiche si innestano organicamente su efficienti per quanto inedite modalità di produzione, distribuzione e consumo (e della loro difesa), dall’altra costringono e costringeranno altissimi numeri di sfruttati in spazi angusti di vivibilità e di accesso ai beni primari.

Non risulta quindi peregrino un tentativo ulteriore di analisi della guerra civile, nelle sue intensità più variabili, nelle sue forme oscure che paiono potersi ripresentare ed acuire perfino in latitudini che si reputavano al sicuro da bubboni di brutalità e di scontro anomico.

Qualche anno fa, un brillante articolo2 pubblicato da un mensile anarchico, si inseriva nel minuscolo dibattito sull’analisi del concetto di ‘guerra civile’, apportando preziose critiche ad un precedente scritto sul tema3.

Schematicamente lo scritto sosteneva che:

  • la guerra civile, perlomeno nella presente epoca, non si manifesta come un conflitto capace di eccedere ogni limite; un tale conflitto, pur iscritto nel profondo di ogni organismo sociale, non è mai scollegato dal contesto principale in cui avviene, anche nei casi di crisi irreparabile;
  • non è possibile immaginare il retrocedere di uno Stato-nazione con i suoi apparati sullo stesso piano di azione di emergenti formazioni organizzate, eventualmente partecipanti al conflitto;
  • lo Stato è infatti ‘ciò che, in ultima istanza, decide delle sorti della guerra civile’, ovvero ha una funzione che nel corso della sua durata (ma che perdura anche nel caso di sua dissoluzione) si articola come sapere di Stato = capacità di dare forma ad un conflitto e potere di Stato = capacità di esercitare il monopolio della forza;
  • questo significa che lo Stato esiste, quando è in salute, come agente di sospensione della guerra civile, non del suo annullamento: sulla minaccia sempre presente di esplosione di suoi focolai costruisce il suo consenso;
  • ma questo significa infine che la guerra civile gode di un’esistenza strisciante, sotterranea all’interno delle società organizzate in Stato e che perciò segue e si sviluppa su assi e traiettorie isomorfe ai rapporti di forza consolidatisi in esso;

Terremo a mente questi punti per sviluppare il presente elaborato, il cui punto di osservazione è il suolo italico, nello specifico un contesto urbano semimetropolitano.

Ancor prima dello sconvolgimento della quotidianità cittadina via decreto, a fare data dal 9 di marzo, le caratteristiche proprie della epidemia hanno dispiegato una dinamica antica, la caccia all’untore, che, come proveremo ad argomentare non può fare a meno di richiamare la figura più arcaica e fondamentale del capro espiatorio.

Già dagli inizi di febbraio possiamo reperire notizie grottesche e realissime di fobia isterica, spesso incarnata in attacchi fisici, verso persone fisiognomicamente asiatiche, e cinesi nello specifico. Presunti veicoli del virus, i e le cinesi, i negozi e i ristoranti da essi gestiti son stati individuati da ampie porzioni di popolazione come ‘il’ problema, come luoghi e corpi di cui sospettare, da tenere a distanza, da evitare quando non da attaccare.

Il rapido evolvere della situazione, le successive e sempre più stringenti misure di contenimento hanno fatto scivolare la psicosi verso il Celeste Impero in secondo o terzo piano (non volendo entrare nel grottesco dibattito sulle presunte colpe ab origine di diffusione epidemica, come se il virus fosse un gattino scappato sui tetti del vicinato).

Dopo la Cina altre figure hanno rapidamente occupato la casella funzionale del capro espiatorio, in una sequela di ruoli sempre più improbabili e, fattore non di secondaria importanza, vaghi, cioè non immediatamente riconoscibili – senza più gli occhi a mandorla, o meglio, non solo –.

A questo punto del discorso è utile presupporre la funzione fondamentale e fondativa che il capro espiatorio svolge all’interno delle comunità, macro o micro che siano. Seppur sia stato molto importante il ruolo dello Stato nell’individuazione del colpevole dello spargimento del virus – chi non sta a casa, chi corre, i furbetti, chi non rispetta il distanziamento sociale –, ci pare tuttavia che in frangenti di crisi generale, di difficile comprensione, di incertezza, il colpevole, la funzione di colpevole svolga una cruciale importanza sia su un livello individuale sia su uno collettivo.

Non si può non collocare il concetto di capro espiatorio all’interno di una costellazione di altri concetti: danno, colpa, violenza, sacrificio/sanzione, obliterazione/soluzione del danno.

Per trivializzare: di fronte ad un danno se ne cerca la causa, che è immediatamente colpa; attraverso la violenza (con le sue forme più raffinate e accettabili fino alle più brutali) si persegue la soluzione del danno, la sua riparazione; tale processo ha come passaggio obbligato, come punto d’equilibrio, il capro espiatorio, la sanzione del colpevole (tale o presunto).

A ben vedere, da questo schema non eccedono neanche modelli alternativi di capro espiatorio: si pensi semplicemente al – sacrosanto e più preciso – modello teorico e pratico proposto dalla ‘nostra’ parte, laddove il ‘colpevole’ è individuato tra le file del nemico di classe.

Non è questo il luogo per provare a sondare la validità di questo schema, né tantomeno immaginare soluzioni alternative. Ci accontenteremo di dimostrare che proprio perché, volenti o nolenti, ci si trova a muoverci in un contesto di questo tipo, le conseguenze saranno più buie e drammatiche di quanto ci si possa aspettare.

Ricapitoliamo quanto esposto finora:

  • lo Stato versa in un momento di crisi di cui esso stesso non conosce la fine né gli effetti che avrà nella vita del corpo sociale (ovvero non conosce a priori gli effetti che le misure post-crisi potranno dispiegare nella società);
  • ogni comunità non si può sottrarre alla dinamica del capro espiatorio di fronte a quelli che vengono interpretati come danni o torti, ed è pronta, al di là dei limiti democratici, progressisti, umanitari, razionali, ad agire in modo violento verso il colpevole supposto;
  • la guerra civile non è uno scenario che sostituisce il presente stato di cose in determinati momenti di anomia, ma esiste in maniera strisciante, in qualche modo controllata, nel ventre della cosa pubblica; e che i suoi rapporti di forza dormienti seguano le linee tracciate dalla strategia gestionale di controllo e repressione statali;
  • la presente pandemia di Covid-19 avrà ripercussioni imponderabili non solo sulle economie globali, ma immediati riverberi sull’esistenza di gran parte della popolazione: dal punto di vista occupazionale, dei consumi, dei costumi;

Tutto ciò può fare legittimamente presagire una serie di turbolenze sociali.

Da qualche parte sono già iniziate. Da qualche altra esistono strutturalmente.

Se si guarda con attenzione ai periodi di crisi in cui non appaiono fasi di sovversione diffusa sufficientemente incisive, non si può che notare l’acuirsi della ferocia con cui i poveri organizzano la propria sopravvivenza. Non ci si riferisce qui a un’antropologia negativa del tipo homo hominis lupus:non dobbiamo pensare ad una natura umana – concetto molto problematico – cattiva, quanto piuttosto a dinamiche dalle coordinate precise, spesso pianificate e ampiamente previste da analisti e governanti.

Finito il sogno illuminista e novecentesco di un’emancipazione comune, quando l’esistenza materiale pone alle strette, il risultato quasi deterministico è quello dell’accaparramento di ciò che è necessario, con mezzi e fini a tratti insostenibili. L’esistenza di molti, al netto del niente in cui si riproduce, si arrabatta già ora tra l’affitto di un posto da dormire su un marciapiede, tra i furgoncini in cui il caporalato organizza il lavoro tra i campi, strappando elemosine dal collo di un’anziana, in una busta di roba all’angolo. Tra le spire di un mercato sommerso, con prezzi esosi, capace di distribuire beni a cui ai più è negato un accesso formale, il cui controllo è spesso appannaggio di soggetti parastatali capillari, autodifesi e abili nella riscossione di crediti.

Fenomeni che individualmente possono essere ascritti a dinamiche di un ultra-sfruttamento ferocissimo e cannibale, ma che, moltiplicate e complicate nei sistemi complessi che sono le città e le metropoli, si traducono in dinamiche che afferiscono a ciò che definiamo guerra civile.

Il conflitto endemico all’interno della classe sociale degli esclusi potrebbe dunque con la crisi economica della pandemia portare all’inasprimento ulteriore delle dinamiche di cui sopra. Guerra che non solo vedrebbe i sovversivi in difficoltà rispetto alla sua intellegibilità, ma che li costringerebbe a far fronte a tensioni che spostano inevitabilmente il punto dalla lotta contro padroni e governanti a quello di doversi guardare le spalle da pericoli moltiplicati e su fronti inediti. Non si descrive qui uno scenario da tetra fantapolitica, ma quello che accade conseguentemente alla trasformazione di ogni pezzo di questa Terra in spazio di mercato dalle risorse limitate e dalla repressione spudorata. Un conflitto acuto e diffuso che rende poco vivibili per tutti le strade dovrebbe essere affrontato con rigore ideale e cautela ferrea. Per non subire o ignorare da una parte le angherie e le violenze di cui è composto, dall’altra per non finire nel derubricarlo come inevitabile “delinquenza”, dimenticando di fatto la questione sociale e abbandonandosi alla guerra tra bande.

Ad ogni modo. siamo convinti che nei momenti di crisi reale e vissuta molti nodi vengano al pettine, a discapito dei diversi piani di retorica, naif, caramellosi, ecumenici che l’inesauribile macchina ideologica che è lo Stato ha per questi frangenti: abbiamo letto del malcontento montato nel settore sanitario e produttivo in generale; possiamo immaginare che le dinamiche di potere, nella loro intollerabilità, emergano con più chiarezza rispetto ai periodi di ‘normalità’.

Non siamo tuttavia sicuri che, all’acuirsi della tensione, ci si ricordi delle responsabilità precise.

Che tipo di scontro potrà mai esplicarsi in società che non solo non esprimono da decenni capacità di analisi e organizzazione di classe ma soprattutto che non hanno più dinamiche interne capaci di dimostrarne chiaramente la struttura di classe? Chi sono oggi gli sfruttatori? Chi è oggi, o meglio ancora, domani, il nemico?

Temiamo che per distribuire e sanzionare le colpe sia sempre più facile imboccare le strade già battute: gli altri in generali, poveri, stranieri, marginali, furbetti di turno, non allineati, avversari corporativi e via elencando.

Qualche anno fa un compagno scriveval’insurrezione fa splendere il sole a mezzanotte perché in essa gli individui sentono, avvertono, evocano e vedono la potenza che hanno sempre avuto: quella di negare la propria condizione.

Non sappiamo se ci saranno insurrezioni. Sappiamo che ci saranno malcontento, rabbia, paura, incertezza, e sappiamo che queste cose sono il combustibile delle insurrezioni.

Un ulteriore punto sarebbe capire cosa significhi negare la propria condizione: a noi piacerebbe che si negasse la condizione di sfruttati, subalterni, oppressi. Che ci si batta per negare la propria condizione e quella degli altri in cui ci si possa riconoscere.

Invece è probabile che nel presente stato di cose e soprattutto nell’immediato futuro, l’esigenza prioritaria di ogni sfruttato sarà quella di riappropriarsi di quanto appena perso, a discapito soprattutto dei più prossimi, di tutti quelli che versano in frangenti simili. Probabilmente con modalità e strumenti inimmaginabili, propri di una crisi inaudita.

Non potremo però girarci per non vedere. In primo luogo perché, come sfruttati, la questione ci riguarderà da molto vicino. In secondo luogo perché se è vero che le insurrezioni non sono mai pure, sono impure in entrambi i sensi. Mai solo rivoluzione, mai solo reazione.

Anche nei contesti di più difficile lettura e intervento, ci sono sempre stati momenti di rottura che, pur frammisti ed intrecciati ad altri di segno opposto, hanno alluso o costituito passaggi di emancipazione.

Postilla di fine maggio ’20

Questo testo è stato redatto intorno alla metà di marzo, nell’ottica della collazione di testi in uscita sul blog Macerie e storie di Torino. Ad una rilettura due o tre punti che sarebbero inevitabilmente suonato come superati dagli eventi son stati aggiustati, altri li abbiamo lasciati volutamente come erano. Indubbiamente molti punti trattati, nonostante le aggiunte continue, hanno necessità di approfondimento ulteriore.

Il bacino di esempi e fatti di cronaca da pandemia, allo stesso tempo agrodolci, grotteschi, inaccettabili e catartici, che potrebbero supportare quanto scritto sopra è vastissimo.

Se dovessimo circoscrivere qui dei campi di forze – si badi, non dei soggetti – particolarmente fecondi per innescare o alimentare dinamiche da guerra civile, potremmo eleggere:

  • gli effetti selettivi e distributivi della previdenza sociale, riscopertasi fondamentale ai tempi del Covid-19, che, con i suoi bizantinismi creerà diverse categorie di persone dipendenti dal sostegno al reddito. Come ogni differenziazione anche questa sarà facilmente radice di cannibalismo sociale e scontro indiscriminato;
  • quel magma eterogeneo e confuso, distillato di differenti tensioni che si potrebbero definire complottiste, populiste, sovraniste, corporativiste, che ha dimostrato insofferenza palese alle varie misure di ministri e governatori soprattutto sui social network (un esempio locale, il cosiddetto Movimento dei Forconi a Torino); ad ora un popolo da tastiera, ma uno spettro significativo di cosa ribolla nello stomaco di quello che fino a ieri l’altro si chiamava proletariato;
  • la meta-distinzione tra salute e malattia, tra chi può e deve essere sano e chi invece rimane o può rimanere o deve nella casella del malato, del non salvabile, del sacrificabile; un taglio che si va ad aggiungere tra le innumerevoli linee di esclusione, inclusione e inclusione forzata che attraversano le società contemporanee, e i cui effetti, soprattutto in quelle sotto capitalismo avanzato, potrebbero scompaginarne le strutture;
  • non ultimo le vecchissime e nuovissime identità regionali, se non etniche, riemerse in un contesto dove la diffusione a macchia di leopardo del virus ha reso diversamente efficaci (o gradite) le misure del Governo centrale, emesse su una dimensione nazionale; per ora lo scontro è soprattutto politico istituzionale, ma scriviamo che ancora gli spostamenti tra Regioni sono vietati.

1 A. M. Bonanno, Guerra civile, Edizioni Anarchismo, Catania, 1995.

2 Invece n° 22, Combattere la guerra civile, marzo 2013.

3 Invece n° 18, Campo di battaglia, novembre 2012.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

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Macchine, sensi e realtà

Lockdown, quarantene e zone rosse

https://macerie.org/index.php/2020/06/03/dietro-langolo-pt-8-un-lato-oscuro-ancora-su-guerra-civile-e-insurrezione/

Dietro l’angolo pt.7 – Lockdown, quarantena e zone rosse.

La produzione di spazi sicuri

Le zone rosse hanno oramai una loro lunga storia. Da misure di prevenzione attuate per difendere i capi di stato durante i grandi summit come il G8 (ad esempio a Genova 2001), erano poi state utilizzate per difendere le zone di interesse strategico nazionale (inceneritori, discariche e le grandi opere infrastrutturali come il cantiere di Chiomonte ) e ultimamente avevano fatto capolino, tra gli altri, nei quartieri torinesi più movimentati dal conflitto sociale. In questi ultimi episodi aveva decisamente stupito la sproporzione tra le misure di controllo attuate rispetto alla reale minaccia da contenere e alle conseguenze che queste misure imponevano alla popolazione residente.

Nel caso dello sgombero dell’Asilo, avvenuto il 7 febbraio del 2019, era stato circoscritto al traffico pedonale e automobilistico un quadrilatero di strade limitrofe all’edificio nelle quali si poteva accedere solo attraverso l’esibizione di documenti che comprovassero la residenza o l’attività lavorativa in quella zona. Nonostante le ben immaginabili conseguenze per l’economia del territorio le misure si erano protratte per un paio di mesi. Lo stesso è avvenuto per lo sgombero del mercato delle pulci del Cortile del Maglio dove per qualche tempo, nei giorni di mercato, è stata istituita una sorta di zona rossa, interdetta al traffico, nella piazza dove si svolgeva abitualmente questo mercato.

Al netto della comprovata volontà da parte delle forze dell’ordine di una dimostrazione muscolare in aree metropolitane poco obbedienti alle norme e alle leggi imposte ciò che balzava agli occhi in questo fenomeno era in sostanza una banalizzazione dell’utilizzo delle zone rosse senza alcun riguardo nei confronti delle reazioni che queste potevano scatenare in chi era costretto a subirne le conseguenze. È importante, ora, per comprendere l’utilizzo delle zone rosse nello scenario pandemico sottolineare alcune questioni legate a questa tecnica di militarizzazione dei territori.

La tecnica delle zone rosse è una misura concepita all’interno dei manuali di controinsurrezione e nasce con lo scopo di isolare porzioni del territorio dove l’ordine costituito viene messo in discussione, al fine di costruire degli spazi sicuri al movimento delle truppe e per le attività della popolazione collaborante (le cosiddette Green zone). La teoria delle zone rosse è quindi funzionale all’instaurarsi di questa dialettica tra spazi sicuri e spazi insicuri. Nel caso dell’emergenza Covid italiana ci si è trovati per un lungo periodo in assenza di questa dialettica. Ciò comporta due valutazioni differenti e per certi versi paradossali: la generalizzazione di questa tecnica, tra l’altra adottata con strumenti giuridici cangianti e contraddittori, che in sostanza sentenzia un fallimento dello Stato nel controllo della pandemia, non è una sofisticata strategia ma duna sorta di coprifuoco o quarantena adottata di fretta e con scarsi mezzi, uno strumento antico e quantomai abusato. La seconda valutazione riguarda la sua banalizzazione. L’estendersi indefinito della zona rossa e quindi il suo scarso significato strategico ha, però, sicuramente inculcato nella popolazione un precedente quantomai inquietante. Non è tanto, quindi, la misura in sé, dalla scarsa efficacia, ad essere preoccupante ma soprattutto il suo carattere storico e simbolico. Storico, perché rende comprensibile a chiunque cosa significhi una zona rossa e come ci si debba comportare in quella situazione. Simbolico in quanto allena gli spiriti a una ginnastica dell’obbedienza quantomai contorta e non così facilmente sbrogliabile.

Per tracciare quindi un filo rosso, che lega l’attuale gestione dell’ordine pubblico nell’emergenza con i suoi antecedenti, vorremmo sottolineare due aspetti che permettono di delinearne una continuità. Il primo riguarda essenzialmente la protezione degli interessi economici e dei capitali investiti nel territorio: che si tratti di accordi internazionali tra capi di stato oppure di aree soggette a investimenti infrastrutturali, o che si tratti invece di riqualificazione di quartieri semiperiferici oppure di contenimento di una pandemia che rischia di far collassare il sistema sanitario, la zona rossa compare laddove l’interesse economico è messo in discussione da circostanze esterne. E su questo punto, e in particolare rispetto alle questioni riguardanti gli investimenti nella riqualificazione, è chiaro che nell’incertezza e nella precarietà che contraddistinguono determinati quartieri marginali la capacità di difendere i capitali investiti non è un capitolo supplementare al bilancio dell’investimento ma è un capitolo organico alla strutturazione dell’investimento stesso.

Confrontando quest’ultima considerazione con l’attuale scenario epidemico, il cui decorso non è in nessun modo chiaro, è possibile comprendere quanta importanza rivesta economicamente l’efficacia delle misure di contenimento attuate da uno stato anche nell’ottica della competizione internazionale. Un secondo aspetto, che è già stato trattato nei testi precedenti, e che probabilmente risulterà maggiormente significativo nell’evolversi della gestione della pandemia, riguarda la delimitazione di spazi all’interno dei quali far stare la porzione di popolazione sacrificabile diminuendo il rischio per tutti gli altri. L’esempio dell’occupazione abitativa Salem Palace a Roma è significativa a riguardo: si tratta di un edificio occupato nel quale vivono 700 profughi ai quali è stata comminata una quarantena con tanto di presidio militare all’esterno a fronte di una trentina di positivi al Covid riscontrati all’interno.

Accanto a questioni prettamente tecniche si aggiunge la selva di decreti, decretucci, provvedimenti e ordinanze comunicati spesso la sera precedente alla loro entrata in vigore (alle 22 a reti unificate) che hanno reso indecifrabile quali fossero i comportamenti legalmente corretti e a quali sanzioni si andava incontro. In questa confusione si è fatto spazio violentemente il carattere soggettivo della legge e dell’ordine incarnato nello sbirro che ti ferma e da cui ci si può aspettare di tutto. Non c’è effettivamente niente di più indefinto che una situazione nella quale ogni singolo poliziotto può decidere la legittimità o meno di un tuo spostamento. Se a questo si aggiunge il fatto che i militari di Strade sicure dopo dieci anni di lavoro gregario si possono finalmente avvalere delle prerogative di un funzionario di polizia (e che nella fase 2 saranno integrati di 500 unità) il piano per il futuro è presto fatto.

La carica morale che permea il lavoro dei rappresentanti dello stato va di solito di pari passo con l’innalzarsi della loro brutalità. È sicuramente in questo aspetto dell’attività repressiva che si ritrova oggi meglio incarnato l’imperativo controinsurrezionale di produzione di una popolazione collaborante. In questo senso è importante rimarcare anche il ruolo che, perlomeno, in provincia e fuori dai grandi centri abitati hanno avuto la protezione civile e la protezione boschiva nel presidio del territorio, in particolare dei supermercati, durante i periodi più recrudescenti di questa fase 1.

Non da ultimo c’è la questione degli assistenti civici, in discussione in questi giorni che prefigura un’organizzazione e una messa al lavoro della pratica della delazione così ampiamente sollecitata dalle forze dell’ordine nei mesi precedenti. Sarebbe, però, troppo facile semplificare la situazione analizzandola come una prova o un esercizio controinsurrezionale comandato da una volontà precisa e chiara. Si tratta qui piuttosto di chiedersi cosa effettivamente sia stato appreso dai difensori dell’ordine costituito nel far fronte a minacce future. Del resto non è casuale il nesso, spesso metaforico ma non per questo meno pregnante, tra controinsurrezione e contenimento delle epidemie, fin dalle origini del pensiero controinsurrezionale. Il maresciallo Bugeaud, a capo della repressione dell’insurrezione parigina del 1834 e di quella algerina del 1841 presentava il suo libro La guerre des rues et des maisons come costituito “da consigli pratici del genere delle istruzioni contro il colera”. È necessario allora provare a ragionare e a intravedere come le tecniche apprese in questi mesi possano convertirsi ed essere usate in caso di conflitti sociali violenti e/o estesi.

Un esempio, al contrario, ma decisamente interessante riguarda la app meteorologica dell’Arpa Lombardia. Nata nel dicembre 2019 “AllertaLOM “ aveva come scopo, attraverso l’utilizzo delle tecnologie Gps, di avvertire gli utenti nel caso si trovassero in prossimità di un evento meteorologico pericoloso. L’applicazione, di proprietà della Protezione Civile, si è tramutata prima, senza tanto clamore, in un sistema statistico di valutazione del rispetto del lockdown e si è evoluta in una app per il tracciamento dei contatti Covid con tanto di questionario sui sintomi. Altro elemento interessante rispetto a queste tecnologie “dual use” è l’utilizzo dei droni, di cui durante questa pandemia si è ampliato e regolamentato il traffico e lo sviluppo di software capaci di monitorare automaticamente il rispetto del distanziamento sociale. “Social distancing” è un progetto che l’Aeroporto di Genova avvia con l’Istituto Italiano di Tecnologia, usando le telecamere di sorveglianza, che può generare una mappa dell’ambiente e circoscrivere un raggio intorno a tutte le persone presenti, segnalando quando sono troppo vicine. Grazie al progetto sarà possibile capire quali siano le aree a maggior rischio assembramento e generare avvisi in tempo reale in caso di mancato rispetto del distanziamento. Inutile sottolinearne i potenziali usi per questioni che nulla hanno a che fare con un’epidemia. Altri strumenti ancora, come il termoscanner, non fanno altro che radicalizzare il concetto di dual use. Si tratta infatti dell’introduzione di nuovi strumenti di controllo (che altro sono i termoscanner se non telecamere intelligenti?) giustificata tramite questa pandemia ma che materialmente posso essere utilizzati per tanti altri scopi. E’ necessario semplicemente sostituire il software al loro interno. L’unico ostacolo alla loro implementazione è oramai un problema tecnico.

In questa prospettiva le parole di questa discussione tra un esperto di controinsurrezione e un organizzatore di eventi riportate nel libro Out of the mountains. The coming age of urban guerrilla assumono un significato ancora più pregnante: “Iniziammo a speculare. Come si potrebbe combinare ciò che ho imparato a Baghdad rispetto alla protezione della popolazione dalla violenza estrema, con ciò che le law enforcement agencies sanno rispetto alle politiche community-based, i governi delle città rispetto al mantenimento di un ambiente urbano e ciò che la comunità olimpica conosce rispetto alla fornitura di sicurezza orientata alla preservazione dei flussi urbani? […] Possiamo modellare un approccio che replichi il modello sicurezza-più-servizi dei mega eventi sportivi ma su base permanente? […] Possiamo disegnare nella città stessa un sistema di sicurezza pubblica che mantenga la popolazione sicura e allo stesso tempo mantenga aperti i flussi che gli scorrono attraverso? Possiamo costruire questo, basandoci su ciò che gli architetti conoscono rispetto al metabolismo urbano, mettendo in sicurezza la città intesa come un organismo vivente, e non solo come un pezzo di terreno urbanizzato? E se possiamo farlo sulle città esistenti, possiamo inoltre costruirne delle nuove sulla base di queste conoscenze?”

Per questo, forse, è miope scandalizzarsi troppo per le misure adottate in questi mesi di lockdown sarebbe piuttosto necessario ragionare sui loro possibili effetti di ritorno e sui loro inaspettati aspetti “dual use”. Ragionare, quindi, sulla creazione di spazi smart, tendenza questa non inedita ma che subirà una forte spinta accelleratrice. Si prova, infatti, un profondo senso di vertigine a riandare con la memoria dal passato prossimo prepandemico al deserto del lockdown fino al labirinto attuale della cosiddetta fase 2. Lo spazio, che nell’accezione comune appare spesso come ciò che sommamente resiste alla forza umana, ne è invece da questa sempre profondamente plasmato e con velocità inaspettate.

Un aspetto altrettanto preoccupante che è necessario sottolineare è quello legato alla retorica che si è imposta a riguardo dell’epidemia trasformando il contenimento di una malattia in una metafora di guerra. La militarizzazione del linguaggio, dalla “guerra al virus” per arrivare alla comparazione dei morti da Covid con quelli dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, è un tentativo di mobilitazione popolare realmente pericoloso. C’è qui in gioco il tentativo di far ricomprendere il proprio destino misero e tragico in una missione collettiva dai confini incerti.

Il mondo attuale si avvia per questioni geopolitiche difficilmente aggirabili – tra le quali le più pressanti sono l’approvigionamento di risorse energetiche e la mancanza di liquidità monetaria – a una competizione interstatale sempre più feroce, la guerra guerreggiata anche su ampia scala diventa uno scenario sempre più plausibile. Questa esercitazione ideologica di massa fatta di morti, di eroi, di prime linee e retrovie, di bandiere e inni patriottici assume contorni quantomai inquietanti. L’emblematica immagine dei camion militari che portano via le salme dall’obitorio di Bergamo esprime una verità statale alquanto triste: quanto meno l’apparato sanitario e medico è in grado di gestire una situazione come questa tanto più la polizia e la militarizzazione avanzano.

L’ambito civile e quello militare non sono, quindi, due ambiti separati ma convivono in una sorta di continuità dove il prevalere dell’uno sull’altro è determinato dalla capacità di far fronte ai problemi che lo Stato si trova davanti. Ma l’avanzare del lato marziale dello Stato, per una strana legge ben nota ai suoi nemici, una volta avviato, non è un processo che si inverte automaticamente.

Lo spazio che si sono presi sarà necessario toglierglielo.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

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Dietro l’angolo pt.7 – Lockdown, quarantena e zone rosse.

Uno sguardo su Aurora e Barriera

Da quasi un mese abbiamo lasciato sul fuoco una pentola bollente senza più curarcene, ma è giunto il momento di provare a fare il punto su come le istituzioni cittadine hanno deciso di provare a serrare il coperchio.

Dopo che in un paio d’occasioni decine e decine di persone erano scese in strada a guardare, contestare e in un caso tentare di mettersi in mezzo davanti ad altrettanti fermi di polizia e che un corteino aveva attraversato le vie del quartiere in pieno lockdownuna seduta straordinaria del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza ha disposto una serie di misure ad hoc per contrastare e prevenire l’insorgere di ulteriori disordini in quel pezzo di città.

Insomma, Aurora e Barriera sono diventati quartieri sotto “sorveglianza speciale”.

Accanto all’annunciata implementazione della videosorveglianza e del coinvolgimento di non meglio identificate associazioni, è stato subito evidente il dispiegamento di forze messo in campo per mostrare i muscoli. In poco meno di un chilometro, lungo e attorno corso Giulio Cesare, nel punto dove si sono verificati i recenti accadimenti, sono state posizionate, a due a due, quattro camionette fisse con agenti antisommossa, 24 ore su 24. Per non parlare delle volanti di polizia, carabinieri e di quelle in borghese che fanno su e giù per questi quartieri, e degli agenti della municipale che stazionano tutto il giorno ad alcune fermate di tram e autobus, a dar manforte ai controllori della Gtt, da quando la parziale riapertura delle attività cittadine è tornata a riempirli un po’.

Un’esibizione muscolare che non si limita poi a questo quadrante di strade con le camionette che nelle giornate di maggior ressa sono solite sostare anche davanti al mercato di Porta Palazzo o ad esempio in corso Verona davanti all’ufficio immigrazione, dove il 25 maggio, giorno della sua riapertura, se ne potevano contare ben sei a guardia dell’ingresso e a monitorare la lunga fila di avventori.

Negli ultimi giorni la pressione sembra leggermente scesa, con i presidi fissi che almeno di notte paiono levare le tende fino al giorno dopo. Tuttavia è difficile capire se e quanto questa vistosa presenza poliziesca sia destinata a durare e soprattutto se alla lunga si mostrerà efficace nel soffocare il prevedibile acuirsi dell’insofferenza e della tensione sociale, in questo come in altri quartieri della città, o se piuttosto non faranno che gettare benzina sul fuoco.

 

Uno sguardo su Aurora e Barriera

Racconto in prima persona di quanto accaduto il 28 nel terzo distretto a Minneapolis

Quando sono arrivato nel pomeriggio al terzo distretto, l’atmosfera era gioviale, mentre migliaia di persone si rilassavano intorno al fuoco di un’auto in fiamme nel centro commerciale Target, ormai devastato. Sullo sfondo una cascata che sgorgava dallo scheletro carbonizzato di un enorme complesso residenziale a due piani incendiato, la gente festeggiava per ciò che era accaduto e per quanto fosse surreale l’intera situazione. Veicoli stracolmi di gente che si sporgevano dai finestrini attraverso il parcheggio del Target gridando “Fanculo 12!”, e cantando a squarciagola “Fanculo la polizia” di Lil Boosie – una canzone che è diventata comune nella cultura ribelle del Midwest.

Mentre il sole tramontava, è ri-prevalsa la rabbia, ed è iniziato il terzo assedio della stazione di polizia. Alla fine, l’edificio è stato sfondato e i rivoltosi sono entrati. In un ultimo tentativo di tenere il loro territorio, i maiali si sono rintanati vigliaccamente nel retro della stazione di polizia lanciando gas lacrimogeni contro la folla di ribelli inferociti. Esasperata e in vena di combattere, la gente libera del nord ha colpito il nemico (non equipaggiato a sufficienza) alle spalle e ha fatto degli scudi con le protezioni di legno compensato così da sopraffarre lentamente i porci. Con le munizioni che probabilmente si stavano esaurendo e senza opzioni a parte una ritirata strategica, ma in ogni caso patetica, non rimaneva nulla che potesse impedire la conquista. La stazione è stata presa.

Mentre le fiamme di un edificio di due piani a circa un isolato di distanza toccavano il cielo, il terzo distretto è diventata una piñata. Le sue recinzioni sono state abbattute mentre la struttura veniva distrutta; la parte anteriore è stata incendiata, le fiamme di 20 piedi rendevano evidente la vittoria. A questo punto i rivoltosi sono entrati in quella che posso descrivere come una frenesia estatica, poiché un rancore vecchio di decenni è stato cancellato e con questo il dolore che la sua facciata rappresentava. Mentre migliaia di persone si sedevano e guardavano bruciare questo schifo, non potevo fare a meno di pensare alle generazioni di persone tormentate, torturate e/o assassinate dai subumani che camminavano nei corridoi di questo distretto. La precisione di questo atto di giustizia vigilante trasudava dal vetriolo e dalla furia della vendetta ancestrale.

A questo punto, i rivoltosi hanno fatto irruzione nella parte posteriore del distretto che non era in fiamme – è un edificio molto lungo – e hanno iniziato a saccheggiarlo in cerca di armi, giubbotti antiproiettile, munizioni e altri oggetti utili. Si diceva in giro che i rivoltosi stessero cercando di incendiare la metà posteriore dell’edificio, ma sospetto che in realtà si stessero occupando di tutti i beni da saccheggiare. Alcune persone si sono prese la briga di appiccare un bell’incendio di rifiuti nel parcheggio, mentre la gente guardava con ammirazione lo spettacolo. Contemporaneamente, un altro edificio è stato incendiato in fondo alla strada, non posso confermare quale fosse, anche se ho potuto vedere le fiamme in lontananza.

I primi colpi d’arma da fuoco della notte si sono uditi mentre qualche patriota sembrava utilizzare un’arma semi-automatica sparando al cielo mentre blaterava stronzate tipo “blah blah blah 1776… blah blah blah non ci sottometteremo al Nuovo Ordine Mondiale…”. All’inizio questo ha scosso la gente, come fanno solitamente gli spari, ma alla fine è diventato evidente che questi pazzi erano per lo più alla ricerca di un sound-bite fresco e di un gesto simbolico da trasmettere sui social media o qualche cagata simile. Uno dei fottutissimi bastardi sembrava trasmettere le sue azioni ai suoi seguaci. Dopo aver gonfiato il petto per qualche minuto, se ne sono andati.

Più o meno in questa fase la gente ha iniziato a riferire che la Guardia Nazionale si stava muovendo per riprendere il terzo distretto. Questo ha avuto un effetto tangibile sull’umore del 10% della gente (soprattutto per tutti gli spari che si sentivano dai quartieri circostanti), ma tutti gli altri sembravano per lo più tranquilli. Alcuni hanno continuato a costruire barricate di fuoco, altri hanno saccheggiato Arby’s (e alla fine gli hanno dato fuoco), altri hanno ballato sopra e intorno alle auto che sfrecciavano sul Meek Mill, mentre selvaggi motorizzati facevano burnout e trucchi da duri ovunque trovassero lo spazio. Se dovessi dire che sensazione mi ha dato quel momento, direi che era una via di mezzo tra Fast and Furious (senza contare quella merda di Tokyo Drift) e lo spirito di Ferguson.

Anche se posso riportare con maggior precisione gli avvenimenti intorno al 3° distretto, l’intera Twin Cities [Per Twin Cities si intendono Minneapolis e Saint Paul, città distinte anche se adiacenti e costituenti un’unica area metropolitana, ndt] è stata saccheggiata. H&M in Uptown è stato saccheggiato, la gente si è data a riots e saccheggi nel centro di Minneapolis, e dopo una giornata di devastazione del centro commerciale a Midway, i rivoltosi hanno continuato a fare lo stesso in altre zone di Saint Paul. Questo breve resoconto non riporta i racconti dei saccheggi più modesti e l’aumento enorme di azioni criminali in entrambe le città a causa dei molti che probabilmente si sono resi conto che se i maiali non possono proteggere un misero distretto senza chiamare la Guardia Nazionale, la situazione è chiaramente oltre le loro capacità e non possono semplicemente essere ovunque.

Mentre preparavo le cose per la notte, la distruzione sembrava andare avanti veloce con i presunti incendi dolosi in entrambe le Twin Cities e le segnalazioni di persone che si concentravano sul primo e/o sul quarto distretto (o sui quattro), mentre il quinto si diceva che fosse completamente abbandonato. È difficile sintetizzare in pixel l’energia della battaglia per il 3° distretto. Immagino che avreste dovuto esserci. L’attuale paesaggio intorno al lago St. ricorda le scene di Escape from L.A. (Fuga da Los Angeles), con 5-10 isolati di Minneapolis in fiamme o distrutti, quasi senza polizia o la speranza di una tregua dall’insaziabile danza di guerra. Se lo spirito di quella notte è un’indicazione di ciò che verrà, dubito seriamente che gli arresti degli assassini di Floyd o della Guardia Nazionale riusciranno in qualche modo a placare la rabbia della gente. Si tratta di pareggiare i conti in un momento in cui ci sono molti più motivi per pareggiare i conti.

La vittoria spirituale e strategica nel devastare e saccheggiare il terzo distretto è incalcolabile e il potere simbolico scatenato da ciò che sarà possibile fare nelle rivolte future è a dir poco incredibile.

Le stazioni di polizia POSSONO essere conquistate.
Lo Stato PUÒ essere piegato dalla nostra volontà.

Viva l’anarchia e il popolo libero del nord!

 

https://anarchistnews.org/content/battle-3rd-precinct-personal-account

Nuovo sito di critica radicale: Nereidee.noblogs

Nereidee non è un sito d’ informazione, né un blog di movimento e di
lotta, nei movimenti e nelle lotte abbiam infatti ben poca fiducia.

Con i capetti di corteo, con gli slogan cameratisti e con le grandi
cause e beni comuni mal ci intendiamo.

Grazie ma no, non vogliamo proprio far parte del mondo militante. Alla
galassia antagonista anteponiamo il buco nero del caos, il libero
magnetismo dei pianeti che si attraggono e si respingono, le irregolari
quanto prorompenti traiettorie dei meteoriti che si scagliano nelle
atmosfere e vanno a detonare contro la superficie sociale del presente.

Nereidee vuol essere una fucina di corpi e menti che non seguono nessun
dogma imposto e nessun piano d’ azione premeditato da qualcuno e
socialmente accettato da qualsivoglia struttura o gruppo.

Alle strutture anteponiamo le spontanee affinità e ai rapporti politici
la complicità reale tra individui, non vogliamo cadere nella miseria
della comunità e dell’ aggregazione dettata da norme sociali, nere,
rosse o grigie che siano.

Nereidee è un piano di analisi e critica della realtà. Pubblicheremo i
contributi che più ci aggradano e non ogni comunicato e ogni
approfondimento. Scriveremo ciò che più ci preme e ci anima e non il
programma politico di qualcuno. L’interesse non è il raggiungimento di
una maggioranza o l’ affermazione della propria diffusione e potenza.
Non vedrete in questo sito glorificazione dei numeri né una ricerca di
consenso.

L’ interesse di Nereidee è quello di dare un contributo ad animare e
spingere un’ agire teso all’ annientamento delle basi dello stato e
delle forme di autorità, le basi del dominio e dello sfruttamento.

Sia questo agire costituito da scritti, analisi, ragionamenti e
critiche, come da azioni concrete e atti di guerra.

In Nereidee ci sono poche certezze, ma una di queste è l’ odio viscerale
per l’ autoritarismo e la morale, germi che stanno alla base di ogni
dominio, patriarcale, politico, specista, capitalista, socialista.

Non per forza le individualità che animano e passano da questo sito sono
concordi e affini su qualunque piano e non per forza i contenuti
pubblicati saranno condivisi all’ unanimità in ogni loro parte.

Tuttavia ci ritroviamo fermamente nella necessaria affinità in alcuni
campi fondamentali, come l’ idea anarchica libera da costrizioni
ideologico identitarie e insurretta a bieche logiche di potere e di
movimento.

A cosa dovrebbe servire Nereidee? A scagliare una delle miliardi di
possibili traiettorie di volo tese a squarciare il cielo del dominio
balenando nell’ oscurità del cosmo.

 

https://nereidee.noblogs.org/

Aggiornameto da Bologna. Op Ritrovo

I compagni da Bologna sono stati tutt* liberat* oggi con le solite merdose restrizioni di rito per alcun*

Per Stefania, Duccio, Guido ed Elena obbligo di dimora con rietro notturno  dalle 22 fino alle 6.

Per Martino e Otta obbligo di dimora e rietro notturno, senza firme.

Tolte tutte le misure ad Angelo, Tommi, Emma, Angelo Zipeppe, Nicole e Tommi.

L’accusa di incedio viene riformulata in danneggiamento seguito da incedio, cade il 270bis reato associativo con aggravante di terrorismo e anche l’aggravante del 414 per tutt*, ma resta l’istigazione.